illecito deontologico

Illecito deontologico divulgare i nomi dei clienti Illecito deontologico diffondere nomi di clienti e parti assistite sul sito dello studio legale e nelle mail inviate con la newsletter

Illecito deontologico avvocato

Costituisce illecito deontologico la divulgazione dei nominativi dei clienti e delle parti assistite, anche dopo che il decreto Bersani ha abrogato le disposizioni che impedivano ai liberi professionisti di farsi pubblicità. E’ quindi vietato nelle informazioni rivolte al pubblico, come quelle pubblicate su un sito o inviate per mezzo di una newsletter, indicare i nominativi di clienti e parti assistite. L’avvocato deve infatti garantire la riservatezza del cliente. Questa condotta è espressione del decoro e della dignità della funzione sociale della professione forense. Lo ha chiaro il CNF nella sentenza n. 294/2024.

Nomi dei clienti e delle parti assistite su sito e mail

Nel gennaio e febbraio 2022, un avvocato pubblica sul sito del proprio studio legale e invia per mezzo della newsletter informazioni riguardanti operazioni seguite dal proprio studio. Nei comunicati vengono citati i nomi di clienti e dettagli delle operazioni. Un esposto anonimo inviato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (COA) di Trento avvia il procedimento disciplinare nei suoi confronti contestandogli la violazione dell’art. 35 del Codice deontologico.

L’avvocato si difende sostenendo che le informazioni erano già di pubblico dominio, essendo state pubblicate da altri soggetti con il consenso delle parti coinvolte. Argomenta inoltre che l’art. 35, comma 8 è in realtà una specificazione del più generale dovere di riservatezza e non si applica a notizie già pubbliche.

Il CDD ritiene però sussistente la violazione dell’art. 35, comma 8 del CDF, che vieta agli avvocati di includere nelle informazioni al pubblico i nomi di clienti e assistiti. L’avvocato viene così sanzionato con l’avvertimento. Il divieto previsto dalla regola deontologica mira a proteggere la riservatezza, indipendentemente dalla precedente pubblicità dei dati.

Informazioni legittime se già pubblicate da terzi

L’avvocato presenta ricorso al CNF sostenendo la legittimità della divulgazione delle informazioni perché già pubblicate da terzi. Il ricorrente richiama inoltre la libertà di informazione professionale sancita dall’art. 17 del CDF, che consente la promozione dell’attività legale nel rispetto di trasparenza, correttezza e verità.

Illecito deontologico anche con consenso clienti

Il Consiglio Nazionale Forense (CNF) però respinge il ricorso dell’avvocato ricorrente, confermando la violazione dell’art. 35, comma 8 del Codice Deontologico Forense (NCDF). La norma vieta agli avvocati di pubblicizzare il nome dei propri clienti, anche se questi consentono. Prima del verdetto finale il CNF ci tiene ad esporre alcune considerazioni preliminari.

  • Il divieto esiste dal primo Codice Deontologico del 1997. Nonostante le successive riforme (Decreto Bersani 2006, Legge 247/2012, NCDF del 2014), il comma 8 è rimasto invariato, confermando obbligatorietà del divieto.
  • I moderni strumenti di comunicazione permettono agli avvocati di diffondere contenuti promozionali attraverso piattaforme non tradizionali, spesso a pagamento. Questo rischia di eludere il divieto, sfruttando canali non qualificati.
  • La pubblicazione contestata non si limita a informare, ma presenta anche contenuti promozionali. Lo scopo va oltre la semplice comunicazione.

L’avvocato ricorrente ha pubblicato sul sito web dello studio e inviato email tramite la newsletter contenenti il nome dei clienti assistiti. Lo stesso ha infatti riferito di aver assistito il Consorzio [AAA] in un leverage buyout e ha menzionato l’assistenza fornita ad altri clienti in concordati preventivi.

La comunicazione quindi non si è limitata a riprodurre articoli già pubblici. Ha invece avuto contenuti redatti ad hoc, con accenti promozionali e autocelebrativi, comportamento che integra pienamente la violazione dell’art. 35 NCDF.

Il CNF precisa che la norma tutela riservatezza, decoro e dignità della professione. La valenza pubblicistica dell’attività forense impone autonomia e prudenza nella comunicazione. Il consenso del cliente o la diffusione precedente tramite terzi non escludono il divieto. Il ricorso viene quindi respinto e la sanzione dell’avvertimento confermata.

 

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Allegati

azione di indebito arricchimento

Azione di indebito arricchimento Azione di indebito arricchimento: analisi dell'azione legale disciplinata dall'art. 2041 del codice civile

Azione di indebito arricchimento: cos’è

L’azione di indebito arricchimento è uno degli istituti giuridici più importanti nel diritto civile italiano, previsto dall’articolo 2041 del Codice Civile. Si tratta di un’azione legale che consente a una persona di richiedere la restituzione di somme o beni che hanno indebitamente arricchito  un’altra persona, senza alcuna giustificazione legale. La disciplina di questa azione è contenuta nell’articolo 2041 c.c.

Vediamo quindi cos’è l’azione di indebito arricchimento, come funziona e quali sono le implicazioni legali, facendo riferimento appunto all’articolo 2041 del Codice Civile italiano.

Scopo dell’azione di indebito arricchimento

L’azione di indebito arricchimento è un rimedio giuridico previsto dal diritto civile. Essa ha lo scopo di garantire l’uguaglianza tra le parti e prevenire che una persona tragga un vantaggio economico ingiustificato a scapito di un’altra. Il principio alla base di questa azione è il seguente: chi si arricchisce in danno di un’altra persona senza che vi sia un valido motivo giuridico, deve restituire quanto ricevuto perché non ingiustificato.

Articolo 2041 del Codice Civile

L’articolo 2041 stabilisce infatti nello specifico che: “Chi senza giusta causa si è arricchito a spese di un altro, è obbligato a restituire l’indebito arricchimento, nella misura in cui il beneficiato sia in grado di restituire quanto ricevuto.”

In altre parole, la legge prevede che se un individuo ha tratto un vantaggio economico (sia in denaro che in beni) da un’altra persona senza una ragione legittima, costui è tenuto a restituire l’ammontare dell’arricchimento che ha ricevuto.

Come funziona l’azione di indebito arricchimento?

Per esercitare l’azione di indebito arricchimento, devono essere presenti quindi alcune condizioni specifiche. Vediamole nel dettaglio.

  1. Arricchimento ingiustificato

La prima condizione affinché si possa parlare di indebito arricchimento è che una delle parti si sia effettivamente arricchita. L’arricchimento poi può avere natura materiale (ad esempio, un trasferimento di denaro o beni) o economica (ad esempio, la prestazione di un servizio che non è stato compensato).

  1. Danno per la parte arricchita

Il beneficiario dell’arricchimento deve essere stato danneggiato, ossia deve aver subito una perdita economica o patrimoniale a causa dell’arricchimento ingiustificato dell’altra persona. La persona che chiede la restituzione deve essere quella che ha subito quindi il danno.

  1. Mancanza di giusta causa

L’elemento chiave dell’articolo 2041 è che l’arricchimento sia senza giusta causa. Questo significa che non deve esserci una giustificazione giuridica per il trasferimento di beni o denaro. Ad esempio, se qualcuno paga per un servizio che non è stato reso, o se riceve un pagamento in eccesso per un servizio che non è stato completato, potrebbe configurarsi un caso di indebito arricchimento.

Esempi di azione di indebito arricchimento

Vediamo alcuni esempi concreti per comprendere meglio come funziona l’azione di indebito arricchimento:

  1. Pagamento Involontario o errato

Se una persona effettua un pagamento errato o involontario a una seconda persona, questa potrebbe essere tenuta a restituire la somma ricevuta. Ad esempio, se un cliente paga una fattura più alta rispetto a quanto dovuto, il venditore è obbligato a restituire la somma in eccesso, a meno che non vi siano altre giustificazioni per il pagamento maggiore.

  1. Prestazioni di servizi non richiesti

Si può anche verificare che una persona offra servizi a un’altra senza che questi siano stati richiesti. Ad esempio, un’impresa di pulizie esegue lavori non richiesti e l’altra parte non intende pagarli. In questo caso, se l’impresa riceve un pagamento, potrebbe essere tenuta a restituirlo, dato che il pagamento non ha alcuna giustificazione legale.

  1. Trasferimento di beni senza consenso

Un altro esempio di indebito arricchimento è il trasferimento di beni da una persona a un’altra senza il consenso o una causa giuridica valida. Se una persona, ad esempio, consegna per errore a un’altra una somma di denaro, l’altra persona deve restituirla, perché si è arricchita senza giusta causa.

Elementi fondamentali azione di indebito arricchimento

Riepilogando, affinché l’azione di indebito arricchimento possa essere accolta in tribunale, è necessaria la sussistenza di determinati elementi.

Arricchimento: la parte contro cui viene promossa l’azione deve essersi effettivamente arricchita, sia in termini economici che patrimoniali.

Perdita per la parte danneggiata: l’indebito arricchimento deve aver causato una perdita al soggetto che promuove l’azione.

Ingiustizia del trasferimento:  non deve esistere una giustificazione legale per il trasferimento di ricchezza.

Restituzione: la parte arricchita è tenuta a restituire l’indebito arricchimento nella misura in cui è possibile farlo.

 

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giustizia amministrativa

Giustizia amministrativa: il portale OpenGA Giustizia Amministrativa: attivo dal 10 dicembre 2024 il nuovo portale OpenGA, che offre dati aggiornati su ricorsi e provvedimenti

Il nuovo portale OpenGA

E’ online OpenGA, il nuovo portale dedicato alla Giustizia amministrativa. Il sito, accessibile dal portale istituzionale, offre dati aperti e aggiornati su ricorsi e provvedimenti. Questo strumento rappresenta un passo importante verso la trasparenza e l’accessibilità delle informazioni giudiziarie.

OpenGA mette a disposizione quindici tipologie di dataset open data. Tra questi spiccano i ricorsi pendenti, i provvedimenti adottati e le sentenze emesse.

Particolare attenzione è rivolta al contenzioso sui contratti pubblici. I dati in questo caso provengono dall’integrazione tra il sito della Giustizia amministrativa e le informazioni fornite in formato aperto dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).

L’iniziativa risponde agli obblighi europei in materia di Open Data e promuove un uso libero e gratuito delle informazioni. Questi dati permettono a cittadini, professionisti e studiosi di analizzare il funzionamento della Giustizia amministrativa.

Cosa si può consultare su OpenGA? (H3)

I dataset sono organizzati in base alla sede giudiziaria e alla tipologia di provvedimento. Queste alcune delle categorie disponibili:

  • Decreti
  • Ordinanze
  • Sentenze
  • Ricorsi definiti e pendenti
  • Provvedimenti pubblicati
  • Ricorsi in materia di appalti

Ogni dataset è strutturato per garantire trasparenza, tracciabilità e interoperabilità. I dati sono accessibili, completi e utilizzabili nel rispetto della riservatezza delle parti coinvolte.

Licenza aperta e riutilizzo dei dati

I dati di OpenGA sono rilasciati con licenza Creative Commons BY 4.0. Questa licenza consente di utilizzare, modificare e redistribuire liberamente i dataset. L’unico vincolo è citare la fonte. Questo facilita il riuso dei dati anche per scopi commerciali e favorisce la diffusione delle informazioni giudiziarie.

Innovazione digitale e analisi statistica

OpenGA si inserisce in un progetto più ampio di digitalizzazione della Giustizia amministrativa. I dataset vengono estratti dal Data Warehouse della Giustizia amministrativa e convertiti in formato aperto. Questi dati permettono analisi avanzate sui tempi di definizione dei giudizi, sull’andamento del contenzioso e sulla distribuzione geografica delle decisioni.

OpenGA: riservatezza garantita

La protezione dei dati sensibili è una priorità. I dataset non includono fascicoli o atti processuali. Inoltre, eventuali informazioni sensibili vengono oscurate nel rispetto del GDPR e della normativa vigente.

 

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Legittimo l'obbligo di testimonianza

Legittimo l’obbligo di testimonianza del prossimo congiunto La Corte Costituzionale ha dichiarato non irragionevole l'obbligo previsto dal 1° comma dell'art. 199 c.p.p. se il familiare è persona offesa dal reato

Obbligo di testimonianza prossimo congiunto

Legittimo l’obbligo di testimonianza del prossimo congiunto dell’imputato che sia persona offesa dal reato. Così, la Corte costituzionale, con la sentenza numero 200/2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative al primo comma dell’art. 199 del codice di procedura penale. Disposizione che, mentre riconosce ai prossimi congiunti dell’imputato la facoltà di astenersi dal testimoniare, introduce un’eccezione per il familiare che sia persona offesa dal reato.

La qlc

Decidendo sulle censure del Tribunale di Firenze, riferite agli articoli 3, 27, secondo comma, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 8 della CEDU, la Consulta ha affermato che “tale eccezione alla facoltà di astensione non è irragionevole, né sproporzionata, e neppure lede la vita e l’unità della famiglia”. Ciò in quanto essa, da un lato “corrisponde al fatto che proprio la condotta offensiva dell’imputato normalmente incide sul legame affettivo sotteso alla facoltà di astenersi”. Dall’altro, “protegge la vittima del reato dalle pressioni che spesso provengono dallo stesso ambito familiare affinché si astenga dal deporre”.

Legittimo l’obbligo di testimonianza: la decisione

È stata altresì disattesa dal giudice delle leggi – per il carattere fortemente “manipolativo” della sollecitata pronuncia – “la richiesta subordinata del rimettente, diretta a ottenere l’eliminazione dell’obbligo di deporre del congiunto, persona offesa, nell’ipotesi in cui la sua deposizione non sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”.

La Corte ha sottolineato, infine, che quella del prossimo congiunto, offeso dal reato, “non si differenzia da un’ordinaria testimonianza, sicché nei suoi confronti può essere applicata, ove ne ricorrano gli estremi, la causa di non punibilità di cui all’articolo 384, primo comma, del codice penale”.

amministrazione di sostegno

Amministrazione di sostegno Amministrazione di sostegno: guida all’istituto che protegge le persone fragili, che  conservano però parte della loro autonomia

Amministrazione di sostegno: cos’è

L’amministrazione di sostegno è un istituto previsto dal Codice Civile italiano per proteggere le persone fragili. Questo strumento consente di assistere chi, a causa di malattia o disabilità, non riesce a gestire in tutto o in parte i propri interessi. Si tratta di una misura flessibile e meno invasiva rispetto all’interdizione e all’inabilitazione, un istituto efficace per proteggere le persone fragili mantenendo, per quanto possibile, la loro autonomia. L’intervento del giudice tutelare garantisce infatti equilibrio tra tutela e rispetto della dignità del beneficiario. L’amministrazione di sostegno è senza dubbio un esempio di diritto moderno e inclusivo, che si adatta alle diverse esigenze delle persone vulnerabili.

Amministrazione di sostegno: definizione normativa

L’articolo 404 del Codice Civile definisce l’amministrazione di sostegno come uno strumento a favore di chi non può provvedere ai propri interessi. Questa impossibilità può essere totale o parziale, temporanea o permanente, e derivare da infermità o menomazione fisica o psichica. Il giudice tutelare nomina un amministratore di sostegno per aiutare la persona nel compimento degli atti quotidiani o straordinari.

Il procedimento può iniziare su richiesta del beneficiario stesso, anche se minore, interdetto o inabilitato, dei suoi familiari (coniuge, convivente, ascendenti, discendenti o parenti) e dei responsabili dei servizi sanitari o sociali, che segnalano i casi al giudice tutelare.

Nomina dell’amministratore: come avviene

L’articolo 405 stabilisce che il giudice tutelare provvede alla nomina dell’amministratore di sostegno entro 60 giorni dalla presentazione del ricorso. Il decreto è motivato e immediatamente esecutivo. In casi urgenti, il giudice può nominare un amministratore provvisorio. La decisione include dettagli precisi come la generalità del beneficiario e dell’amministratore, la durata dell’incarico, che può essere a tempo determinato o indeterminato, i poteri attribuiti allamministratore, ossia atti che può compiere per conto del beneficiario, i limiti delle spese e le modalità di gestione del patrimonio e l’obbligo di rendicontazione periodica al giudice.

Tutti i provvedimenti devono essere annotati nei registri ufficiali e comunicati all’ufficiale di stato civile.

Come si svolge il procedimento

L’articolo 407 disciplina il procedimento. Il ricorso deve contenere le generalità del beneficiario, la sua dimora abituale e ragioni a base della richiesta e i nomi del coniuge, dei familiari conviventi e degli altri parenti.

Il giudice deve ascoltare direttamente il beneficiario, preferibilmente recandosi dove questi si trova. Deve considerare i bisogni e le richieste della persona, bilanciando protezione e autonomia. Il pubblico ministero interviene nel procedimento e vigila sulla tutela.

Il giudice può acquisire documenti medici o altre prove per decidere in modo appropriato. Inoltre, può modificare le decisioni prese in qualsiasi momento.

Amministratore di sostegno: criteri di scelta

L’articolo 408 stabilisce i criteri per scegliere l’amministratore. Il giudice tiene conto prioritariamente degli interessi del beneficiario. La persona interessata può designare anticipatamente il proprio amministratore tramite atto pubblico o scrittura privata autenticata. In mancanza di designazione, il giudice preferisce, ove possibile il coniuge non separato legalmente, il convivente stabile, i parenti stretti, come genitori, figli o fratelli.

Non possono ricoprire l’incarico coloro che hanno in cura il beneficiario come operatori di servizi pubblici o privati. Il giudice può comunque nominare una persona idonea in casi particolari.

Effetti dell’amministrazione di sostegno

Secondo l’articolo 409, il beneficiario mantiene la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono l’intervento dell’amministratore. Può compiere autonomamente gli atti di vita quotidiana. L’amministratore infatti si limita ad assistere il beneficiario nel compimento degli atti più complessi o straordinari.

Doveri dell’amministratore di sostegno

L’amministratore di sostegno ha l’obbligo di rispettare i bisogni e le aspirazioni del beneficiario. Deve informare tempestivamente il beneficiario sugli atti da compiere e consultare il giudice in caso di disaccordo. Se l’amministratore agisce in modo dannoso o negligente, il giudice può intervenire su segnalazione del beneficiario o del pubblico ministero. L’incarico dura al massimo 10 anni, salvo eccezioni per il coniuge, il  convivente o i parenti stretti.

Amministrazione di sostegno: atti annullabili

Gli articoli 412 e 413 prevedono la possibilità di annullare gli atti compiuti dall’amministratore oltre i poteri concessi quelli compiuti dal beneficiario in violazione del decreto.

Le azioni per l’annullamento devono essere esercitate entro 5 anni dalla fine dell’amministrazione.

Revoca dell’amministratore di sostegno

La revoca può essere richiesta dal beneficiario, dall’amministratore, dal pubblico ministero o dai familiari indicati nell’articolo 406.

Il giudice decide con decreto motivato, dopo aver svolto le necessarie verifiche. L’amministrazione di sostegno cessa se non tutela più adeguatamente il beneficiario. In questo caso, il giudice può promuovere l’interdizione o l’inabilitazione.

Disciplina procedurale

La Riforma Cartabia ha spostato la disciplina dell’amministrazione di sostegno nella sezione III del Capo III del libro II del Codice di procedura civile dedicato ai “procedimenti di interdizione, inabilitazione e di nomina dell’amministratore di sostegno” disciplinati dall’art. 474.52 fino al 473.57. L’art. 473 bis.58 sancisce che ai procedimenti in materia di amministrazione di sostegno si applicano, purché compatibili, le disposizioni della sezione dedicata anche agli altri istituti dell’inabilitazione e dell’interdizione. La norma stabilisce inoltre che mentre i decreti del giudice tutelare sono reclamabili al tribunale quelli del tribunale in composizione collegiale sono ricopribili in Cassazione.

 

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giurista risponde

Chiamata in causa del terzo costruttore Si può chiamare in causa il terzo costruttore per vizi del bene venduto?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

Il venditore di un immobile può chiamare in causa il terzo costruttore solo per essere sollevato dalla responsabilità derivante da gravi difetti presenti nella costruzione e non anche per la mancata comunicazione all’acquirente dei vizi della cosa di cui era a conoscenza, poiché si tratta di responsabilità per violazione del principio di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali, di cui all’art. 1175 c.c., che non coinvolge il terzo (Cass., sez. II, 28 agosto 2024, n. 23233).

La Corte di Cassazione, con la sentenza in disamina ha affrontato questioni relative alla responsabilità del costruttore e del venditore per vizi dell’immobile.

Il caso di specie riguarda l’acquisto di un immobile affetto da gravi problemi di umidità e allagamenti dovuti a difetti nel sistema fognario.

L’acquirente dell’immobile aveva citato in giudizio l’alienante per ottenere l’eliminazione dei vizi presenti nello stesso immobile, il rimborso parziale del prezzo ed inoltre il risarcimento dei danni. Il venditore si costituiva chiamando in causa la società costruttrice del fabbricato.

Il Tribunale condannava il solo venditore e non la società costruttrice poiché la domanda era formulata in modo generico e non con l’esperimento di un’azione ex art. 1669 c.c.

Invero, il venditore appellava la sentenza per ottenere la condanna del costruttore.

La Corte d’Appello accertava la responsabilità del costruttore ex art. 1669 c.c. e quella del venditore ex art. 1175 c.c., per non aver comunicato all’acquirente l’esistenza dei vizi dell’immobile di cui era a conoscenza. Condannava, quindi, la società costruttrice a tenere indenne l’appellante da tutte le conseguenze economiche derivanti dal fatto.

La società costruttrice ricorreva per Cassazione ed il ricorso veniva accolto.

La Corte ha, innanzitutto, ribadito che, a norma dell’art. 1669 c.c., la responsabilità del costruttore per gravi difetti dell’immobile sussiste se la scoperta del vizio avviene entro 10 anni dal completamento dell’opera. Il termine decorre dal collaudo e non dalla vendita dell’immobile. La responsabilità dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1669 c.c. è “speciale” rispetto a quella generica contemplata dall’art. 2043 c.c.: quest’ultima ricorre in via residuale, qualora non sussistano in concreto le condizioni giuridiche per l’applicabilità della prima (ad esempio, in caso di danno manifestatosi oltre il decennio dal compimento dell’opera).

La Cassazione chiarisce che il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c. a pena di decadenza, può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale (così anche Cass. 24 aprile 201, n. 10048; Cass. 23 gennaio 2008, n. 1463).

Nel caso di specie il venditore aveva avuto una conoscenza solo imperfetta dei vizi, pertanto, si era esperita una consulenza tecnica grazie alla quale era stata possibile l’imputazione delle cause; pertanto, dalla stessa consulenza occorreva far decorrere il termine di cui all’art. 1669 c.c.

Affinché possa essere fatta valere la responsabilità di cui all’art. 1669 c.c. è necessaria la sussistenza di determinati elementi quali: un bene immobile destinato a lunga durata, la rovina dell’opera già avvenuta (sia nella forma totale che parziale), o anche l’attuale pericolo di rovina nell’immediato futuro; da ultimo l’esistenza di gravi difetti (nozione molto dibattuta in giurisprudenza e nella quale sembrerebbero rientrare tutti i vizi che incidono sugli elementi essenziali dell’immobile) della costruzione che pregiudicano la caratteristica della lunga durata.

Inoltre, la Cassazione ha chiarito che il momento della “scoperta” del vizio coincide con l’acquisizione della piena consapevolezza della sua gravità e delle sue cause, anche attraverso accertamenti tecnici.

Nel caso specifico, tale momento è stato individuato nel deposito della CTU.

La Suprema Corte non ritiene fondati i motivi per cui a fronte di una chiamata in causa del terzo formulata in modo generico in primo grado, la richiesta di risarcimento ex art. 1669 c.c., rivolta allo stesso terzo in secondo grado, deve essere considerata domanda nuova.

Secondo la Suprema Corte il titolo della responsabilità del terzo era già compreso nella ragione che aveva indotto il convenuto a chiamarlo in causa in primo grado, anche in assenza di esplicita domanda in tal senso, poiché la chiamata era rivolta a liberarsi dalla pretesa attorea (Cass. 29 dicembre 2009, n. 27525).

Un importante principio affermato dalla Corte riguarda l’estensione automatica al terzo chiamato (il costruttore) della domanda principale dell’attore contro il convenuto (il venditore), quando la chiamata in causa sia finalizzata a individuare il terzo come unico responsabile.

Ciò in virtù della comunanza del fatto costitutivo delle due fattispecie di responsabilità.

La sentenza ha anche ribadito che una domanda generica di risarcimento danni comprende tutte le possibili voci di danno, incluso quello non patrimoniale, purché siano stati allegati i fatti materiali lesivi. È ammissibile la produzione di documenti anche in fase successiva, se relativi a fatti collegati a quelli originariamente dedotti.

Un passaggio cruciale della decisione riguarda la responsabilità del venditore per violazione dei doveri di buona fede e correttezza.

La Corte ha censurato la sentenza d’Appello nella parte in cui aveva addossato al costruttore anche le conseguenze economiche derivanti dal comportamento scorretto del venditore, che era a conoscenza dei problemi ma non li aveva comunicati all’acquirente. Su questo punto la causa è stata rinviata per un nuovo esame.

Infine, la Cassazione ha confermato che il termine annuale per la denuncia dei vizi ex art. 1669 c.c. decorre solo dall’acquisizione di una “sicura conoscenza” dei difetti e delle loro cause, potendo essere postergato all’esito di accertamenti tecnici necessari.

In conclusione, la sentenza offre importanti chiarimenti su temi quali i termini dell’azione di responsabilità contro il costruttore, l’estensione della domanda al terzo chiamato, l’onere di allegazione dei danni e i doveri di correttezza del venditore.

(*Contributo in tema di “Chiamata in causa del terzo costruttore”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

animali abbandonati

Abbandono di animali per strada: carcere fino a 7 anni Abbandono di animali: se avviene per strada e causa un incidente stradale, la riforma del Codice della Strada prevede il carcere fino a 7 anni

Abbandono di animali: pene più severe

Il nuovo Codice della Strada, in vigore dal 14 dicembre 2024, segna un importante passo avanti nella lotta contro l’abbandono degli animali. La riforma, approvata dopo un iter complesso e sostenuta da varie forze politiche, introduce pene più severe per chi si macchia di un reato tanto crudele quanto pericoloso. La tutela degli animali e la sicurezza stradale sono al centro delle nuove disposizioni.

Abbandono di animali: sicurezza e civiltà

L’abbandono degli animali non è solo un atto incivile, ma rappresenta anche un grave rischio per la sicurezza stradale. Secondo i dati ENPA, ogni anno in Italia vengono abbandonati oltre 130.000 animali, con picchi significativi durante il periodo estivo. Questo fenomeno causa spesso incidenti stradali, mettendo a rischio sia la vita degli animali sia quella degli automobilisti. La riforma del Codice della Strada punta a contrastare questa piaga con misure severe e un forte effetto deterrente. L’inasprimento delle pene invia un messaggio chiaro: l’abbandono non sarà più considerato una semplice leggerezza, ma un crimine con gravi conseguenze legali.

Nuove sanzioni per chi abbandona animali

L’articolo 727 del Codice penale già punisce l’abbandono di animali domestici con l’arresto fino a un anno o un’ammenda da 1.000 a 10.000 euro.

Tuttavia, la nuova normativa prevede un significativo inasprimento delle pene:

  • aumento della pena di un terzo se l’abbandono avviene su strada o nelle sue pertinenze;
  • sospensione della patente da sei mesi a un anno se l’abbandono avviene con un veicolo;
  • revoca della patente nei casi più gravi o in presenza di una recidiva

Queste sanzioni mirano a punire comportamenti irresponsabili e a scoraggiare atti che mettono a rischio la collettività. La sospensione o la revoca della patente rappresentano un ulteriore strumento dissuasivo, soprattutto per chi abbandona gli animali utilizzando un veicolo.

Pene aggravate in caso di incidenti stradali

Se l’abbandono di un animale causa un incidente stradale da cui derivino lesioni personali o la morte di una persona, le conseguenze diventano ancora più gravi. La nuova normativa applica le pene previste per i reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali:

  • lesioni gravi: reclusione da 3 mesi a 1 anno;
  • lesioni gravissime: reclusione da 1 anno a 3 anni;
  • omicidio stradale: reclusione da 2 a 7 anni.

Queste disposizioni riconoscono la gravissima responsabilità di chi, abbandonando un animale, causa tragedie su strada. Non si tratta più di un comportamento marginale, ma di un crimine con effetti devastanti.

Numeri sull’abbandono degli animali

Secondo Legambiente, nel 2023 sono stati abbandonati oltre 85.000 cani, con un aumento dell’8,6% rispetto all’anno precedente. Ogni giorno vengono abbandonati più di 127 animali, numeri che testimoniano la necessità di interventi immediati e concreti. Molti Comuni non dispongono di servizi adeguati, come spazi aperti dedicati agli animali d’affezione, aggravando ulteriormente la situazione. La riforma del Codice della Strada mira a ridurre questi numeri con sanzioni più severe e misure preventive. Tuttavia, sarà fondamentale anche un cambio culturale che promuova la responsabilità e il rispetto verso gli animali.

Lotta all’inciviltà e a favore della sicurezza

La nuova normativa rappresenta un segnale forte nella lotta contro l’abbandono degli animali. Le istituzioni hanno riconosciuto la gravità del fenomeno e hanno deciso di intervenire con misure severe. La riforma mira a dissuadere comportamenti barbarici e pericolosi, soprattutto nei mesi estivi, quando i numeri raggiungono livelli inaccettabili. L’auspicio è che queste nuove regole non restino solo sulla carta. Le pene severe e le sanzioni accessorie devono tradursi in un effettivo calo degli abbandoni. La sensibilizzazione è altrettanto fondamentale: ogni cittadino deve comprendere che abbandonare un animale è un crimine, con conseguenze pesanti per tutti.

La riforma del Codice della Strada è un progresso significativo per chi ama gli animali e per chi crede nella convivenza civile. L’inasprimento delle pene per l’abbandono punta a tutelare la vita degli animali, ma anche a garantire la sicurezza delle strade italiane.

Ogni atto di abbandono rappresenta una scelta irresponsabile, capace di provocare dolore e tragedie. Con questa normativa, l’Italia invia un messaggio chiaro: l’abbandono degli animali non sarà più tollerato. Questa battaglia è un impegno di civiltà e responsabilità, che coinvolge istituzioni e cittadini.

 

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processo penale telematico

Processo penale telematico: depositi rinviati Processo penale telematico: deposito analogico e digitale per garantire la sperimentazione anche durante il 2025

Processo penale telematico: malfunzionamenti e rinvii

Il Ministero della Giustizia ha ufficializzato il rinvio dell’obbligatorietà del processo penale telematico (PPT). Il regime di doppio binario, analogico e telematico, resterà infatti in vigore fino al 31 dicembre 2025. Lo prevede una Nota datata 11 dicembre 2024.

Il processo penale telematico è stato introdotto con la riforma Cartabia (decreto legislativo n. 150/2022). La legge prevedeva la digitalizzazione del processo fino all’udienza preliminare, a partire dal gennaio 2024. Tuttavia, i continui malfunzionamenti dell’applicativo hanno spinto il Ministero a rinviare i termini. L’opposizione ha sollevato critiche severe, denunciando il rischio di un sistema ingestibile a partire dal 2025.

Il nuovo calendario del PPT

La modifica del regolamento ministeriale (DM n. 217/2023) introduce una fase transitoria scaglionata.

– Fino al 31 dicembre 2025: deposito telematico facoltativo per atti di magistrati nella fase delle indagini preliminari e deposito telematico facoltativo per procedimenti cautelari, personali e reali.

– Dal 1° gennaio 2025: deposito obbligatorio degli atti relativi all’udienza preliminare, ai riti speciali e al dibattimento.

Dal 1° aprile 2025: deposito esclusivamente telematico per le iscrizioni delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.) e per il rito “direttissimo”.

Progressi e nuove funzionalità

Il Ministero della Giustizia evidenzia comunque progressi significativi. L’applicativo APP, operativo dal gennaio 2024, viene infatti costantemente aggiornato. La nuova versione APP 2.0, in uso dal 18 ottobre 2024, introduce funzionalità avanzate:

  • ricerca e gestione dei fascicoli;
  • caricamento semplificato degli atti;
  • visualizzazione del calendario delle udienze;
  • inserimento automatico dell’intestazione delle sentenze.

Dal 16 dicembre 2024, ulteriori miglioramenti permetteranno inoltre una gestione strutturata e digitalizzata del fascicolo penale.

Il Ministero assicura che il rinvio consentirà una sperimentazione adeguata del Processo Penale Telematico durante tutto il 2025. L’obbligatorietà dei depositi digitali, salvo eccezioni, entrerà in vigore il 1° gennaio 2025 e sarà completamente operativa entro la fine dell’anno.

 

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autonomia differenziata

Autonomia differenziata: via libera al referendum Autonomia differenziata: il referendum abrogativo passa il vaglio della Cassazione, la parola finale però spetta alla Corte Costituzionale

Autonomia differenziata: ok al referendum abrogativo

La Corte di Cassazione ha dato il via libera al referendum per l’abrogazione totale della legge n. 86/2024 sull’autonomia differenziata. L’Ufficio centrale della Suprema Corte ha ritenuto conforme la richiesta di cancellazione dell’intero provvedimento. Il quesito potrà quindi arrivare al vaglio degli elettori, ma prima sarà necessario un passaggio decisivo davanti alla Corte Costituzionale.

La decisione è contenuta in un’ordinanza in cui i giudici hanno confermato la legittimità del quesito abrogativo totale. Tuttavia, hanno respinto la richiesta di abrogazione parziale.

Ultima parola alla Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale si era già espressa lo scorso dicembre. Accogliendo parzialmente i ricorsi di quattro Regioni, aveva evidenziato sette profili di illegittimità nella legge Calderoli. La Consulta aveva chiarito che il regionalismo rappresenta un bisogno fondamentale della società italiana. Tuttavia, solo il Parlamento può garantire l’equilibrio del pluralismo istituzionale. Alcune materie devono restare di competenza esclusiva statale per tutelare le esigenze unitarie (art. 117, secondo comma, Cost.).

La parola definitiva spetta comunque e nuovamente alla Corte Costituzionale. Entro metà gennaio, i giudici esamineranno l’ammissibilità del referendum in udienza camerale. La decisione è attesa entro il 20 gennaio, mentre le motivazioni saranno depositate entro il 10 febbraio. Il verdetto finale definirà se la legge sull’autonomia differenziata potrà essere sottoposta al voto popolare.

Reazioni e conclusioni

Il via libera della Cassazione ha suscitato immediate reazioni politiche. I comitati promotori del referendum hanno espresso soddisfazione. Ivana Veronese, vicepresidente del Comitato contro l’autonomia differenziata, ha accolto positivamente la decisione.

Il ministro Roberto Calderoli, padre della riforma, ha invece ribadito la validità della legge. Calderoli ha dichiarato nello specifico che l’autonomia differenziata non divide il Paese, ma lo unisce. Secondo lui, il referendum conferma che il provvedimento è “vivo e gode di buona salute”.

 

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custodia cautelare

Custodia cautelare: vietato pubblicare l’ordinanza Il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva il decreto che vieta la pubblicazione delle ordinanze nel corso delle indagini preliminari

Custodia cautelare: divieto pubblicazione ordinanza

Il Consiglio dei ministri interviene sulla pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. Il 9 dicembre 2024, per attuare gli impegni comunitari, il CdM ha infatti approvato in via definitiva il decreto legislativo che adegua la legge italiana alla Direttiva UE 2016/343, attraverso l’attuazione dell’art. 4 della legge di delegazione europea n. 15/2024.

Ordinanza di custodia cautelare: finalità del divieto

Il testo di legge approvato vuole perseguire diversi obiettivi:

  • integrare quanto già previsto dal decreto legislativo n. 188/2021;
  • garantire la piena attuazione della presunzione di innocenza contemplata dall’art. 27 della Costituzione “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”;
  • rafforzare il diritto di presenza nei procedimenti penali.

Articolo 114 c.p.p: divieto di pubblicazione di atti e immagini

Per garantire in modo più efficace la presunzione di innocenza del soggetto indagato o imputato in un procedimento penale il testo interviene sull’articolo 114 del codice di procedura penale, che contiene il divieto di pubblicazione di atti e di immagini dei procedimenti penali.

In estrema sintesi il testo di legge, soprannominato “legge bavaglio” dagli organismi di rappresentanza dei giornalisti, prevede il divieto di pubblicazione delle ordinanze che applicano misure cautelari personali fino al termine delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare.

Questo perchè le ordinanze cautelari sono quei sempre il risultato di una valutazione sommaria del PM nella fase delle indagini preliminari, che si caratterizzano per l’assenza di contraddittorio.

Emendamento “Costa”

Il provvedimento adottato non rappresenta una novità assoluta. L’emendamento al disegno di legge di delegazione europea è stato soprannominato “Costa” dal nome del proponente Enrico Costa. In base a questo emendamento, se un soggetto viene raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare si potrà procedere solo alla pubblicazione delle seguenti informazioni:

  • riassunto dell’atto giudiziario;
  • nome del destinatario dell’ordinanza;
  • ragioni dell’emissione del provvedimento.

Custodia cautelare: divieto di pubblicazione nella proposta di legge 2022

Il deputato Costa è lo stesso che il 29 novembre 2022 aveva presentato una proposta di legge (C. 653) alla Camera dei deputati contenente “Modifiche all’articolo 114 del codice di procedura penale, in materia di pubblicazione delle ordinanze che dispongono misure cautelari.”

La proposta, che interveniva sull’articolo 114 c.p.c, prevedeva, in un unico articolo  le seguenti modifiche: “a) al comma 2, le parole: «, fatta eccezione per lordinanza indicata dallarticolo 292 » sono soppresse; b) al comma 7 sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, fatta eccezione per lordinanza indicata dallarticolo 292, della quale è consentita esclusivamente la pubblicazione del nome e cognome del destinatario del provvedimento e dei delitti per i quali si procede.”

Nel discorso di presentazione della proposta il deputato denunciava l’eccessiva leggerezza con cui troppo spesso vengono disposte le misure cautelari e l’impiego delle stesse come forma “mascherata” di anticipazione della pena. La pubblicazione di queste ordinanze sui giornali di conseguenza viene percepita dall’opinione pubblica come una “sentenza di condanna” anticipata, che genera confusione, soprattuto se l’indagato non viene poi ritenuto responsabile.

Per evitare queste storture è necessario quindi impedire la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelari fino a quando non siamo concluse le indagini preliminari o l’udienza preliminare. Per questo nella proposta di legge il deputato limitava la pubblicazione alle informazioni indispensabili rappresentate dal nome e cognome del destinatario e dal delitto per il quale si doveva procedere.

 

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