giurista risponde

Diritti di abitazione e uso coniuge separato I diritti di abitazione e uso spettano al coniuge separato senza addebito?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

I diritti di abitazione e uso, accordati al coniuge superstite dall’art. 540, comma 2, c.c. spettano anche al coniuge separato senza addebito, eccettuato il caso in cui, dopo la separazione, la casa sia stata lasciata da entrambi i coniugi o abbia comunque perduto ogni collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l’originaria destinazione familiare. – Cass. II, 26 luglio 2023, n. 22566.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la spettanza al coniuge separato senza addebito del diritto di abitazione ed uso di cui all’art. 540, comma 2, c.c.

Quest’ultimo consiste in un diritto personale di godimento riconosciuto al coniuge superstite, la cui ratio si individua nella necessità di garantire allo stesso la permanenza nella c.d. “casa familiare” in modo da evitare un significativo mutamento del proprio aspetto personale.

Tali attribuzioni vengono qualificati dalla giurisprudenza come prelegati, ossia legati (in questo caso ex lege) a favore dell’erede ed a carico dell’eredità.

In relazioni ad essi si è posto il problema della loro spettanza in favore del coniuge separato senza addebito, nonostante la parificazione normativa, in punto successorio, tra la posizione dello stesso e quella del coniuge non separato.

Secondo un primo orientamento, infatti, per “casa familiare” si dovrebbe intendere la sola la casa di residenza comune al momento dell’apertura della successione.

Ai sensi di una seconda tesi, invece, oggetto dei diritti di abitazione e di uso dovrebbe essere l’ultima casa che fu di residenza comune, benché in un tempo precedente all’apertura della successione, ed i mobili che la corredavano.

Infine, secondo un terzo orientamento la “casa familiare” andrebbe vista nella residenza comune dei due coniuge id in cui quello superstite si trovi ancora al momento di apertura della successione. A tale soluzione, tuttavia, è stato rimproverato di introdurre una disparità di trattamento nei confronti del coniuge senza prole o che vi abbia rinunziato all’assegnazione della casa familiare per ragioni legittime o al quale per qualsiasi motivo, il giudice non abbia attribuito il diritto di abitazione.

Appare dunque preferibile la tesi che esclude che la residenza familiare debba ancora essere in atto al momento dell’apertura della successione, posto che da un lato, la norma non annovera tra i presupposti per l’attribuzione dei diritti in esame la convivenza fra i coniugi e, dall’altro, l’art. 548 c.c. è chiaro nel parificare i diritti successori del coniuge separato senza addebito a quelli del coniuge non separato.

In un tale contesto, l’unico fattore ostativo al riconoscimento del diritto di abitazione e d’uso al coniuge superstite si ha solo qualora il medesimo, dopo la separazione, abbia abbandonato l’abitazione o questa avesse perso ogni collegamento con la destinazione familiare.

In tali ipotesi, infatti, viene meno la stessa esigenza che sorregge l’istituto in esame, ossia la perpetrazione dell’habitat familiare e la tutela dell’assetto di vita goduto durante il rapporto di coniugo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Cass., sez. II, 12 giugno 2014; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22456
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Rinuncia azione di riduzione e donazione La rinuncia all’azione di riduzione può integrare una donazione indiretta?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

La rinuncia del coniuge all’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della quota di legittima può comportare un arricchimento nel patrimonio della figlia beneficiata, nominata erede universale, tale da integrare gli estremi di una donazione indiretta se corra un nesso di causalità diretta tra donazione e arricchimento. – Cass., sez. II, ord. 28 luglio 2023, n. 23036.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a valutare se la condotta di colui che rinuncia all’azione di riduzione possa o meno integrare una donazione indiretta, ossia quegli atti di liberalità in cui l’intento donativo viene raggiunto con un diverso negozio avente autonoma struttura e funzione, e che sono sottoposte allo stesso regime sostanziale delle donazioni dirette.

La giurisprudenza, per ciò che concerne gli atti di rinuncia, ha più volte affermato come gli stessi possano integrare donazioni indirette.

Il principio è in particolare stato ribadito con riguardo alla rinuncia abdicativa di un diritto reale minore, come l’usufrutto, che pur si estingue con la morte del titolare ma che, se estinto anticipatamente per rinuncia, ispirata da animus donandi, del nudo proprietario, si risolve nel conseguimento da parte del dominus dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe stato sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza (Cass., sez. II, 30 ottobre 1997, n. 1311). O, ancora, con riguardo alla rinuncia alla quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comunisti, mediante eliminazione dello stato di compressione in cui il diritto di questi ultimi si trovava a causa dell’appartenenza in comunione anche ad un altro soggetto”, ritenuta donazione indiretta, senza che sia all’uopo necessaria la forma dell’atto pubblico, essendo utilizzato per la realizzazione del fine di liberalità un negozio diverso dal contratto di donazione (Cass., sez. II, 25 febbraio 2015, n. 3819).

Nel caso in esame, tuttavia, la Corte di Appello ha escluso che a tali tipi di donazioni indirette possano essere ricondotti i casi di rinuncia dell’azione di riduzione, avendo questa ad oggetto beni di cui il soggetto non è mai stato proprietario, mancando dunque degli elementi essenziali tipici della donazione tra i quali l’impoverimento del donante.

Tale assunto non è condiviso dalla Corte di Cassazione.

La Corte distrettuale oblitera la circostanza che le donazioni indirette “hanno in comune con l’archetipo l’arricchimento senza corrispettivo, voluto per spirito liberale da un soggetto a favore dell’altro, ma se ne distinguono perché l’arricchimento del beneficiario non si realizza con l’attribuzione di un diritto o con l’assunzione di un obbligo da parte del disponente, ma in modo diverso”.

Da ciò discende che lo stesso concetto di impoverimento del donante non va necessariamente inteso come attuale depauperamento patrimoniale, ma assume connotati più ampi, tali da ricomprendere il mero consapevole esercizio – sorretto da intento liberale – della possibilità di arricchire il proprio patrimonio, in favore della parte che da tale azione ne sarebbe risultata impoverita.

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Danno non patrimoniale e limiti tabelle milanesi Nella liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, è possibile superare i limiti massimi stabiliti dalle tabelle milanesi?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

Costituisce principio consolidato quello per cui, in sede di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, il giudice possa discostarsi dai limiti tabellari, purché tale operazione sia adeguatamente motivata in modo da giustificare tale “personalizzazione”. – Cass. III, 11 luglio 2023 n. 19731.

La vicenda scaturisce dalle riportate lesioni gravi ed invalidità permanente, a seguito delle quali i congiunti del danneggiato presentano richieste risarcitorie da lesione del rapporto parentale. Il giudice di prime cure riconosce la fondatezza delle relative domande, e tale conclusione viene confermata dalla Corte d’appello, benché la stessa proceda a ridurre il quantum debeatur risarcitorio, censurando il superamento in primo grado dei limiti massimi stabiliti dalle tabelle milanesi.

La Suprema Corte viene quindi chiamata a pronunciarsi in relazione alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1226 c.c., per essersi in secondo grado erroneamente censurato l’aumento effettuato dal giudice di prime cure nella liquidazione del danno da lesione del rapporto parentale, sul presupposto dell’impossibilità di superare i limiti massimi stabiliti dalle tabelle milanesi. Tale doglianza viene ritenuta fondata, nella parte in cui si osserva che la liquidazione equitativa del danno consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, per cui il giudice deve dar conto del peso attribuito a ciascuno di essi in motivazione, ossequiando i principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento. Per ciò, ove il giudice non indichi le ragioni dell’operato apprezzamento né richiami gli specifici criteri adottati nella liquidazione, si incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione che in quello di violazione dell’art. 1226 c.c.

Più nello specifico, l’assunto per cui non è possibile superare i limiti delle tabelle milanesi è in diritto errata: in sede di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, infatti, il giudice ben può discostarsi dai limiti tabellari, ma tale operazione deve essere supportata da un’adeguata motivazione, la quale renda manifeste le circostanze – anomale ed irripetibili (e provate dalla parte danneggiata) – che hanno richiesto una “personalizzazione” in aumento rispetto ai limiti tabellari, che renderebbero altrimenti inidonea la liquidazione rispetto all’entità del danno patito.

La Suprema Corte, quindi, cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello, che dovrà procedere ad una nuova liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale.

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Risoluzione per impossibilità sopravvenuta e caparra A fronte della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione, è possibile condannare al pagamento del doppio della caparra, di cui all’art. 1385, comma 2, c.c.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

La pronuncia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione, in quanto fondata su fatto non imputabile ai contraenti, dà luogo solo agli obblighi restitutori derivanti dallo scioglimento del vincolo contrattuale, essendo divenute indebite le prestazioni rese. Essa non consente di condannare il debitore al pagamento del doppio della caparra, giacché ciò presuppone l’inadempimento. – Cass. II, 31 luglio 2023, n. 23209.

La decisione scaturisce da un’articolata trattativa per una vendita immobiliare, in cui la stipulazione del preliminare viene accompagnata dalla dazione di una caparra, che culmina nel recesso del promittente venditore per inadempimento della controparte, a cui questa reagisce con le domande giudiziali di inadempimento del preliminare, risarcimento e versamento del doppio della caparra. Il giudice di prime cure dichiara l’impossibilità dell’esecuzione dei contratti preliminari e tale statuizione, non oggetto di alcun motivo di gravame in appello, passa in giudicato. In appello, invece, si pronuncia la condanna dei ricorrenti al pagamento del doppio della caparra.

La Suprema Corte osserva come non possa che reputarsi giuridicamente scorretta, nonché intrinsecamente contradditoria, la decisione di secondo grado.

L’art. 1385, comma 2, c.c. stabilisce che i meccanismi speculari di ritenzione della caparra e di pretesa del suo doppio (a seconda della parte) trovano fondamento nell’inadempimento della controparte, mentre il comma successivo stabilisce che, se la parte non inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, allora il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.

Osserva la Suprema Corte come il diritto di recesso sia una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, che presuppone un inadempimento della controparte connotato dagli stessi caratteri richiesti da quello che giustifica la risoluzione giudiziale: in ambo i casi, a fronte di tale presupposto si ha la caducazione ex tunc degli effetti del contratto. Per ciò, il recesso (con ritenzione della caparra) è legittimamente esercitato se l’inadempimento è di non scarsa importanza ex art. 1455 c.c., nonché gravemente colpevole e cioè imputabile ex artt. 1218 e 1256 c.c. (Cass. Sez. Un. 14 gennaio 2009, n. 553). Ciò posto, l’interazione da attenzionare non è quella fra recesso e risoluzione, ma quella fra incamerare la caparra (o il suo doppio) ed instaurare un giudizio per ottenere un maggiore risarcimento. La vera antinomia è, insomma, fra azione di risarcimento ordinaria e ritenzione della caparra (Cass. Sez. Un. 14 gennaio 2009, n. 553): la finalità della liquidazione immediata, forfettaria e stragiudiziale della pretesa alla sola caparra viene esclusa dalla pretesa giudiziale al risarcimento del maggior danno da risarcire (e provare). Alla stregua di ciò, una domanda principale di risoluzione contrattuale correlata a una richiesta risarcitoria nei limiti della caparra altro non è che una domanda di accertamento del recesso.

Dalla risoluzione del contratto per inadempimento (anche se stragiudiziale da recesso) va distinta la risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex artt. 1256 e 1463 c.c., dato che tale impossibilità non è imputabile al debitore e paralizza la domanda di adempimento, determinando nei contratti a prestazioni corrispettive l’estinzione dell’obbligazione e la risoluzione di diritto (Cass. 28 gennaio 1995, n. 1037). Risoluzione per inadempimento (anche se stragiudiziale da recesso) e risoluzione per impossibilità sopravvenuta hanno presupposti e natura diversi: la prima ha carattere sanzionatorio, tende a una pronuncia costitutiva e si fonda sul comportamento doloso o colpevole della parte; la seconda tende ad una pronuncia di accertamento e si fonda su un fatto estraneo alla sfera di imputabilità dei contraenti. La non imputabilità dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione comporta l’estinzione dell’obbligazione, mentre l’imputabilità determina la conversione dell’obbligazione di adempimento in quella di risarcimento del danno e, se il contratto è a prestazione corrispettive, dà altresì luogo all’azione di risoluzione per inadempimento (Cass. 22 dicembre 1983, n. 7580).

Se, come nel caso di specie (la relativa statuizione è passata in giudicato), si afferma l’impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione del contratto, allora perdono significato tutte le questioni relative al comportamento delle parti, e residuano i soli obblighi restitutori generati dal venir meno del vincolo contrattuale, essendo divenuta indebita la ritenzione delle prestazioni eseguite. Da ciò consegue che, se è stata versata caparra confirmatoria, la condanna non può che vertere sulla restituzione della stessa, e non del suo doppio.

La Suprema Corte, quindi, cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello: pur a fronte della – coperta da giudicato – risoluzione del contratto preliminare per impossibilità sopravvenuta della prestazione, infatti, essa ha confermato una statuizione di condanna al pagamento del doppio della caparra che, avendo una natura risarcitoria (anche se limitata nel quantum), postula invece l’accertamento dell’inadempimento.

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Responsabilità artt. 1669 e 2043 c.c. Qual è il rapporto fra le fattispecie di responsabilità di cui agli artt. 1669 e 2043 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

Rispetto alla costruzione di un edificio, è possibile invocare la responsabilità ex art. 2043 c.c. soltanto ove non ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità ex art. 1669 c.c., purché non per superare i limiti temporali entro i quali l’ordinamento ne consente l’operatività, ovvero senza aggirare lo speciale regime di prescrizione e decadenza che la caratterizza. – Cass. II, 17 luglio 2023, n. 20450.

La vicenda scaturisce dall’appalto di lavori di copertura di alcune unità immobiliari, successivamente ai quali si verificano delle infiltrazioni. Il giudice di prime cure rileva come l’azione ex art. 1669 c.c. sia stata intentata oltre il termine annuale di prescrizione richiesto dal relativo comma 2, e che la domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. sia da considerare nuova, giacché proposta solo nella prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. ed ampliante il thema decidendum. Data la specialità della disciplina di cui all’art. 1669 c.c. rispetto a quella ex art. 2043 c.c., si ritiene in primo grado che quest’ultima potrebbe invocarsi solo in assenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della prima, e comunque non per derogare ai suoi limiti prescrizionali e decadenziali. Di diverso avviso il giudice dell’appello, ritenendo che la domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. non sarebbe nuova – giacché ambo le norme implicherebbero una prospettazione di responsabilità extracontrattuale –, e anzi sarebbe fondata.

La Suprema Corte viene chiamata a pronunciarsi anzitutto sull’ammissibilità della domanda ex art. 2043 c.c., benché formulata per la prima volta nella menzionata memoria e, in secundis, sulla sua riconosciuta fondatezza nonostante il difetto dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti, e la prescrizione della domanda ex art. 1669 c.c.

La Corte rileva come la domanda fosse ammissibile e come, per orientamento consolidato (da ultimo, Cass. Sez. Un. 3 febbraio 2014, n. 2284), vi sia compatibilità delle domande ex artt. 1669 e 2043 c.c. rispetto al medesimo evento. Più nello specifico, l’art. 1669 c.c. dà luogo ad un’ipotesi di responsabilità aquiliana perché, pur presupponendo un rapporto contrattuale, ne supera i confini e si configura come una obbligazione derivante dalla legge per finalità e ragioni di carattere generale. Si ammette il concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale tutte le volte che un unico evento dannoso nella sua genesi soggettiva (cioè: un comportamento risalente allo stesso autore) appaia in sé lesivo non solo di diritti specifici derivanti da clausole contrattuali, ma anche di diritti assoluti quali la tutela della proprietà ex art. 832 c.c. La norma ex art. 1669 c.c. è diretta, infatti, a tutelare l’interessepubblico e trascendente quello individuale – alla stabilità e solidità degli immobili destinati a lunga durata, nell’ottica della sicurezza dei cittadini. Si ha quindi una disciplina derogatoria rispetto a quella generale di cui all’art. 2043 c.c., sia nell’atto illecito (che deve consistere in gravi difetti di costruzione per violazione delle regole dell’arte o per vizi del suolo preesistenti) che nel danno ingiusto (consistente nella rovina dell’edificio, o nel relativo pericolo). La specialità dell’art. 1669 c.c. rispetto all’art. 2043 c.c. implica che quest’ultimo sia applicabile ove non lo sia il primo: ritenere diversamente rischierebbe di produrre un effetto distonico rispetto alla ratio di tutela dell’art. 1669 c.c., giacché il danno verificatosi oltre il decennio non sarebbe idoneo a dar luogo a responsabilità, creando una inammissibile zona franca. Come affermato già da Cass. Sez. Un. 3 febbraio 2014, n. 2284, l’art. 1669 c.c. non è infatti norma di favore per il costruttore, ma di più efficace tutela del committente, dei suoi aventi causa e dei terzi in generale: si ha un regime di responsabilità più rigoroso rispetto a quello ex art. 2043 c.c., per la presenza della presunzione iuris tantum di responsabilità dell’appaltatore, che viene compensata da una restrizione temporale. Se la ratio del 1669 è di tutela, in assenza dei suoi presupposti sarebbe irragionevole – a fronte di una responsabilità della medesima natura – ritenere non invocabile l’art. 2043 c.c., ovviamente con l’applicazione delle relative regole (soprattutto in punto di regime probatorio). Può quindi invocarsi l’art. 2043 c.c. quando, ad esempio, il danno si sia manifestato e prodotto oltre il decennio dal compimento dell’opera. È, in definitiva, senz’altro possibile invocare la responsabilità ex art. 2043 c.c. ove non ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità ex art. 1669 c.c., ma non per superare i limiti temporali entro i quali l’ordinamento ne consente l’operatività, ovvero senza aggirare lo speciale regime di prescrizione e decadenza che la caratterizza

La Suprema Corte, quindi, cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello: a fronte dell’intervenuta prescrizione del diritto fatto valere con l’azione ex 1669 c.c. (essendo trascorso più di un anno dalla denuncia dei vizi costruttivi), accertata dal giudice di prime cure e passata in giudicato, il giudice dell’appello ha ritenuto di ammettere la tutela risarcitoria generale di cui all’art. 2043 c.c., che però non era più riconoscibile.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 3 febbraio 2014, n. 2284
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Escussione cauzione provvisoria Vi è l’escussione della cauzione provvisoria in seguito all’esclusione dalla procedura di gara anche nel caso in cui quest’ultima non è imputabile all’operatore economico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione alla Corte di giustizia dell’UE. – Cons. Stato, Sez. V, 6 aprile 2023, n. 3571.

Il caso in esame vede la contestazione della legittimità dell’escussione della cauzione provvisoria in seguito all’esclusione dalla procedura di gara, come previsto dall’art. 75 del D.Lgs. 163/2006 (applicabile ratione temporis).

L’appellante rivendica che, l’incameramento della cauzione quale conseguenza automatica dell’esclusione, anche nel caso in cui non risulti imputabile all’operatore economico la condotta che ha costituito le cause dell’esclusione, costituirebbe una forma di responsabilità oggettiva che si tradurrebbe in un provvedimento a contenuto fortemente sanzionatorio e di natura penale, consistente nell’incameramento di una somma rilevante, e realizzerebbe una notevole deviazione dal principio secondo il quale le sanzioni vengono applicate, di regola, secondo il criterio dell’imputabilità soggettiva.

Alla luce di ciò, i Giudici di Palazzo Spada – in considerazione della rilevanza della questione di compatibilità della normativa con le disposizioni eurounitarie – chiedono alla Corte di giustizia dell’UE di pronunciarsi sulla seguente questione pregiudiziale: “se gli artt. 16, 49, 50 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 4, Protocollo 7, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – CEDU, l’art.6 del TUE, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli articoli gli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a una norma interna (quale contenuta nell’art. 75 del D.Lgs. 163/2006) che preveda l’applicazione dell’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico da una procedura di affidamento di un contratto pubblico di lavori, altresì a prescindere dalla circostanza che lo stesso sia o meno risultato aggiudicatario della gara”.

La quinta Sezione del Consiglio di Stato dispone il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE al fine di verificare la compatibilità della disciplina interna della automatica escussione della garanzia provvisoria – a seguito, nel caso di specie, di esclusione dalla gara per produzione di un preventivo falso fornito da un consulente esterno– con l’ordinamento eurounitario e, segnatamente, con i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, nell’ipotesi che l’operatore economico attinto non sia risultato aggiudicatario.

 

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Requisiti per sollevare questione di legittimità costituzionale Quali requisiti devono sussistere per sollevare una questione di legittimità costituzionale nel giudizio impugnatorio di legittimità?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato riepiloga i principi elaborati dalle plenarie n. 7, 19 e 21/2021 in tema di risarcimento del danno da responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi.  – Cons. Stato, sez. IV, 4 maggio 2023, n. 4523.

Preliminarmente, nel giudizio impugnatorio di legittimità per superare il vaglio della rilevanza, la questione di legittimità costituzionale deve non solo fare riferimento ai vizi denunciati con il ricorso, ma anche alla domanda in concreto proposta, che rispettando il principio del divieto dei nova in appello recepito dall’art. 104, comma 1, c.p.a., non può che essere quella descritta nel ricorso proposto in primo grado.

Pertanto, la necessaria corrispondenza tra petitum e decisum fissa i limiti invalicabili, nel cui rispetto deve essere esaminata la rilevanza della questione proposta dalla parte. Dunque, se è vero che non vi è un limite temporale anche nel giudizio amministrativo di secondo grado per sollevare la questione di legittimità costituzionale, non possono essere ritenute rilevanti questioni che riguardino norme la cui violazione il proponente non abbia ritualmente evidenziato in primo grado e nei limiti imposti all’effetto devolutivo dai principi di specificità e tempestività dei motivi di appello.

La funzione legislativa – salvi i limiti costituzionali – è per definizione “libera nei fini”, da ciò ne segue la naturale insussistenza di una possibile qualificazione del danno come “ingiusto”, perché – diversamente che di fronte all’azione amministrativa – davanti all’attività legislativa non vi sono situazioni soggettive dei singoli protette dall’ordinamento. Va perciò rimarcata la diversità della fattispecie della responsabilità dello Stato per inadempimento degli obblighi comunitari. Solo nel caso di ritardata o mancata attuazione di obblighi comunitari è possibile, invero, rinvenire un’adeguata base legale alla responsabilità dello Stato-legislatore, con correlato diritto del singolo attivabile direttamente dinanzi all’autorità giudiziaria. La diversità di trattamento tra legge incostituzionale e legge anti-europea ha la propria ratio nella necessità di contrastare condotte violative del diritto eurounitario perpetrate dagli Stati membri, prescindendo dalle articolazioni interne allo Stato-apparato (potere legislativo, amministrativo e giudiziario); si tratta, evidentemente, di una ragione non replicabile nel contesto della legge incostituzionale.

Dunque, i limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell’affidamento sono i seguenti: l’affidamento tutelabile deve essere ragionevole e, quindi, incolpevole; esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento o con il suo comportamento correlato al pubblico potere e in cui il privato abbia senza colpa confidato; il grado della colpa dell’amministrazione rileva sotto il profilo della riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere affetto il provvedimento; l’aspettativa sul risultato utile o sulla conservazione dell’utilità deve essere ottenuta in circostanze che obiettivamente la giustifichino; la buona fede «non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave». L’affidamento deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento o con il suo comportamento correlato al pubblico potere e in cui il privato abbia senza colpa confidato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2023, n. 4390;
Cons. Stato, sez. IV, 28 aprile 2023, n. 4288;
Cons. Stato, sez. I, 4 novembre 2022, n. 9680;
Cons. Stato, sez. IV, 2 settembre 2022, n. 7673; Id., 17 agosto 2022, n. 7157;
Cons. Stato, sez. I, 26 novembre 2015, n. 5373
giurista risponde

Sindacato giurisdizionale e legittimità procedimento In materia di procedimento disciplinare il sindacato giurisdizionale pur essendo “debole” deve potersi sempre estendere alla verifica della legittimità del procedimento e della sanzione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, il sindacato giurisdizionale seppur “debole” non per questo è da considerarsi nullo. – Cons. Stato, sez. IV, 5 maggio 2023, n. 4554.

I Giudici della IV Sezione evidenziano che pur dovendosi ribadire il consolidato orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato sui margini di discrezionalità insiti nell’apprezzamento dei fatti rilevanti sul versante disciplinare, della loro gravità e del rigore della risposta sanzionatoria che debba scaturirvi va altresì ribadito l’orientamento di questo Consiglio (pur non condividendosi l’uso dell’aggettivo “debole”, trattandosi semplicemente di operare il sindacato consentaneo al giudizio di legittimità), secondo cui:In materia di procedimento disciplinare il sindacato giurisdizionale è sì ‘debole’ ma non per questo nullo. Nei limiti della sua tenuità, tale sindacato deve potersi pur sempre estendere alla verifica della legittimità dell’esercizio del pubblico potere, specie sanzionatorio, quanto meno dal punto di vista dell’adeguatezza dell’iter procedimentale seguito, segnatamente per quanto attiene alla istruttoria procedimentale, e del rispetto del principio di proporzionalità tra accadimenti come effettivamente accertati e punizione comminata.” o in caso di “manifesta illogicità e irragionevolezza, evidente sproporzionalità e travisamento dei fatti”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 12 dicembre 2022, n. 10852;
Cons. Stato, sez. II, 7 novembre 2022, n. 9756;
Cons. Stato, sez. III, 4 novembre 2022, n. 9680; Id., 17 agosto 2022, n. 7157;
Cons. Stato, sez. II, 14 marzo 2022, n. 1787
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Cessione standard urbanistici e contributo costruzione Qual è la differenza tra la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici e il contributo di costruzione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato lo ha chiarito richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa in materia di monetizzazione di standard urbanistici. – Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2023, n. 4908.

I Giudici enunciano che, “la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici non ha la medesima natura giuridica del contributo di costruzione, atteso che non è una prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell’art. 23 Cost.; inoltre, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento. Pertanto, l’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione non esclude che sia dovuta anche la cessione di aree a standard”.

È opportuno ricordare che, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici è un beneficio di carattere eccezionale, concepito come misura di favore per il richiedente un titolo edilizio che, in base allo strumento urbanistico, deve, per l’appunto, cedere o reperire nella zona in cui intende realizzare l’intervento costruttivo aree per la realizzazione di opere pubbliche, nel rispetto delle misure e secondo i criteri dettati dal D.M. 1444/1968.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 19 gennaio 2023, n. 659; Id., 10 gennaio 2022, n. 148;
Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2016, n. 4417;
Cons. Stato, sez. IV, 14 febbraio 2014, n. 1820; Id., 23 dicembre 2013, n. 6211;
Id., 4 febbraio 2013, n. 644
giurista risponde

Titolo edilizio per silentium Può formarsi titolo edilizio per silentium se sull’area interessata sussistano vincoli paesaggistici?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato evidenzia che in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio assenso, bensì per provvedimenti espliciti. Nessun titolo edilizio può formarsi per silentium ove sull’area interessata sussistano vincoli paesaggistici. – Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2023, n. 4933.

Il Collegio ha ribadito che, la normativa nazionale in materia di distanze, art. 9 del D.M. 1444/1968, ha carattere inderogabile, in quanto norma imperativa volta a predeterminare in via generale le distanze tra costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza. Queste prescrizioni sono considerate inderogabili, con conseguente illegittimità delle previsioni urbanistiche comunali che contrastano con esse.

È necessario ricordare che la distanza minima è peraltro imposta per qualsiasi forma di nuova costruzione da effettuarsi in tutto il territorio comunale, soggiacente, come tale, sia al regime di nuova costruzione (nuovi edifici, ampliamenti, sopraelevazioni, addizioni volumetriche, superficie) sia al regime ricostruttivo (demolizione e ricostruzione, integrale o parziale di edifici, traslazione volumi e area di sedime; modifiche di sagoma, anche a parità di volume, modifiche planivolumetriche).

Le uniche eccezioni sono gli interventi di risanamento conservativo; le ristrutturazioni di edifici situati nelle zone omogenee A (centri e nuclei storici), dove le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; i gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con specifiche previsioni planovolumetriche.

Ad ogni modo, in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio assenso, bensì per provvedimenti espliciti, ai sensi dell’art. 20, comma 4, L. 241/1990.

Infine, l’art. 2bis del D.P.R. 380/2001 consente, nel quadro dei principi che informano la potestà legislativa concorrente delle regioni in materia di governo del territorio, la possibilità di prevedere con normazione a livello territoriale, a determinate condizioni, disposizioni derogatorie al D.M. 1444/1968.

La sentenza del Consiglio di Stato ribadisce l’importanza della tutela dell’ambiente e del paesaggio nel diritto amministrativo, sottolineando l’inderogabilità delle norme che regolano le distanze tra costruzioni e l’impossibilità di ottenere titoli edilizi per silentium in aree paesaggisticamente vincolate.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2022, n. 9750;
Id., 19 ottobre 2021, n. 7029; Id., 23 giugno 2017, n. 3093;
Id., 8 maggio 2017, n. 2086; Id., 20 febbraio 2016, n. 856