contributo unificato

Contributo unificato errato? Scatta la compensazione delle spese La Cassazione chiarisce che un errore nella determinazione del contributo unificato da parte dell'avvocato può giustificare la compensazione delle spese processuali

Contributo unificato errato e spese processuali

Un errore nella determinazione del contributo unificato può giustificare la compensazione integrale delle spese processuali. A stabilirlo è la Cassazione, terza sezione civile, con l’ordinanza n. 13145/2025, depositata il 20 maggio 2025.

La vicenda processuale

Nel giudizio d’appello, la parte ricorrente aveva erroneamente indicato come valore della controversia la somma di € 1.200,71, ai fini del pagamento del contributo unificato. Secondo la ricorrente, tale importo non avrebbe dovuto influenzare il valore effettivo della domanda. Riteneva che la liquidazione delle spese fosse stata operata su un errato scaglione tariffario.

Tuttavia, la Corte aveva condannato la parte a rimborsare € 1.378, oltre accessori. La ricorrente chiedeva invece che fosse applicato lo scaglione inferiore (fino a € 1.100), con liquidazione delle spese pari a € 332 oltre CPA, IVA e accessori.

Il principio di diritto espresso dalla Cassazione

Secondo la S.C., la dichiarazione del difensore relativa al contributo unificato non incide sul valore della causa, trattandosi di un’informazione rivolta al funzionario di cancelleria. Però, qualora l’indicazione erronea del valore sia tale da indurre in errore il giudice nella liquidazione delle spese, può costituire una “grave ed eccezionale ragione” per disporre la compensazione delle spese processuali, ex art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis.

La Corte ha inoltre ribadito che, ai fini della determinazione del valore della causa:

  • in primo grado, rileva la somma domandata o accordata;

  • in appello, conta solo la parte della pretesa ancora oggetto di contestazione o l’eventuale differenza accordata rispetto alla sentenza impugnata.

Nel caso concreto, la Cassazione ha accolto il ricorso in relazione al capo relativo alle spese del giudizio di appello, rideterminando i compensi per le quattro fasi indicate nel D.M. parametri forensi, oltre accessori.

Tuttavia, nonostante l’accoglimento parziale del ricorso, le spese del giudizio di legittimità sono state integralmente compensate. Secondo la Corte, non è equo che i costi dell’impugnazione, resa necessaria da un errore della parte, gravino sulla controparte che non ha nemmeno resistito all’impugnazione stessa.

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violenza domestica

Violenza domestica: la Cassazione valorizza gli indizi La Cassazione chiarisce che anche un solo episodio di violenza domestica può giustificare la separazione con addebito. Fondamentali anche gli indizi e le testimonianze indirette

Violenza domestica e separazione

In ambito familiare, ai fini della ricostruzione dei fatti nei procedimenti giudiziari – in particolare nelle cause di separazione personale tra coniugi – il giudice non può limitarsi a considerare solo le prove dirette e palesi. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10021/2025, affermando che la valutazione degli indizi è essenziale per accertare episodi di violenza domestica.

Un solo episodio può bastare per l’addebito

La vicenda trae origine da una causa di separazione in cui il Tribunale aveva addebitato la crisi coniugale al marito, ritenuto responsabile di atti di violenza contro la moglie. La Corte d’appello, tuttavia, aveva annullato tale addebito, non ravvisando prove sufficienti delle condotte contestate. Contro questa decisione la moglie ha proposto ricorso in Cassazione, che ha accolto la doglianza, cassando la sentenza impugnata e rinviando la questione a una diversa composizione della Corte territoriale.

La Suprema Corte ha ribadito un principio fermo nella sua giurisprudenza: anche un solo episodio accertato di percosse può giustificare la separazione con addebito, in quanto comportamento lesivo della dignità personale e tale da compromettere in modo irreversibile l’equilibrio della relazione coniugale.

Indizi strumenti fondamentali per accertare la verità

Nel confermare la centralità dell’approccio indiziario, la Cassazione evidenzia come, soprattutto nei procedimenti familiari, spesso legati a dinamiche intime e riservate, il giudice debba fondare il proprio convincimento anche su elementi indiretti. Tra questi:

  • le testimonianze de relato, provenienti dalla parte che denuncia i fatti;

  • le relazioni dei Servizi sociali, spesso fondamentali per rilevare situazioni di maltrattamento o disagio familiare.

La Corte sottolinea che queste fonti possono rappresentare indizi rilevanti, da valutare congiuntamente per ricostruire episodi di violenza fisica o psicologica difficilmente documentabili con prove dirette, come spesso accade nei contesti di abuso domestico.

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reti tra avvocati

Reti tra avvocati: cosa prevede la riforma forense Reti tra avvocati e reti multidisciplinari: cosa sono, come funzionano, autonomia degli avvocati e disciplina applicabile

Riforma Ordinamento Forense: la novità delle reti

La riforma dell’ordinamento forense 2025 prevede diversi punti di novità per gli avvocati. Una delle norme più interessanti da analizzare e comprendere è contenuta nell’articolo 15 della bozza del 15 aprile 2025 intitolato  Reti tra avvocati e reti multidisciplinari”. La disciplina delle reti però, nella sua completezza, è individuabile anche in altri articoli della Riforma. Ne è un esempio l’articolo 7 che impone il segreto professionale a tutti i componenti della rete professionale.

Reti tra avvocati e reti multidisciplinari: definizione

In base all’art 15 sopra menzionato la professione forense può essere esercitata in forma di rete, che può essere composta solo da avvocati o includere altre figure professionali. Nelle reti multidisciplinari devono esserci però almeno due avvocati iscritti all’albo. Gli altri professionisti possono partecipare alla rete, a condizione che siano anch’essi regolarmente iscritti ai propri albi.

I professionisti ammessi alla rete devono appartenere nello specifico alle categorie definite dal Ministro della Giustizia con il decreto n. 23 del 4 febbraio 2016.

Reti tra avvocati e multidisciplinari: albo

I contratti di rete tra avvocati devono essere iscritti in una sezione apposita dell’albo dell’ordine forense in cui ha sede la rete. Il contratto deve indicare la sede principale. In ogni caso la rete può avere anche sedi secondarie. L’avvocato che decide di partecipare alla rete deve informare il suo Ordine di appartenenza, se questo è diverso da quello in cui si trova il centro principale degli affari.

Costituzione e funzionamento della rete

Quando si costituisce una rete tra avvocati o una rete multidisciplinare è necessaria la presenza di un organo comune e di un fondo patrimoniale. Queste reti possono avere inoltre soggettività giuridica, se il contratto è stipulato formalmente con atto pubblico o con una scrittura privata autenticata. Il contratto inoltre deve essere iscritto in una sezione speciale dell’albo tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e degli altri ordini professionali coinvolti. La registrazione deve avvenire nel circondario in cui ha sede la rete.

Autonomia, libertà e obblighi avvocati aderenti

Anche se l’avvocato aderisce alla rete l’incarico professionale è sempre dato personalmente. Partecipare a una rete non priva il libero professionista della propria autonomia. L’avvocato deve restare sempre libero e indipendente nel suo giudizio e nello svolgimento dell’incarico. Ogni accordo contrario è nullo.

Un avvocato inoltre può partecipare anche a più di una rete e queste possono essere tra soli avvocati o di natura multidisciplinare.

L’attività professionale svolta tramite le reti crea infine precisi obblighi, ma anche diritti di natura previdenziale, come stabiliti dalle leggi in materia.

Accesso delle reti ad appalti privati

Le reti di avvocati o di natura multidisciplinare possono partecipare a incarichi e appalti privati, così come previsto dall’articolo 12, comma 3, della legge 12 maggio 2017, n. 81.

La disposizione prevede infatti che Al fine di consentire la partecipazione ai bandi e concorrere all’assegnazione di incarichi e appalti privati, è riconosciuta ai soggetti che svolgono attività professionale, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, la possibilità:

  1. di costituire reti di esercenti la professione e consentire agli stessi di partecipare alle reti di imprese, in forma di reti miste, di cui all’articolo 3, commi 4-ter e seguenti, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, con accesso alle relative provvidenze in materia;
  2. di costituire consorzi stabili professionali;
  3. di costituire associazioni temporanee professionali, secondo la disciplina prevista dall’articolo 48 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, in quanto compatibile.”

Reti tra avvocati e multidisciplinari: normativa

Alle reti di avvocati o multidisciplinari si applica l’articolo 3, commi 4-ter e 4-quater, del decreto legge 10 febbraio 2009 n. 5, se è compatibile. Trattasi della disciplina dei contratti di rete tra imprese.

Le reti con soggettività giuridica possono accedere infine a procedure specifiche del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza su specifica richiesta.

 

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avvocato imputato

L’avvocato imputato non può difendersi da solo La Cassazione stabilisce che l’avvocato imputato non può difendersi da solo in un processo penale: serve sempre un difensore terzo

Autodifesa avvocato imputato

Avvocato imputato: con l’ordinanza n. 18353/2025, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione penale ha riaffermato un principio consolidato: l’autodifesa tecnica non è ammessa nel processo penale, nemmeno quando l’imputato è un avvocato iscritto all’albo speciale per il patrocinio in Cassazione. In caso di accusa penale, anche il legale indagato deve nominare un difensore terzo, non potendo rappresentarsi autonomamente in giudizio.

Il caso: autodifesa cassazionista accusata di stalking

La pronuncia trae origine dal ricorso presentato da un’avvocata cassazionista imputata per atti persecutori nei confronti dell’ex coniuge e della figlia. La donna aveva proposto ricorso personalmente, senza la nomina di un difensore, invocando il proprio diritto all’autodifesa come previsto, in via generale, dall’art. 13, comma 1, della legge n. 247/2012 (ordinamento forense).

Tuttavia, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, rilevando la mancanza di un difensore formalmente nominato, condizione necessaria nei procedimenti penali.

Nessuna autodifesa tecnica nel processo penale

La Corte ha precisato che nel processo penale l’autodifesa non è ammessa in forma esclusiva. Sebbene l’art. 13, comma 1, della legge forense consenta all’avvocato di agire in proprio, tale disposizione non trova applicazione automatica nel giudizio penale, dove vigono regole speciali a tutela dell’effettività del diritto di difesa. L’articolo citato, infatti, deve essere coordinato con le specifiche norme procedurali di ciascun rito.

In particolare, nel procedimento penale, è essenziale garantire terzietà, oggettività e distacco nella strategia difensiva, obiettivi che sarebbero compromessi dalla coincidenza tra imputato e difensore. L’assenza di un filtro critico rispetto alla propria posizione può compromettere l’efficace contrapposizione tra difesa e accusa, principio cardine del giusto processo ex art. 111 Cost.

Incompatibilità con la logica del processo penale

La Cassazione esclude espressamente ogni interpretazione estensiva dell’art. 13 legge 247/2012 e dell’art. 86 c.p.c., quest’ultimo relativo esclusivamente al processo civile, dove è consentito alla parte munita dei requisiti di stare in giudizio senza il ministero di altro difensore. In ambito penale, al contrario, la natura degli interessi coinvolti, potenzialmente afflittivi per la libertà personale, impone la presenza di una difesa tecnica autonoma, distinta dalla persona dell’imputato.

La previsione non è soltanto formale: è funzionale a evitare conflitti interni e a preservare l’obiettività del contraddittorio, garantendo così i diritti dell’imputato in una prospettiva pienamente difensiva.

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convivenza more uxorio

Convivenza more uxorio: nessun rimborso per il mutuo dopo la separazione Convivenza more uxorio: i pagamenti per il mutuo sono un'obbligazione naturale, rimborso impossibile dopo la fine della relazione

Convivenza more uxorio e restituzione mutuo

L’ordinanza n. 11337/2025 della Cassazione ribadisce un principio chiave sui mutui per l’acquisto della casa quando finisce la convivenza more uxorio. I pagamenti effettuati da un partner all’altro durante la convivenza stabile sono adempimento di un’obbligazione naturale. Di conseguenza, una volta terminata la relazione, non è possibile chiedere la restituzione di queste somme. La Cassazione equipara infatti questi trasferimenti di denaro a un dovere morale e sociale insito nel rapporto di convivenza. La possibilità di un’azione di rimborso basata sull’ingiustificato arricchimento o su altre pretese restitutorie è quindi impossibile.

Obbligazione naturale nella convivenza more uxorio

Il Tribunale di Brescia condanna una donna a pagare 12.000 euro al suo ex convivente per lo “squilibrio economico” creatosi durante la loro convivenza more uxorio (dal 2012 al febbraio 2015). L’uomo sosteneva infatti di aver pagato le spese, le bollette e il mutuo della casa di proprietà della donna per tre anni (circa 28.800 euro), oltre ad aver comprato mobili e versato 10.000 euro per un’auto usata dalla compagna, la quale all’epoca era studentessa e non percepiva stipendio. L’uomo, rimasto senza abitazione dopo la fine della relazione, chiedeva la restituzione di 20.000 euro, invocando i principi di proporzionalità e adeguatezza e l’ingiustificato arricchimento.

Obbligazioni naturali? Nessun rimborso

La Corte d’appello di Brescia però riforma la sentenza, rigettando la domanda dell’uomo e condannandolo alle spese. I versamenti di denaro effettuati dall’uomo durante la convivenza costituiscono adempimento di un’obbligazione naturale e come tale non ripetibile.

Esborsi sproporzionati e indebito arricchimento

L’uomo ricorre quindi in Cassazione, sollevando due motivi di doglianza.

Obbligazioni naturali solo per le spese ordinarie

Con il primo lamenta la nullità della sentenza e la violazione di varie norme civilistiche (artt. 2 Cost., 2034, 2041, 2043 c.c. e artt. 116, 232 c.p.c.). La Corte d’appello ha dato per provate le sue elargizioni, ma non ha considerato la sproporzione tra i suoi esborsi (25.400 euro), le sue condizioni economiche di operaio e l’indebito arricchimento della compagna. La Corte erra quando afferma che i suoi versamenti rientravano nell’assistenza morale e materiale dovuta in un rapporto affettivo consolidato. Questa ricostruzione è valida solo per le spese ordinarie, ma non per i bonifici periodici destinati al pagamento del mutuo e per l’acquisto di beni che hanno arricchito la donna. E’ necessaria una disamina sulla proporzionalità delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi.

Omesso esame della consistenza patrimoniale

Con il secondo motivo l’uomo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia la sua consistenza patrimoniale. Afferma infatti di aver provato, tramite estratti conto, di percepire uno stipendio di circa 1.700 euro mensili, unica sua entrata, e che i bonifici non erano mensili, ma periodici, indicando una natura straordinaria e non di canone o spese di vita. Sottolinea inoltre che al termine della convivenza era rimasto senza risorse, mentre la compagna si era arricchita grazie al pagamento del mutuo e dei beni acquistati da lui.

Nessun rimborso per le obbligazioni naturali

La Corte di Cassazione però rigetta il ricorso. Quanto al primo motivo, ribadisce che l’azione di arricchimento senza causa non è invocabile quando l’arricchimento deriva dall’adempimento di un’obbligazione naturale. Dalla convivenza nascon0 infatti  doveri morali e sociali. I versamenti di denaro tra conviventi sono generalmente considerati adempimenti doverosi nell’ambito di un rapporto affettivo consolidato. Esso infatti implica collaborazione e assistenza materiale e morale. L’ingiustizia dell’arricchimento può configurarsi quando le prestazioni di un convivente a favore dell’altro esulano dal mero adempimento di tali obbligazioni, superando i limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni sociali e patrimoniali dei conviventi.

Nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto che l’importo versato dall’uomo per il mutuo (circa 666 euro al mese) fosse proporzionato, equiparabile a un canone di locazione e quindi rientrante nella collaborazione e assistenza dovuta in un rapporto affettivo. La valutazione della Corte d’Appello è plausibile in relazione alla proporzionalità e all’adeguatezza del contributo, rimessa al suo esclusivo apprezzamento. Gli Ermellini confermano quindi il principio secondo cui l’attribuzione patrimoniale al convivente configura adempimento di obbligazione naturale se il giudice di merito, con un giudizio di fatto insindacabile in Cassazione, la ritiene adeguata e proporzionata alle circostanze e alle condizioni del solvens.

Estratti conto insufficienti come prova

Quanto al secondo motivo, la Cassazione lo dichiara inammissibile. Il ricorrente lamenta la mancata considerazione degli estratti conto attestanti il suo stipendio. La Cassazione però ha evidenziato che la Corte d’appello ha basato il suo giudizio di proporzionalità sull’ammontare non contestato dei versamenti per il mutuo. Nel caso di specie mancano “più compiute allegazioni” sulla situazione reddituale complessiva dell’uomo. La mera produzione di estratti conto, da cui si potrebbero desumere alcune entrate, non è sufficiente a provare l’esclusività di tali entrate ai fini della composizione del reddito. Pertanto, la doglianza sulla mancata considerazione dei soli estratti conto non superava la ratio decidendi della sentenza impugnata.

 

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accesso al bagno

Negare l’accesso al bagno lede la dignità del lavoratore La Cassazione ha confermato il diritto al risarcimento per un lavoratore costretto a urinarsi addosso per il diniego di accesso al bagno

Negato l’accesso al bagno, danno alla dignità

Negare l’accesso al bagno è una lesione della dignità del lavoratore. Con l’ordinanza n. 12504/2025, depositata l’11 maggio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la responsabilità della società datrice per non aver consentito a un dipendente di recarsi ai servizi igienici durante il turno di lavoro, riconoscendo un risarcimento di 5.000 euro per la lesione della dignità personale, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile.

I fatti

Durante il turno lavorativo, il dipendente ha avvertito un impellente bisogno fisiologico. Tuttavia, le disposizioni aziendali prevedevano che l’allontanamento dalla postazione fosse possibile solo previa autorizzazione e sostituzione da parte di un team leader. Nonostante ripetute richieste tramite il dispositivo di emergenza, il lavoratore non ha ottenuto l’autorizzazione necessaria. Giunto al limite della resistenza, si è recato autonomamente ai servizi igienici, ma non è riuscito a evitare di urinarsi addosso. Successivamente, ha chiesto di potersi cambiare in infermeria, ma anche questa richiesta è stata negata, costringendolo a proseguire il lavoro fino alla pausa, momento in cui ha potuto cambiarsi in un’area comune, alla presenza di altri colleghi. 

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibili i motivi di ricorso presentati dall’azienda, confermando le decisioni dei giudici di merito. È stato sottolineato che l’azienda non ha adottato misure idonee a prevenire situazioni lesive della dignità del lavoratore, come previsto dall’articolo 2087 c.c.

In particolare, la Corte ha evidenziato che l’organizzazione del lavoro non ha garantito un sistema efficace per gestire le necessità fisiologiche dei dipendenti, configurando una violazione degli obblighi di tutela dell’integrità fisica e morale del lavoratore. 

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addebito separazione

Addebito separazione anche per un solo episodio di violenza Violenza fisica e addebito della separazione: la Cassazione conferma che basta anche un solo episodio

Violenza e addebito separazione

Addebito separazione: con l’ordinanza n. 10021/2025, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha confermato un principio fondamentale in materia di addebito della separazione coniugale, chiarendo che anche un unico episodio di violenza fisica può fondare la pronuncia di separazione e l’addebito, a prescindere dalla gravità delle lesioni provocate.

La decisione si colloca in un filone giurisprudenziale che tutela in modo sempre più marcato la dignità personale e l’integrità fisica e morale del coniuge vittima di comportamenti lesivi, valorizzando il principio del rispetto reciproco come fondamento del vincolo matrimoniale.

Il caso

La vicenda riguarda una coppia legalmente sposata, nella quale la moglie aveva chiesto la separazione giudiziale con addebito al marito, allegando un episodio di violenza fisica avvenuto nel corso di una lite domestica, culminato in percosse. L’uomo aveva ammesso l’alterco, ma negava l’intento violento e sosteneva che l’episodio fosse isolato e privo di conseguenze gravi.

La Corte d’appello aveva escluso l’addebito, ritenendo che un singolo episodio, non seguito da ulteriori comportamenti aggressivi, non potesse configurare una violazione così grave da determinare l’addebito della separazione.

Cassazione: anche una sola violenza è sufficiente

La Cassazione ha accolto il ricorso della donna e ha affermato il seguente principio di diritto:

“In tema di separazione personale dei coniugi, anche un solo episodio di violenza fisica, posto in essere da uno dei coniugi nei confronti dell’altro, è idoneo a giustificare l’addebito della separazione, a prescindere dalla gravità delle lesioni causate, in quanto integra una violazione grave e intollerabile dei doveri coniugali di cui all’art. 143 c.c.”

Il Collegio sottolinea che l’aggressione fisica costituisce di per sé un fatto oggettivamente idoneo a compromettere irreversibilmente la convivenza coniugale, violando il dovere di reciproco rispetto e assistenza morale.

Centralità della dignità coniugale

La Corte richiama i doveri coniugali sanciti dall’art. 143 del codice civile, evidenziando come la violenza fisica rappresenti una lesione insanabile della fiducia reciproca, anche in assenza di effetti clinicamente gravi.

Nel testo dell’ordinanza si legge: “Il dovere di fedeltà, di assistenza morale e materiale, e di reciproco rispetto tra coniugi è incompatibile con qualsiasi forma di aggressione fisica. L’episodio, anche isolato, esprime una rottura radicale del vincolo coniugale, tale da giustificare non solo la separazione, ma anche l’addebito”. 

Il carattere episodico non attenua, secondo la Corte, la gravità oggettiva del gesto, che può aver minato irreparabilmente il legame matrimoniale, determinando la responsabilità esclusiva del coniuge autore dell’aggressione nella crisi coniugale.

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guida senza patente

Tenuità del fatto: esclusa per la guida senza patente Guida senza patente e particolare tenuità del fatto: la Cassazione esclude l'applicabilità dell’art. 131-bis c.p.

Guida senza patente e tenuità del fatto

Con la sentenza n. 16367/2025, la quarta sezione penale della Cassazione ha chiarito che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) non può essere applicata alla contravvenzione di guida senza patente, anche laddove il fatto risulti oggettivamente di minima offensività.

Il fatto

La vicenda trae origine dalla condanna inflitta dal Giudice di pace di Sassari per il reato di guida senza patente, di cui all’art. 116, comma 15, del Codice della strada. L’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, lamentando l’omessa valutazione da parte del giudice di merito della possibilità di applicare l’art. 131-bis c.p., sostenendo la lieve entità del fatto e l’assenza di pericolo concreto.

La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha ribadito che la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non può trovare applicazione nel caso di guida senza patente, trattandosi di una contravvenzione che, per natura e struttura normativa, è incompatibile con l’istituto previsto dall’art. 131-bis c.p.

La motivazione: perché l’art. 131-bis c.p. non si applica

La Corte ha valorizzato il carattere formale e di pericolo astratto della contravvenzione di cui all’art. 116, comma 15, C.d.S. La norma incrimina la condotta indipendentemente dalla concreta idoneità a mettere in pericolo la sicurezza stradale, essendo diretta a tutelare un interesse pubblico rilevante: la certezza che chi guida veicoli a motore sia munito di adeguata abilitazione tecnica.

Secondo la motivazione della sentenza, l’elemento tipico della contravvenzione non consente una valutazione in termini di offensività concreta, in quanto l’illecito è fondato su una violazione amministrativa ad elevata disvalore sociale, che si presume per legge.

Di conseguenza, anche in presenza di condotte isolate e prive di danno effettivo, non è possibile ritenere il fatto di particolare tenuità, in quanto la normativa esclude un giudizio discrezionale sulla gravità concreta del reato.

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incidente animale selvatico

Incidente animale selvatico: la responsabilità Incidente animale selvatico: chi risponde dei danni, conseguenze civili e penali e Cassazioni recenti

Responsabilità incidente con animale selvatico

Il dover affrontare le conseguenze di un incidente con un animale selvatico rappresenta un problema crescente in Italia. Questi incidenti possono causare danni materiali e fisici alle persone coinvolte, oltre che alla fauna selvatica.

La responsabilità per gli incidenti con animali selvatici dipende soprattutto dal luogo in cui si verifica l’incidente. La giurisprudenza negli ultimi anni ha sancito alcuni importanti principi al fine di individuare i soggetti responsabili.

  • Per regola generale i danni causati dalla fauna selvatica sono risarcibili dallo Stato (pubblica amministrazione) in base all’articolo 2052 del Codice Civile. Questo perché la responsabilità non si basa sulla custodia degli animali, ma sulla loro proprietà o utilizzo. Dato che le specie selvatiche protette dalla legge n. 157/1992 sono considerate patrimonio indisponibile dello Stato e la loro cura e gestione sono affidate a enti pubblici per la tutela ambientale, la responsabilità per i danni ricade su questi ultimi.
  • Diverse e recenti sentenze della Corte di Cassazione individuano nella Regione il soggetto pubblico responsabile, al fine di garantire una tutela effettiva al soggetto danneggiato.
  • Nell’ipotesi in cui il sinistro si dovesse verificare in autostrada il responsabile civile dei danni subiti dal conducente sarà l’Ente che ha in concessione il tratto autostradale, teatro dello scontro.

Conseguenze civili e penali

Gli incidenti con animali selvatici possono avere conseguenze sia civili che penali.

  • Conseguenze civili: le vittime di un incidente con un animale selvatico possono richiedere il risarcimento dei danni materiali e fisici subiti.
  • Conseguenze penali: in alcuni casi, gli incidenti con animali selvatici possono essere considerati reati penali, ad esempio se l’incidente è causato da imprudenza o negligenza.

Risarcimento del danno da fauna selvatica

Per ottenere il risarcimento del danno da fauna selvatica, è necessario dimostrare che l’incidente è stato causato da un animale selvatico e che si è verificato in un luogo pubblico o su un terreno di proprietà di terzi. È inoltre necessario dimostrare il nesso causale tra l’evento e il danno subito.

Cassazione su incidente animale selvatico

Ecco una serie di massime della Cassazione in materia:

Cassazione n. 197/2025

I danni provocati dalla fauna selvatica comportano la responsabilità risarcitoria della Pubblica Amministrazione, in quanto le specie protette sono considerate patrimonio indisponibile dello Stato e affidate alla cura e gestione di enti pubblici per la salvaguardia ambientale. Di conseguenza, l’azione di risarcimento e la legittimazione passiva spettano unicamente alla Regione. Questo deriva dal fatto che la Regione detiene la competenza legislativa in materia di patrimonio faunistico, anche se le attività amministrative di programmazione, coordinamento e controllo della tutela e gestione della fauna selvatica sono delegate ad altri enti. In altre parole, la responsabilità ultima e l’obbligo di risarcire i danni ricadono sulla Regione in virtù della sua competenza normativa sul patrimonio faunistico.

Cassazione n. 9043/2025

Per ottenere il risarcimento dei danni da fauna selvatica, il danneggiato deve provare sia il fatto dannoso e il legame causa-effetto con l’animale, sia di aver agito con la dovuta cautela in base al contesto ambientale. In un incidente veicolo-animale selvatico, la legge presume una pari responsabilità sia del conducente che del proprietario dell’animale, richiedendo una valutazione caso per caso per superare tali presunzioni. Se il danneggiato è anche il conducente, deve quindi dimostrare sia la dinamica dell’incidente e il ruolo dell’animale protetto, sia la propria condotta di guida prudente in relazione ai rischi ambientali.

Cassazione n. 17253/2024

Quando si chiede il risarcimento per danni causati dalla fauna selvatica, la decisione se applicare l’articolo 2043 o l’articolo 2052 del Codice Civile non cambia la natura della richiesta. Piuttosto, influisce su chi deve dimostrare cosa in tribunale. Di conseguenza, un eventuale errore nella scelta dell’articolo di legge da applicare non porta a una decisione definitiva sul merito della questione. In altre parole, la scelta tra i due articoli riguarda solo le regole sulla prova, non il diritto al risarcimento in sé.

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Tenore di vita accertabile con elementi presuntivi Il tenore di vita può essere accertato anche con elementi presuntivi per quantificare l'assegno di mantenimento

Tenore di vita assegno di mantenimento

Per stabilire l’assegno di separazione, la valutazione del tenore di vita durante il matrimonio e delle condizioni economiche dei coniugi dopo la separazione può basarsi su indizi e deduzioni. È fondamentale però che tale valutazione sia fondata su un’analisi specifica e dettagliata delle circostanze reali. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 11611/2025.

Nessun mantenimento per la moglie

Una donna ricorre in appello contro due sentenze che, in virtù della separazione dal marito le assegnavano la casa familiare, le addebitavano la separazione e obbligavano l’ex marito a versare 1.000 euro mensili per il mantenimento del figlio, oltre all’80% delle spese straordinarie. La donna contestava l’addebito della separazione a suo carico e chiedeva il mantenimento in suo favore.

Tenore di vita: moglie impossibilitata a conservarlo

La Corte d’Appello riforma la decisione di primo grado. Essa respinge la richiesta di addebito della separazione alla moglie e riconosce alla donna un assegno di mantenimento di 800 euro mensili (oltre rivalutazione Istat). Il resto della decisione viene confermato. Per la Corte il tenore di vita matrimoniale era sostenuto principalmente dal reddito dell’uomo. Lo stesso aveva infatti revocato i mandati professionali alla moglie (avvocato) e si era appropriato dei risparmi comuni. Nonostante la capacità professionale della donna e la futura divisione dei beni, la Corte riconosce una riduzione delle sue disponibilità economiche e la sua incapacità di mantenere le precedenti condizioni di vita. L’assegno di 800 euro appare pertanto equo. L’uomo a questo punto ricorre in Cassazione.

Assegno mantenimento: rileva il tenore di vita

La Cassazione accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbiti tutti gli altri. Nella motivazione ricorda che l’articolo 156, comma 1, del codice civile stabilisce che il coniuge a cui non sia addebitabile la separazione ha diritto a ricevere dall’altro quanto necessario per mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio, qualora non abbia redditi adeguati.

In sede di separazione (a differenza del divorzio), il parametro per valutare l’adeguatezza dei redditi è il mantenimento del tenore di vita matrimoniale. Questo perché il vincolo coniugale permane e sussiste ancora il dovere di assistenza materiale.

Tenore di vita accertabile con elementi presuntivi

Per quantificare l’assegno, il giudice di merito deve quindi necessariamente accertare il tenore di vita della coppia durante la convivenza. Nel compiere questa valutazione deve considerare i redditi dichiarati fiscalmente, altri elementi economici come il patrimonio (anche mobiliare), uno stile di vita agiato, o redditi non dichiarati. Tale accertamento può basarsi anche su elementi presuntivi, ma deve essere concreto.

Nel caso specifico, la Cassazione critica la Corte d’Appello per aver stabilito la prevalenza del contributo economico dell’uomo nel determinare il tenore di vita coniugale senza descrivere in alcun modo quale fosse tale tenore di vita.

Peggioramento delle condizioni di vita della moglie da specificare

Allo stesso modo, la Corte territoriale ha ritenuto peggiorate le condizioni economiche della donna dopo la separazione senza specificare quali fossero prima e dopo. La Corte di Cassazione contesta quindi alla Corte d’Appello di aver espresso un’opinione sulla maggiore incidenza del reddito dell’uomo nel sostenere il tenore di vita familiare e sul peggioramento della situazione economica della donna senza aver prima chiaramente definito e valutato le reali circostanze economiche in cui versava la famiglia e ciascun coniuge. La mancanza di una precisa determinazione delle effettive condizioni di vita dei coniugi ha portato la Corte d’Appello a decidere sull’obbligo e sull’entità dell’assegno di mantenimento senza avere una comprensione concreta del loro pregresso tenore di vita familiare e delle loro attuali risorse individuali. Alla Corte d’Appello in diversa composizione il compito di decidere su questi punti nel rispetto di quanto affermato in sentenza.

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