pensione intermediari

Pensione: dal 1° aprile domanda tramite intermediari Attivo dal 1° aprile 2024 il nuovo servizio Inps per presentare la domanda di pensione tramite intermediari

Pensione tramite intermediari

E’ attivo dal 1° aprile 2024 il nuovo servizio Inps che consente di presentare la domanda di pensione agli intermediari.

L’avvio della sperimentazione, nell’ambito del progetto “Piattaforma intermediari per l’erogazione delle prestazioni individuali” con gli istituti di patronato è stato reso noto dall’INPS con il messaggio n. 1277-2024.

La sperimentazione, disponibile per le domande di prestazione in ambito pensioni, coinvolgerà una platea di operatori individuata dagli stessi Istituti di Patronato.

Come presentare la domanda

Le modalità di presentazione delle domande di pensione rimangono sostanzialmente invariate: l’operatore dell’Istituto di patronato, nella fase iniziale di predisposizione della domanda, inserirà il codice fiscale del cittadino e in caso di presenza di mandato digitale potrà associarlo alla domanda di pensione.

La guida

Per agevolare le operazioni di conferimento del mandato digitale, l’istituto ha predisposto un’apposita guida.

L’ambito di applicazione della “Piattaforma intermediari per l’erogazione delle prestazioni individuali”, avvisa l’INPS, “verrà progressivamente esteso a nuove prestazioni secondo un piano in via di definizione, i cui sviluppi saranno comunicati con successivi messaggi”.

Allegati

archivio digitale intercettazioni

Intercettazioni: via libera all’archivio digitale Il Garante Privacy ha reso parere favorevole all'archivio digitale interdistrettuale delle intercettazioni (ADI)

Archivio digitale intercettazioni

Il Garante Privacy ha reso parere favorevole sullo schema di decreto del Ministero della Giustizia che regola l’attivazione dell’archivio digitale delle intercettazioni (ADI) presso le infrastrutture interdistrettuali e definisce tempi, modalità e requisiti di sicurezza della migrazione e del conferimento dei dati.

L’archivio – tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica – custodisce i verbali, gli atti e le registrazioni delle intercettazioni disposte dalle singole Procure.

I rilievi del Garante Privacy

Il Garante, tuttavia, ha chiesto al Ministero di esplicitare nel testo il ruolo di titolare del trattamento dei dati svolto dalle Procure della Repubblica, per fugare possibili dubbi interpretativi e agevolare l’esercizio dei diritti da parte degli interessati.

Con l’attuale atto ministeriale si completa il percorso che ha già visto l’istituzione delle infrastrutture digitali centralizzate per le intercettazioni e la definizione dei requisiti tecnici per la gestione dei dati presso tali sistemi, sui cui schemi il Garante si è espresso con parere favorevole rispettivamente nei mesi di settembre e di dicembre 2023.

Protezione dati ok

Il testo dello schema di decreto all’esame del Garante non presenta criticità sotto il profilo della protezione dei dati.

Recepisce infatti le indicazioni fornite in fase istruttoria dall’Autorità e prevede le ulteriori misure tecniche organizzative di funzionamento del sistema richieste dal Garante con il parere di dicembre.

Sono state delineate con chiarezza le funzioni svolte dal Procuratore della Repubblica: direzione, organizzazione e sorveglianza sulle attività di intercettazioni e sui relativi dati. Inoltre, sono state declinate con maggiore dettaglio le misure tecnico-organizzative necessarie a garantire livelli di sicurezza adeguati al rischio connesso al trattamento dei dati effettuato nell’archivio digitale.

riconoscimento facciale

Lavoro: no del Garante all’uso del riconoscimento facciale Il Garante Privacy boccia il riconoscimento facciale per controllare le presenze sul posto di lavoro: viola la privacy dei dipendenti

Riconoscimento facciale per controllo presenze

Il riconoscimento facciale per controllare le presenze sul posto di lavoro viola la privacy dei dipendenti. Così il Garante Privacy che, rilevando come non esista al momento alcuna norma che consenta l’uso di dati biometrici, per svolgere una tale attività, ha sanzionato cinque società – impegnate a vario titolo presso lo stesso sito di smaltimento dei rifiuti – con sanzioni rispettivamente di 70mila, 20mila, 6mila, 5mila e 2mila euro, per aver trattato in modo illecito i dati biometrici di un numero elevato di lavoratori.

L’attività del Garante

L’Autorità, intervenuta a seguito dei reclami di diversi dipendenti, ha anche evidenziato i particolari rischi per i diritti dei lavoratori connessi all’uso dei sistemi di riconoscimento facciale, alla luce delle norme e delle garanzie previste sia nell’ordinamento nazionale che in quello europeo.

Dall’attività ispettiva del Garante, svolta in collaborazione con il Nucleo speciale privacy e frodi tecnologiche della Guardia di finanza, “sono emerse – spiega l’authority – anche ulteriori violazioni da parte delle società”.

In particolare l’Autorità ha accertato che tre aziende avevano condiviso per più di un anno lo stesso sistema di rilevazione biometrica, oltretutto senza aver adottato misure tecniche e di sicurezza adeguate. Inoltre il medesimo “sistema” era utilizzato presso altre sedi dove operava una delle società sanzionate. Le aziende, infine, non avevano fornito una informativa chiara e dettagliata ai lavoratori né avevano effettuato la valutazione d’impatto prevista dalla normativa privacy.

Le sanzioni

Le aziende, ad avviso del Garante, avrebbero dovuto più opportunamente utilizzare sistemi meno invasivi per controllare la presenza dei propri dipendenti e collaboratori sul luogo di lavoro (come ad es. il badge). Oltre al pagamento delle sanzioni il Garante ha ordinato la cancellazione dei dati raccolti illecitamente.

polizza sanitaria avvocati

Polizza sanitaria avvocati La polizza di tutela sanitaria è automatica e gratuita per tutti gli avvocati, praticanti e pensionati iscritti a Cassa Forense. Per il 2024, la copertura è stata prorogata fino al 30 settembre

Polizza tutela sanitaria: cos’è

Lapolizza-sanitaria collettiva base è una copertura automatica e gratuita per tutti gli avvocati, praticanti e pensionati iscritti a Cassa Forense in regola con le dichiarazioni reddituali.

La polizza può essere estesa, con onere a carico dell’iscritto (o del pensionato cancellato dall’albo o dei superstiti di avvocato), a tutti i familiari conviventi, con limite di età fissato a 80 anni, previo pagamento di un premio procapite per il semestre di copertura sulla base delle seguenti fasce di età:

• € 99,50 fino a 40 anni di età;
• € 174,13 da 41 anni di età a 60 anni di età;
• € 248,75 da 61 anni di età a 70 anni di età;
• € 298,50 da 71 anni di età a 80 anni di età.

Cosa copre la polizza

La garanzia assicurativa, oltre a coprire i “grandi interventi chirurgici” e “gravi eventi morbosi” indicati negli allegati A e B delle condizioni di polizza, opera altresì per la c.d. “garanzia per malattia oncologica”.

Sono, inoltre, inclusi un check-up annuale con esami ed accertamenti, quattro prestazioni di alta diagnostica e l’indennità di convalescenza.

E’ contemplata, anche, in alternativa al pagamento diretto o al rimborso delle spese relative al ricovero, l’indennità sostitutiva, che varia da € 80,00 ad € 105,00 al giorno a seconda della prestazione effettuata.

Piano Sanitario Integrativo

Ogni iscritto, pensionato non iscritto e superstite di avvocato (titolare di pensione di reversibilità o indiretta) che abbia aderito al piano base, ha facoltà di aderire (per il 2024, fino al 30 settembre) ad un Piano sanitario integrativo per sé e per il proprio nucleo familiare, con limite di età fissato a 80 anni.

Tale garanzia assicurativa opera, decorsi i relativi termini di aspettativa, per le prestazioni sanitarie non coperte dalla polizza sanitaria base e, in particolare, per:

  • ricovero, con o senza intervento, in istituto di cura reso necessario anche da parto;
  • ricovero in regime di day-hospital;
  • intervento chirurgico ambulatoriale;
  • prestazioni di alta diagnostica;
  • visite specialistiche e accertamenti diagnostici.

L’importo del premio per la sottoscrizione della Polizza sanitaria Integrativa varia in base alle fasce d’età.

Proroga della polizza sanitaria fino al 30.9.2024

Cassa Forense ha comunicato, in data 22 marzo 2024, la proroga della copertura della polizza di tutela sanitaria sottoscritta con le Compagnie Assicuratrici Unisalute, Reale Mutua e Poste Assicura, in scadenza al 31/3/2024, fino al 30/9/2024.

Tenuto conto della durata semestrale della proroga, sia i premi che i massimali di copertura sono ridotti al 50%, mentre sono rimaste invariate tutte le prestazioni previste.

daspo urbano

Daspo urbano: legittimo il divieto di accesso a determinate aree La Corte Costituzionale ha dichiarato infondate le qlc sul divieto di accesso a determinate aree se sussiste il concreto pericolo di commissione di reati

Daspo urbano esteso

La Consulta, con la sentenza n. 47-2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale di Firenze, sul divieto di accesso ad aree delle infrastrutture dei servizi di trasporto e ad altre aree urbane specificamente individuate dai regolamenti comunali che, in base al cosiddetto decreto Minniti del 2017, il questore può disporre nei confronti di chi, nelle stesse aree, abbia reiteratamente commesso le violazioni di cui all’art. 9, commi 1 e 2 (impedimento della loro
accessibilità e fruibilità in violazione di divieti di stazionamento o di occupazione di spazi e altri illeciti specificamente indicati).

Sicurezza urbana

La Corte ha ritenuto che la norma censurata (l’art.10, comma 2, del dl n. 14 del 2017, convertito, con modificazioni, nella legge n. 48 del 2017) debba essere interpretata in senso diverso da quello ipotizzato dal giudice a quo e tale da escludere il prospettato contrasto con gli artt. 3, 16 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU).
In particolare va escluso, secondo la Consulta, che la norma in questione, nel subordinare la misura alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza, faccia riferimento alla «sicurezza urbana» quale definita dall’art. 4 del decreto Minniti: concetto più ampio di quello contemplato dall’art. 16 Cost. quale ragione di possibili limitazioni alla libertà di circolazione, in quanto comprensivo anche del mero «decoro urbano». Il termine «sicurezza» deve essere inteso invece nel senso – coerente con la natura di misura di
prevenzione atipica dell’istituto e in linea, altresì, con il dettato costituzionale – di garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose.

Divieto di accesso legittimo

Affinché il divieto di accesso sia legittimamente disposto occorre, ha specificato la Corte, che vi sia un concreto pericolo di commissione di reati: pericolo che, in base alla lettera della norma, deve essere rivelato «dalla condotta tenuta» dal destinatario. Ciò esclude anche l’asserita violazione dei principi di
ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.), nonché quella della garanzia convenzionale della libertà di circolazione (art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU), sotto il profilo della carenza di precisione della norma
nell’individuazione dei presupposti della misura: carenza non riscontrabile neanche in rapporto alla descrizione delle condotte alla cui reiterazione quest’ultima è annessa.

Condotte illecite Daspo

La Corte ha dichiarato, altresì, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto Minniti, sollevata dal Tribunale di Firenze in riferimento all’art. 3 Cost. con riguardo all’individuazione delle condotte illecite, sul rilievo che sarebbe irragionevole colpire con il DASPO urbano chi, violando divieti di stazionamento e occupazioni di spazi, impedisca l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dei trasporti – condotta normalmente priva di rilievo penale – e non invece
chi, nelle stesse aree, tenga condotte penalmente rilevanti e ben più pericolose per la sicurezza (minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche, ecc.).
Per il giudice delle leggi, “si è di fronte a una scelta espressiva dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in materia e non manifestamente irragionevole. La selezione delle condotte cui può conseguire la misura riflette l’intento legislativo di individuare quelle tipologie di comportamenti che, sulla base dell’esperienza, contribuiscono maggiormente a creare un clima di insicurezza nelle aree considerate e che implicano una prolungata e indebita occupazione di spazi nevralgici per la mobilità o comunque interessati da rilevanti flussi di persone”.

Peraltro, il legislatore non ha mancato di prendere in considerazione condotte di diverso ordine e di rilievo penale (comprese quelle richiamate dal giudice a quo) ai fini dell’applicazione di altre figure di
DASPO urbano, quali quelle previste dagli artt. 13 e 13-bis del decreto Minniti.

Allegati

appello tardivo

Appello tardivo L’impugnazione incidentale può essere proposta anche quando sia decorso il termine per proporre quella principale. I capi della sentenza impugnabili con l’appello tardivo

Cosa sono le impugnazioni incidentali tardive

L’appello tardivo è disciplinato dall’art. 334 c.p.c., in base al quale le impugnazioni incidentali possono essere proposte dalle parti contro le quali è stata proposta impugnazione (oltre che dai litisconsorti necessari) anche quando sia decorso il termine per proporre l’impugnazione principale (di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c.), o quando sia stata fatta acquiescenza alla sentenza.

Per comprendere la ragione che ha reso opportuna la previsione dell’istituto dell’appello tardivo nel nostro ordinamento, occorre tenere presente che il legislatore mira a scoraggiare l’impugnazione delle sentenze, al fine di diminuire il numero di contenziosi che affollano le aule di tribunale.

Consentendo l’impugnazione incidentale tardiva, si dà modo alla parte, che non sia particolarmente determinata ad impugnare un capo della sentenza a lei sfavorevole, a lasciar decorrere il termine senza attivarsi. Se poi questa riceve, oltre tale termine, la notificazione dell’altrui impugnazione principale, è rimessa in termini per impugnare a sua volta la sentenza con impugnazione incidentale tardiva.

I capi della sentenza impugnabili in via incidentale

L’istituto dell’appello incidentale si inserisce, peraltro, nel contesto di una normativa che salvaguarda l’unitarietà del processo di impugnazione, dal momento che l’art. 333 c.p.c. prevede espressamente che le parti alle quali sia stata notificata l’impugnazione della sentenza possono a loro volta impugnarla solo in via incidentale, nello stesso processo. In altre parole, non è possibile dar vita a distinti processi impugnatori, con distinte impugnazioni principali.

In generale, la principale distinzione riguardo alle impugnazioni incidentali, è quella tra impugnazioni incidentali adesive, cioè connesse ai medesimi capi impugnati dal ricorrente principale, e impugnazioni incidentali autonome, cioè rivolte contro capi della sentenza diversi e autonomi da quelli considerati nell’impugnazione principale.

Ebbene, nel caso dell’appello tardivo, è importante annotare l’andamento non sempre costante della giurisprudenza della Corte di Cassazione, riguardo alla questione se l’impugnazione incidentale tardiva debba necessariamente, o meno, riguardare ( o dipendere da) gli stessi capi della sentenza impugnati in via principale.

Appello tardivo: le sentenze della Cassazione a Sezioni Unite

Al riguardo, riportiamo una recente pronuncia che, da ultimo, ha evidenziato che l’appello tardivo può anche riguardare un capo della sentenza diverso e completamente slegato da quelli impugnati dal ricorrente principale (si pensi all’appellante incidentale, vincitore in primo grado, che impugna in via tardiva la pronuncia sulle spese compensate).

Secondo la Cassazione, infatti, “la statuizione della sentenza che provvede sulle spese di giudizio costituisce un capo autonomo della decisione, ma tale autonomia non comporta l’inammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva volta a contestarlo” (Cass. civ., sez. II, sent. n. 33015 del 28 novembre 2023).

Nello statuire ciò, la Suprema Corte ha espressamente dissentito da alcune sue precedenti pronunce, come la sentenza Cass. n. 4845/2020, secondo cui, invece, la statuizione della sentenza che provvede sulle spese di giudizio, costituendo capo autonomo, doveva essere impugnata in via autonoma e non con impugnazione incidentale tardiva.

A sostegno di tale decisione, la sentenza Cass. n. 33015/2023 ha richiamato l’autorevole orientamento delle Sezioni Unite: “L’autonomia del capo della sentenza impugnata non comporta l’inammissibilità dell’appello incidentale tardivo: secondo quanto affermato dalle sezioni unite di questa Corte, “l’art. 334 c.p.c., che consente alla parte, contro cui è stata proposta impugnazione, di esperire impugnazione incidentale tardiva, senza subire gli effetti dello spirare del termine ordinario o della propria acquiescenza, è rivolto a rendere possibile l’accettazione della sentenza, in situazione di reciproca soccombenza, solo quando anche l’avversario tenga analogo comportamento, e, pertanto, in difetto di limitazioni oggettive, trova applicazione con riguardo a qualsiasi capo della sentenza medesima, ancorché autonomo rispetto a quello investito dall’impugnazione principale” (così Cass. SS.UU., n. 4640/1989; il principio è stato riaffermato dalle sezioni unite con la pronuncia n. 652/1998; per una recente conferma v. Cass. n. 26139/2022)”.

sanzioni disciplinari magistrati

Condanna penale magistrato: no alla rimozione automatica Per la Corte Costituzionale è illegittima la previsione dell'automatica rimozione dalla magistratura del magistrato condannato a pena detentiva

Sanzioni disciplinari magistrati

È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dalla magistratura in caso di condanna del magistrato a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 51-2024, con la quale è stata accolta una questione sollevata dalle Sezioni unite della Corte di
cassazione.

La vicenda

Nel caso oggetto del procedimento principale, si legge nel comunicato stampa ufficiale, un magistrato era stato condannato, con sentenza passata in giudicato, alla pena non sospesa della reclusione di due anni e quattro mesi per avere apposto – con il consenso della presidente del collegio di cui era componente – la firma apocrifa della presidente stessa in tre provvedimenti giurisdizionali.
In applicazione della norma ora dichiarata incostituzionale, il Consiglio superiore della magistratura aveva quindi applicato al magistrato la sanzione disciplinare della rimozione, e l’interessato aveva promosso ricorso per cassazione contro il provvedimento.

Condanna penale e sanzione espulsione

La Corte costituzionale ha rammentato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. “Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete” ha aggiunto la Corte.
La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il CSM di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso
concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, in effetti, il giudice penale aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e
sull’esistenza stessa, della persona interessata”.
D’altra parte, ha proseguito la Consulta, “non può in assoluto escludersi che un fatto di reato per il quale il giudice penale abbia inflitto una pena detentiva non sospesa possa essere ritenuto, sia pure in casi verosimilmente rari, meritevole di sanzioni disciplinari meno drastiche della rimozione. E ciò (…) anche in considerazione del fatto che la mancata concessione della sospensione condizionale non deriva necessariamente da una prognosi circa la possibile commissione di nuovi reati da parte del condannato (…); ma può semplicemente discendere – come nel caso oggetto del giudizio a quo – dal superamento del limite di due anni di reclusione, entro il quale il beneficio può essere concesso. Ipotesi, quest’ultima, nella quale il condannato per cui non sussista pericolo di reiterazione del reato può, in molti casi, essere ammesso ad espiare la propria pena in regime di affidamento in prova al servizio sociale”, continuando così a svolgere la propria ordinaria attività lavorativa.

Discrezionalità CSM

Infine, ha precisato il giudice delle leggi che – per effetto della sentenza – il CSM potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare al magistrato, potendo naturalmente optare ancora per la rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”.

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reddito cittadinanza vincita gioco

Reddito di cittadinanza: non può aiutare chi si rovina con il gioco La Corte Costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sulle disposizioni del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, che sanzionano penalmente l’omessa dichiarazione delle vincite lorde al fine di accedere al Rdc o di mantenerlo

Sanzioni reddito di cittadinanza

Il reddito di cittadinanza (Rdc) «risulta strutturato in modo da non poter venire in aiuto alle persone che, in forza delle vincite lorde da gioco conseguite nel periodo precedente alla richiesta, superino le soglie reddituali di accesso, anche se, a causa delle perdite subite, sono rimaste comunque povere»; non è però «irragionevole che il legislatore abbia escluso che siacompito della Repubblica quello di assegnare il Rdc
a chi, poco prima, si è rovinato con il gioco». Ciò perché «non è la povertà da ludopatia, ma è piuttosto la ludopatia stessa a rappresentare uno di quegli ostacoli di fatto che è compito della Repubblica rimuovere». È quanto si legge nella sentenza n. 54-2024, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 25 della Costituzione sulle disposizioni del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, che sanzionano
penalmente l’omessa dichiarazione delle vincite lorde al fine di accedere al Rdc o di mantenerlo.

Le qlc

Le questioni, sollevate dal Tribunale di Foggia, riguardano una persona che aveva chiesto il reddito di cittadinanza pur omettendo di dichiarare precedenti vincite al gioco e che non aveva poi comunicato le ulteriori vincite conseguite nel periodo in cui ha percepito il Rdc.
Poiché la disciplina del Rdc vieta espressamente di utilizzarne gli introiti per il gioco, «[i]l principio di eguaglianza sostanziale, alla cui attuazione il Rdc è peraltro riconducibile, non può certo essere invocato a sostegno di una questione di legittimità costituzionale nell’interesse di chi ha travolto le regole fondamentali dell’istituto, alterandone così la natura».
La sentenza ha poi precisato che «la giocata online assume il carattere di una qualunque spesa, in questo caso voluttuaria, che la persona ha effettuato con un reddito di cui ha la disponibilità, coincidente con l’accreditamento delle vincite sul suo conto gioco; non si può, quindi, pretendere che la solidarietà pubblica si faccia carico di una spesa di tal genere».
Poiché devono essere dichiarate le vincite al gioco, senza che sia possibile considerare le relative perdite, la situazione di povertà «in cui la persona si sia venuta a trovare nonostante le vincite è, insomma, comunque quella di chi, avendo una disponibilità economica, l’ha dissipata giocando».
A ragionare altrimenti, del resto, non solo si rischierebbe «di alimentare la ludopatia in chi ancora ne soffre, ma anche di creare, in ogni caso, una rete di salvataggio che si risolverebbe in un deresponsabilizzante incentivo al gioco d’azzardo, i cui rischi risulterebbero comunque coperti dal beneficio statale del Rdc».

La decisione della Consulta

La sentenza ha anche escluso la violazione del principio di determinatezza della legge penale di cui all’art. 25 Cost., perché, nonostante un complesso insieme di rimandi, dalla normativa è possibile evincere l’obbligo di dichiarare e comunicare le vincite lorde; del resto, sul piano pratico, a fronte della suddetta complessità, «va considerata anche la possibilità, riconosciuta dall’art. 5, comma 1, del suddetto decreto, di presentare le richieste del Rdc presso i centri di assistenza fiscale».

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art. 572 c.p.

Art. 572 c.p. giurisprudenza Una breve rassegna di sentenze della Corte di Cassazione sul reato di maltrattamenti in famiglia previsto dall’art. 572 del codice penale

Il reato di maltrattamenti in famiglia nella giurisprudenza

L’art. 572 del codice penale punisce i maltrattamenti in famiglia, prevedendo la pena della reclusione per chiunque maltratti una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione o cura.

Il tema è spesso oggetto di controversie nelle aule dei tribunali, ed è proprio la giurisprudenza sull’art. 572 c.p. ad aiutarci a delimitare i contorni della disciplina penalistica di questo reato.

In questa breve rassegna, quindi, analizzeremo alcune delle più recenti sentenze della Cassazione sui maltrattamenti in famiglia.

Le più recenti sentenze della Cassazione sull’art. 572 c.p.

La giurisprudenza della Cassazione penale ci aiuta, innanzitutto, a delineare i caratteri fondamentali del reato di maltrattamenti in famiglia, individuato dalla Suprema Corte come una “fattispecie necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo” (cfr. Cass. pen., sez. VI, n. 24375/16).

Al riguardo, gli Ermellini hanno specificato anche che tale serie di fatti è integrata da comportamenti che, “isolatamente considerati, potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), idonei a cagionare nella vittima durevoli sofferenze fisiche e morali” (Cass. pen., sez. III, n. 16543/17).

Maltrattamenti in famiglia, l’elemento soggettivo del reato

Quanto all’elemento soggettivo del reato, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “il delitto previsto dall’art. 572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza” (Cass. pen., sez. VI, n. 10901/17).

Dal punto di vista della persona offesa, invece, è stato rilevato che “in tema di maltrattamenti in famiglia, a fronte di condotte abitualmente vessatorie, che siano concretamente idonee a cagionare sofferenze, privazioni ed umiliazioni, il reato non è escluso per effetto della maggiore capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa, non essendo elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice la riduzione della vittima a succube dell’agente” (Cass. pen., sez. VI, n. 809/22).

Cassazione: il concetto di convivenza di cui all’art. 572 c.p.

Un aspetto importante della disciplina del reato in oggetto riguarda il concetto di convivenza, richiamato dal testo della norma. A tal proposito, è stato chiarito che, “ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, il concetto di “convivenza”, in ossequio al divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici, va inteso nell’accezione più ristretta, presupponente una radicata e stabile relazione affettiva caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo” (Cass. pen, Sez. VI, n. 38336/22).

La realtà dei fatti dimostra spesso che le condotte che integrano il reato di maltrattamenti in famiglia si manifestano nel contesto di convivenze di coppia che tendono a concludersi. In questo senso, è importante evidenziare il costante orientamento della Cassazione a considerare come maltrattamenti in famiglia anche le condotte che proseguono dopo la separazione, prevedendo che alle stesse venga applicata la disciplina prevista dall’art. 572 c.p. e non quella, meno punitiva, prevista dall’art. 612-bis c.p. in tema di atti persecutori, cioè di stalking.

Secondo la Suprema Corte, infatti, “integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza” (Cass. pen., sez. VI, n. 45400/22).

bando prestiti giovani avvocati

Giovani avvocati: prestiti agevolati Cassa Forense ha pubblicato il bando 2024 per la concessione di prestiti agli avvocati under35

Bando prestiti giovani avvocati

Prestiti fino a 15mila euro con rimborsabilità fino a 5 anni e abbattimento degli interessi al 100% . E’ quanto prevede il bando 2024 per prestiti agevolati per gli avvocati under35 iscritti a Cassa Forense.

L’obiettivo è quello di “facilitare l’accesso dei giovani avvocati al mercato del credito, al fine di far fronte alle spese di avviamento dello studio professionale nei primi anni di esercizio dell’attività”.

Beneficiari

Possono beneficiare dell’iniziativa gli iscritti alla Cassa, esclusi i praticanti, che non abbiano compiuto il 35° anno di età alla data di presentazione della domanda e che non abbiano in corso un altro prestito riguardante precedenti analoghi bandi della Cassa Forense.

Inoltre, ai fini dell’ammissione al bando il richiedente deve essere in regola con le prescritte comunicazioni reddituali alla Cassa (modelli 5) e con il pagamento dei contributi previdenziali nei confronti dell’Ente, con possibilità di presentare all’atto della domanda richiesta di regolarizzazione spontanea o di aderire ad accertamenti già avviati dalla Cassa.

Il reddito infine non deve essere superiore a 40mila euro.

Come fare domanda

La richiesta di prestito deve essere inviata entro il 31/10/2024, a pena di inammissibilità, alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense esclusivamente tramite l’apposita procedura online attivata sul sito dell’ente. Non sono ammesse domande presentate con modalità e/o canali diversi.