giurista risponde

Responsabilità artt. 1669 e 2043 c.c. Qual è il rapporto fra le fattispecie di responsabilità di cui agli artt. 1669 e 2043 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

Rispetto alla costruzione di un edificio, è possibile invocare la responsabilità ex art. 2043 c.c. soltanto ove non ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità ex art. 1669 c.c., purché non per superare i limiti temporali entro i quali l’ordinamento ne consente l’operatività, ovvero senza aggirare lo speciale regime di prescrizione e decadenza che la caratterizza. – Cass. II, 17 luglio 2023, n. 20450.

La vicenda scaturisce dall’appalto di lavori di copertura di alcune unità immobiliari, successivamente ai quali si verificano delle infiltrazioni. Il giudice di prime cure rileva come l’azione ex art. 1669 c.c. sia stata intentata oltre il termine annuale di prescrizione richiesto dal relativo comma 2, e che la domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. sia da considerare nuova, giacché proposta solo nella prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. ed ampliante il thema decidendum. Data la specialità della disciplina di cui all’art. 1669 c.c. rispetto a quella ex art. 2043 c.c., si ritiene in primo grado che quest’ultima potrebbe invocarsi solo in assenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della prima, e comunque non per derogare ai suoi limiti prescrizionali e decadenziali. Di diverso avviso il giudice dell’appello, ritenendo che la domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. non sarebbe nuova – giacché ambo le norme implicherebbero una prospettazione di responsabilità extracontrattuale –, e anzi sarebbe fondata.

La Suprema Corte viene chiamata a pronunciarsi anzitutto sull’ammissibilità della domanda ex art. 2043 c.c., benché formulata per la prima volta nella menzionata memoria e, in secundis, sulla sua riconosciuta fondatezza nonostante il difetto dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti, e la prescrizione della domanda ex art. 1669 c.c.

La Corte rileva come la domanda fosse ammissibile e come, per orientamento consolidato (da ultimo, Cass. Sez. Un. 3 febbraio 2014, n. 2284), vi sia compatibilità delle domande ex artt. 1669 e 2043 c.c. rispetto al medesimo evento. Più nello specifico, l’art. 1669 c.c. dà luogo ad un’ipotesi di responsabilità aquiliana perché, pur presupponendo un rapporto contrattuale, ne supera i confini e si configura come una obbligazione derivante dalla legge per finalità e ragioni di carattere generale. Si ammette il concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale tutte le volte che un unico evento dannoso nella sua genesi soggettiva (cioè: un comportamento risalente allo stesso autore) appaia in sé lesivo non solo di diritti specifici derivanti da clausole contrattuali, ma anche di diritti assoluti quali la tutela della proprietà ex art. 832 c.c. La norma ex art. 1669 c.c. è diretta, infatti, a tutelare l’interessepubblico e trascendente quello individuale – alla stabilità e solidità degli immobili destinati a lunga durata, nell’ottica della sicurezza dei cittadini. Si ha quindi una disciplina derogatoria rispetto a quella generale di cui all’art. 2043 c.c., sia nell’atto illecito (che deve consistere in gravi difetti di costruzione per violazione delle regole dell’arte o per vizi del suolo preesistenti) che nel danno ingiusto (consistente nella rovina dell’edificio, o nel relativo pericolo). La specialità dell’art. 1669 c.c. rispetto all’art. 2043 c.c. implica che quest’ultimo sia applicabile ove non lo sia il primo: ritenere diversamente rischierebbe di produrre un effetto distonico rispetto alla ratio di tutela dell’art. 1669 c.c., giacché il danno verificatosi oltre il decennio non sarebbe idoneo a dar luogo a responsabilità, creando una inammissibile zona franca. Come affermato già da Cass. Sez. Un. 3 febbraio 2014, n. 2284, l’art. 1669 c.c. non è infatti norma di favore per il costruttore, ma di più efficace tutela del committente, dei suoi aventi causa e dei terzi in generale: si ha un regime di responsabilità più rigoroso rispetto a quello ex art. 2043 c.c., per la presenza della presunzione iuris tantum di responsabilità dell’appaltatore, che viene compensata da una restrizione temporale. Se la ratio del 1669 è di tutela, in assenza dei suoi presupposti sarebbe irragionevole – a fronte di una responsabilità della medesima natura – ritenere non invocabile l’art. 2043 c.c., ovviamente con l’applicazione delle relative regole (soprattutto in punto di regime probatorio). Può quindi invocarsi l’art. 2043 c.c. quando, ad esempio, il danno si sia manifestato e prodotto oltre il decennio dal compimento dell’opera. È, in definitiva, senz’altro possibile invocare la responsabilità ex art. 2043 c.c. ove non ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità ex art. 1669 c.c., ma non per superare i limiti temporali entro i quali l’ordinamento ne consente l’operatività, ovvero senza aggirare lo speciale regime di prescrizione e decadenza che la caratterizza

La Suprema Corte, quindi, cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello: a fronte dell’intervenuta prescrizione del diritto fatto valere con l’azione ex 1669 c.c. (essendo trascorso più di un anno dalla denuncia dei vizi costruttivi), accertata dal giudice di prime cure e passata in giudicato, il giudice dell’appello ha ritenuto di ammettere la tutela risarcitoria generale di cui all’art. 2043 c.c., che però non era più riconoscibile.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 3 febbraio 2014, n. 2284
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Escussione cauzione provvisoria Vi è l’escussione della cauzione provvisoria in seguito all’esclusione dalla procedura di gara anche nel caso in cui quest’ultima non è imputabile all’operatore economico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione alla Corte di giustizia dell’UE. – Cons. Stato, Sez. V, 6 aprile 2023, n. 3571.

Il caso in esame vede la contestazione della legittimità dell’escussione della cauzione provvisoria in seguito all’esclusione dalla procedura di gara, come previsto dall’art. 75 del D.Lgs. 163/2006 (applicabile ratione temporis).

L’appellante rivendica che, l’incameramento della cauzione quale conseguenza automatica dell’esclusione, anche nel caso in cui non risulti imputabile all’operatore economico la condotta che ha costituito le cause dell’esclusione, costituirebbe una forma di responsabilità oggettiva che si tradurrebbe in un provvedimento a contenuto fortemente sanzionatorio e di natura penale, consistente nell’incameramento di una somma rilevante, e realizzerebbe una notevole deviazione dal principio secondo il quale le sanzioni vengono applicate, di regola, secondo il criterio dell’imputabilità soggettiva.

Alla luce di ciò, i Giudici di Palazzo Spada – in considerazione della rilevanza della questione di compatibilità della normativa con le disposizioni eurounitarie – chiedono alla Corte di giustizia dell’UE di pronunciarsi sulla seguente questione pregiudiziale: “se gli artt. 16, 49, 50 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 4, Protocollo 7, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – CEDU, l’art.6 del TUE, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli articoli gli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a una norma interna (quale contenuta nell’art. 75 del D.Lgs. 163/2006) che preveda l’applicazione dell’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico da una procedura di affidamento di un contratto pubblico di lavori, altresì a prescindere dalla circostanza che lo stesso sia o meno risultato aggiudicatario della gara”.

La quinta Sezione del Consiglio di Stato dispone il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE al fine di verificare la compatibilità della disciplina interna della automatica escussione della garanzia provvisoria – a seguito, nel caso di specie, di esclusione dalla gara per produzione di un preventivo falso fornito da un consulente esterno– con l’ordinamento eurounitario e, segnatamente, con i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, nell’ipotesi che l’operatore economico attinto non sia risultato aggiudicatario.

 

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Requisiti per sollevare questione di legittimità costituzionale Quali requisiti devono sussistere per sollevare una questione di legittimità costituzionale nel giudizio impugnatorio di legittimità?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato riepiloga i principi elaborati dalle plenarie n. 7, 19 e 21/2021 in tema di risarcimento del danno da responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi.  – Cons. Stato, sez. IV, 4 maggio 2023, n. 4523.

Preliminarmente, nel giudizio impugnatorio di legittimità per superare il vaglio della rilevanza, la questione di legittimità costituzionale deve non solo fare riferimento ai vizi denunciati con il ricorso, ma anche alla domanda in concreto proposta, che rispettando il principio del divieto dei nova in appello recepito dall’art. 104, comma 1, c.p.a., non può che essere quella descritta nel ricorso proposto in primo grado.

Pertanto, la necessaria corrispondenza tra petitum e decisum fissa i limiti invalicabili, nel cui rispetto deve essere esaminata la rilevanza della questione proposta dalla parte. Dunque, se è vero che non vi è un limite temporale anche nel giudizio amministrativo di secondo grado per sollevare la questione di legittimità costituzionale, non possono essere ritenute rilevanti questioni che riguardino norme la cui violazione il proponente non abbia ritualmente evidenziato in primo grado e nei limiti imposti all’effetto devolutivo dai principi di specificità e tempestività dei motivi di appello.

La funzione legislativa – salvi i limiti costituzionali – è per definizione “libera nei fini”, da ciò ne segue la naturale insussistenza di una possibile qualificazione del danno come “ingiusto”, perché – diversamente che di fronte all’azione amministrativa – davanti all’attività legislativa non vi sono situazioni soggettive dei singoli protette dall’ordinamento. Va perciò rimarcata la diversità della fattispecie della responsabilità dello Stato per inadempimento degli obblighi comunitari. Solo nel caso di ritardata o mancata attuazione di obblighi comunitari è possibile, invero, rinvenire un’adeguata base legale alla responsabilità dello Stato-legislatore, con correlato diritto del singolo attivabile direttamente dinanzi all’autorità giudiziaria. La diversità di trattamento tra legge incostituzionale e legge anti-europea ha la propria ratio nella necessità di contrastare condotte violative del diritto eurounitario perpetrate dagli Stati membri, prescindendo dalle articolazioni interne allo Stato-apparato (potere legislativo, amministrativo e giudiziario); si tratta, evidentemente, di una ragione non replicabile nel contesto della legge incostituzionale.

Dunque, i limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell’affidamento sono i seguenti: l’affidamento tutelabile deve essere ragionevole e, quindi, incolpevole; esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento o con il suo comportamento correlato al pubblico potere e in cui il privato abbia senza colpa confidato; il grado della colpa dell’amministrazione rileva sotto il profilo della riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere affetto il provvedimento; l’aspettativa sul risultato utile o sulla conservazione dell’utilità deve essere ottenuta in circostanze che obiettivamente la giustifichino; la buona fede «non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave». L’affidamento deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento o con il suo comportamento correlato al pubblico potere e in cui il privato abbia senza colpa confidato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2023, n. 4390;
Cons. Stato, sez. IV, 28 aprile 2023, n. 4288;
Cons. Stato, sez. I, 4 novembre 2022, n. 9680;
Cons. Stato, sez. IV, 2 settembre 2022, n. 7673; Id., 17 agosto 2022, n. 7157;
Cons. Stato, sez. I, 26 novembre 2015, n. 5373
giurista risponde

Sindacato giurisdizionale e legittimità procedimento In materia di procedimento disciplinare il sindacato giurisdizionale pur essendo “debole” deve potersi sempre estendere alla verifica della legittimità del procedimento e della sanzione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, il sindacato giurisdizionale seppur “debole” non per questo è da considerarsi nullo. – Cons. Stato, sez. IV, 5 maggio 2023, n. 4554.

I Giudici della IV Sezione evidenziano che pur dovendosi ribadire il consolidato orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato sui margini di discrezionalità insiti nell’apprezzamento dei fatti rilevanti sul versante disciplinare, della loro gravità e del rigore della risposta sanzionatoria che debba scaturirvi va altresì ribadito l’orientamento di questo Consiglio (pur non condividendosi l’uso dell’aggettivo “debole”, trattandosi semplicemente di operare il sindacato consentaneo al giudizio di legittimità), secondo cui:In materia di procedimento disciplinare il sindacato giurisdizionale è sì ‘debole’ ma non per questo nullo. Nei limiti della sua tenuità, tale sindacato deve potersi pur sempre estendere alla verifica della legittimità dell’esercizio del pubblico potere, specie sanzionatorio, quanto meno dal punto di vista dell’adeguatezza dell’iter procedimentale seguito, segnatamente per quanto attiene alla istruttoria procedimentale, e del rispetto del principio di proporzionalità tra accadimenti come effettivamente accertati e punizione comminata.” o in caso di “manifesta illogicità e irragionevolezza, evidente sproporzionalità e travisamento dei fatti”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 12 dicembre 2022, n. 10852;
Cons. Stato, sez. II, 7 novembre 2022, n. 9756;
Cons. Stato, sez. III, 4 novembre 2022, n. 9680; Id., 17 agosto 2022, n. 7157;
Cons. Stato, sez. II, 14 marzo 2022, n. 1787
giurista risponde

Cessione standard urbanistici e contributo costruzione Qual è la differenza tra la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici e il contributo di costruzione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato lo ha chiarito richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa in materia di monetizzazione di standard urbanistici. – Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2023, n. 4908.

I Giudici enunciano che, “la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici non ha la medesima natura giuridica del contributo di costruzione, atteso che non è una prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell’art. 23 Cost.; inoltre, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento. Pertanto, l’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione non esclude che sia dovuta anche la cessione di aree a standard”.

È opportuno ricordare che, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici è un beneficio di carattere eccezionale, concepito come misura di favore per il richiedente un titolo edilizio che, in base allo strumento urbanistico, deve, per l’appunto, cedere o reperire nella zona in cui intende realizzare l’intervento costruttivo aree per la realizzazione di opere pubbliche, nel rispetto delle misure e secondo i criteri dettati dal D.M. 1444/1968.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 19 gennaio 2023, n. 659; Id., 10 gennaio 2022, n. 148;
Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2016, n. 4417;
Cons. Stato, sez. IV, 14 febbraio 2014, n. 1820; Id., 23 dicembre 2013, n. 6211;
Id., 4 febbraio 2013, n. 644
giurista risponde

Titolo edilizio per silentium Può formarsi titolo edilizio per silentium se sull’area interessata sussistano vincoli paesaggistici?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato evidenzia che in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio assenso, bensì per provvedimenti espliciti. Nessun titolo edilizio può formarsi per silentium ove sull’area interessata sussistano vincoli paesaggistici. – Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2023, n. 4933.

Il Collegio ha ribadito che, la normativa nazionale in materia di distanze, art. 9 del D.M. 1444/1968, ha carattere inderogabile, in quanto norma imperativa volta a predeterminare in via generale le distanze tra costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza. Queste prescrizioni sono considerate inderogabili, con conseguente illegittimità delle previsioni urbanistiche comunali che contrastano con esse.

È necessario ricordare che la distanza minima è peraltro imposta per qualsiasi forma di nuova costruzione da effettuarsi in tutto il territorio comunale, soggiacente, come tale, sia al regime di nuova costruzione (nuovi edifici, ampliamenti, sopraelevazioni, addizioni volumetriche, superficie) sia al regime ricostruttivo (demolizione e ricostruzione, integrale o parziale di edifici, traslazione volumi e area di sedime; modifiche di sagoma, anche a parità di volume, modifiche planivolumetriche).

Le uniche eccezioni sono gli interventi di risanamento conservativo; le ristrutturazioni di edifici situati nelle zone omogenee A (centri e nuclei storici), dove le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; i gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con specifiche previsioni planovolumetriche.

Ad ogni modo, in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio assenso, bensì per provvedimenti espliciti, ai sensi dell’art. 20, comma 4, L. 241/1990.

Infine, l’art. 2bis del D.P.R. 380/2001 consente, nel quadro dei principi che informano la potestà legislativa concorrente delle regioni in materia di governo del territorio, la possibilità di prevedere con normazione a livello territoriale, a determinate condizioni, disposizioni derogatorie al D.M. 1444/1968.

La sentenza del Consiglio di Stato ribadisce l’importanza della tutela dell’ambiente e del paesaggio nel diritto amministrativo, sottolineando l’inderogabilità delle norme che regolano le distanze tra costruzioni e l’impossibilità di ottenere titoli edilizi per silentium in aree paesaggisticamente vincolate.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2022, n. 9750;
Id., 19 ottobre 2021, n. 7029; Id., 23 giugno 2017, n. 3093;
Id., 8 maggio 2017, n. 2086; Id., 20 febbraio 2016, n. 856
giurista risponde

Associazione e legittimazione ad agire L’associazione che non dimostra di rappresentare una classe omogenea di utenti è legittimata ad agire?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, deve ritenersi preclusa la legittimazione a proporre l’azione. – Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2023, n. 5031. 

Preliminarmente, secondo i principi generali, la legittimazione ad agire si identifica nella titolarità dell’azione, nel senso che legittimato ad agire è quel soggetto che l’ordinamento giuridico considera essere idoneo a presentare l’azione dinanzi al giudice, sicché la legittimazione deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal medesimo provvedimento.

Nel processo amministrativo, la legittimazione ad agire in giudizio coincide con la titolarità di una posizione giuridica qualificata riconducibile ad un interesse legittimo o ad un diritto soggettivo che con il ricorso si intende tutelare.

Pertanto, la valutazione in concreto di tale legittimazione impone la verifica, a fronte di specifica eccezione di difetto della condizione dell’azione, dell’esistenza in concreto, con la conseguenza che le associazioni sono legittimate a proporre il ricorso solo quando dimostrano di rappresentare adeguatamente tale interesse, così che da diffuso si soggettivizza in capo all’associazione, trasformandosi in interesse collettivo.

I giudici di Palazzo Spada ribadiscono che deve ritenersi preclusa la legittimazione a proporre l’azione per l’efficienza di cui al D.Lgs. 198/2009 da parte di una associazione che non dimostri di rappresentare una classe determinata ed omogenea di utenti e consumatori.

Più nel dettaglio, nel caso in esame l’associazione era tenuta a dimostrare la sua legittimazione ad agire, ossia di essere titolare di un interesse giuridicamente rilevante, differenziato in capo ad una collettività di utenti, quindi la propria rappresentatività.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2022, n. 7493;
Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2010, n. 8686
giurista risponde

Inottemperanza al giudicato Quando sussiste l’inottemperanza al giudicato?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato enuncia che l’inottemperanza al giudicato sussiste non solo in caso di totale inerzia della P.A. ma anche in caso di comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato. – Cons. Stato, sez. II, 22 maggio 2023, n. 5072.

Il Consiglio di Stato ha affermato che: “l’inottemperanza al giudicato sussiste non solo in caso di totale inerzia della P.A. ma anche quando quest’ultima tenga comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato, ovvero solo formalmente tali, che ne costituiscono nella sostanza un’elusione, piuttosto che una violazione”.

Deve, dunque, ritenersi inottemperante il Comune che, dopo essere rimasto inerte per anni, riavvia da capo l’istruttoria di un procedimento, senza tenere conto né delle precedenti produzioni documentali né delle risultanze processuali.

Tra gli istituti di semplificazione si ricollega il silenzio assenso, che dovrà essere conforme ai principi generali dell’attività amministrativa e imporre che il comportamento dell’Amministrazione sia improntato alla correttezza e alla buona fede (art. 1 della L. 241/1990).

Quando la legge prevede il meccanismo del silenzio assenso, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche se la domanda non è conforme alla legge, considerato che solo un’istanza del tutto estranea al paradigma legale invocato preclude la formazione del titolo; pertanto, la decorrenza del termine entro cui provvedere non può essere procrastinata mediante reiterate richieste istruttorie, né può qualificarsi come adempimento il mero avvio del procedimento, azzerando tutto quanto in precedenza accaduto, senza individuare un termine finale per la sua definizione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746;
T.A.R. per la Campania, Salerno, sez. II 20 febbraio 2023, n. 406
Difformi:      T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 4 gennaio 2023, n. 17;
T.A.R. Sicilia, sez. II, 24 ottobre 2022, n. 2977
giurista risponde

Stalking: indici sintomatici ansia o timore Quali sono gli indici sintomatici della sussistenza in concreto dello stato d’ansia o di timore di cui all’art. 612bis c.p.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 612bis c.p. la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante e, più in generale, può essere desunta da elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata. Viceversa, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto – tra i quali lo stato d’ansia provocatole dall’ imputato o il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente. – Cass. pen., sez. V, 13 dicembre 2022, n. 47135.

La Suprema Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in ordine all’accertamento probatorio che deve essere effettuato in relazione alla sussistenza dello stato d’ansia o di paura richiesto ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 612bis c.p.

Com’è noto, l’art. 612bis c.p. prevede tre precisi elementi costitutivi: la condotta tipica del reo, la reiterazione di tale condotta e l’insorgere di un particolare stato d’animo di ansia e di paura nei confronti della vittima. La condotta, quindi, oltre che essere reiterata deve creare un determinato disagio psichico, uno stato di tensione nervosa grave e perdurante, tale da incidere sugli atti di vita quotidiana. La norma però non indica con esattezza i contorni e le dimensioni del prospettato disagio psichico, ed è proprio in questa prospettiva di analisi che si inserisce la pronuncia in esame. Invero, richiamando i precedenti giurisprudenziali in materia, il Supremo Consesso conferma che la prova del predetto stato d’ansia o di paura possa essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante. La sussistenza dei predetti elementi costitutivi della fattispecie in esame può essere desunta, altresì, da ulteriori elementi sintomatici, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.

Viceversa, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, tra i quali lo stato d’ansia provocatole dal soggetto agente o il fondato timore per la propria incolumità o per quella dei congiunti, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla stessa condotta.

In ogni caso, come già in precedenza affermato, qualora uno degli eventi previsti dall’art. 612bis c.p. sia identificato nello stato di ansia, la prova di esso può essere argomentata dal giudice anche sulla base di massime di esperienza, non essendo all’uopo necessaria la documentazione medica, nè che la vittima declini con esattezza lo stato emotivo che la caratterizza in dipendenza dell’attività persecutoria subita.

Nel caso di specie, dunque, il Giudice di legittimità mette in rilievo una serie di elementi diretti ad integrare la configurabilità degli eventi alternativi del reato, fornendo all’interprete un utile decalogo per valutare, caso per caso e in concreto, l’integrazione del delitto in esame: il ripetersi ossessivo delle molestie da parte dell’imputata in danno dell’ex coniuge e della sua attuale compagna, il coinvolgimento nelle stesse delle figlie minori, il numero ed il tenore dei contatti telefonici molesti e dei messaggi tramite Whatsapp inviati alle vittime, le incursioni in casa delle vittime improvvise e destabilizzanti, le reiterate aggressioni fisiche ai danni delle persone offese, nonché il mutamento di vita delle vittime del reato, concretizzatosi nel cambiamento di due domicili dell’ex coniuge.

Pare evidente, dunque, come l’accertamento in concreto della prova dello stato d’ansia o di timore della vittima imponga all’interprete una complessa quanto articolata valutazione di tutti gli elementi che in concreto vengono in rilievo, a conferma di come la fattispecie delittuosa in esame tuteli non solo la libertà morale della persona, ma, anche, la tranquillità della stessa, la “serenità psicologica”, quella che autorevole dottrina definisce “la pace giuridica individuale”.

Pertanto, ai fini della configurabilità del reato in esame, è sufficiente la prova di almeno uno dei plurimi eventi alternativi contemplati dalla disposizione incriminatrice, tali da determinare il mutamento, non necessariamente radicale o definitivo, delle abitudini di vita della vittima. Nel caso di specie, ad esempio, all’ imputata era stata lasciata la casa di abitazione coniugale proprio per tentare di arginare le sue condotte persecutorie nei confronti dell’ex marito e della nuova compagna, con conseguente mutamento di domicilio da parte dell’ex-coniuge.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen. 24135/2012; Cass. pen. 17795/2017; Cass. pen. 57704/2017;
Cass. pen. 17552/2021; Cass. pen. 8307/2021
Difformi:      non constano precedenti rilevanti

 

giurista risponde

Condotta ex art. 615-ter c.p. In cosa si concretizza la condotta tipica di cui all’art. 615ter c.p.? Quali sono gli indici sintomatici di riconoscimento della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

La condotta tipica del delitto di cui all’art. 615ter c.p. si concretizza nell’ accesso o nel mantenimento all’interno del sistema informatico posti in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l’accesso è consentito. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema. – Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2022, n. 47323.

Ai fini del riconoscimento della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p., non è sufficiente che il fatto sia occasionale, ma è necessario che l’offesa, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma primo, sia ritenuta di particolare tenuità e il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il richiamo a mere clausole di stile. – Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2022, n. 47323

La Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su diverse questioni di particolare rilevanza, sia sostanziale che processuale, fornisce delle soluzioni interpretative in linea di continuità con i precedenti giurisprudenziali consolidatisi in materia.

Nel pronunciarsi sulla prima questione, la Corte di Cassazione richiama il “diritto vivente”, che considera integrato il delitto di cui all’art. 615ter c.p. in presenza di una condotta concretizzatasi nell’ accesso o nel mantenimento all’interno del sistema informatico da parte di un soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l’accesso è consentito. La Corte, inoltre, sottolinea come, per l’integrazione del reato in esame, non abbiano rilevanza gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema informatico. Sul punto, tuttavia, deve rilevarsi come le Sezioni Unite nel 2017 avevano ritenuto rilevante, ai fini dell’integrazione della fattispecie in oggetto, anche la finalità perseguita in concreto dal soggetto agente che, in quell’occasione, pur non avendo violato le prescrizioni formali impartite dal titolare di un servizio informatico protetto, aveva posto in essere l’accesso per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli era stata attribuita.

Altro rilievo che la Suprema Corte adita mette in evidenza è quello inerente alla qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del soggetto attivo che non è sufficiente, ai fini dell’integrazione dell’aggravante di cui al comma 1, risultando necessario che il fatto sia commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione, di modo che la qualità soggettiva dell’agente abbia quanto meno agevolato la realizzazione del reato.

Con specifico riferimento al caso di specie, infatti, l’imputato, in qualità di appuntato dei Carabinieri, sia era abusivamente introdotto nel sistema informatico della banca dati S.D.I. (Sistema D’Indagine istituito presso il C.E.D. del Ministero dell’Interno), proprio in violazione dei doveri inerenti la funzione e contro la volontà di chi aveva il diritto di escluderlo, per effettuare delle interrogazioni non autorizzate e per finalità non istituzionali. Dalle modalità attuative poste in essere dal ricorrente in concreto, la Corte deduce, altresì, la sussistenza “in re ipsa” della volontà della condotta e dell’evento in capo al soggetto agente, in assenza di qualsivoglia elemento che consenta di ritenere l’accesso allo S.D.I. motivato dalla necessità di soddisfare esigenze di ordine pubblico o di sicurezza pubblica ovvero di prevenzione e repressione della criminalità.

La seconda questione affrontata dalla Suprema Corte riguarda l’individuazione degli indici sintomatici cui il Giudice deve riferirsi per ritenere integrata la causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. Sul punto, il Supremo Consesso ribadisce come non sia sufficiente che il fatto sia occasionale, ritenendo, invece, necessario che l’offesa, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, risulti di particolare tenuità alla luce dei parametri di cui all’art. 133, comma primo, c.p.. In tale prospettiva, pertanto, il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il mero richiamo a generiche clausole di stile. Il giudizio sulla tenuità dell’offesa, dunque, dev’essere effettuato, con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma 1, c.p., senza che ciò comporti una mera elencazione degli stessi, attraverso forme di automatismo valutativo che, viceversa, si pongono in palese contrasto con il principio di legalità sostanziale su cui si regge l’intero sistema penale.

Ed invero, la causa di non punibilità, di cui all’art. 131bis c.p., trova applicazione in presenza di fatti che, pur essendo tipici, antigiuridici e colpevoli manifestino un’offensività di scarso valore, da renderli immeritevoli di sanzione. La prospettiva che viene in rilievo è quella della proporzionalità, dell’adeguatezza e dell’extrema ratio della sanzione penale che attribuisce al giudice il potere di qualificare, in ragione della predetta valutazione, come irrilevanti fatti di minima gravità, secondo l’antico brocardo “De minimis non curat praetor”.

Pertanto, come già affermato in un precedente arresto dello stesso Giudice di legittimità, l’art. 131bis, c.p., costituisce un limite negativo alla punibilità del fatto stesso, la prova della cui ricorrenza è demandata all’imputato che, com’è noto, è tenuto ad allegare la sussistenza dei relativi presupposti mediante l’indicazione di elementi specifici. Onere che, nel caso di specie, non era stato assolto dall’imputato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., S.U., 4694/2011; Cass. pen. 50782/2019; Cass. pen. 18180/2018
Difformi:      Cass. pen., S.U., 41210/2017