Pitbull morde il vicino: sempre colpevole il padrone Per la Cassazione, il proprietario di un pitbull risponde di lesioni personali per il morso dato dall’animale, non essendo scriminato il dovere di vigilanza del proprietario sul cane se quest’ultimo si trova in custodia presso altri soggetti

Reato di lesioni personali colpose per il morso di un pitbull

Nel caso in esame, il Tribunale di Ferrara, in funzione di giudice di secondo grado, aveva ritenuto che il proprietario di un cane di razza pitbull fosse responsabile di lesioni personali colpose a causa delle lesioni provocate dal morso dato dall’animale ad un vicino di casa.

Avverso tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, contestando il fatto che egli, al momento dell’evento lesivo, non si trovasse in casa e che il cane fosse invece nel possesso temporaneo della madre.

Cassazione: non scriminato il dovere di vigilanza dell’imputato

La Corte di Cassazione, con sentenza n. Cass-21027-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Nella specie e per quanto qui rileva, la Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha condiviso le conclusioni cui era giunto il Giudice di merito, ovvero che “il dovere di vigilanza del proprio animale non sarebbe scriminato neanche nell’ipotesi in cui il (proprietario) non fosse stato in casa e avesse lasciato il cane in custodia alla di lui madre (…) poiché anche in caso di sua assenza, al medesimo competeva comunque l’obbligo di fornire alla temporanea custode ogni tipo di informazione preventiva necessaria, idonea ad evitare che il cane potesse scappare di casa o recare pregiudizio a terzi”.

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giurista risponde

Prescrizione azione di ripetizione per somme illegittimamente addebitate In caso di somme illegittimamente addebitate al cliente dalla banca, da quando decorre il dies a quo del termine di prescrizione per l’azione di ripetizione?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

La ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Il dies a quo della prescrizione inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo. – Cass., sez. I, 26 febbraio 2024, n. 5064.

La pronuncia della Suprema Corte trae origine dall’iniziativa giudiziaria di una società nei confronti della banca presso la quale aveva acceso un rapporto di conto corrente fin dall’anno 1981. La correntista chiedeva la restituzione delle somme illegittimamente addebitate dall’istituto di credito a titolo di interessi anatocistici. La banca eccepiva la prescrizione in relazione agli addebiti aventi natura di rimesse solutorie effettuati sul conto in data anteriore al decennio dalla notifica della citazione. Il Tribunale rigettava l’eccezione della banca ritenendo che la stessa non avesse indicato le rimesse solutorie e accoglieva la domanda dell’attrice provvedendo alla rideterminazione del saldo in seguito ad una c.t.u. contabile.

La decisione veniva riformata dal giudice del gravame sul presupposto che incombesse sulla correntista produrre in giudizio tutti gli estratti conto a partire dalla data di apertura del contratto.

Secondo la Corte di Appello solo attraverso l’integrale ricostruzione dei rapporti di dare/avere tra le parti si sarebbe potuti pervenire alla determinazione dell’eventuale credito della correntista e alla quantificazione degli importi da espungere, non essendo sufficienti a tale fine gli estratti conto scalari in quanto rappresentativi dei soli conteggi degli interessi attivi e passivi, senza possibilità di individuare le operazioni alla base delle annotazioni degli interessi e dei movimenti effettuati nell’arco di tempo considerato.

La società ha così proposto ricorso in Cassazione lamentando in prima battuta l’erronea statuizione riguardo la ripartizione degli oneri probatori con riferimento all’eccezione di prescrizione considerando che l’onere probatorio di un fatto estintivo incombe sul soggetto che lo eccepisce.

Secondariamente si è censurata l’erronea valutazione dei fatti costituivi posti a fondamento della domanda, posto che la ragione della produzione degli estratti conto scalari con riferimento ad un limitato periodo di tempo del conto corrente dipendeva dalla domanda, limitata a quell’intervallo temporale, con esplicita rinuncia a qualsiasi contestazione quanto ai periodi per i quali non vi era documentazione contabile. Si aggiungeva, altresì, l’assenza di una motivazione per il mancato accoglimento delle risultanze espresse nella consulenza tecnica.

In ultimo, veniva contestata la natura migliorativa della capitalizzazione degli interessi introdotta dalla delibera del Cicr del 9 febbraio del 2000 rispetto alla clausola anatocistica precedentemente applicata.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ricorda preliminarmente come in tema di prescrizione estintiva, l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte anteriore (così anche Cass., Sez. Un., 13 giugno 2019, n. 15895 – termine di prescrizione estintiva).

Tuttavia, ricorda la Corte che il principio opera solo sul versante dell’onere di allegazione ammettendo una simmetria, in quanto così come il correntista può limitarsi a indicare l’esistenza di versamenti indebiti e chiederne la restituzione previa verifica del saldo del conto, anche la banca può a sua volta limitarsi ad allegare l’inerzia dell’attore per il tempo necessario alla prescrizione.

Ciò posto, il problema delle rimesse solutorie si sposta sul piano dell’onere probatorio per cui all’allegazione consegue la prova della parte su cui, per legge, incombe il relativo onere, anche facendo luogo a una c.t.u., cosicché le relative risultanze probatorie vengano valutate dal giudice.

A tal riguardo, la Corte di Appello aveva disatteso le risultanze della consulenza tecnica sul presupposto di una non idonea documentazione in grado di evidenziare l’esistenza di rimesse con funzione solutoria, sostenendo come il conto corrente era contraddistinto dalla mancanza di affidamenti e ricavandone la funzione solutoria per tutte le rimesse, salvo prova contraria della correntista.

Tale motivazione viene ritenuta affetta da un’incongruenza logica in quanto, nel caso in cui un cliente citi in giudizio l’istituto di credito domandando la ripetizione di quanto indebitamente pagato a titolo di interessi anatocistici, relativamente ad un contratto di apertura di credito regolato in conto corrente, “la ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Questo si rende necessario ai fini della decorrenza del dies a quo della prescrizione, termine che inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo” (termine di prescrizione per l’azione di ripetizione).

Spostandosi sul versante dell’onere probatorio a carico della correntista censurato dalla Corte di Appello, la Cassazione afferma che una volta esclusa la validità della pattuizione di interessi anatocistici a carico della stessa, occorre distinguere il caso in cui essa è convenuta da quella in cui sia attrice. In quest’ultimo caso, invero, l’accertamento del dare e dell’avere può aversi tramite l’utilizzo di prove che forniscano indicazioni certe e complete tese a dar ragione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto, in quanto l’estratto è un documento formato e proveniente dalla banca.

Da ciò deriva che è possibile ricostruire l’effettività del saldo finale partendo dai documenti esibiti dal correntista e provenienti dalla banca, anche tramite elaborazioni tecniche dei dati risultanti dai riassunti scalari così come anche statuito da Cass., sez. I, 18 aprile 2023, n. 10293.

Nel caso in esame, essendo il correntista ad agire in giudizio per la rideterminazione del saldo e la correlata ripetizione delle somme indebitamente considerate, ed avendo egli prodotto il primo degli estratti conto scalari con un saldo iniziale a suo debito, è legittimo ricostruire il rapporto con le prove che offrano indicazioni o diano giustificazione di un saldo diverso nel periodo di riferimento per effetto della eliminazione delle voci o delle competenze illegittimamente applicate fino a quel momento. In tal modo, la base di calcolo può essere determinata proprio sul saldo iniziale del primo degli estratti conto acquisiti al giudizio, dato che questo costituisce un documento redatto dalla controparte in funzione riassuntiva delle movimentazioni del conto corrente, e rimane, nel quadro delle risultanze di causa, il dato più sfavorevole alla stessa parte attrice.

Su tali assunti, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà uniformarsi ai principi esposti.

*Contributo in tema di “ termine di prescrizione per l’azione di ripetizione ”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

incompetenza avvocati

L’avvocato incompetente viola il codice deontologico Il CNF conferma la decisione del CDD di Bologna, che ha sanzionato due avvocati, colpevoli di aver accettato un incarico senza avere la necessaria competenza

Illecito disciplinare avvocati

La sentenza n. 23-2024 del Consiglio Nazionale Forense ribadisce l’importanza del rispetto delle norme deontologiche nell’esercizio della professione forense, sottolineando come la richiesta di compensi non concordati e l’accaparramento di clientela tramite terzi siano pratiche inaccettabili. La decisione del CNF conferma però e soprattutto che gli avvocati devono operare con trasparenza, competenza e nel rispetto degli accordi stabiliti con i clienti e i terzi coinvolti.

Il procedimento che si conclude con la sentenza del CNF nasce dalla richiesta di opinamento della parcella di due avvocati relativa ad alcune prestazioni legali fornite in favore di un loro “assistito”. Quest’ultimo avrebbe incaricato gli avvocati di promuovere un’azione legale contro una Banca per un contratto di mutuo ritenuto usurario. Alla fine della causa, gli avvocati avevano inviato al cliente una nota pro-forma di € 14.170,17.

L’assistito si opponeva alla richiesta e chiedeva che la sua difesa fosse considerata anche come esposto contro i suoi avvocati. Egli dichiarava di non ricordare di aver mai incontrato gli avvocati personalmente, ma solo un loro collaboratore. Inoltre, sosteneva di non aver mai ricevuto copia dell’atto di citazione né informazioni sullo stato della causa, salvo la notizia della sentenza sfavorevole. Alcune informazioni le aveva ottenute solo tramite un’impiegata della società che aveva eseguito l’analisi contabile del rapporto con la banca e che aveva suggerito gli avvocati.

Incompetenza sanzionata dal codice deontologico forense

Il Consiglio di Distrettuale di Disciplina di Bologna avviava un procedimento disciplinare contro gli avvocati contestando loro tre violazioni:

  1. violazione dell’art. 9 del Codice Deontologico Forense: per aver richiesto al cliente una somma superiore a quella pattuita con la società di analisi contabile;
  2. violazione dell’art. 19 del Codice Deontologico Forense: per accaparramento di clientela tramite la stipula di un contratto con la società, impegnandosi a retrocedere alla stessa una percentuale dei compensi professionali.
  3. violazione dell’art. 12 del Codice Deontologico Forense: per mancanza di adeguata competenza tecnica nel patrocinare l’assistito nel giudizio contro la Banca.

Il CDD di Bologna, esaminati i documenti e sentite le testimonianze, riteneva provate tutte le condotte contestate. In particolare:

  • gli avvocati avevano richiesto al cliente somme diverse e maggiori rispetto a quelle stabilite con la società;
  • avevano sottoscritto un accordo con la società che prevedeva una retrocessione dei compensi e la limitazione dell’indipendenza professionale;
  • non avevano prodotto in giudizio la documentazione necessaria a sostenere le domande, mancando quindi di competenza. 

Il CDD di Bologna infliggeva la sospensione di due mesi dall’esercizio della professione per un avvocato e la censura per l’altro difensore.

Corrette le sanzioni irrogate

Gli avvocati presentavano ricorso al Consiglio Nazionale Forense, chiedendo l’annullamento o la riduzione delle sanzioni. Nelle memorie difensive, essi sostenevano:

  • l’assenza di un accordo per la determinazione del compenso con il cliente.
  • la revoca del mandato da parte dell’“assistito”che aveva fatto venir meno la copertura assicurativa prevista in caso di esito sfavorevole della causa;
  • l’assenza di un rapporto che potesse configurare il divieto di accaparramento di clientela, poiché la società era un semplice terzo che offriva servizi di supporto;
  • la correttezza e completezza della documentazione presentata a sostegno della causa.

Il CNF, esaminati i fatti e le memorie difensive, confermava in gran parte la decisione del CDD di Bologna. In particolare, il CNF riteneva che:

  • la richiesta di somme superiori a quelle concordate con la società costituisse una violazione del dovere di lealtà e correttezza;
  • la convenzione con la società che prevedeva la retrocessione di parte dei compensi, violasse il divieto di accaparramento di clientela;
  • la mancata produzione della documentazione necessaria in giudizio fosse un errore elementare, indicativo di mancanza di competenza. 

Confermata quindi la responsabilità degli avvocati e le sanzioni irrogate dal CDD.

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ecobonus auto 2024

Ecobonus auto: come ottenerlo Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto che prevede i nuovi incentivi per l’acquisto di veicoli non inquinanti nel 2024

Ecobonus auto basse emissioni: decreto in GU

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 121 del 25 maggio 2024 è stato pubblicato il decreto del presidente del consiglio dei ministri del 20 maggio, che ha provveduto alla rimodulazione degli incentivi per l’acquisto dei veicoli a basse emissioni inquinanti.

Ecobonus veicoli: a chi spetta

Dalla fase di entrata in vigore del decreto ed entro il 31 dicembre 2024 gli incentivi vengono riconosciuti ai seguenti soggetti e alle seguenti condizioni:

  • alle persone fisiche e giuridiche al di fuori di coloro che esercitano attività con codice ATECO 45.10.0 che acquistano, anche con contratto di locazione finanziaria, e immatricolano in Italia veicoli di categoria M1 nuovi e omologati in una classe non inferiore a Euro 6 con immissioni comprese nella fascia 0-20 g/km di CO2 al prezzo pari o inferiore a 35.000 euro, Iva esclusa, l’incentivo è pari a 6000 euro. Spettano ulteriori 5000 euro se contestualmente viene rottamato un veicolo omologato in una classe da euro 0 a euro 2, ulteriori 4000 eur se viene rottamato un veicolo omologato nella classe euro 3, ulteriori euro 3000 se viene rottamato un veicolo omologato nella classe euro 4;
  • alle persone fisiche e giuridiche, escluse quelle che esercitano attività con codice ATECO  11.0, che acquistano, anche con contratto di leasing e immatricolano in Italia veicoli di categoria M1 nuovi e omologati in una classe non inferiore a Euro 6, con emissioni comprese tra 21-60 g/km di CO2, con prezzo pari o inferiore a 45.000 euro  IVA esclusa, l’incentivo è di euro 4.000  a cui si sommano ulteriori euro 4.000 se contestualmente viene rottamato un veicolo omologato in una classe da  Euro 0 a Euro 2, o ulteriori euro 2.000 se il veicolo rottamato  è omologato nella classe Euro  3, o di  ulteriori euro 1.500 se il veicolo rottamato è omologato nella classe Euro 4;
  • alle persone fisiche che acquistano, anche in leasing e immatricolano in Italia veicoli di categoria M1 nuovi e omologati in una classe non inferiore a Euro 6, con emissioni comprese nei valori  61-135  g/km di CO2, al prezzo di listino pari o inferiore a 35.000 euro IVA esclusa, il contributo è di euro 3.000 se contestualmente viene rottamato un veicolo omologato in una classe da Euro 0 a Euro 2, o di euro 2.000 se viene rottamato  un veicolo omologato nella classe Euro 3 o di euro 1.500 se viene rottamato un veicolo omologato nella classe Euro 4;
  • alle persone fisiche e giuridiche, escluse quelle che svolgono attività con codice ATECO  40.1, che acquistano, anche in leasing e immatricolano in Italia veicoli elettrici nuovi appartenenti alle categorie  L1e,  L2e,  L3e, L4e, L5e, L6e e L7e il contributo è pari al 30% del prezzo di acquisto, fino a euro  3.000. Il contributo e’ invece del 40% del prezzo di acquisto, fino 4.000 euro, qualora venga consegnato per la rottamazione un veicolo di categoria euro 0, 1, 2 o 3  di  cui il beneficiario e’ proprietario o intestatario da almeno 12 mesi o di cui sia intestatario o proprietario, da almeno dodici mesi, un  familiare convivente;
  • alle piccole e medie imprese che svolgono attività di trasporto di cose in conto proprio o in conto terzi che acquistano, anche in leasing, e immatricolano in Italia veicoli commerciali di categoria N1 e N2 nuovi, spetta un contributo differenziato in base alla massa totale a terra e all’alimentazione del veicolo, secondo la tabella allegata. Per i  veicoli commerciali di categoria N1 e N2 ad alimentazioni alternative (CNG-GPL mono e bifuel, Ibrido) e  tradizionali, il riconoscimento del contributo e’ subordinato rottamazione contestuale di un veicolo della stessa categoria omologato in  una classe fino a Euro 4. Il 25% delle risorse dedicate a questi veicoliè destinato all’acquisto di veicoli esclusivamente elettrici;
  • alle persone fisiche che acquistano, anche in leasing, veicoli usati di categoria M1, di prima immatricolazione in Italia, che non hanno beneficiato degli incentivi previsti dalla legge n. 145/2018, dalla legge n. 178/2020 e dal DpCm del 6 aprile 2022, omologati in una classe non inferiore a Euro 6, con emissioni fino a 160 g/km di  CO2, con prezzo non superiore a 25.000  euro, il  contributo è  di  euro  000 se contestualmente viene rottamato un veicolo della stessa categoria, omologato in una classe fino a Euro 4, di cui l’acquirente o un familiare convivente siano proprietari o intestatari da almeno 12 mesi;
  • alle persone fisiche con contratto di noleggio a lungo termine per la locazione di durata non inferiore a 3 anni di uno dei veicoli di cui ai primi tre punti è riconosciuto un contributo, nei limiti degli  stanziamenti  Un decreto del Ministero delle imprese e del made in Italy, che verrà adottato entro 120 giorni  dalla entrata in vigore del presente decreto, individuerà  l’entità del contributo, i criteri e le modalità per beneficiarne;
  • per i veicoli di categoria L1e, L2e, L3e, L4e, L5e, L6e, L7e, nuovi, che non beneficiano della incentivazione prevista al punto 4, omologati in una classe non inferiore a Euro 5, ma che godono di uno sconto pari almeno al 5% del prezzo di acquisto, il contributo è pari al del 40% del prezzo d’acquisto, fino euro 2.500  se contestualmente viene rottamato un veicolo di categoria euro 0, 1, 2 o 3 o che sia stato oggetto di  ritargatura obbligatoria come previsto dal decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti del 2 febbraio 2011.

Maggiorazioni: veicoli MI, licenze taxi e noleggio

L’articolo 3 del decreto prevede per i soggetti di cui ai punti A e B dell’articolo 2 un aumento del 25% del contributo se l’acquirente è una persona fisica con un ISEE inferiore a 30.000 euro. Detto contributo è riconosciuto anche quando la persona fisica contestualmente rottami un veicolo omologato nella classe euro 5. Il contributo per l’ipotesi di cui al punto A è pari a 8000 euro, per l’ipotesi di cui al punto B è di euro 5000.

L’articolo quattro prevede invece una maggiorazione del contributo per l’acquisto di veicoli di categoria M1 da parte di soggetti che siano titolari di licenze di taxi e di soggetti autorizzati al servizio di noleggio con conducente. Contributi particolari vengono riconosciuti a chi installa impianti a GPL e metano per autotrazione su veicoli appartenenti alla categoria M1.

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giustizia accelera ufficio processo

La giustizia accelera grazie all’ufficio per il processo La ricerca sugli effetti dell'ufficio per il processo sul funzionamento della giustizia civile mostra riflessi positivi sull'abbattimento dell'arretrato e la riduzione dei tempi dei processi

Ufficio per il processo, acceleratore della giustizia civile

L’assunzione degli addetti Upp prevista dal Pnrr ha avuto un impatto positivo sulla definizione dei processi, soprattutto i più complessi, con riflessi positivi anche sull’abbattimento dell’arretrato e la riduzione dei tempi. A dirlo, come riporta via Arenula sul proprio sito, sono i dati del lavoro “Gli effetti dell’ufficio per il processo sul funzionamento della giustizia civile” condotto da un gruppo di ricercatori del Ministero della Giustizia e della Banca d’Italia nell’ambito di un accordo di collaborazione per la valutazione dell’impatto delle misure del Pnrr.

Il testo completo della ricerca – curata da Mario Cannella, Marialuisa Cugno, Sauro Mocetti, Giuliana Palumbo, Gianluca Volpe – sarà pubblicato a breve.

Nel frattempo, spiega il ministero che le stime, sin dall’immissione del primo gruppo di addetti Upp, nel primo trimestre 2022, fino alla fine del 2023, “mostrano come i tribunali che hanno ricevuto un numero maggiore di addetti hanno registrato una variazione nel numero dei procedimenti definiti di circa 4 punti percentuali più elevata; per i procedimenti più complessi la variazione è di circa 10 punti percentuali”.

Un incremento complessivo valutabile in circa 100.000 procedimenti civili all’anno, pari a circa 1/3 dell’arretrato 2019.

“Il contributo degli addetti risulta essere maggiore nei tribunali che prima della pandemia avevano già livelli di produttività elevata – prosegue via Arenula -, segno che gli uffici con maggiore capacità organizzativa hanno saputo sfruttare meglio le nuove risorse”.

L’analisi ha messo in luce solo gli effetti di breve periodo, “nella consapevolezza che solo in un orizzonte temporale più lungo sarà possibile osservare a pieno i benefici – in termini di quantità e qualità – di una nuova organizzazione del lavoro all’interno degli uffici giudiziari”.

protocollo tutela professionisti

Minacce ai professionisti: siglato il protocollo E' stata firmata l'intesa al Viminale tra avvocati, notai e commercialisti e dipartimento della pubblica sicurezza per la tutela dei professionisti

Protocollo a tutela dei professionisti

“Monitorare gli episodi intimidatori compiuti nei confronti degli avvocati, dei commercialisti e dei notai chiamati a svolgere funzioni sussidiarie delle Autorità giudiziarie e indipendenti”. È questo l’obiettivo ispiratore dell’intesa firmata ieri pomeriggio al Viminale tra il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, il Consiglio Nazionale Forense, il Consiglio Nazionale dei Commercialisti e il Consiglio Nazionale del Notariato.

L’accordo è stato firmato dal Capo della Polizia – Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, Prefetto Vittorio Pisani; dal Vicepresidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Napoli; dal Presidente del Consiglio Nazionale dei Commercialisti, Elbano de Nuccio; dal Presidente del Consiglio Nazionale del Notariato, Giulio Biino. Presente anche il Prefetto Annunziato Vardé, Direttore dell’Ufficio per il Coordinamento e la Pianificazione delle Forze di Polizia.

Al via l’Osservatorio dedicato

“L’istituzione di un Osservatorio dedicato consentirà di avere un quadro completo del fenomeno e di mettere in campo azioni concrete per contrastarlo. L’intimidazione dei professionisti rappresenta un attacco al diritto di difesa e al corretto funzionamento della giustizia” spiega il presidente del CNF, Francesco Greco.

Il protocollo, conclude, è “un passo fondamentale nella tutela degli avvocati e di tutti i professionisti che, nell’esercizio delle loro funzioni, subiscono minacce e intimidazioni”.

guida bonus fiscali

Agevolazioni fiscali: online le guide sui bonus L'Agenzia delle Entrate ha reso disponibile online le guide "Tutte le agevolazioni della dichiarazione 2024"

Online le guide sui bonus fiscali per i cittadini

Dalle spese sanitarie agli interessi sul mutuo prima casa, passando per contributi previdenziali, premi assicurativi e bonus edilizi. Sono alcune delle guide alle agevolazioni della dichiarazione 2024, rese disponibili online sul sito dell’Agenzia delle Entrate.

Il fine è quello, si legge nella nota stampa del fisco, di mettere a disposizione dei cittadini “con informazioni complete e aggiornate, tutto ciò che occorre per beneficiare dei vari sconti fiscali di cui è possibile usufruire”.

Una “guida” per ogni argomento

Per agevolare la consultazione, ad ogni tema della raccolta “Tutte le agevolazioni della dichiarazione 2024” è dedicata una guida: spese sanitarie, interessi sui mutui, spese di istruzione, erogazioni liberali, premi di assicurazione, ecc. Nella raccolta anche le guide tematiche sui diversi bonus casa: ristrutturazioni, riqualificazione energetica, bonus mobili e superbonus.

Le guide, al passo con le novità normative e i documenti di prassi dell’Agenzia, forniscono chiarimenti anche alla luce delle risposte fornite ai quesiti di cittadini e addetti ai lavori. Previsto anche, concludono le Entrate, “un focus sui documenti che i contribuenti devono presentare a Caf e professionisti abilitati e sulle regole che questi ultimi devono osservare nella conservazione della documentazione”.

lavoro pensionati PA

Lavoro ai pensionati nelle Pubbliche Amministrazioni La Corte dei Conti ha dato l'ok chiarendo che gli incarichi vietati sono solo quelli espressamente contemplati dalla legge, quali, ad esempio, incarichi di studio e di consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi

Conferimento incarichi al personale in pensione

Il caso in esame prende avvio dalla richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di Cassino, ai sensi dell’art. 7, comma 8, l. 5 giugno 2003, n. 131, avente ad oggetto la possibilità di conferire un incarico retribuito ad un dipendente che si trovava in stato di recente quiescenza.

In particolare, il Sindaco ha chiesto se “al fine di prestare affiancamento al personale in servizio, prettamente assistenza, supporto e formazione prettamente operativa, senza svolgere attività di studio consulenza, né alcun tipo di attività riferibile all’espletamento di funzioni direttive o dirigenziali… è legittimo affidare al suddetto funzionario, successivamente alla data del suo collocamento in quiescenza, l’incarico temporaneo e straordinario a titolo oneroso di assistenza, di supporto, di affiancamento e di formazione operativa per il personale dell’ufficio tributi, precisando che l’attività oggetto della prestazione non consisterebbe né in un’attività di studio e/o di consulenza, né l’espletamento di funzioni direttive e dirigenziali, ma semplicemente una mera condivisione dell’esperienza maturata dal funzionario in quiescenza nell’esercizio delle mansioni in precedenza affidategli”.

Incarichi vietati: il quadro normativo e giurisprudenziale

La Corte dei Conti, con deliberazione n. 80-2024, ha ritenuto che “la tassatività delle fattispecie vietate dal Legislatore (…) fa sì che le attività consentite, per gli incarichi si ricavino a contrario”.

Nell’ambito della propria deliberazione, la Corte ha anzitutto esaminato il quadro normativo, amministrativo e giurisprudenziale di riferimento.

In particolare, è stato preso in considerazione l’art. 5, comma 9, del D.L. n. 95 del 6 luglio 2012, ove è contenuto un principio generale di divieto di conferimento di incarichi di studio e consulenza, e/o dirigenziali o direttivi, a soggetti in quiescenza.

La norma in questione, per quanto qui rileva, stabilisce che “è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché alle amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) ai sensi dell’art. 1, comma 2, della l. 31 dicembre 2009, n. 196, nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza. Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società da esse controllati (…)”.

In esecuzione della suddetta disposizione normativa, il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione ha successivamente emanato due circolari.

La prima di esse, ovvero quella del 4 dicembre 2014, n. 6 statuisce che “(…) Incarichi vietati, dunque, sono solo quelli espressamente contemplati: incarichi di studio e di consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi, cariche di governo nelle amministrazioni e negli enti e società controllati». «Un’interpretazione estensiva dei divieti in esame potrebbe determinare un’irragionevole compressione dei diritti dei soggetti in quiescenza, in violazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale».

La successiva circolare, del 10 novembre 2015, n. 4, prevede invece che il divieto posto dall’art. 9 del D.L. n. 95 del 2012 “riguarda anche le collaborazioni e gli incarichi attribuiti ai sensi 5 dell’art. 14 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e dell’articolo 90 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. Come già osservato nella circolare n. 6 del 2014, infatti, in assenza di esclusioni al riguardo, devono ritenersi soggetti al divieto anche gli incarichi dirigenziali, direttivi, di studio o di consulenza, assegnati nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione di organi politici”.

Nella medesima direzione si è anche espressa la giurisprudenza formatasi in seno alla Corte dei Conti stessa, secondo cui “il conferimento a titolo oneroso di incarichi e cariche in favore di soggetti già collocati in quiescenza, per essere legittimo necessita, quindi di una effettiva (e non elusiva) esclusione dal campo di applicazione del divieto previsto dall’art. 5, comma 9, del decreto n. 95/2012)”.

Corte dei Conti: ammesso l’incarico non vietato

In ragione di quanto sopra riferito, la Corte dei Conti ha pertanto concluso il proprio esame ritenendo che “La tassatività delle fattispecie vietate dal Legislatore (…) fa sì che le attività consentite, per gli incarichi si ricavino a contrario”.

Si tratta, quindi, ha proseguito la Corte “di verificare se gli incarichi da conferire, ai sensi dell’articolo 5 comma 9, del D.L. n. 95/2012, siano non solo astrattamente non ricompresi nel divieto normativo, in quanto non rientranti nell’elencazione tassativa della norma, ma comportino o meno lo svolgimento, in concreto, di funzioni riconducibili agli incarichi normativamente vietati”.

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privacy condominio

Privacy: amministratore responsabile del trattamento L’amministratore quale responsabile del trattamento dei dati del condominio

Privacy condominio

Sul tema il Garante si è espresso una prima volta nel 2006 con provvedimento intitolato “Amministrazione dei condomini”  del 18 maggio,  riconducendo in capo al condominio la titolarità del trattamento (documento web numero 1297626 punto 2). Il condominio, infatti, in virtù della disciplina normativa che lo regola nei suoi vari aspetti, agisce per il tramite dell’amministratore formalmente designato dall’assemblea al quale vengono attribuiti specifici poteri di rappresentanza.

Designazione amministratore non necessaria

Il Garante si è anche espresso nel senso di non ritenere necessaria  la designazione formale dell’amministratore quale responsabile del trattamento: ritenendo che essa costituisce una mera eventualità dovendosi intendere che in caso contrario l’amministratore operasse comunque per conto del condominio in virtù del rapporto di mandato presupposto inerente proprio il trattamento dei dati attraverso un impianto di videosorveglianza condominiale (vedi il provvedimento il 6 Aprile 2017 numero 6517060).

Quest’ultimo aspetto ovvero quello dell’eventuale nomina dell’amministratore a responsabile del trattamento veniva esplicitato in modo ancor più chiaro nel menzionato vademecum del 2013 laddove si diceva che l’assemblea può decidere di disegnarlo anche formalmente responsabile del trattamento dei dati personali dei partecipanti al condominio attribuendogli così  uno specifico ruolo in materia di  privacy.

Dopo l’introduzione del regolamento web 2016 numero 679 nell’ambito della relazione sull’attività svolta nel corso del 2019 l’autorità garante ha colto l’occasione per confermare questa indicazione e per ribadire che le informazioni personali riferibili a ciascun partecipante possono essere trattate per la finalità di gestione di amministrazione del condominio e che possono essere per tali ragioni condivise all’interno della compagine condominiale tenendo anche conto che i condomini devono essere titolari di un medesimo trattamento dei dati di cui l’amministratore agente in eventuale veste di responsabile del trattamento alla concreta gestione.

Conferimento formale all’amministratore

L’autorità garante non ha dunque preso posizioni chiare sull’obbligatorietà o meno di regolare il rapporto tra amministratore e condominio secondo quanto previsto dall’articolo 28 GDPR ovvero attraverso la sottoscrizione di un contratto o altro atto giuridicamente vincolante ma l’articolo 28 prevede che qualora un trattamento debba essere effettuato per conto del Titolare del trattamento quest’ultimo ricorre unicamente ad un  responsabile del trattamento che presenti garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo tale che il trattamento soddisfi i requisiti del presente regolamento e garantisca la tutela dei diritti dell’interessato.

Il Titolare del trattamento dovrà dunque accertarsi che la catena di trattamento dei dati dallo stesso innescato sia rispettosa della normativa e dei diritti alla riservatezza del singolo anche nel caso in cui il Titolare del trattamento decida di avvalersi di altri soggetti.

Per quanto sopra si ritiene raccomandabile il conferimento di un formale incarico all’amministratore del condominio da parte dell’assemblea rispettoso dei contenuti indicati nell’articolo 28 del GDPR il che consentirà anche di dare attuazione concreta al principio della accountability. Solo così difatti il condominio potrà dare prova di aver preso atto delle condizioni di sicurezza offerte dal professionista che ne detiene, custodisce e tratta in vario modo i dati.

stalking condominiale

Stalking per il condomino che altera le abitudini di vita degli altri Si configura il reato di cui all’art. 612-bis c.p. qualora le molestie siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita

Riqualificazione del reato

Nel caso di specie e per quanto qui rileva, la Corte d’appello di Milano aveva provveduto a riqualificare il delitto di cui agli artt. 81 e 612-bis c.p., parzialmente aggravato dall’odio razziale, nella contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

Avverso tale decisione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La condotta molestatrice

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21006-2024, ha riqualificato l’appello come indicato nel ricorso proposto e ha annullato la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 660 c.p., con rinvio al Tribunale di primo grado per il giudizio.

La Corte ha ritenuto tale doglianza ammissibile posto che nell’ambito del delitto di cui all’art. 612-bis c.p. l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, posto che è proprio dalla loro reiterazione “che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che (…) degenera in uno stato di prostrazione psicologica”.

Pertanto, ha precisato la Corte, qualora la vittima entri in uno stato di perdurante ansia e modifica le proprie abitudini di vita a fronte delle condotte reiterate dell’imputato è integrato il reato di atti persecutori; qualora, invece, la condotta molestatrice sia tale da (solo) infastidire la vittima, allora viene in rilievo il reato di molestia o disturbo alle persone.

Ne consegue che la linea di demarcazione tra i due reati è rappresentata dalle conseguenze psicologiche che la condotta molestatrice è in grado di ingenerare nella persona offesa.

Stalking condominiale

Nel caso di specie, l’insieme degli elementi fattuali, emersi nel corso del giudizio di merito, non potevano che far propendere per la qualificazione della condotta molestatrice in termini di atti persecutori a norma dell’articolo 612 bis del Codice penale, posto che erano state riscontrati comportamenti dell’imputato idonei a determinare uno stato di ansia a carico della persona offesa che pervadevano la sua vita, al punto di modificarne le abitudini normali.

Quanto sopra, evidenzia la Corte, è desumibile da alcuni aspetti rilevati nel corso del giudizio di merito, quali, ad esempio le dichiarazioni della vittima con cui aveva riferito di “vivere con il timore” di trovarsi davanti l’imputato quando accedeva a casa, nonché di aver paura di uscire di casa, affermando di “vivere male” tali stati d’animo; le dichiarazioni delle persone offese, confermate dal teste, con cui veniva riferita la scelta di trasferirsi altrove, anche e soprattutto a causa del disturbi arrecato dall’imputato; le dichiarazioni dei coniugi vittime della condotta molestatrice con cui veniva evidenziato che gli stessi avevano vissuto “in ansia e paura” e ciò a causa dei comportamenti dell’imputato tra cui la “forzatura” della porta d’ingresso della loro abitazione. Infine, ha evidenziato la Corte, la perizia fornita dal consulente tecnico del pubblico ministero aveva riscontrato nell’imputato una significativa patologia, collegata alla “costante esposizione al rapporto con il vicinato”, tale da renderlo socialmente pericoloso.

 

 

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