giurista risponde

Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia Nel calcolo della pena per un delitto di omicidio tentato posto in essere in un contesto di maltrattamenti in famiglia deve applicarsi il cumulo temperato previsto dall’art. 81 c.p., oppure la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale deve ritenersi assorbita – ai sensi dell’art. 84 c.p. – dall’aggravante specifica prevista per il delitto di omicidio tentato?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

Nel calcolo della pena per il reato di tentato omicidio aggravato ex art. 576, comma 1, n. 5, c.p., la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale è assorbita nella circostanza aggravante del tentato omicidio, rendendo non configurabile il concorso materiale tra tali reati (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2210 – Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia).

Il punctum dolens sottoposto al vaglio del Supremo Collegio è la riconducibilità o meno del caso in esame all’istituto del reato complesso, ex art. 84 c.p., se sia applicabile l’art. 15 c.p., ovvero se sia applicabile, invece, il criterio di temperamento di cui all’art. 81 c.p.

La disciplina del reato complesso è ispirata ai principi di specialità in concreto, della sussidiarietà, della consunzione e si contrappone al principio della specialità in astratto posta a fondamento dell’art. 15 c.p.. Pertanto, per stabilire se, nel caso di specie, sussista o meno il concorso fra le norme incriminatrici è opportuno svolgere una disamina sulla struttura normativa del reato complesso.

Tuttavia, preliminarmente, si ritiene di dover, comunque, escludere l’applicabilità dell’art. 15 c.p. al caso di specie posto che le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2019, n. 2664) hanno ritenuto applicabile detto articolo soltanto qualora fra le norme evocate sussista un rapporto di specialità in astratto, indiscutibilmente non sussistente fra le incriminazioni di omicidio volontario ed i maltrattamenti in famiglia attesa la oggettiva diversità tra il fatto idoneo ad integrare le due fattispecie, rectius il delitto di cui all’art. 575 c.p. e quello riconducibile al paradigma normativo dell’art. 572 c.p., dei quali, peraltro, l’uno ha natura istantanea e l’altro abituale.

Ciò premesso è, dunque, opportuno analizzare l’art. 84 c.p.; dal tenore letterale dello stesso risulta ictu oculi che la figura in esame presenti più forme di manifestazione. Focalizzandosi, però, su quanto attiene alla soluzione del quesito si può affermare che il profilo problematico è l’inclusione o meno del caso di specie nel genus del reato complesso in senso lato. Nel testo della norma citata si individuano chiaramente due distinte ipotesi, una definibile come: “reato composto”, costituito da elementi che di per sè integrererebbero altre figure criminose; mentre l’altra definibile come: “reato complesso circostanziato”, nel quale, ad una fattispecie-base, distintamente prevista come reato, si aggiunge quale circostanza aggravante un fatto autonomamente incriminato da altra disposizione di legge. Per cui da un punto di vista meramente formale risulta ictu oculi la sussumibilità del caso di specie risulta in questa seconda categoria, posto che il delitto di maltrattamenti in famiglia – autonomamente punito dall’art. 572 c.p. – è espressamente previsto come aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 576, comma 5 c.p.. A queste considerazioni di natura testuale debbono essere aggiunge delle considerazioni di natura sostanziale che confermano l’applicabilità dell’art. 84 c.p. Invero, qualora il delitto di omicidio (o tentato omicidio come nel caso di specie) avvenga in un contesto di maltrattamenti risulta evidente l’esistenza del requisito sostanziale del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti delittuosi. Non vi è dubbio, infatti, che, se l’intento Legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta ex art. 572 c.p., è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale i maltrattamenti e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono, altresì, in una prospettiva finalistica unitaria.

La tesi della ravvisabilità di un reato complesso nella fattispecie aggravata in esame, convalidata dalle argomentazioni che precedono, non è inficiata dalle obiezioni che alla stessa sono state opposte. Tanto in considerazione, soprattutto, delle caratteristiche del reato complesso come delineate in generale e, per quanto detto, presenti nel caso di specie, con particolare riguardo alla necessaria ricorrenza di un’unitarietà non solo contestuale, ma anche finalistica dei fatti complessivamente considerati. Tale interpretazione, peraltro trova l’avvallo della giurisprudenza di legittimità nella sua massima composizione (Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 38402) la quale mutatis mutandis ha affrontato la tematica oggetto della presente sentenza in relazione al delitto di atti persecutori ex art. 612bis c.p. e l’aggravante di cui all’art. 576, comma 5.1 c.p. concludendo anche in questo caso in senso favorevole all’applicazione dell’art. 84 c.p.

La riconducibilità del caso in esame alla disciplina del reato complesso implica l’inoperatività dei meccanismi di cumulo sanzionatorio, previsti negli articoli precedenti, escludendo qualsiasi incidenza sanzionatoria dei reati in esso unificati. Fra le disposizioni oggetto di richiamo dell’incipit dell’art. 84 c.p. rientra il concorso formale di reati ex art. 81, comma 1 c.p., per la quale è previsto il cumulo giuridico. La normativa dell’art. 84 si connota particolarmente come derogatoria in quanto “assorbe” le pene stabilite per i singoli reati in quella stabilita per il reato complesso.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che sia applicabile il principio di consunzione tra la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. e il delitto di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 5 c.p. Pertanto, il Supremo Collegio annullava senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al delitto di maltrattamenti in famiglia rideterminava e la pena inflitta per il delitto di tentato omicidio aggravato.

 

(*Contributo in tema di “Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

azione disciplinare avvocati

Azione disciplinare avvocati: prescrizione dall’atto denigratorio La Cassazione a Sezioni unite rammenta che l’illecito per l’avvocato che offende è istantaneo per cui la prescrizione dell’azione disciplinare decorre dall’atto denigratorio

Azione disciplinare avvocati

Con la sentenza n. 6549/2025, le Sezioni Unite Civili della Cassazione hanno risolto un contrasto giurisprudenziale in tema di prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti degli avvocati.

Il caso: denigrazione colleghi e disciplinare

La vicenda trae origine da un esposto disciplinare presentato nei confronti di un avvocato, accusato di aver denigrato pubblicamente un collega attraverso affermazioni ritenute lesive della sua reputazione.

L’azione disciplinare era stata promossa a distanza di oltre tre anni dall’episodio contestato. L’incolpato, eccependo l’intervenuta prescrizione, contestava la tardività del procedimento. Tuttavia, il Consiglio nazionale forense aveva rigettato l’eccezione, ritenendo che il termine decorresse non dalla data dell’atto denigratorio, ma dalla scoperta del fatto da parte dell’autorità disciplinare.

La questione rimessa alle Sezioni Unite

La Corte di cassazione, rilevato un contrasto tra pronunce precedenti sull’individuazione del dies a quo della prescrizione disciplinare, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, le quali si sono espresse nel senso della decorrenza oggettiva del termine.

La prescrizione decorre dall’atto denigratorio

La Corte ha affermato il seguente principio: “In tema di procedimento disciplinare forense, la prescrizione dell’azione decorre dalla data di commissione del fatto, e non dal momento della sua conoscenza da parte dell’organo disciplinare, anche quando si tratti di condotte a carattere diffamatorio tra colleghi.”

Secondo le Sezioni Unite, la norma contenuta nell’art. 51, comma 2, L. n. 247/2012 stabilisce in modo chiaro che il termine di prescrizione è di cinque anni e decorre dalla commissione del fatto illecito, senza introdurre eccezioni analoghe a quelle previste per i reati penali in materia di reati occulti o permanenti.

Tutela dell’affidamento e certezza del diritto

La Corte ha ritenuto che una diversa interpretazione, fondata sul momento della conoscibilità soggettiva del fatto da parte dell’organo procedente, si porrebbe in contrasto con i principi di certezza del diritto, affidamento legittimo dell’incolpato e tutela del giusto processo, oltre a risultare priva di base normativa.

Viene ribadito che il procedimento disciplinare, pur avendo natura amministrativa, non può essere soggetto a criteri estensivi di decorrenza della prescrizione, pena la violazione del principio di legalità e della parità delle parti nel procedimento.

Nella motivazione si legge: “L’interpretazione che faccia decorrere il termine prescrizionale da un momento diverso da quello della commissione del fatto rischia di tradursi in una dilatazione indeterminata della responsabilità disciplinare, con effetti lesivi della stabilità del rapporto professionale.”

Applicando tale principio, le Sezioni Unite hanno annullato la decisione del CNF e dichiarato estinta per prescrizione l’azione disciplinare, rilevando che il fatto denigratorio si era verificato nel 2019, mentre il procedimento era stato avviato soltanto nel 2023, oltre il termine massimo di cinque anni.

Allegati

Rinuncia alla prescrizione

Rinuncia alla prescrizione: quando è efficace? La Cassazione chiarisce che la rinuncia alla prescrizione del reato acquista efficacia al momento in cui la causa estintiva si verifica

Rinuncia alla prescrizione

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 16496/2025 della quinta sezione penale, ha chiarito che la rinuncia alla prescrizione del reato, effettuata prima della maturazione della stessa, non è invalida ma semplicemente inefficace, producendo i suoi effetti solo al momento in cui la prescrizione si verifica.  

Il caso

Nel caso esaminato, l’imputato veniva condannato in primo grado per il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico aggravato ai sensi dell’art. 615-ter comma 2 n. 1 c.p.. In appello, la Corte dichiarava il reato estinto per prescrizione. La questione approdava dunque innanzi al Palazzaccio. L’imputato lamentava che il termine di prescrizione non si era ancora compiuto ed evidenziava l’interesse a rinunciare alla prescrizione al fine di conseguire una sentenza assolutoria nel merito, atteso che la declaratoria di estinzione del reato non era ostativa all’avvio del procedimento disciplinare nei suoi confronti.

La decisione della Cassazione

Per la S.C. il ricorso è infondato e va rigettato. Nondimeno, evidenziano da piazza Cavour, “l’imputato ha avuto ampia possibilità di rinunziare alla prescrizione prima della pronunzia della Corte territoriale, dovendosi ribadire in tal senso che tale rinunzia, qualora effettuata prima che la prescrizione sia maturata, non è invalida, ma soltanto inefficace, in quanto produce i suoi effetti al verificarsi della causa estintiva del reato (ex multis Sez. 3, n. 3758 del 20/10/2021)”.

Allegati

Straining

Straining: la guida Straining: cos’è, differenze con il mobbing, tutele legali e risarcimento del danno

Cos’è lo straining

Lo straining è una forma di disagio lavorativo che si verifica quando il dipendente è esposto a condotte ostili isolate, ma permanenti nei loro effetti, in grado di compromettere la sua serenità psicofisica e professionale. Pur non essendo regolato da una norma specifica, lo straining è riconosciuto e tutelato dalla giurisprudenza italiana, che lo assimila, sotto alcuni profili, al mobbing.

Il termine “straining” deriva dall’inglese to strain (tendere, mettere sotto pressione) e si riferisce a una situazione di stress occupazionale forzato determinata da un singolo evento ostile o da pochi episodi non reiterati, ma capaci di produrre conseguenze durature nel tempo.

Caratteristiche principali:

  • azioni unilaterali del datore di lavoro o dei colleghi;
  • assenza della reiterazione tipica del mobbing;
  • esposizione del lavoratore a una condizione lavorativa deteriorata in modo continuativo;
  • impotenza relazionale e isolamento.

Esempi comuni di straining:

  • trasferimento immotivato o punitivo;
  • esclusione da riunioni o comunicazioni aziendali;
  • dequalificazione improvvisa e ingiustificata;
  • modifica unilaterale delle mansioni in senso peggiorativo.

Differenze tra straining e mobbing

Caratteristica Mobbing Straining
Frequenza delle condotte Reiterate e sistematiche Isolate ma con effetti duraturi
Durata Prolungata nel tempo Può essere anche un singolo episodio
Obiettivo persecutorio Esplicito e intenzionale Anche non intenzionale
Gravità delle conseguenze Spesso maggiore Reale ma meno intensa

Cosa dice la Cassazione  

Cassazione n. 123/2025: Anche in assenza di “mobbing” vero e proprio (cioè senza un intento persecutorio unitario), il datore di lavoro può essere ritenuto responsabile per danni alla salute del dipendente ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile. Questa responsabilità scatta quando il datore di lavoro, anche per negligenza, permette il persistere di un ambiente di lavoro stressante che danneggia la salute dei lavoratori. Inoltre, il datore è responsabile se adotta comportamenti che, pur non essendo di per sé illegittimi, possono causare disagio o stress e che, isolatamente o insieme ad altre inadempienze, peggiorano gli effetti dannosi per la salute e la personalità del lavoratore. La Cassazione (sentenze citate) sottolinea che un ambiente di lavoro stressogeno è considerato un fatto ingiusto che può portare a riesaminare anche condotte datoriali apparentemente lecite o isolate, poiché la tutela della salute del lavoratore è un diritto fondamentale garantito da una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2087 c.c.

Cassazione n. 15957/2024: Il mobbing lavorativo si configura quando si verificano ripetuti comportamenti dannosi all’interno del contesto lavorativo, accompagnati dall’intenzione di perseguitare la vittima, indipendentemente dalla legalità dei singoli atti. Lo straining, invece, si verifica quando un singolo comportamento stressogeno viene attuato consapevolmente nei confronti del dipendente, anche in assenza di una pluralità di azioni vessatorie continuative, mirando a indurre una condizione di stress forzato e prolungato nell’ambiente di lavoro. In sostanza, il mobbing si basa sulla ripetizione di atti persecutori, mentre lo straining si concentra sull’impatto stressante di un singolo atto consapevole.

Cassazione 29101/2023: o “straining” è considerato una forma di mobbing “attenuata” perché non presenta la ripetitività tipica delle azioni vessatorie. Tuttavia, costituisce comunque un’imposizione di stress da parte del superiore attraverso atti ostili mirati a discriminare il lavoratore. L’aspetto fondamentale è che, indipendentemente dall’etichetta (“mobbing” o “straining”), ciò che rileva è che il singolo atto ostile sia di per sé illecito e causi una lesione all’integrità psicofisica e personale del lavoratore.

Cosa dice la legge  

Non esiste una disciplina legislativa specifica sullo straining. Tuttavia, il fenomeno trova tutela nei seguenti strumenti normativi:

  • Art. 2087 c.c.: obbligo del datore di lavoro di garantire l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore;
  • Art. 2043 c.c.: risarcimento del danno ingiusto;
  • Art. 32 Cost.: tutela della salute come diritto fondamentale;
  • Testo Unico Sicurezza (d.lgs. 81/2008): obbligo di valutazione e prevenzione dei rischi psicosociali;
  • Codice Civile e normativa antidiscriminatoria, se lo straining è legato a genere, età, orientamento sessuale, disabilità o appartenenza sindacale.

La giurisprudenza considera quindi il comportamento illecito e lesivo, anche se isolato, rilevante per fondare una richiesta di tutela e risarcimento.

Quando lo straining può costituire reato

Sebbene lo straining, come il mobbing, non configuri un reato autonomo, alcune condotte possono assumere rilevanza penale:

  • lesioni personali (art. 582 c.p.), se ne deriva un danno psico-fisico accertato;
  • atti persecutori (art. 612-bis c.p.), se si riscontra una condotta molesta o intimidatoria;
  • abuso d’ufficio, nei confronti di lavoratori della pubblica amministrazione.

Risarcimento del danno da straining

Il lavoratore vittima di straining ha diritto a un risarcimento integrale del danno subito, purché provi:

  • la condotta illecita posta in essere (anche isolata);
  • il nesso causale con il danno psicofisico o professionale;
  • l’entità del danno, anche tramite certificazione medica o relazioni psicologiche.

La giurisprudenza riconosce il danno da straining come:

  • danno biologico (patologie psichiche o fisiche);
  • danno morale (sofferenza soggettiva);
  • danno esistenziale (limitazione della sfera personale e sociale);
  • danno patrimoniale (perdita economica o dequalificazione).

Cassazione n. 33428/2022: l’ambiente di lavoro stressogeno costituisce un fatto ingiunto e illecito e come tale deve essere sempre preso in considerazione ai fini del risarcimento del danno del lavoratore, anche manca la reiterazione.

Tutele del lavoratore vittima di straining

Le azioni da intraprendere in caso di straining includono:

  1. raccolta accurata di documenti in grado di provare le condotte (email, provvedimenti, testimonianze);
  2. visita presso il medico competente aziendale o il medico di base;
  3. segnalazione all’Ispettorato del lavoro o al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS);
  4. assistenza legale da parte di un avvocato giuslavorista per agire in sede civile o penale;
  5. supporto da parte del sindacato o di associazioni specializzate nella tutela del benessere lavorativo.
giurista risponde

Unioni di fatto e doveri di natura morale e sociale Sono configurabili doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro in relazione ad attribuzioni economiche o patrimoniali effettuate dopo la cessazione della convivenza more uxorio?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

Le unioni di fatto sono un diffuso fenomeno sociale, che trova tutela nell’art. 2 Cost., e sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che possono concretizzarsi in attività di assistenza materiale e di contribuzione economica prestata non solo nel corso del rapporto di convivenza, ma anche nel periodo successivo alla cessazione dello stesso e che possono configurarsi, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, come adempimento di un’obbligazione naturale ai sensi dell’art. 2034 c.c., ove siano ricorrenti pure gli ulteriori requisiti della proporzionalità, spontaneità ed adeguatezza (Cass., sez. I, 2 gennaio 2025, n. 28).

Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte trae origine dalla richiesta avanzata dal ricorrente al fratello maggiore unilaterale (generato dallo stesso padre ma da madre diversa) di restituzione delle somme versate dalla madre al padre dopo la cessazione della loro convivenza, nonché della metà delle spese sostenute in proprio per il mantenimento del padre dopo la morte della madre.

In primo e secondo grado era stata accolta soltanto la seconda richiesta, mentre la prima era stata rigettata in quanto, secondo i giudici di merito, il contributo dato dalla madre al padre si configurava come adempimento di un’obbligazione naturale.

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, poiché, per il ricorrente, una volta cessata la convivenza non è configurabile alcun obbligo morale di un convivente nei confronti dell’altro.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha preliminarmente rammentato quanto stabilito da Cass., sez. II, 30 settembre 2016, n. 19578 e cioè che, per valutare la sussistenza dell’obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c. occorre dapprima accertare se ricorra, in rapporto alla valutazione corrente nella società, un dovere morale o sociale e, successivamente, se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza.

La giurisprudenza consolidata ha già riconosciuto l’esistenza di un obbligo di assistenza reciproca nelle unioni di fatto, sicché le attribuzioni finanziarie effettuate nel corso del rapporto per le esigenze della famiglia configurano l’adempimento di un’obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., sempre che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, da valutare in relazione alle circostanze del caso concreto e non devono essere restituite (così Cass. 13 giugno 2023, n. 16864).

Tuttavia, nel caso di specie, la Cassazione ha dovuto affrontare una questione diversa, sulla quale non constano precedenti giurisprudenziali, e cioè se l’obbligo di assistenza reciproca perduri dopo la cessazione della convivenza.

La Suprema Corte, aderendo alla soluzione adottata dalle Corti di merito, ha dato risposta affermativa, ritenendo che, poiché le convivenze di fatto sono sempre più diffuse, addirittura superando in numero le famiglie fondate sul matrimonio, il mantenimento dell’ex convivente sia conforme “alla valutazione corrente nella società” e sia, pertanto, tale da integrare un’obbligazione naturale, al ricorrere degli altri requisiti previsti dalla legge.

 

(*Contributo in tema di “Unioni di fatto e i doveri di natura morale e sociale”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

assegno divorzile una tantum

Assegno divorzile una tantum Assegno divorzile una tantum: alternativa alla corresponsione periodica e ricorrente dell’assegno di divorzio

Cos’è l’assegno divorzile in unica soluzione

L’assegno divorzile una tantum è una forma di liquidazione dell’obbligo di mantenimento derivante dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio in un’unica soluzione. A differenza dell’assegno mensile, l’una tantum esclude la possibilità di revisioni future e comporta la chiusura definitiva di ogni rapporto patrimoniale tra gli ex coniugi.

Questa modalità può essere disposta:

  • di comune accordo tra le parti, in sede di divorzio consensuale;
  • dal giudice, nel divorzio contenzioso, qualora ritenga che la soluzione una tantum risponda all’interesse del beneficiario.

Normativa di riferimento

La disciplina dell’assegno divorzile si rinviene principalmente:

  • nell’art. 5, comma 6, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, che prevede la possibilità di corrispondere l’assegno in un’unica soluzione, in luogo dell’erogazione periodica;
  • nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha più volte delineato i presupposti, i limiti e le conseguenze dell’opzione per l’una tantum, precisando che deve essere valutata in base alla capacità patrimoniale e reddituale delle parti e che il beneficiario deve essere posto, per quanto possibile, in condizioni di autosufficienza economica.

Modalità di erogazione 

L’assegno una tantum può assumere diverse forme:

  • pagamento diretto di una somma determinata in sede di accordo o sentenza;
  • attribuzione di beni mobili o immobili in proprietà (es. trasferimento della casa familiare o di quote societarie);
  • costituzione di un vitalizio o di rendite assicurative, se pattuite contrattualmente tra le parti.

Effetti dell’assegno divorzile una tantum

La corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione produce effetti definitivi e irrevocabili:

  • estinzione dell’obbligo: il coniuge obbligato non dovrà più versare alcuna somma dopo il pagamento dell’una tantum;
  • irrevisibilità: l’assegno una tantum non può essere oggetto di modifiche future, neppure in caso di mutamenti delle condizioni economiche del beneficiario o dell’obbligato;
  • preclusione di future pretese: il beneficiario non potrà rivendicare ulteriori somme, salvo patto contrario.

Vantaggi 

Vantaggi per il coniuge obbligato:

  • chiusura definitiva del vincolo economico, senza timore di richieste di aumento o modifiche future;
  • prevedibilità finanziaria che consente di programmare il proprio patrimonio senza pendenze nel tempo;
  • evitamento di conflittualità future, soprattutto nei rapporti tra nuove famiglie.

Vantaggi per il coniuge beneficiario:

  • possibilità di disporre immediatamente della somma, reinvestendola o utilizzandola per finalità abitative o professionali;
  • maggiore autonomia economica, soprattutto in assenza di figli minori a carico.

Criticità

  • Se mal calibrata, l’una tantum può risultare insufficiente nel lungo periodo, specie per soggetti in età avanzata o senza autonomia reddituale;
  • rischio di squilibrio patrimoniale se l’accordo non è equamente bilanciato o non assistito da consulenza adeguata.

Aspetti fiscali dell’assegno divorzile una tantum

Dal punto di vista fiscale, l’assegno divorzile una tantum gode di un trattamento differente rispetto all’assegno periodico.

  • L’assegno periodico è deducibile dal reddito del coniuge obbligato e tassato in capo al beneficiari perché considerato fonte reddituale.
  • L’assegno una tantum, invece, non è deducibile dal reddito del soggetto che lo eroga e non è considerato reddito per il beneficiario per cui non tassato

Tale qualificazione fiscale è confermata anche dall’Agenzia delle Entrate e dalla giurisprudenza di legittimità, a condizione che l’importo sia effettivamente corrisposto in un’unica soluzione e non come simulazione di una periodicità occulta.

se ti interessa l’argomento leggi anche gli altri articoli dedicati all’assegno divorzile 

Responsabilità infermiere

Responsabilità infermiere: va monitorato il paziente in codice verde Responsabilità infermiere: la Cassazione afferma che l'infermiere del PS deve monitorare l'evoluzione clinica del paziente nell'attesa di visita medica

Responsabilità infermiere

Responsabilità infermiere: la quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 15076/2025, ha affermato un principio rilevante in materia di colpa medica infermieristica nel triage ospedaliero. L’infermiere di pronto soccorso è tenuto non solo a rilevare i parametri vitali del paziente al momento dell’accesso, ma anche a proseguire il monitoraggio clinico, prestando attenzione all’eventuale peggioramento dei sintomi riferiti o osservati, anche nei casi di assegnazione del codice verde.

Il caso: crisi respiratoria sottovalutata

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Livorno, dichiarava non doversi procedere nei confronti di un’infermiera, per intervenuta prescrizione del reato, confermando la condanna al risarcimento del danno subito dalle parti civili costituite, in solido con l’ASL-Toscana
per il reato di cui all’art. 589 c.p.

Alla predetta, in qualità di infermiera professionale in servizio presso il Pronto Soccorso, era stato contestato di aver omesso di valutare correttamente la gravità del quadro clinico di soggetto asmatico, attribuendole così un codice di accesso di colore verde, circostanza che determinò un ritardo nell’intervento medico, causa della morte della paziente per arresto cardio-respiratorio dovuto ad “insufficienza respiratoria acuta da attacco asmatico di tipo 2”.

Il ruolo dell’infermiere nel triage

La Suprema Corte, esaminando il caso di specie, ha ribadito che “al personale infermieristico compete non solo una completa raccolta di dati, non limitata alla rilevazione dei parametri vitali, ma compete altresì un giudizio di carattere valutativo dei sintomi riscontrati e riferiti. E tanto considerano compiutamente i giudici di merito, rilevando non solo come non si possa sostenere che il compito dell’infermiere si limiti alla meccanica compilazione delle schede, ma che, appunto, lo stato della paziente obiettivamente rilevabile, avrebbe dovuto condurre ad una valutazione di gravità del caso”.

Seppur non competente a formulare diagnosi,  il personale infermieristico, in sostanza, doveva procedere all’auscultazione mediante stetoscopio, potendo rilevare i ” sibili” certamente presenti in un attacco di asma grave quale quello in corso, compilando correttamente la scheda di triage.

Pertanto, i giudici rimarcano altresì “la gravità della condotta colposa della ricorrente, in quanto caratterizzata da sottovalutazione delle condizioni della paziente e dalla omissione del dovere di monitoraggio che, qualora osservato, avrebbe permesso di avvisare il personale medico dell’aggravarsi delle condizioni della donna e della necessità di intervenire immediatamente”.

Infermiere titolare di posizione di garanzia

Va invero ribadito, concludono gli Ermellini, che, secondo principi costantemente affermati dalla Corte di legittimità, “l’infermiere è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, gravando sullo stesso un obbligo di assistenza effettiva e continuativa del soggetto ricoverato, atta a fornire tempestivamente al medico di guardia un quadro preciso delle condizioni cliniche ed orientarlo verso le più adeguate scelte terapeutiche (cfr. Cass. n. 21449/2022).

Il dovere di monitorare la stabilità delle condizioni dei pazienti presenti rientra, pertanto, tra gli obblighi specifici del personale infermieristico di pronto
soccorso, il quale, nel caso in cui si verifichino particolari situazioni di emergenza, idonee a pregiudicare la salvaguardia del bene tutelato, “ha l’obbligo di allertare i sanitari in servizio, anche in altri reparti dell’ospedale, al fine di consentirne l’intervento in supporto (cfr. Cass. n. 11601/2014).

Allegati

giurista risponde

Accordo patrimoniale tra ex conviventi e inadempimento L’accordo patrimoniale tra genitori ex conviventi può essere risolto per inadempimento?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

In tema di mantenimento dei figli nati da genitori non coniugati, alla luce del disposto di cui all’art. 337ter, comma 4 c.c., anche un accordo negoziale intervenuto tra i genitori non coniugati e non conviventi, al fine di disciplinare le modalità di contribuzione degli stessi ai bisogni e necessità dei figli, è riconosciuto valido come espressione dell’autonomia privata e pienamente lecito nella materia, non essendovi necessità di un’omologazione o controllo giudiziale preventivo; tuttavia, avendo tale accordo ad oggetto l’adempimento di un obbligo “ex lege”, l’autonomia contrattuale delle parti assolve allo scopo solo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta e incontra un limite, sotto il profilo della perdurante e definitiva vincolatività fra le parti del negozio concluso, nell’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale della prole. Ne consegue l’applicazione a detti accordi dei principi contenuti in materia contrattuale e, quindi, anche delle norme in tema di risoluzione e di inadempimento (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 1324 – Accordo patrimoniale tra ex conviventi).

La vicenda trae origine da una scrittura privata sottoscritta dalle parti, ex conviventi, per definire gli aspetti relativi al mantenimento del figlio e le questioni patrimoniali insorte nella coppia.

Ivi le parti avevano inserito una clausola con cui una di esse si impegnava a vendere l’immobile di sua proprietà e a corrispondere una cospicua somma all’altra parte, a condizione che questi assolvesse agli obblighi di mantenimento del figlio.

In primo grado il Tribunale aveva ritenuto tale accordo di natura transattiva e ne aveva dichiarato la risoluzione per grave inadempimento di una delle parti.

In secondo grado, la Corte d’Appello aveva qualificato diversamente la scrittura privata, attribuendole natura di accordo stipulato in occasione di una crisi familiare ex art. 337ter, comma 4 c.c. a struttura non sinallagmatica, ritenendo inammissibile l’azione di risoluzione per inadempimento.

Avverso tale decisione è stato proposto ricorso per Cassazione.

Preliminarmente, la Cassazione ha rammentato la giurisprudenza in materia di diversa qualificazione giuridica del rapporto d’ufficio, che la ammette anche in difetto di specifico motivo di impugnazione, in quanto il giudice d’appello ha il potere dovere di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica gli atti e i fatti che formano oggetto della controversia. Tuttavia, occorre rispettare due limiti: lasciare inalterati il “petitum” e la “causa petendi” e non introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto (così Cass. 26 giugno 2012, n. 10617; Cass. 17 febbraio 2020, n. 3893).

La Suprema Corte ha affermato nella decisione de quo che l’accordo negoziale di cui all’art. 337ter comma 4 c.c. è espressione dell’autonomia privata ed è pienamente lecito, non essendovi necessità di un’omologazione o controllo giudiziale preventivo.

Esso ha ad oggetto l’adempimento di un obbligo “ex lege, consistente nel mantenimento della prole; pertanto, l’autonomia contrattuale delle parti deve limitarsi a regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta garantendo l’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale dei figli (così Cass., 11 gennaio 2022, n. 633).

Ne consegue l’applicazione a detti accordi dei principi contenuti in materia contrattuale e, quindi, anche delle norme in tema di risoluzione e di inadempimento.

Per tale motivo, la Cassazione ha cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

 

(*Contributo in tema di “Accordo patrimoniale tra ex conviventi e inadempimento”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Arricchimento senza causa e nullità del contratto per difetto di forma scritta Nell’ambito dei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione, risulta ammissibile l’azione di arricchimento senza causa in caso di nullità del contratto per difetto di forma scritta?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

Vanno rimesse alle Sezioni Unite le seguenti questioni: in riferimento al principio affermato dalla recente sentenza Cass., Sez. Un., 5 dicembre 2023, n. 33954, avuto riguardo alla residualità dell’azione di arricchimento senza causa ex art. 2042 c.c. ed ove non risulti opportuna la definizione della nozione di “giusta causa” in carenza della quale è data l’azione in parola, l’ipotesi di nullità del contratto della p.a. per difetto di forma scritta rientri o meno nelle cause di nullità per violazione di norme imperative o per contrarietà all’ordine pubblico, qualificate ostative all’ammissibilità della domanda ex art. 2041 c.c.; se, ancora in riferimento al suddetto principio, il giudizio sull’ammissibilità dell’azione possa essere declinato diversamente, in caso di declaratoria di nullità del contratto per difetto di forma scritta, qualora, come nella specie, il soggetto “impoverito” sia la stessa p.a. e non la sua controparte privata; se, infine e sempre in riferimento al suddetto principio, ove al quesito di cui sub 1) si risponda nel senso dell’ammissibilità dell’azione, abbia rilievo la circostanza che il contratto dichiarato nullo abbia ad oggetto prestazioni di dare, stante quanto previsto – quale possibile azione alternativa, offerta dall’ordinamento già sul piano astratto – dagli artt. 2033 ss. c.c. in tema di ripetizione d’indebito oggettivo (Cass., sez. III, ord. 20 gennaio 2025, n. 1284).

La vicenda trae origine da una fornitura di acqua, senza un contratto scritto, da parte del Comune di Bojano, il quale promuove un’ordinanza di ingiunzione nei confronti del titolare di una ditta individuale, per il pagamento di oltre centomila euro per i canoni rimasti insoluti. Pur venendo dichiarata nulla in primo grado l’ingiunzione di pagamento, in appello viene accolta una domanda subordinata di arricchimento senza causa, che obbliga l’utente a versare una somma considerevole. La Terza Sezione individua tre questioni centrali che meritano un chiarimento nomofilattico, tale da fornire un quadro più chiaro e organico dei rimedi esperibili in caso di nullità dei contratti con la P.A., definendo i confini tra i singoli istituti.

La prima riguarda il tema della compatibilità tra la nullità per difetto di forma scritta nei contratti della P.A. e il recente orientamento delle Sezioni Unite che esclude l’azione di arricchimento in caso di nullità per violazione di norme imperative. L’ordinanza evidenzia, infatti, che le norme sulla forma scritta dei contratti pubblici hanno natura imperativa. Si ravvisa, in particolare, come l’indennizzo spettante all’impoverito non possa costituire il corrispettivo di una prestazione resa in forza di un contratto nullo, altrimenti si opererebbe una sorta di “fictio”, considerando il contratto come esistente e valido. L’ordinanza solleva critiche a una recente interpretazione della Cassazione che esclude le nullità formali dei contratti pubblici dalle violazioni di norme imperative. In tal modo, infatti, il rischio è quello di creare un paradosso giuridico e forme di diseguaglianza rispetto alla posizione del privato, atteso che la violazione delle regole sulla forma scritta potrebbero addirittura avvantaggiare l’amministrazione inadempiente, che otterrebbe con l’azione ex art. 2041 c.c. più di quanto conseguirebbe stipulando il contratto.

La seconda questione concerne la peculiarità del caso in esame, dal momento che la P.A. assume il ruolo di soggetto “impoverito”, mentre nei precedenti, in tema di rapporto tra declaratoria di nullità dei contratti della P.A. per difetto di forma e l’ammissibilità della domanda di arricchimento senza causa, era il privato ad assumere le vesti di attore.

La terza problematica attiene, infine, al rapporto tra l’azione di arricchimento e la ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. La Corte si interroga se la disponibilità del rimedio della ripetizione non precluda, per il principio di sussidiarietà, il ricorso all’azione di arricchimento. Il chiarimento richiesto alle Sezioni Unite sarà cruciale, oltre che per stabilire quale sia il rimedio più adeguato per risolvere il caso concreto, anche per definire l’equilibrio tra la tutela degli interessi pubblici e la necessità di non creare ingiustificate disparità di trattamento con i soggetti privati.

 

(*Contributo in tema di “Arricchimento senza causa”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

mobbing

Il mobbing Mobbing: cos’è, quando è reato, differenze con bossing e straining, tutele e risarcimento del danno

Cos’è il mobbing

Il mobbing è un fenomeno sempre più riconosciuto nei contesti giuridici e organizzativi, caratterizzato da comportamenti sistematicamente ostili nei confronti di un lavoratore. Nonostante l’assenza di una normativa specifica, la giurisprudenza italiana ha tracciato criteri ben precisi per la sua individuazione e per il riconoscimento delle tutele risarcitorie.

Il termine “mobbing” deriva dall’inglese to mob, che significa assalire in gruppo. In ambito lavorativo, il mobbing consiste in una serie di azioni persecutorie, protratte nel tempo, finalizzate a emarginare o espellere un lavoratore dall’ambiente professionale.

Le condotte tipiche includono:

  • esclusione sistematica dalle attività lavorative;
  • critiche continue e immotivate;
  • offese personali o professionali;
  • dequalificazione mansionale;
  • isolamento fisico o relazionale;
  • assegnazione di compiti umilianti o inadeguati.

Il mobbizzato, ossia la vittima di mobbing, sviluppa spesso danni psicofisici che impattano sulla salute e sull’equilibrio familiare e sociale.

Requisiti mobbing secondo la giurisprudenza

La Cassazione ha identificato precisi elementi che devono coesistere per qualificare il mobbing:

  1. una pluralità di atti ostili;
  2. durata prolungata nel tempo;
  3. intento persecutorio;
  4. danno alla salute o alla dignità del lavoratore;
  5. nesso causale tra condotta e danno;
  6. prevaricazione sistematica da parte di colleghi, superiori o anche subordinati.

Di recente la Cassazione con la sentenza n. 3791/2024 ha chiarito che grava sul datore di lavoro l’obbligo di garantire al lavoratore un ambiente lavorativo sano e privo di stress.

Differenze tra mobbing, bossing e straining

  • Mobbing: insieme coordinato e ripetuto di comportamenti ostili.
  • Bossing: forma specifica di mobbing verticale, in cui il persecutore è un superiore gerarchico (es. dirigente, capo reparto).
  • Straining: singola condotta ostile di forte impatto, non necessariamente ripetuta, ma tale da alterare l’equilibrio psicologico del lavoratore (Cassazione n. 123/2025: Il datore di lavoro è ritenuto responsabile se permette che si sviluppi un ambiente di lavoro stressante e non interviene per prevenire o risolvere i conflitti tra i dipendenti.)

Il mobbing implica reiterazione; lo straining si fonda su un solo episodio stressogeno ma persistente nei suoi effetti.

Cosa dice la legge sul mobbing

Nel diritto italiano non esiste una normativa ad hoc sul mobbing, ma la tutela del lavoratore deriva da diverse disposizioni:

  • art. 2087 c.c.: obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore;
  • art. 2043 c.c.: responsabilità extracontrattuale per fatto illecito;
  • Costituzione italiana: artt. 2, 3, 32 e 41 (diritti inviolabili, uguaglianza, salute e dignità).

Il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere anche per culpa in vigilando o culpa in eligendo se non ha impedito condotte vessatorie tra colleghi.

Quando il mobbing è reato

Le condotte persecutorie possono integrare uno o più reati del codice penale, tra cui:

  • lesioni personali (art. 582 c.p.), se provocano danni alla salute;
  • atti persecutori o stalking (art. 612-bis c.p.), se i comportamenti producono ansia o alterazioni della vita quotidiana;
  • maltrattamenti (art. 572 c.p.), in caso di reiterazione sistematica in un contesto di subordinazione;
  • abuso d’ufficio, se il mobbing è esercitato da pubblici ufficiali.

Risarcimento del danno

Il lavoratore vittima di mobbing può chiedere in sede civile il risarcimento del danno, dimostrando:

  • la condotta illecita del datore o colleghi;
  • il danno subito (biologico, morale, esistenziale);
  • il nesso causale tra i comportamenti e il danno.

Le voci risarcibili includono:

  • danno biologico (patologie certificate);
  • danno morale (sofferenza soggettiva);
  • danno esistenziale (alterazione del progetto di vita).

In alcuni casi, si può anche ottenere la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, per perdita di opportunità professionali o stipendi non percepiti.

Tutele e strumenti di difesa

Il lavoratore che ritiene di subire mobbing può:

  1. raccogliere prove documentali (email, ordini, testimoni);
  2. rivolgersi al medico del lavoro o al medico competente;
  3. denunciare i fatti all’Ispettorato del lavoro;
  4. farsi assistere da un sindacato o un avvocato giuslavorista;
  5. promuovere un’azione giudiziaria in sede civile e, se del caso, penale.

In ambito aziendale è consigliato attivare i canali interni (es. organismi di vigilanza, comitato etico, RLS), ove presenti.

Leggi anche gli altri articoli dedicato allo stesso argomento