appropriazione indebita

Appropriazione indebita trattenere i beni mobili dell’ex marito Appropriazione indebita: scatta il reato per la moglie che deve lasciare l’immobile assegnato e trattiene i beni dell’ex marito

Reato di appropriazione indebita

L’appropriazione indebita scatta nel momento in cui l’assegnatario dell’immobile, obbligato, in sede di divorzio, a lasciare l’abitazione, continua a trattenere i beni altrui. La mancata restituzione dei beni dell’ex coniuge presenti nella casa coniugale assegnata durante la separazione, non costituisce infatti automaticamente reato.

Il possesso dei beni durante la separazione può quindi essere considerato lecito, purché i beni stessi facciano parte del corredo della casa coniugale. Se però sopravviene l’obbligo legale di liberare l’immobile, la volontà di non restituire i beni configura un illecito penale. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 47057/2024.

Reato trattenere i beni mobili dell’ex coniuge

La Corte di Appello di Catania ha confermato una sentenza del Tribunale di Ragusa del 2020. La condanna riguardava un caso di appropriazione indebita da parte di una donna nei confronti dell’ex coniuge. La donna aveva trattenuto beni di pregio appartenenti all’ex marito, che facevano parte dell’arredamento della loro ex casa coniugale.

La ricorrente per opporsi alla condanna si è rivolta alla Corte di Cassazione, sostenendo due punti principali. Ha contestato la tardività della querela presentata dall’ex marito e ha invocato l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale, che esclude la punibilità per reati tra coniugi non separati legalmente. La difesa ha sostenuto anche che l’ex marito era consapevole, già dal 2009, dell’intenzione della donna di non restituire i beni. Inoltre, ha affermato che il presunto reato si sarebbe verificato quando il matrimonio era ancora in vigore, quindi prima del divorzio del 2015.

Inapplicabile l’art. 649 c.p. se la coppia è divorziata

La Corte di Cassazione però ha giudicato il ricorso inammissibile, ritenendo infondate le motivazioni della difesa per diversi motivi.

La proprietà dei beni contestati non era mai stata messa in discussione. Il possesso dei beni però era stato inizialmente attribuito alla donna, in quanto parte dell’arredamento della casa coniugale assegnata a lei durante il divorzio. Il comportamento della donna non ha quindi configurato il reato di appropriazione indebita fino all’estate del 2017.

Nel corso di questo anno però la donna ha asportato i beni dalla casa coniugale e li ha consegnati a un antiquario per la vendita. Questo comportamento è stato ritenuto il primo atto concreto di appropriazione indebita. Di questi fatti l’ex marito è venuto a conoscenza solo nell’agosto 2017, la querela, presentata il 16 agosto 2017, è stata quindi tempestiva.

La Corte ha respinto anche l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale. Il reato è stato commesso in effetti dopo il divorzio, quindi non rientra nei casi di non punibilità previsti dalla norma. Dalla sentenza emerge in conclusione che l’appropriazione indebita di beni mobili rappresenta un reato perseguibile anche tra ex coniugi, soprattutto quando il comportamento illecito avviene dopo la cessazione del vincolo matrimoniale.

 

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cessione sepolcro gentilizio

Cessione sepolcro gentilizio: indebito arricchimento per il terzo Cessione sepolcro gentilizio non consentita, l’accordo inter-vivos è nullo, azione di indebito arricchimento per il terzo

Cessione sepolcro gentilizio

In relazione ai diritti su un sepolcro gentilizio la recente sentenza n. 190/2025 della Corte Suprema di Cassazione, cassando una decisione della Corte d’Appello di Roma, sancisce l’intrasmissibilità sia a titolo oneroso che gratuito degli stessi da parte degli eredi. Ne consegue che, se il terzo, come nel caso di specie, effettua lavori di ristrutturazioni del sepolcro stesso, l’unica azione esperibile, stante la nullità del contratto di vendita, è l’azione di indebito arricchimento.

Contesa sul sepolcro familiare

La vicenda giudiziaria ha inizio quando una vedova conviene in giudizio i cognati presso il Tribunale di Cassino. Essi, dopo la morte del marito, le avevano apparentemente ceduto i diritti di proprietà e uso su un’edicola cimiteriale di famiglia, situata in un piccolo comune laziale. La cessione era stata formalizzata con una scrittura privata. Convinta della validità dell’atto, la donna aveva sostenuto spese per 25.000 euro per la ristrutturazione del sepolcro familiare. Completati i lavori però i fratelli avevano negato la validità della cessione e rivendicato la proprietà del sepolcro come eredi diretti dei genitori. Tale situazione aveva costretto la vedova a seppellire altrove il marito e ad avviare un’azione legale per ottenere il rimborso delle somme spese.

Scrittura privata nulla: indebito arricchimento terzo

Il Tribunale di Cassino, riconosciuta la nullità della scrittura privata per la cessione del sepolcro gentilizio, accoglieva la domanda dell’attrice e condannava i convenuti al pagamento pro-quota della somma richiesta, basandosi sull’azione di indebito arricchimento ai sensi dell’art. 2041 del Codice Civile. Per il Tribunale infatti, considerata la nullità della scrittura privata, l’azione di indebito arricchimento era l’unica praticabile.

Corte d’appello: esperibile l’azione art. 2043 c.c.

La Corte d’Appello di Roma però accoglieva il primo motivo del gravame dei soccombenti di primo grado e condannava la vedova al pagamento delle spese legali dei due gradi di giudizio. La vedova a questo punto ricorreva in Cassazione contestando la decisione del giudice dell’impugnazione.

Diritti sepolcro gentilizio: intrasmissibilità

La Suprema Corte nell’accogliere il ricorso, sottolinea due principi fondamentali:

  • nel caso di un sepolcro gentilizio o familiare, i diritti sullo stesso non possono essere trasmessi tramite atti inter vivos. Essi derivano iure sanguinis, cioè dal legame di sangue con il fondatore, e non iure successionis;
  • la nullità della scrittura privata determinata dalla intrasmissibilità inter vivos del sepolcro familiare elimina il titolo contrattuale, rendendo inapplicabili azioni basate su rapporti contrattuali o di comunione. L’azione di indebito arricchimento rappresenta l’unica strada percorribile.

La Corte cassa quindi la sentenza della Corte d’Appello di Roma, rinviando il caso per un nuovo esame in base ai principi stabiliti.

Dalla vicenda emerge l’importanza di rispettare i vincoli giuridici legati ai diritti sul sepolcro gentilizio. La sentenza della Cassazione rafforza il principio di intrasmissibilità di tali diritti, assicurando che essi rimangano legati alla sfera familiare come originariamente concepiti dal fondatore.

 

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giurista risponde

Amministrazione di sostegno: le valutazioni del giudice Quali parametri e presupposti devono orientare il giudice nel disporre l’apertura di un’amministrazione di sostegno?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

L’istituto dell’amministrazione di sostegno è uno strumento volto a proteggere, senza mortificarla, la persona affetta da una disabilità fisica o psichica tale da renderla inadeguata a provvedere ai suoi interessi. La misura deve essere modellata dal giudice tutelare in relazione allo stato personale e alle circostanze di vita di ciascun beneficiario e in vista del concreto e massimo sviluppo delle sue effettive abilità. Il giudice deve valutare non solo l’an della misura, ma anche il quid ed il quomodo dovendosi privilegiare il rispetto del diritto fondamentale della persona di autodeterminarsi nelle scelte di vita e personali, anche quando non approvate dal contesto familiare e sociale, purché da queste scelte non ne derivi un concreto pregiudizio per la persona stessa (Cass., sez. I, ord. 10 settembre 2024, n. 24251).

L’ordinanza in esame discende da un reclamo avverso il decreto con il quale il giudice tutelare aveva aperto un’amministrazione di sostegno in favore di un soggetto su istanza presentata dai servizi sociali territoriali.

Il ricorrente aveva espresso forte opposizione alle limitazioni conseguenti alla misura di protezione, sostenendo di essere in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi sanitari e patrimoniali, contestando i fatti allegati a sostegno del ricorso.

Il Tribunale confermava il decreto impugnato, tranne che per quanto concerne il consenso ai trattamenti sanitari, che configurava in termini di mera assistenza, sul rilievo che l’amministrato ha una menomazione fisica e psichica e percepisce un’indennità di accompagnamento; pur se è in grado di ben esprimere i suoi desideri e la sua volontà, necessita di una misura di protezione con particolare riguardo agli aspetti di “straordinaria amministrazione”, in quanto dai suoi estratti conto è emerso un frequente ricorso al credito e spese rilevanti in locali di giochi e scommesse.

Avverso il menzionato provvedimento è stato proposto ricorso per Cassazione con cui l’istante lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la erronea e falsa applicazione dell’art. 404 c.c. e dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

La decisione del Tribunale si porrebbe in violazione del principio di autodeterminazione dell’individuo, per avere confermato l’amministrazione di sostegno nonostante il convinto, fermo e deciso parere contrario del ricorrente e, per avere di fatto illegittimamente trasformato la misura di mera assistenza e sussidiarietà, prevista dal legislatore, in una misura altamente afflittiva, che prevede la quasi totale sostituzione del beneficiario.

Deduce che le limitazioni previste alla sua libertà di autodeterminazione mal si conciliano con il riconoscimento della sua piena capacità, tra le quali la gestione ordinaria del patrimonio mobiliare e immobiliare, il ricevere notifiche di atti, ritirare ogni genere di corrispondenza, la partecipazione alle assemblee di condominio, la rappresentanza in eventuali procedimenti giudiziari, la gestione ordinaria dei rapporti pensionistici, la chiusura di conti correnti, libretti e depositi postali e l’effettuare i pagamenti necessari alle esigenze del beneficiario, salvo che per le piccolissime spese della quotidianità etc.

Il giudice di merito, nonostante avesse riconosciuto la necessità dell’applicazione dell’amministrazione di sostegno per i soli aspetti di straordinaria amministrazione, ha di fatto, secondo il ricorrente, illegittimamente confermato le ingerenze e limitazioni nella gestione patrimoniale ordinaria.

La Suprema corte, in accoglimento del ricorso, ribadisce che l’istituto della amministrazione di sostegno è uno strumento volto a proteggere, senza mortificarla, la persona affetta da una disabilità fisica o psichica tale da renderla inadeguata a provvedere ai suoi interessi; la misura è caratterizzata da un alto grado di flessibilità e la legge chiama il giudice all’impegnativo compito di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, così da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile con il minor sacrificio della sua capacità di autodeterminazione. (Cass., Sez. Un., 30 luglio 2021, n. 21985; Corte cost. 10 maggio 2019, n. 114; Cass. 4 marzo 2020, n. 6079).

L’accertamento della ricorrenza dei presupposti per l’apertura di tale misura, in linea con le indicazioni contenute nell’art. 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle persone con disabilità, deve essere compiuto in maniera specifica e circostanziata sia rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario, la cui volontà contraria, ove provenga da persona lucida, non può non essere tenuta in considerazione dal giudice, sia rispetto all’incidenza della stesse sulla sua capacità di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali, verificando la possibilità, in concreto, che tali esigenze possano essere attuate anche con strumenti diversi come, ad esempio, avvalendosi, in tutto o in parte, di un sistema di deleghe o di un’adeguata rete familiare. (Cass. 11 luglio 2022, n. 21887).

Da ciò discende che il provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno, nella parte in cui estende al beneficiario limitazioni previste per l’interdetto e l’inabilitato, deve essere sorretto da una specifica motivazione che giustifichi la ragione per la quale si limita la sfera di autodeterminazione del soggetto e della misura in cui la si limita e le decisioni che non rispettano i desiderata del beneficiario devono fondarsi non solo sulla rigorosa valutazione che egli non sia capace di adeguatamente gestire i propri interessi e di assumere decisioni adeguatamente protettive, ma anche sulla preventiva valutazione della possibilità di ricorrere a strumenti alternativi di supporto e non limitativi della capacità, in modo da proteggere gli interessi della persona senza mortificarla, preservandone la dignità, e solo ove questo non sia possibile, può farsi luogo alle compressione della capacità.

In questi termini si apprezza la compatibilità della misura con il sistema costituzionale.

Deciso l’an della misura non possono conseguire automatismi e non possono adottarsi provvedimenti stereotipati ovvero usare moduli standardizzati, poiché dalla apertura dell’amministrazione non discende, quale effetto legale, che la persona debba essere assistita o sostituita in tutte le attività giuridicamente rilevanti, ma solo in quegli ambiti in cui il giudice ha rilevato specifiche criticità e deficit di competenze decisorie e gestorie che possono causare un serio pregiudizio alla persona.

Le caratteristiche dell’istituto impongono, pertanto, che siano perimetrati i poteri gestori dell’amministratore in termini direttamente proporzionati alle esigenze rilevate, alle condizioni di menomazione del beneficiario ed all’incidenza di tali condizioni sulla capacità del medesimo di provvedere ai propri interessi, di modo che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona.

Si deve, inoltre, osservare che l’art. 410 c.c. impone all’amministratore di sostegno di informare il beneficiario circa gli atti da compiere e, in caso di dissenso, il giudice tutelare, dimostra come, in ogni caso, l’opinione del beneficiario debba essere tenuta in considerazione, pur se ne venga limitata la capacità.

Limitare la capacità nella minor misura possibile significa, dunque, non soltanto selezionare specificamente gli atti che il beneficiario non può compiere o non può compiere da solo, ma altresì preservare, anche con riferimento a questi atti, il diritto del beneficiario di esprimere la propria opinione e di partecipare, nella misura in cui lo consenta la sua condizione, alla formazione delle decisioni che lo riguardano.

Nel provvedimento di apertura della amministrazione deve esistere una ragionata corrispondenza tra i deficit rilevati, le risorse della persona interessata e della sua famiglia, e i poteri attribuiti all’amministratore devono essere conferiti nell’ottica di perseguire il miglior interesse della persona, senza comprimerne inutilmente la libertà.

Dei principi esposti i giudici di merito non hanno fatto buon governo, mancando nell’ordinanza impugnata la valutazione e motivazione della proporzionalità delle limitazioni imposte al beneficiario che sono particolarmente incisive e penetranti.

Ne consegue, in accoglimento del ricorso, la cassazione del provvedimento impugnato ed il rinvio al Tribunale territoriale, in diversa composizione, per nuovo esame.

 

(*Contributo in tema di “Amministrazione di sostegno”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

pagamento contributo unificato

Pagamento contributo unificato: la Cassazione chiede lumi Con una nota la presidente Margherita Cassano chiede al ministero della Giustizia chiarimenti sul mancato o parziale pagamento del contributo unificato

La nota della Cassazione

Mancato pagamento contributo unificato: a chiedere lumi al ministero della Giustizia sulla novità introdotta dalla legge di bilancio 2025 è la stessa Cassazione, con una nota dell’8 gennaio 2025, a firma della prima presidente, Margherita Cassano.

Le modifiche della legge di bilancio 2025

Si ricorda che la legge di bilancio ha apportato importanti novità al processo civile.

In particolare, all’art. 14 del Testo Unico sulle Spese di Giustizia (DPR n. 115/2002), è stato aggiunto il comma 3.1, che stabilisce: “Fermi i casi di esenzione previsti dalla legge, nei procedimenti civili la causa non può essere iscritta a ruolo se non è versato l’importo determinato ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera a), o il minor contributo dovuto per legge”.

La circolare di via Arenula

Nella circolare del Dipartimento per gli Affari di Giustizia (DAG) di via Arenula del 30 dicembre 2024, viene stabilito che il personale di cancelleria non potrà procedere all’iscrizione a ruolo di una causa civile nei seguenti casi: a) nelle ipotesi in cui il contributo unificato dovuto sia pari o inferiore a 43 euro, non venga versato integralmente l’importo effettivamente dovuto a titolo di contributo unificato; b) nelle ipotesi in cui l’importo dovuto del contributo unificato sia superiore a 43 euro, la parte che chiede l’iscrizione della causa non versi almeno l’importo di euro 43.

Leggi in merito Contributo unificato: cosa cambia dal 2025

I dubbi della Cassazione

Alla luce della novella normativa, la Cassazione evidenzia, dunque, la necessità di ricevere chiarimenti sulle modalità applicative per quel che attiene ai servizi di cancelleria, ferma restando la competenza giurisdizionale in ordine all’interpretazione della norma in esame.

Rifiuto immediato o sospensione temporanea

In particolare, nella nota vengono formulati i seguenti quesiti: se l’enunciato ‘la causa non può essere iscritta a ruolo’ laddove non venga corrisposto il contributo unificato anche nel minor importo, stia a significare “che il riscontro del mancato pagamento consenta di mantenere sospesa l’iscrizione stessa” sino all’avvenuto pagamento “oppure comporti il rifiuto, da parte della cancelleria, dell’iscrizione della causa (nel giudizio di legittimità del ricorso)”.

Nella prima ipotesi (sospensione dell’iscrizione), se sia possibile “configurare un termine entro il quale l’avvocato debba comunque provvedere a dare riscontro del pagamento del contributo unificato, tenendo conto, per un verso, che il deposito dell’atto si ha solo in caso di accettazione dell’atto/ricorso, e, per altro verso, dei termini di legge per la produzione, in sede di legittimità, di atti e documenti di cui agli artt. 369 e 372 c.p.c.”.

Problemi tecnici nella gestione dei pagamenti

Un ulteriore chiarimento richiesto riguarda le difficoltà operative legate alla mancanza di un applicativo adeguato per verificare in tempo reale il pagamento del contributo unificato.

In particolare, chiede la Cassano, “come debba procedere la cancelleria in attuale assenza di idonea applicazione informatica che consenta di intercettare direttamente, al momento dell’accettazione del ricorso, il deposito della distinta di avvenuto pagamento del contributo unificato anche là dove non prodotta dall’avvocato sotto corretta nomenclatura identificativa”.

Nell’attesa, conclude la nota, “si confida nel consueto spirito di collaborazione nell’interesse del servizio giustizia”. 

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giurista risponde

Omesso versamento ritenute in caso di situazione economica di difficoltà In materia di reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali può integrare una causa di esclusione della responsabilità penale l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta in presenza di una situazione economica di difficoltà?

Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini

 

Costituisce costante indirizzo di legittimità quello per cui, nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto (Cass. pen., sez. III, 19 agosto 2024, n. 32682).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo sul piano dell’effettiva rimproverabilità al ricorrente degli omessi versamenti previdenziali e assistenziali.

In primo e secondo grado era stata affermata la responsabilità penale dell’imputato in relazione al reato continuato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali per gli anni 2016 e 2017.

Avverso la sentenza l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando, per quanto qui di interesse, l’erronea individuazione dell’elemento soggettivo del reato. In particolare, la difesa ha lamentato l’omessa valutazione da parte dei giudici di merito di ogni apprezzamento in punto di esigibilità soggettiva non avendo considerato quanto dedotto nell’atto di appello in ordine alla crisi d’impresa.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha ribadito un costante indirizzo di legittimità secondo cui nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto.

Alla luce di tale principio di diritto i giudici di legittimità hanno affermato che correttamente la difesa ha lamentato la mancata valutazione delle allegazioni difensive, e della documentazione allegata, concernenti l’importante crisi preceduta dal crollo del fatturato che aveva colpito la società. In particolare, il ricorrente aveva evidenziato: che la società era stata costretta a lavorare in perdita in regime di mono-committenza per un unico cliente; l’impossibilità di accedere al credito bancario; la revoca degli affidamenti; gli elevati tassi applicati da altro istituto di credito.

Tali allegazioni sono ritenute dalla Corte potenzialmente idonee a incidere sulla complessiva valutazione della vicenda in termini di effettiva rimproverabilità al soggetto agente. Pertanto, il Collegio annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello.

 

(*Contributo in tema di “Omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali in caso di situazione economica di difficoltà”, a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

violenza sessuale

Violenza sessuale abbracciare e baciare l’ex moglie Integrato il reato di violenza sessuale nel tentativo di abbracciare e baciare l'ex moglie contro la sua volontà

Reato di violenza sessuale

Il reato di violenza sessuale commesso dall’ex marito che tenta di abbracciare e baciare la moglie contro la sua volontà non può essere assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia. Lo ha chiarito la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 30528/2024 dando ragione al pm.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Asti condannava alla pena di anni uno, mesi dieci di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 572 c.p. (capo A), in esso assorbite le condotte di cui all’art. 609-bis c.p.
Avverso la sentenza, il Procuratore della Repubblica proponeva ricorso per cassazione, lamentando inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lettera b), cod. proc. pen.
In sintesi, il ricorrente deduceva che il Tribunale di Asti avrebbe erroneamente assorbito le condotte di violenza sessuale contestate nel reato di maltrattamenti, essendo pacifico che i fatti descritti costituissero atti sessuali, idonei a compromettere la libera determinazione
della sessualità della persona e non potessero essere qualificati come una “forma di molestia, vessazione, fastidio”.

Il principio di assorbimento

Sosteneva ancora il ricorrente che “il principio di assorbimento può operare quando si ha identità degli scopi prevalenti perseguiti dalle norme concorrenti. E’ pacifico, invece, che le fattispecie di cui agli articoli 572 e 609-bis cod. pen. tutelano beni giuridici diversi e perseguono scopi differenti: l’oggetto giuridico del delitto di maltrattamenti in famiglia è la tutela dell’incolumità fisica e psichica delle categorie di persone indicate dalla norma, fra cui quelle di famiglia, mentre il delitto di violenza sessuale è preposto alla tutela della libertà di determinazione nella sfera sessuale”.
Evidenziava, infine, il ricorrente che il delitto di violenza sessuale concorre con quello di maltrattamenti ni famiglia, attesa la diversità di beni giuridici offesi, “potendosi configurare l’assorbimento esclusivamente nel caso in cui vi sia piena coincidenza tra le due condotte, ovvero quando il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti di violenza sessuale; circostanza non verificatasi nel caso di specie in cui non vi è coincidenza tra le condotte
maltrattanti e quelle di cui all’art. 609-bis c.p.”.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

Il Tribunale di Asti è pervenuto a dichiarare l’assorbimento delle condotte di violenza sessuale contestate, affermando che dette condotte dovessero ritenersi non lesive della libertà sessuale della vittima, e, seppur contestate come violenze sessuali, integrassero piuttosto molestie e vessazioni tali da iscriversi nella sequela di atti maltrattanti, non idonee in concreto a ledere li bene giuridico tutelato dall’art. 609-bis cod. pen. lI ricorso del pubblico ministero sostiene, per contro, che le condotte descritte nei capi di imputazione integrino altrettante ipotesi di violenza sessuale, perché idonee a compromettere la libera determinazione della sessualità della
persona e ad invaderne la sfera sessuale attraverso una condotta insidiosa e rapida avente ad oggetto zone erogene.
La sentenza impugnata dà atto che l’imputato, in sede di interrogatorio di garanzia e del successivo interrogatorio reso al pubblico ministero, ha sostanzialmente ammesso tutti gli addebiti.

L’imputato ha, dunque, confermato di avere approcciato la donna nelle due occasioni descritte nei capi di imputazione, negando di avere tenuto un contegno violento o aggressivo e specificando di avere tentato di avere un rapporto intimo confidando sul fatto che pochi giorni prima imputato e parte offesa avevano giaciuto insieme. Ed in particolare, aveva confermato di avere afferrato al viso la donna, di averla baciata e stretta a sé, reiterando il tentativo di abbracciarla.

La giurisprudenza di legittimità

Tanto premesso, secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, affermano quindi dal Palazzaccio, “l’assorbimento di una fattispecie criminosa in un’altra, in base al rapporto di specialità di cui all’art. 15 cod. pen., si verifica solo quando tutti gli elementi previsti in quella di carattere generale siano compresi in quella di carattere speciale, la quale presenti, inoltre, un elemento specifico cosiddetto specializzante (Sez. 3, n. 5518 del 13/03/1984, Iacchini, Rv. 164788). La norma speciale, infatti, è quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che in più presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865)”.
Sulla base di queste corrette premesse, “è senz’altro giuridicamente errato affermare che episodi di violenza sessuale, possano essere assorbiti in condotte maltrattanti, considerata la diversità dei beni giuridici offesi e l’impossibilità di individuare nel delitto di maltrattamenti una fattispecie di reato con elementi specializzanti rispetto al delitto di violenza sessuale. Solamente nell’ipotesi inversa, in cui singole condotte maltrattanti siano sovrapponibili alle condotte con le quali sono stati perpetrati i reati di violenza sessuale, è invece ipotizzabile l’assorbimento delle condotte di maltrattamento nella fattispecie criminosa della violenza sessuale (cfr., Sez. 3, n. 35700 del 23/09/2020, C., Rv. 280818; Sez. 3, n. 40663 del 23/09/2015, dep. 2016, Z., Rv. 267595)”.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto con rinvio per nuovo giudizio.

 

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il singolo condomino

Il singolo condomino può proporre querela Il singolo condomino è legittimato alla proposizione della querela, anche in via concorrente o surrogatoria rispetto all'amministratore

Singolo condomino e querela

Il singolo condomino è legittimato a proporre querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore del condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune. Lo ha ribadito la seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 44374/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli, dichiarava non doversi procedere nei confronti di una condomina in ordine al reato di cui all’art. 646 cod.pen. alla stessa ascritto per intervenuta remissione di querela. Avverso detta sentenza, proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Napoli deducendo violazione di legge ni relazione all’art. 154 cod.pen. per essere stata dichiarata l’estinzione del reato benche la remissione di querela non fosse stata ratificata da due degli originali querelanti individuati nei condomini.

La decisione

Per la Cassazione, il ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto. Invero, affermano dalla S.C., “ai sensi della disciplina dettata dall’art. 154 cod.pen., se la querela è stata proposta da più persone, il reato non si estingue se non interviene la remissione di tutti i querelanti”. E nel caso in esame nell’esposizione delle ragioni della decisione lo stesso tribunale da atto che, pur a fronte di una querela sporta da otto condomini dell’immobile solo sei avevano rimesso la querela, mentre altri non risultano avere operato detta scelta.
A proposito va innanzi tutto ricordato, ricordano dal Palazzaccio, come sia stato affermato che “il singolo condomino è legittimato ala proposizione della querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore del condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune” (cfr. Cass. n. 45902/2021).
Ne consegue pertanto che in assenza di remissione da parte di tutti i condomini querelanti il giudice di primo grado non poteva dichiarare l’estinzione del reato. Né può ritenersi operare, cosi come prospettato dal procuratore generale e dalla difesa dell’imputata, un’ipotesi di remissione tacita da parte dei due condomini non remittenti. La parola va al giudice del rinvio.

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giurista risponde

Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 L.F. Con riferimento ai reati in materia fallimentare, quali elementi vanno valorizzati al fine di individuare i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267)?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

In tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 l. fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (Cass., sez. V, 2 ottobre 2024 n. 36582).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la correttezza della scelta di attribuire all’imputato la qualità di amministratore di fatto di una società poi fallita, alla quale è seguita, in primo e secondo grado, la condanna per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (art. 216 l. fall.), di bancarotta impropria (art. 223 l. fall), nonché di rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000).

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea attribuzione all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita.

In particolare, si obiettava la mancata considerazione di elementi ritenuti di valore decisivo ai fini della esclusione del riconoscimento di tale qualità in capo all’imputato.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha ricordato gli elementi alla luce dei quali poter dedurre, in tema di reati fallimentari, la sussistenza in capo al reo della qualifica di amministratore di fatto, tutti fondati sulle funzioni e sulle attività concretamente esercitate dal soggetto agente, a prescindere dalla veste formalmente assunta.

Tra questi, a titolo esemplificativo, si è citato l’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive, nell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione di beni e servizi; la gestione dei rapporti di lavoro con i dipendenti, dei rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, i fornitori e i clienti; ovvero, l’ideazione e l’organizzazione di un sistema fraudolento basato sull’utilizzo di una società quale schermo per realizzare condotte truffaldine, finalizzate al reperimento di risorse poi distratte.

La Suprema Corte ha, in primo luogo, ritenuto che il giudice di secondo grado abbia fatto buon governo degli elementi fin qui richiamati, attribuendo correttamente all’imputato la qualifica di amministratore di fatto della società poi fallita, e, in secondo luogo, ricordando un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che non è censurabile in sede di legittimità la sentenza che indichi con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che siano state determinanti per la formazione del convincimento del giudice e che consentano l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata.

Nel caso di specie, avendo ritenuto corretta l’attribuzione, operata dai giudici di merito, all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita, utilizzata quale schermo per commettere i reati fallimentari e tributari a lui ascritti, la Cassazione ha rigettato il ricorso.

 

(*Contributo in tema di “Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 Legge Fallimentare”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Divorzio guida legale

Divorzio: guida legale Il divorzio in Italia: disciplina ed evoluzione di un istituto segnato da profondi cambiamenti sociali che hanno inciso soprattutto sui tempi della procedura

Legge 898/1970: normativa divorzio in Italia

Il divorzio in Italia è regolato dalla Legge n. 898 del 1970, una delle pietre miliari del diritto di famiglia italiano. In virtù di questa legge il giudice può pronunciare lo scioglimento del matrimonio civile quando verifica che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita, previa verifica di una causa specifica prevista dall’art. 3 e dopo un tentativo fallito di conciliazione. Per i matrimoni celebrati con rito religioso e trascritti civilmente, il giudice può dichiarare la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione, seguendo il medesimo iter.

Divorzio giudiziale

La legge n. 898/1970 stabilisce che lo scioglimento o la cessazione possano essere richiesti da un coniuge nei seguenti casi principali:

  • Condanne penali del coniuge:
    • ergastolo o pene superiori a 15 anni per delitti non colposi, escluse specifiche eccezioni;
    • pene per reati gravi come incesto, sfruttamento della prostituzione, omicidio volontario o tentato omicidio del coniuge o figli;
    • condanne per violenze domestiche o abusi sui familiari.
    • Assoluzioni per vizio totale di mente in reati che compromettono la convivenza.
    • Separazioni giudiziali o consensuali protratte per almeno 12 mesi (6 mesi per separazioni consensuali). Questi tempi, ridotti in virtù delle Legge n. 55/2015, in passato erano decisamente più lunghi. Si poteva infatti divorziare dopo tre anni di separazione decorrenti dall’udienza di comparizione dei coniugi in Tribunale.
    • Mancata consumazione del matrimonio, annullamento o scioglimento del matrimonio all’estero da parte di un coniuge straniero, o rettificazione di attribuzione di sesso.

Il Tribunale, accertata la sussistenza di una delle cause suddette, emette una sentenza che ordina la cessazione del matrimonio, obbligando l’ufficiale di stato civile ad annotare tale sentenza.

Effetti del divorzio

Per effetto del divorzio in Italia la donna perde il cognome aggiunto per matrimonio, salvo autorizzazione a conservarlo per motivi di interesse personale o dei figli. Trattasi di una decisione che può essere modificata per gravi motivi. La sentenza di divorzio può prevedere un assegno di mantenimento per il coniuge privo di mezzi adeguati, calcolato in base al contributo alla famiglia, ai redditi e alla durata del matrimonio. L’importo può essere adeguato automaticamente secondo l’inflazione. Su accordo, è possibile una corresponsione in unica soluzione, precludendo future richieste economiche. L’abitazione nella casa familiare viene assegnata prioritariamente al genitore affidatario dei figli o con cui essi convivono dopo la maggiore età. Il giudice considera le condizioni economiche di entrambi i coniugi, favorendo il coniuge più debole. L’assegnazione, se trascritta, è opponibile a terzi acquirenti, come stabilito dall’articolo 1599 del codice civile. Il tribunale disciplina l’amministrazione dei beni dei figli e, nel caso di responsabilità genitoriale condivisa, regola il contributo dei genitori al godimento dell’usufrutto legale.

Divorzio congiunto: alternativa rapida ed economica

Il divorzio a domanda congiunta rappresenta l’alternativa più rapida ed economica al divorzio giudiziale, grazie all’accordo tra i coniugi. La domanda deve essere presentata tramite ricorso al tribunale competente, ossia quello del luogo di residenza o domicilio di uno dei coniugi. Il ricorso deve contenere:

  • i motivi di fatto e diritto per lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili (se concordatario);
  • le informazioni sull’esistenza di figli comuni;
  • le condizioni concordate per i figli e i rapporti economici;
  • le ultime dichiarazioni dei redditi di entrambi;
  • i documenti essenziali come l’atto di matrimonio, lo stato di famiglia, il certificato di residenza e la copia della separazione consensuale o giudiziale.

Divorzio congiunto con negoziazione assistita

La negoziazione assistita, introdotta con il d.l. n. 132/2014 (convertito nella legge n. 162/2014) consiste in una convenzione tra le parti, assistite dai rispettivi avvocati, per raggiungere un accordo consensuale in buona fede e lealtà.

In materia di separazione e divorzio, l’art. 6 del dl consente ai coniugi di risolvere consensualmente questioni di separazione, cessazione degli effetti civili o modifica delle condizioni di divorzio. La procedura è applicabile sia in assenza che in presenza di figli. Senza figli, l’accordo necessita del nullaosta del Procuratore della Repubblica. In presenza di figli minori o non autosufficienti, il Pubblico Ministero valuta l’interesse della prole. Se necessario, il Tribunale interviene per tutelare i diritti dei figli. L’accordo autorizzato è equiparato ai provvedimenti giudiziali e deve essere trasmesso all’ufficiale di stato civile per gli adempimenti di trascrizione e annotazione.

Il divorzio davanti al sindaco

Il dl n. 132/2014 ha previsto anche il divorzio davanti al Sindaco, a cui non si può ricorrere in presenza di figli minori o maggiore di età non autosufficienti o portatori di handicap grave. L’articolo 12 prevede la possibilità per i coniugi di concludere davanti al sindaco (nella sua qualità di  ufficiale dello stato civile) del comune di residenza di uno di loro o del comune presso cui è iscritto o trascritto l’atto di matrimonio e con l’assistenza facoltativa di un avvocato un accordo di di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di divorzio. L’accordo tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono il procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di divorzio. Anche questa procedura è più rapida rispetto a quella contemplata dalla legge storica sul divorzio n. 898/1970.

Il divorzio nella Riforma Cartabia

La Riforma Cartabia è intervenuta sull’istituto del divorzio in Italia modificando le regole dei procedimenti in materia di persone, minorenni e famiglie (art. 473 bis c.p.c – art- 473 ter).

Di queste norme, quelle contenute nella sezione II del capo III del Titolo IV bis del Libro II, si occupano anche dello scioglimento del matrimonio.

La norma di maggiore interesse da segnalare è l’art. 473 bis. 49 c.p.c che disciplina il cumulo delle domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Divorzio: l’importanza della giurisprudenza

Sebbene siano trascorsi più di cinquant’anni dalla sua introduzione, il divorzio in Italia è in continua evoluzione. Questo perché si tratta di un istituto con una serie di implicazioni legali che richiedono una comprensione approfondita delle normative in vigore, ma anche delle più recenti sentenze della Corte di Cassazione. Sebbene il quadro normativo sia consolidato, la giurisprudenza continua infatti ad aggiornarsi, fornendo indicazioni preziose su come applicare le leggi in modo equo e giusto. Le nuove sfide sociali ed economiche e l’attenzione crescente per i diritti dei figli e il trattamento equo dei coniugi, continuano a plasmare l’evoluzione del diritto di famiglia italiano.

Nel corso degli anni, la Corte di Cassazione ha emesso numerose sentenze che hanno contribuito a chiarire e a far evolvere l’interpretazione dei vari interventi legislativi sul divorzio soprattutto per quanto riguarda i diritti e i doveri dei coniugi e l’efficacia delle separazioni. Le sue pronunce sono fondamentali per comprendere l’applicazione concreta delle leggi in contesti complessi. Vediamo che cosa dicono alcune delle sentenze  più significative degli Ermellini.

La separazione come condizione per il divorzio

Una delle tematiche più dibattute in Cassazione riguarda la durata della separazione prima di chiedere il divorzio. In particolare, la Corte ha chiarito che la separazione deve essere “effettiva” e non meramente formale. I coniugi devono cioè dimostrare di vivere in modo separato e di non avere più rapporti di vita comune. Nella sentenza Cass. Civ. n. 19174/2021, la Corte ha ribadito che la separazione deve comportare una “cessazione del progetto coniugale”, e non basta la semplice separazione di fatto.  

Affido dei figli: tema cruciale

Un altro aspetto rilevante delle recenti decisioni della Corte di Cassazione riguarda l’affido dei figli in caso di divorzio. La legge stabilisce che l’affido debba essere condiviso tra i genitori, salvo casi eccezionali in cui uno dei due non possa garantire un ambiente adatto alla crescita del minore. Tuttavia, la Cassazione ha più volte ribadito, come nella sentenza Cass. Civ. n. 15587/2022, che l’affidamento esclusivo di uno dei genitori è una misura estrema, da adottare solo quando il comportamento dell’altro genitore è pregiudizievole per il benessere del bambino. Nel caso in cui i genitori non raggiungano un accordo, la decisione finale spetta al giudice, il quale deve tenere conto dell’interesse del minore come principio fondamentale.

Il mantenimento dell’ex coniuge

Un altro punto centrale nelle dispute del divorzio riguarda il mantenimento. La Corte di Cassazione ha chiarito, con una serie di sentenze, che l’obbligo di mantenimento per il coniuge in difficoltà economiche non è automatico e dipende anche da una valutazione delle risorse economiche di ciascun coniuge. Nella sentenza Cass. Civ. n. 23448/2020, la Corte ha evidenziato che, qualora uno dei coniugi non abbia bisogno di un sostegno economico, non sussiste l’obbligo di versare un mantenimento. Inoltre, è stato affermato che la durata del mantenimento deve essere limitata nel tempo, soprattutto in caso di scioglimento di matrimoni da cui non siano nati figli o in presenza di un’indipendenza economica del coniuge richiedente.

 

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danno da shock

Danno da shock: riconosciuto dalla Cassazione Danno da shock: per la S.C. va risarcito il cliente del supermercato che mangia la zuppa con dentro gli insetti

Danno da shock per il cliente del supermercato

Il risarcimento del danno da shock, spesso complesso da quantificare, è stato oggetto di attenzione da parte della Cassazione in un caso singolare quanto significativo. Nell’ordinanza n. 31730/2024 la Cassazione sottolinea come il giudice che intende discostarsi dalle conclusioni della CTU che riconosce il danno deve fornire una motivazione specifica per questa decisione, non una meramente apparente.

Danno da shock richiesta danni rigettata

La vicenda ha inizio nel 2011, quando un consumatore, mangiando una zuppa rustica acquistata presso un supermercato, ingerisce involontariamente alcuni insetti presenti nel prodotto. Questo evento gli causa dolori gastrici, documentati dal pronto soccorso con la diagnosi di “sindrome dispeptica”. Nel 2016, l’acquirente cita in giudizio il supermercato e il produttore, chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. Il Tribunale nel 2020 riconosce la responsabilità del supermercato per la vendita del prodotto contaminato e stabilisce un risarcimento di 3.000 euro. Contestualmente impone al supermercato di rifondere le spese processuali. Successivamente, il produttore e la sua compagnia assicuratrice vengono coinvolti nel procedimento. La causa prosegue infatti in appello. In questa sede il supermercato cerca di ribaltare la sentenza. La Corte d’appello però conferma la responsabilità del supermercato e accoglie l’appello incidentale, condannando il produttore a manlevare il supermercato e la compagnia assicurativa a coprire il produttore. La Corte tuttavia rigetta la richiesta dell’attore per i danni da shock psichico.

Motivi specifici se il giudice si discosta dalla CTU

Il caso arriva in Cassazione, dove gli Ermellini accolgono il ricorso dell’attore. La Suprema Corte rileva come la Corte d’appello abbia fornito una motivazione apparente nel rigettare il danno da shock. La stessa infatti non ha considerato adeguatamente le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio (CTU). La consulenza, infatti, ha accertato l’esistenza di un danno biologico del 9% riconducibile all’evento. Essa si fonda su una valutazione psicodiagnostica, che include test strutturati e analisi del comportamento. Nonostante ciò, il giudice d’appello si è discostato dalle conclusioni, senza fornire però motivazioni sufficienti e dettagliate.

A questo proposito la Cassazione ricorda che il giudice che intende discostarsi dalle conclusioni di una CTU deve motivare in modo specifico la propria decisione. Una semplice adesione generica o un rigetto apodittico non sono sufficienti. Nel caso in esame, la Corte d’appello ha basato il proprio rigetto su rilievi frammentari, come una nota anamnestica del pronto soccorso, senza verificare l’attendibilità delle fonti o delle preesistenti condizioni psichiche del ricorrente.  

Nuova valutazione del danno da shock

La Cassazione evidenzia come la motivazione offerta dal giudice d’appello sia carente, perché non analizza in modo concreto le censure sollevate. La stessa inoltre non considera per nulla le indagini svolte dal CTU, svuotandone il significato. Questa carenza porta alla cassazione della sentenza d’appello e al rinvio del caso alla Corte d’appello in diversa composizione.

Questo caso sottolinea la complessità nell’accertare e risarcire il danno da shock. Per questo la Suprema Corte ha riaffermato l’importanza di una motivazione solida e analitica, soprattutto quando si discosta da una CTU. Il danno psichico, spesso difficile da provare, richiede infatti un esame accurato delle evidenze mediche e psicologiche.

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