Avvocato in ritardo: il giudice non è tenuto ad aspettare Si tratta infatti, afferma la Cassazione, di una mera prassi che risponde al buon senso e al rispetto del ceto forense ma che non è imposta da alcuna norma

Ritardo avvocato in udienza

Avvocato in ritardo? Non c’è alcun obbligo per il giudice di attendere il legale che si presenti anche se soltanto dopo pochi minuti in udienza. Questo quanto affermato dalla quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 2779/2025, respingendo il ricorso di un uomo condannato in appello per furto aggravato.

Breve ritardo

L’avvocato sosteneva di avere tardato soltanto qualche minuto in quanto impegnato in altra aula, ma il giudice, previa nomina di difensore d’ufficio, aveva chiuso il verbale.

Mera prassi attendere l’avvocato

La Cassazione, nel ritenere la risposta della Corte territoriale “logica ed adeguata”, ha spiegato che “la prassi di attendere il difensore di fiducia, anche per qualche tempo dopo che è decorso l’orario fissato per l’udienza, risponde alle regole di buon senso e rispetto del ceto forense ma non è imposto da alcuna norma e dunque la sua violazione non determina alcuna nullità processuale”.

Da qui il rigetto del ricorso.

 

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assegno divorzile

Assegno divorzile: quando si può chiedere la riduzione Assegno divorzile: la riduzione della misura non può essere accolta se il coniuge obbligato non prova il peggioramento delle sue condizioni

Assegno divorzile: riduzione respinta

Il Tribunale di Matera, con la sentenza n. 875 del 6 dicembre 2024, ha respinto la richiesta di riduzione dell’assegno divorzile avanzata da un ex coniuge. La domanda riduzione dell’assegno divorzile infatti può essere accolta solo in presenza di un effettivo peggioramento delle condizioni economiche del coniuge obbligato. Tale peggioramento però deve essere dimostrato in modo chiaro e documentato.

Domanda di riduzione dell’assegno di divorzio

Un pensionato ricorre in giudizio per chiedere la riduzione dell’assegno divorzile corrisposto all’ex moglie. L’uomo sostiene il peggioramento della sua situazione economica, a causa di una pensione insufficiente, finanziamenti da rimborsare e il pagamento dell’affitto. Per sopravvivere, ha iniziato a lavorare saltuariamente presso un fruttivendolo. Il ricorrente tuttavia dichiara di avere a disposizione solo poche centinaia di euro al mese.

L’ex moglie però contesta tali affermazioni. Ella sostiene che le difficoltà economiche del ricorrente sono in realtà conseguenza delle sue scelte personali. In ogni caso anche lei è gravata da un finanziamento mensile.

Riduzione assegno: serve prova peggioramento condizioni

Il Tribunale di Matera analizza dapprima la situazione patrimoniale di entrambe le parti e in decisione richiama i principi sanciti dalla giurisprudenza. La riduzione dell’assegno divorzile può avvenire solo se il richiedente dimostra un effettivo peggioramento delle proprie condizioni economiche, tale da richiedere una nuova valutazione del rapporto economico tra gli ex coniugi.

Nel caso specifico, però, il Tribunale ha rilevato che il ricorrente non ha subito un reale impoverimento. Dai documenti presentati, infatti, emerge che i suoi redditi mensili sono in realtà  superiori a quanto dichiarato. Il ricorrente, oltre alla pensione, percepisce ulteriori somme derivanti dal lavoro presso il fruttivendolo, pari a circa 1.200 euro mensili. L’uomo inoltre riceve un contributo dal Comune per coprire parte delle spese di affitto.

L’ex moglie, invece, dispone di una pensione netta di 614 euro al mese, ma deve rimborsare un finanziamento mensile di circa 168 euro. Alla luce di queste considerazioni, il tribunale ritiene ingiustificata la riduzione dell’assegno divorzile.

L’impegno lavorativo del pensionato migliora situazione

La sentenza sottolinea che l’impegno lavorativo del ricorrente, sebbene apprezzabile, non costituisce un obbligo giuridico. Vero però che i redditi derivanti dal lavoro contribuiscono a migliorare la sua situazione economica. Di conseguenza, l’assegno divorzile, stabilito in precedenza, resta adeguato a garantire l’equilibrio tra gli ex coniugi.

 

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carta dei principi

Avvocati tenuti ad un uso consapevole dell’AI Carta dei principi Avvocati AI: il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano realizza il progetto HOROS, per l’uso consapevole dell’AI

Carta dei principi degli avvocati nell’uso dell’AI

La “Carta dei principi per un uso consapevole di strumenti di intelligenza artificiale in ambito forense” ha visto la luce grazie all’Ordine degli Avvocati di Milano.

Nel documento il Presidente dell’Ordine che ha realizzato il progetto mette in evidenza le potenzialità dell’Intelligenza artificiale, ma anche i rischi collegati a un uso scorretto di questo strumento. L’obiettivo da perseguire consiste infatti nell’adattamento della professione forense alle nuove tecnologie senza intaccare i principi fondanti dell’attività forense.

Il titolo dato alla Carta dei principi è particolarmente significativo. “Horos”infatti vuole dire “confine” a significare i limiti che gli avvocati devono stabilire in relazione all’uso dell’intelligenza artificiale in ambito Forense.

Principi sull’uso della AI

La Carta si apre con l’esposizione dei principi generali che gli avvocati devono rispettare nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale: legalità, correttezza, trasparenza e responsabilità nel rispetto della normativa interna e comunitaria.

L’Ai inoltre non deve ledere i diritti, ma soprattutto la fiducia dei clienti nei riguardi dell’avvocatura. Vengono poi dettagliati i principi della Carta a cui gli avvocati devono attenersi, ovvero:

  • dovere di correttezza;
  • trasparenza nell’uso dell’intelligenza artificiale;
  • centralità della decisione umana;
  • protezione dei dati e riservatezza;
  • Sicurezza informatica;
  • valutazione del rischio dell’utilizzo di sistemi AI in ambito forense;
  • diversità e sostenibilità ambientale;
  • formazione continua e Re-Skilling;
  • tutela del diritto d’autore.

Questa Carta vuole essere di ispirazione affinché altri Consigli dell’Ordine realizzino un proprio documento. La tecnologia ha un impatto notevole sulla giustizia da diversi anni. L’avvento dell’intelligenza artificiale rappresenta una vera e propria rivoluzione a cui i giuristi non possono restare indifferenti. Occorre però un uso consapevole e misurato di questo strumento potentissimo, che può rappresentare un valido aiuto nella tutela dei diritti.  L’intelligenza artificiale infatti non deve essere utilizzata solo per migliorare l’efficienza del lavoro dei giuristi, ma come uno strumento al servizio della giustizia.

 

 

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nuovi limiti contante

Nuovi limiti contante anche per le prepagate Nuovi limiti contante per chi entra ed esce dai paesi UE, per chi li supera e non lo dichiara sequestro e sanzioni

Denaro contante: limiti per chi entra ed esce dall’UE

Nuovi limiti al contante. Il limite per l’utilizzo del denaro contante nelle transazioni in Italia è di 5.000 euro. Nessun limite di importo invece è previsto per chi desidera tenere in casa dei contanti per affrontare delle spese che ha in programma. Il discorso cambia quando ci si reca all’estero. Per chi entra o esce dall’Europa è infatti previsto il divieto di detenere importi superiori a 10.000 euro.

Adeguamento alla normativa UE

Il decreto legislativo n. 211 del 10 dicembre 2024, pubblicato sulla GU del 2 gennaio 2025, al fine di adeguare la normativa interna al Regolamento UE 2018/1672, che riguarda i controlli sul denaro contante in entrata o in uscita dell’UE, è in vigore dal 17 gennaio 2025.

Il testo però prevede dei limiti che, ad essere ben precisi, non si riferiscono solo al denaro contante, ma anche:

  • alle carte prepagate (“carte non nominative … che contengono valore in moneta o liquidità o vi danno accesso ovvero che possono essere usate per operazioni di pagamento, per l’acquisto di beni o servizi o per la restituzione di valuta, qualora non collegata a un conto corrente e ad altri mezzi di pagamento”)
  • e ad altri mezzi di pagamento.

Chi decide quindi di recarsi in un paese UE deve tenere conto di questo limite. Chi detiene ad esempio dei contanti e una carta prepagata e superi il valore di 10.000 euro ha l’obbligo di farne denuncia alla dogana.

Denaro contante e altri valori da dichiarare

I imiti di valore imposti per il passaggio in entrata e in uscita dai paesi UE è previsto al fine di scongiurare la commissione del reato di riciclaggio e di reati strumentali al finanziamento di attività criminali.

Detto questo, il limite dei 10.000 euro previsto dal decreto legislativo di adattamento al Regolamento UE a cosa si riferisce?

Senza dubbio al denaro contante, a seguire agli assegni turistici come i traveller’s chèque, agli assegni, ai vaglia cambiari, agli ordini di pagamento al portatore emessi senza indicazione specifica del nome del beneficiario, a quelli emessi in favore di un beneficiario fittizio, o a quelli che richiedono la sola consegna per il passaggio del titolo.

Il soggetto che porti con sé uno o più dei suddetti strumenti di pagamento per un valore superiore ai 10.000 euro metterlo a disposizione della Agenzia delle dogane e dei monopoli ai fini del controllo.

Il limite di importo deve essere rispettato anche se il denaro o uno degli altri strumenti di pagamento interessati vengono inviati in un plico a mezzo posta. Non occorre cioè che la persona li porti con sé.

Mancata dichiarazione denaro contante

Il decreto legislativo prevede il sequestro e l’applicazione di sanzioni piuttosto elevate nei confronti di coloro che non dichiarano il superamento del limite di importo dei 10.000 euro. Vediamo in che termini e in che misura.

Sequestro percentuale

Per la parte di importo non dichiarato oltre il limite dei 10.000 euro il decreto prevede:

  • il sequestro nella misura del 50% se il valore supera la soglia dei 10.000 euro e l’eccedenza non supera i 10.000;
  • la percentuale del sequestro sale al 70% dell’importo eccedente i 10.000 se l’eccedenza supera i 10.000 ma non i 100.000 euro;
  • il sequestro infine è totale se, al netto della soglia, l’importo supera i 100.000 euro.

Nei casi in cui il soggetto fornisca informazioni inesatte sull’importo è previsto il sequestro:

  • nella misura 25% della differenza tra quanto trasferito e quanto dichiarato, se la differenza non supera i 10.000 euro;
  • la percentuale sale al 35% se la differenza tra trasferito e dichiarato supera i 10.000,00 ma non i 30.000,00 euro;
  • passa al 70% se la differenza tra trasferito supera i 30.000 ma non i 100.000,00 euro;
  • è totale infine se la differenza tra quanto dichiarato e quanto si tenta di trasferire supera l’importo di 100.000,00 euro.

Il decreto nel modificare l’articolo 7 del decreto legislativo n. 195/2008 prevede che il soggetto a cui è stata contestata l’omessa dichiarazione o la dichiarazione inesatta o completa possa chiedere l’estinzione della violazione effettuando il pagamento in misura ridotta, in percentuale variabile, sulla parte di denaro eccedente la soglia prevista.

Sanzioni amministrative

Qualora si commettano violazioni consistenti nell’omesso adempimento dichiarativo si dispone l’applicazione della sanzione pecuniaria amministrativa minima di 900,00 euro.

Se la violazione consiste invece nell’aver fornito informazioni inesatte o incomplete in relazione all’obbligo dichiarativo, allora è prevista la sanzione amministrativa minima di 500,00 euro.

 

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liti in condominio

Liti in condominio dal giudice di pace Liti in Condominio: dal 31 ottobre 2025, in base al decreto legislativo n. 116/2017 spetterà al Giudice di Pace risolverle

Liti in condominio: da ottobre 2025 competente il GdP

Dal 31 ottobre 2025 le liti in condominio verranno decise dal Giudice di Pace. Lo stabilisce l’articolo 32 del decreto legislativo n. 116/2017 che ha riformato organicamente la magistratura onoraria, le disposizioni relative al Giudice di Pace e la disciplina transitoria dei magistrati onorari in servizio.

Le norme di riferimento

L’articolo 32, al comma 3, dispone che le disposizioni contenute nell’articolo 27 dello stesso decreto legislativo entreranno in vigore il 31 ottobre 2025.

L’articolo 27, nel modificare l’art. 7 del codice di procedura civile, che si occupa di definire la competenza del Giudice di Pace, stabilisce che  questo soggetto sarà competente dal 31 ottobre 2025 anche “2) per le cause in materia di condominio negli edifici, come definite ai sensi dell’articolo 71-quater delle disposizioni per l’attuazione del codice civile.”

Liti in condominio di competenza del GdP

Al momento il Giudice di Pace è competente “per le cause relative alla misura e alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case”. A queste si andranno ad aggiungere le liti che riguarderanno l’uso delle cose comuni, le violazioni del regolamento condominiale e la ripartizione delle spese comuni. Il Tribunale continuerà a decidere le controversie più complicate e di valore economico più elevato.

Vantaggi della riforma

La riforma Cartabia e quella settoriale della magistratura onoraria vogliono garantire ai cittadini presenza e accessibilità alla giustizia. La materia delle liti condominiali, soprattutto se relativa a conflitti di valore economico modesto, si prestano a essere risolte dal Giudice di Pace. Il processo è più snello e più rapido ed è quindi in grado di raggiungere un risultato positivo in tempi brevi.

Svantaggi della modifica

L’attribuzione di competenze ulteriori al Giudice di Pace non è stata però accolta con favore da tutti.

Caricare eccessivamente i magistrati onorari di cause potrebbe creare problemi a un sistema che è già in affanno. La riforma dovrebbe essere accompagnata anche da un rafforzamento del personale e di strumenti in grado di agevolare e alleggerire il lavoro. In caso contrario, i Giudici di Pace potrebbero pagare uno scotto elevato dall’alleggerimento del lavoro dei Tribunali, liberati dalle liti condominiali più modeste.

Durante l’incontro del 17 gennaio 2025, promosso dall’OCF a Roma, dedicato alla giustizia civile, è emersa infatti l’urgenza di affrontare la crisi dei Giudici di Pace, con solo il 35% delle posizioni coperte. Il viceministro alla giustizia Sisto ha garantito un approccio pragmatico per evitare il caos, ribadendo che “non ci saranno truppe mandate allo sbaraglio”. L’OCF ha accolto positivamente l’apertura, sottolineando l’importanza di evitare decisioni affrettate che aggraverebbero le attuali inefficienze strutturali del sistema.

 

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smart working

Il disabile ha diritto allo smart working Smart working: ne ha diritto l’ipo-vedente che lo ha già svolto durante la pandemia, se il datore non è impossibilitato 

Lavoratore disabile e smart working

Nella sentenza n. 605/2025 la Cassazione si è espressa su un caso di discriminazione nei confronti di un lavoratore disabile in relazione al suo diritto di svolgere il lavoro in modalità smart working. Con questa sentenza, la Corte ha affermato, nello specifico, l’obbligo per i datori di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli” per garantire la parità di trattamento ai dipendenti con disabilità.

Richiesta del disabile di lavorare in smart working

Un dipendente, assunto dal 1997 e inquadrato al quinto livello del contratto collettivo nazionale (CCNL) nel settore Customer Care, chiede di lavorare in smart working. A causa di gravi deficit visivi, raggiungere la sede lavorativa di Napoli è diventato estremamente difficile. L’azienda  però esclude i dipendenti della sua categoria (caring agents) dalle possibilità di lavoro agile, pur avendo adottato un accordo sullo smart working nel 2017.

La Corte di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, accoglie la domanda del lavoratore, ordinando all’azienda di consentirgli di svolgere le sue mansioni da remoto o dalla sede più vicina alla sua abitazione. La decisione si basa sull’obbligo legale di adottare misure ragionevoli per evitare discriminazioni, come previsto dall’articolo 3, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n. 216/2003.

La società datrice però non accetta la decisione e la impugna davanti alla Cassazione, sostenendo:

  • l’assenza di una condotta discriminatoria;
  • la necessità, per lo svolgimento del lavoro agile, di un accordo specifico tra le parti, che nel caso di specie non è stato raggiunto.

Discriminatorio negare il lavoro agile al disabile

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso motiva la sua decisione sulla base di diverse fonti normative nazionali e internazionali.

  • La Direttiva 2000/78/CE stabilisce l’obbligo per i datori di lavoro di adottare soluzioni per garantire la parità di trattamento.
  • La Carta dei Diritti Fondamentali dellUnione Europea sancisce il diritto dei disabili a misure che ne favoriscano l’autonomia
  • La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità riconosce il diritto a condizioni di lavoro eque per le persone con disabilità.

Per gli Ermellini quindi è pienamente condivisibile il ragionamento della Corte di merito. La mancata adozione di accomodamenti ragionevoli rappresenta una forma di discriminazione diretta, vietata dalla legge.

Smart working: obbligo del datore all’accomodamento

I datori di lavoro devono bilanciare gli interessi aziendali con quelli dei dipendenti disabili. È necessario infatti adottare misure che rendano compatibile l’ambiente lavorativo con le esigenze dei dipendenti, a meno che queste non comportino costi eccessivi. Nel caso specifico il lavoratore aveva già svolto le sue mansioni in smart working durante la pandemia. La richiesta del dipendente non richiedeva quindi investimenti finanziari sproporzionati. Il datore avrebbe dovuto accoglierla perché rappresentava un “accomodamento ragionevole”. In corso di causa inoltre l’azienda non aveva dimostrato l’impossibilità di adottare tali misure. La legge, come visto sopra, impone alle aziende di valutare le richieste dei lavoratori disabili e di trovare soluzioni condivise, nel rispetto delle norme antidiscriminatorie. In presenza di lavoratori disabili la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli costituisce una discriminazione diretta. Il lavoro agile non è infatti solo uno strumento di flessibilità organizzativa, ma anche una misura fondamentale per garantire l’inclusione e l’equità nel mondo del lavoro.

 

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negoziazione assistita

Negoziazione assistita: senza domanda per danni improcedibile Negoziazione assistita: obbligatoria nelle cause per il pagamento di somme fino a 50.000 euro, in assenza la domanda è improcedibile

Negoziazione assistita risarcimento danni

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 186-2025 ribadisce l’importanza della negoziazione assistita come passaggio obbligatorio in alcune controversie. Il caso analizzato riguarda una richiesta di risarcimento danni presentata da un conducente contro la Regione Marche per un incidente stradale causato da un cinghiale su una strada provinciale. Dal punto di vista procedurale la richiesta risarcitoria di somme inferiori ai 50.000 richiede il preventivo esperimento della negoziazione assistita. Nel caso si specie però la procedura stragiudiziale non è stata esperita, per questa ragione la domanda giudiziale è stata dichiarata improcedibile.

Richiesta risarcitoria danni materiali

L’iter giudiziario che ha portato la Cassazione alla predetta decisione è stato complesso. In primo grado, il Tribunale di Macerata ha accolto la domanda del danneggiato e condannato la Regione a pagare 7.014 euro. La Regione però ha fatto appello, sostenendo che la domanda fosse improcedibile a causa del mancato esperimento del procedimento di negoziazione assistita. La Corte d’Appello ha accolto questa eccezione, dichiarando quindi improcedibile la domanda originaria.

Negoziazione assistita: condizione di procedibilità

L’articolo 3 del Decreto Legge n. 132/2014 stabilisce in effetti che, per alcune controversie, è obbligatorio tentare la negoziazione assistita prima di ricorrere al giudice. Questo obbligo vale in due casi distinti:

  • per richieste di risarcimento danni da circolazione di veicoli e natanti, senza limiti di valore;
  • per domande di pagamento di somme non superiori a 50.000 euro.

La ratio della norma è di ridurre il carico di lavoro dei tribunali, favorendo soluzioni amichevoli. Il giudice o la parte convenuta, se la negoziazione non viene esperita, possono eccepire l’improcedibilità della domanda entro la prima udienza.

Nel caso specifico, la Regione Marche aveva inizialmente eccepito l’improcedibilità della domanda sostenendo che si trattasse di una richiesta di risarcimento per danni derivanti dalla circolazione di veicoli, ma il Tribunale aveva rigettato l’eccezione. In appello, invece la Regione aveva sollevato un nuovo motivo di improcedibilità, affermando che la richiesta riguardasse la richiesta di pagamento di una somma inferiore a 50.000 euro, altra fattispecie soggetta a negoziazione assistita. La Corte d’Appello aveva accolto la nuova eccezione.

Negazione assistita: rispetto termini per sollevare l’eccezione

La Corte di Cassazione invece ha stabilito che, fermo restando l’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento della negazione assistita nei casi previsti dalla legge, sollevare tale eccezione in appello deve ritenersi inammissibile. Questa eccezione rituale infatti deve essere sollevata in primo grado, ossia entro i limiti temporali previsti dalla legge. La Cassazione ha  evidenziato nella decisione che il giudice d’appello non poteva accogliere una nuova eccezione di improcedibilità sollevata in secondo grado. La sentenza impugnata è stata quindi cassata e la causa è stata rinviata alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, per un nuovo esame.

Dalla decisione emerge l’importanza della negoziazione assistita, condizione di procedibilità della domanda in giudizio nelle richieste risarcitorie e di pagamento sopra evidenziate. Chi intende agire in giudizio deve quindi verificare se il caso rientra tra quelli soggetti alla negoziazione assistita perché il mancato rispetto di questa condizione può rendere la domanda improcedibile. Importante però anche il rispetto rigoroso delle regole procedurali e in particolare dei termini entro cui sollevare l’eccezione di improcedibilità della domanda, condizione che nel caso di specie non è stata rispettata.

 

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appropriazione indebita

Appropriazione indebita trattenere i beni mobili dell’ex marito Appropriazione indebita: scatta il reato per la moglie che deve lasciare l’immobile assegnato e trattiene i beni dell’ex marito

Reato di appropriazione indebita

L’appropriazione indebita scatta nel momento in cui l’assegnatario dell’immobile, obbligato, in sede di divorzio, a lasciare l’abitazione, continua a trattenere i beni altrui. La mancata restituzione dei beni dell’ex coniuge presenti nella casa coniugale assegnata durante la separazione, non costituisce infatti automaticamente reato.

Il possesso dei beni durante la separazione può quindi essere considerato lecito, purché i beni stessi facciano parte del corredo della casa coniugale. Se però sopravviene l’obbligo legale di liberare l’immobile, la volontà di non restituire i beni configura un illecito penale. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 47057/2024.

Reato trattenere i beni mobili dell’ex coniuge

La Corte di Appello di Catania ha confermato una sentenza del Tribunale di Ragusa del 2020. La condanna riguardava un caso di appropriazione indebita da parte di una donna nei confronti dell’ex coniuge. La donna aveva trattenuto beni di pregio appartenenti all’ex marito, che facevano parte dell’arredamento della loro ex casa coniugale.

La ricorrente per opporsi alla condanna si è rivolta alla Corte di Cassazione, sostenendo due punti principali. Ha contestato la tardività della querela presentata dall’ex marito e ha invocato l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale, che esclude la punibilità per reati tra coniugi non separati legalmente. La difesa ha sostenuto anche che l’ex marito era consapevole, già dal 2009, dell’intenzione della donna di non restituire i beni. Inoltre, ha affermato che il presunto reato si sarebbe verificato quando il matrimonio era ancora in vigore, quindi prima del divorzio del 2015.

Inapplicabile l’art. 649 c.p. se la coppia è divorziata

La Corte di Cassazione però ha giudicato il ricorso inammissibile, ritenendo infondate le motivazioni della difesa per diversi motivi.

La proprietà dei beni contestati non era mai stata messa in discussione. Il possesso dei beni però era stato inizialmente attribuito alla donna, in quanto parte dell’arredamento della casa coniugale assegnata a lei durante il divorzio. Il comportamento della donna non ha quindi configurato il reato di appropriazione indebita fino all’estate del 2017.

Nel corso di questo anno però la donna ha asportato i beni dalla casa coniugale e li ha consegnati a un antiquario per la vendita. Questo comportamento è stato ritenuto il primo atto concreto di appropriazione indebita. Di questi fatti l’ex marito è venuto a conoscenza solo nell’agosto 2017, la querela, presentata il 16 agosto 2017, è stata quindi tempestiva.

La Corte ha respinto anche l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale. Il reato è stato commesso in effetti dopo il divorzio, quindi non rientra nei casi di non punibilità previsti dalla norma. Dalla sentenza emerge in conclusione che l’appropriazione indebita di beni mobili rappresenta un reato perseguibile anche tra ex coniugi, soprattutto quando il comportamento illecito avviene dopo la cessazione del vincolo matrimoniale.

 

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pagamento contributo unificato

Pagamento contributo unificato: la Cassazione chiede lumi Con una nota la presidente Margherita Cassano chiede al ministero della Giustizia chiarimenti sul mancato o parziale pagamento del contributo unificato

La nota della Cassazione

Mancato pagamento contributo unificato: a chiedere lumi al ministero della Giustizia sulla novità introdotta dalla legge di bilancio 2025 è la stessa Cassazione, con una nota dell’8 gennaio 2025, a firma della prima presidente, Margherita Cassano.

Le modifiche della legge di bilancio 2025

Si ricorda che la legge di bilancio ha apportato importanti novità al processo civile.

In particolare, all’art. 14 del Testo Unico sulle Spese di Giustizia (DPR n. 115/2002), è stato aggiunto il comma 3.1, che stabilisce: “Fermi i casi di esenzione previsti dalla legge, nei procedimenti civili la causa non può essere iscritta a ruolo se non è versato l’importo determinato ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera a), o il minor contributo dovuto per legge”.

La circolare di via Arenula

Nella circolare del Dipartimento per gli Affari di Giustizia (DAG) di via Arenula del 30 dicembre 2024, viene stabilito che il personale di cancelleria non potrà procedere all’iscrizione a ruolo di una causa civile nei seguenti casi: a) nelle ipotesi in cui il contributo unificato dovuto sia pari o inferiore a 43 euro, non venga versato integralmente l’importo effettivamente dovuto a titolo di contributo unificato; b) nelle ipotesi in cui l’importo dovuto del contributo unificato sia superiore a 43 euro, la parte che chiede l’iscrizione della causa non versi almeno l’importo di euro 43.

Leggi in merito Contributo unificato: cosa cambia dal 2025

I dubbi della Cassazione

Alla luce della novella normativa, la Cassazione evidenzia, dunque, la necessità di ricevere chiarimenti sulle modalità applicative per quel che attiene ai servizi di cancelleria, ferma restando la competenza giurisdizionale in ordine all’interpretazione della norma in esame.

Rifiuto immediato o sospensione temporanea

In particolare, nella nota vengono formulati i seguenti quesiti: se l’enunciato ‘la causa non può essere iscritta a ruolo’ laddove non venga corrisposto il contributo unificato anche nel minor importo, stia a significare “che il riscontro del mancato pagamento consenta di mantenere sospesa l’iscrizione stessa” sino all’avvenuto pagamento “oppure comporti il rifiuto, da parte della cancelleria, dell’iscrizione della causa (nel giudizio di legittimità del ricorso)”.

Nella prima ipotesi (sospensione dell’iscrizione), se sia possibile “configurare un termine entro il quale l’avvocato debba comunque provvedere a dare riscontro del pagamento del contributo unificato, tenendo conto, per un verso, che il deposito dell’atto si ha solo in caso di accettazione dell’atto/ricorso, e, per altro verso, dei termini di legge per la produzione, in sede di legittimità, di atti e documenti di cui agli artt. 369 e 372 c.p.c.”.

Problemi tecnici nella gestione dei pagamenti

Un ulteriore chiarimento richiesto riguarda le difficoltà operative legate alla mancanza di un applicativo adeguato per verificare in tempo reale il pagamento del contributo unificato.

In particolare, chiede la Cassano, “come debba procedere la cancelleria in attuale assenza di idonea applicazione informatica che consenta di intercettare direttamente, al momento dell’accettazione del ricorso, il deposito della distinta di avvenuto pagamento del contributo unificato anche là dove non prodotta dall’avvocato sotto corretta nomenclatura identificativa”.

Nell’attesa, conclude la nota, “si confida nel consueto spirito di collaborazione nell’interesse del servizio giustizia”. 

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contributo unificato

Contributo unificato: cosa cambia dal 2025 Contributo unificato: la circolare del Ministero della Giustizia sulle novità della manovra 2025 relative a mancato pagamento e recupero

Contributo unificato: novità della manovra 2025

La Legge di Bilancio 2025 introduce importanti cambiamenti per il versamento del contributo unificato nei procedimenti civili. Le nuove norme, in vigore dal 1° gennaio 2025, mirano a garantire maggiore precisione nei pagamenti e incidono direttamente sull’iscrizione a ruolo delle cause. Le novità della manovra 2025 relative anche a mancato pagamento e recupero sono state esplicitate in una circolare del ministero della Giustizia del 30 dicembre 2024.

Nuove disposizioni sull’iscrizione a ruolo

In base al nuovo comma 3.1, aggiunto all’articolo 14 del D.P.R. 115/2002, una causa civile non può essere iscritta a ruolo senza il pagamento del contributo unificato previsto. L’importo minimo da versare è pari a 43 euro, secondo quanto previsto dall’articolo 13, comma 1, lettera a) dello stesso decreto.

In pratica:

  1. se il contributo dovuto è pari o inferiore a 43 euro, l’iscrizione a ruolo è possibile solo con il versamento dell’importo nella misura dovuta per intero;
  2. se il contributo è superiore a 43 euro, la parte che iscrive la causa deve pagare almeno 43 euro. Eventuali somme mancanti verranno recuperate successivamente.

Queste regole non modificano le esenzioni già previste dalla legge. Le parti esentate continueranno a non dover nulla. Inoltre, se l’importo dovuto è inferiore a 43 euro, sarà sufficiente versare la somma minore.

Recupero delle somme mancanti dovute

In caso di versamento parziale del contributo unificato, la legge di bilancio introduce nuove modalità per il recupero delle somme mancanti. L’articolo 248 del D.P.R. 115/2002 si arricchisce del comma 3-bis. Questa disposizione prevede che, trascorsi 30 giorni dall’iscrizione a ruolo o dal momento in cui sorge l’obbligo di pagamento, l’ufficio competente o Equitalia Giustizia Spa ( in presenza di apposita convenzione) procedano al recupero delle somme tramite iscrizione a ruolo. Il recupero include interessi legali e sanzioni.

La riscossione avviene secondo le norme previste dall’articolo 32 del D.Lgs. 46/1999, che disciplinala riscossione e spontanea a mezzo ruolo, applicando anche le disposizioni contenute nell’articolo 25, comma 2, del D.P.R. 602/1973. Detta norma dispone nello specifico che la cartella di pagamento, redatta in conformità al modello approvato con decreto del Ministero delle finanze, contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata.”

Entrata in vigore e norme transitorie

Le nuove regole si applicano esclusivamente alle controversie iscritte a ruolo dal 1° gennaio 2025. Per quelle iscritte fino al 31 dicembre 2024, continuano a valere le norme precedenti, indipendentemente dalla fase processuale in cui si trovano.

Obiettivo delle modifiche

Con questa riforma, il Ministero punta a garantire maggiore trasparenza e tempestività nei versamenti. Le novità riducono il rischio di contenziosi legati a omissioni parziali e semplificano il recupero delle somme dovute.

La manovra 2025 segna quindi un passo avanti nella gestione delle spese di giustizia, con effetti immediati sull’accesso alla tutela legale.

 

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