assegno nucleo familiare

Assegno nucleo familiare: la convivenza di fatto non esclude il diritto La Corte costituzionale ha stabilito che il rapporto di convivenza di fatto non comporta la perdita del diritto all’assegno per il nucleo familiare

Convivenza di fatto e diritto all’ANF

Assegno nucleo familiare: la Corte costituzionale, con la sentenza numero 120/2025, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, in relazione all’articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica numero 797 del 1955. Questa norma stabilisce che l’assegno per il nucleo familiare non spetta al coniuge del datore di lavoro, senza invece escludere il diritto al beneficio in caso di convivenza di fatto tra il datore di lavoro ed il lavoratore subordinato. Tale differenziazione, secondo il rimettente, si porrebbe in contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione.

La finalità della norma sull’assegno per il nucleo familiare

La Corte ha chiarito che la ratio dell’articolo 2 del d.P.R. numero 797 del 1955 può essere ravvisata nell’esigenza di non erogare il beneficio a un nucleo familiare comprendente lo stesso datore di lavoro, al fine di evitare una forma di “autofinanziamento”. Dunque, la norma censurata non può ritenersi in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione per il fatto di non assimilare, ai fini dell’esclusione dall’ANF, il convivente di fatto al coniuge, dal momento che, ai fini della concessione dell’ANF e della sua quantificazione, il nucleo familiare comprende solo il coniuge e non il convivente di fatto, in base all’articolo 2, comma 6, del decreto-legge numero 69 del 1988.

Rilevanza giuridica della convivenza di fatto

La convivenza di fatto rileva solo in presenza di un contratto di convivenza, stipulato ai sensi dell’articolo 1, comma 50, della legge numero 76 del 2016.

Coerenza della disciplina sull’ANF

La disciplina dell’ANF risulta, pertanto, armonica, vista la coerenza tra la mancata considerazione della convivenza ai fini della concessione dell’assegno e la stessa mancata considerazione ai fini della sua esclusione.

esenzione ici

Esenzione ICI: basta la dimora del contribuente La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità della norma che subordinava l’esenzione ICI alla dimora abituale anche dei familiari nell’abitazione principale

La decisione della Corte costituzionale sull’esenzione ICI

Con la sentenza n. 112 del 2025, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. 504/1992, nella parte in cui subordinava l’esenzione dall’Imposta comunale sugli immobili (ICI) all’abituale dimora non solo del contribuente, ma anche dei suoi familiari nell’abitazione principale.

Secondo la Consulta, tale requisito eccede i limiti della razionalità fiscale, comprimendo indebitamente la posizione del contribuente, in violazione degli articoli 3 e 31 della Costituzione.

L’ICI come imposta reale e il criterio oggettivo dell’abitazione

L’ICI, come l’attuale IMU, è un’imposta reale, il cui presupposto è costituito dal possesso, proprietà o altro diritto reale su beni immobili, a prescindere dalle caratteristiche soggettive del contribuente.

L’esenzione per l’abitazione principale si fonda su un criterio oggettivo, ovvero sull’utilizzo effettivo dell’immobile come dimora abituale del contribuente stesso. La norma impugnata andava oltre, imponendo anche la dimora abituale dei familiari, configurando una condizione non coerente con la natura dell’imposta.

La realtà sociale delle famiglie e le dimore separate

La Corte ha richiamato le trasformazioni delle strutture familiari, rilevando che sempre più frequentemente i coniugi o familiari stretti risiedono in luoghi differenti, per ragioni legate a esigenze lavorative, di studio o assistenza ad altri familiari (anziani, malati, ecc.).

In tale contesto, escludere l’esenzione ICI per il solo fatto che i familiari non convivano con il contribuente significa introdurre una penalizzazione irragionevole, che colpisce situazioni personali e familiari del tutto lecite e diffuse.

Violazione dei principi di eguaglianza e tutela della famiglia

La disposizione censurata si traduce, secondo la Corte, in una disparità di trattamento nei confronti del contribuente coniugato ma non convivente, che risulta ingiustificatamente escluso dal beneficio fiscale rispetto a chi, nelle stesse condizioni patrimoniali, risiede con i familiari.

Tale assetto contrasta sia con il principio di eguaglianza tributaria (art. 3 Cost.), sia con il principio di tutela della famiglia (art. 31 Cost.), che impone al legislatore di favorire – e non ostacolare – le esigenze familiari anche quando esse comportano scelte abitative differenti.

cambio nome condominio

Cambio nome condominio: serve l’unanimità Il Tribunale di Catanzaro chiarisce che per modificare denominazione e codice fiscale del condominio serve il consenso unanime dei condòmini

Modifica denominazione condominiale con l’unanimità

Cambio nome condominio: cambiare la denominazione e il codice fiscale di un condominio non è un atto amministrativo ordinario. Secondo la sentenza n. 1480/2025 del Tribunale di Catanzaro, pubblicata il 7 luglio 2025, una delibera condominiale che dispone tali modifiche senza l’assenso unanime dei condòmini è da considerarsi annullabile.

Il giudice ha evidenziato che, in assenza di uno scioglimento formale dell’ente di gestione, non è possibile sostituire il condominio esistente con uno nuovo semplicemente mutandone il nome o il codice fiscale.

Natura giuridica del condominio e limiti decisionali

Il condominio rappresenta una comunione forzosa dotata di una propria autonomia organizzativa, ma non ha personalità giuridica. È strutturato come un ente gestito dall’assemblea dei condòmini, la quale può adottare decisioni vincolanti per tutti, ma nel rispetto delle norme di legge e del regolamento.

Alcune decisioni – come la modifica del nome del condominio o la richiesta di un nuovo codice fiscalenon sono demandabili alla sola maggioranza, ma richiedono il consenso di tutti i partecipanti, poiché incidono sull’identità stessa dell’ente e possono essere interpretate come una costituzione ex novo di un diverso soggetto gestionale.

Cambio nome condominio: il caso esaminato dal Tribunale

Nel caso portato all’attenzione del Tribunale, una condomina ha impugnato una delibera con cui l’assemblea aveva cambiato denominazione e codice fiscale del condominio. L’operazione era motivata da uno stato di abbandono gestionale, dovuto alla prolungata assenza di un amministratore. Alcuni condòmini avevano quindi proceduto autonomamente a convocare un’assemblea per “rinnovare” la gestione.

Tuttavia, la delibera è stata adottata senza il consenso totalitario, senza indicazione dei millesimi, e con la partecipazione di soggetti privi di legittimazione, tra cui un delegato di persona estranea al condominio. Questi elementi hanno compromesso la validità formale e sostanziale della decisione.

Le motivazioni della decisione

Il Tribunale ha chiarito che modifiche così incisive – come la variazione della denominazione e del codice fiscale – alterano l’identità dell’ente condominiale. Si tratta di un atto che non può essere deliberato a maggioranza, ma che richiede la unanimità dei consensi, essendo assimilabile, di fatto, alla creazione di un nuovo condominio.

L’assenza di scioglimento formale e la mancanza dell’assenso di tutti i condòmini rendono l’atto illegittimo e annullabile, anche se motivato da esigenze pratiche o gestionali.

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esame avvocato 2025

Esame avvocato 2025: tutto su bando, prove e scadenze Online il bando per l’esame di Stato per avvocato 2025. Scopri requisiti, date, struttura delle prove e modalità di invio delle domande dal 1° ottobre all’11 novembre

Pubblicato il bando per la sessione 2025

Esame avvocato 2025: il Ministero della Giustizia ha ufficializzato il bando per l’esame di abilitazione forense – sessione 2025, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 56 del 18 luglio 2025 (IV Serie Speciale Concorsi ed Esami). Il bando, emanato con decreto ministeriale del 30 giugno 2025, disciplina termini e modalità per accedere alla procedura.
Le domande dovranno essere inoltrate esclusivamente in modalità telematica dal 1° ottobre all’11 novembre 2025.

Le prove d’esame: struttura e calendario

L’esame di Stato si articola in una prova scritta e una prova orale, da svolgersi presso le Corti d’Appello indicate nel bando (tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Firenze, e altre sedi).

Prova scritta

È fissata per l’11 dicembre 2025 e consiste nella redazione di un atto giudiziario su traccia fornita dal Ministero. Il candidato sceglierà la materia tra diritto civile, diritto penale o diritto amministrativo.
Il tempo a disposizione è di sette ore, calcolato a partire dalla dettatura del tema.

Prova orale

Si svolgerà non prima di 30 giorni dalla pubblicazione degli ammessi e si compone di tre fasi:

  1. Discussione di un caso pratico nella materia prescelta (tra civile, penale o amministrativo).

  2. Trattazione di tre quesiti giuridici, di cui almeno uno processuale.

  3. Colloquio su ordinamento forense, diritti e doveri dell’avvocato.

Procedura per l’invio della domanda

Per partecipare all’esame, il candidato deve collegarsi al sito del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it) e accedere alla sezione “Strumenti/Concorsi, esami, assunzioni”. L’autenticazione avverrà tramite SPID di secondo livello, Carta d’Identità Elettronica (CIE) o Carta Nazionale dei Servizi (CNS).

Dopo la registrazione, il sistema guiderà l’utente nella compilazione del modulo, nella selezione della Corte d’Appello e del Consiglio dell’Ordine competente. Dopo il pagamento via PagoPA, si procederà all’invio definitivo della domanda, che verrà confermato da una ricevuta in formato PDF.

Requisiti per l’ammissione all’esame

Possono partecipare i candidati che abbiano completato la pratica forense entro il 10 novembre 2025. È ammessa l’iscrizione anche per chi prevede di concluderla entro quella data, purché lo dichiari formalmente in fase di presentazione della domanda.

Criteri di valutazione

Prova scritta

Ogni componente della commissione può attribuire fino a 10 punti. L’ammissione all’orale avviene con un punteggio minimo di 18 punti.

Prova orale

Anche per il colloquio orale, ogni commissario dispone di 10 punti per ciascuna materia. L’idoneità è riconosciuta ai candidati che ottengano almeno 18 punti per materia.

Misure di supporto per candidati con disabilità e DSA

Il bando prevede agevolazioni specifiche per i candidati con disabilità o disturbi specifici dell’apprendimento (DSA). Tra le misure previste:

  • strumenti compensativi;

  • tempi aggiuntivi;

  • supporti personalizzati per le prove scritte e orali.

 

Leggi anche la guida Esame avvocato

patto di quota lite

Patto di quota lite: la ratio del divieto Il CNF ribadisce che il divieto di patto di quota lite mira a tutelare il cliente e la dignità forense, evitando commistioni nei rapporti professionali

Patto di quota lite: il CNF spiega la ratio

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 25/2025, pubblicata il 20 luglio sul sito del Codice deontologico, ha riaffermato il divieto di patto di quota lite ai sensi di art. 25 co. 2 del CDF e art. 13 commi 3 e 4 L. n. 247/2012. Tale divieto tutela l’interesse del cliente e la dignità della professione forense, impedendo la commistione tra interessi del legale e risultati della lite. 

La ratio del divieto di patto di quota lite

Secondo la sentenza, la ratio del divieto risiede nella necessità di preservare l’indipendenza dell’avvocato e evitare che il compenso, se collegato all’esito della lite, trasformi il rapporto professionale in un rapporto associativo. In tal caso, l’avvocato parteciperebbe direttamente agli interessi pratici esterni della prestazione, compromettendo la trasparenza e l’imparzialità.  

Impatto sul rapporto cliente‑avvocato

La decisione sottolinea che un equo compenso basato sul valore previsto dell’affare è lecito, ma è vietato un accordo che leghi la remunerazione all’esito pratico della lite. In questo modo si evita la trasformazione del rapporto in una forma di partecipazione economica ai frutti del contenzioso. 

Conferme da giurisprudenza e dottrina

La sentenza n. 25/2025 si inserisce in una consolidata giurisprudenza: Cassazione n. 2169/2016, CNF n. 260/2015, n. 26/2014 e n. 225/2013 avevano già chiarito tale principio. Conferma anche l’orientamento espresso nella recente Cass. n. 23738/2024. 

In sintesi, il CNF riafferma che il divieto di patto di quota lite è necessario per proteggere il rapporto di fiducia tra cliente e avvocato e tutelare la dignità della professione, evitando che il legale diventi partecipe dell’esito economico della lite.

evasione dagli arresti domiciliari

Evasione dagli arresti domiciliari: punibile anche l’indagato La Corte costituzionale chiarisce che l’indagato può essere punito per evasione dagli arresti domiciliari al pari dell’imputato. Legittima l’interpretazione dell’art. 385 c.p., comma 3

Nessuna distinzione tra imputato e indagato

Evasione dagli arresti domiciliari: con la sentenza n. 107 del 2025, depositata in data odierna, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 385, comma 3, c.p., nella parte in cui – secondo il diritto vivente – consente di punire anche l’indagato per il reato di evasione dagli arresti domiciliari, nonostante il testo della norma faccia riferimento esclusivo all’imputato.

Il contesto storico-normativo della disposizione

La Consulta ha ricostruito il contesto normativo in cui fu redatto l’articolo oggetto di censura. Il terzo comma dell’art. 385 c.p. venne sostituito dall’art. 29 della legge n. 532/1982, quando era ancora vigente il codice di procedura penale del 1930. All’epoca, il legislatore utilizzava il termine “imputato” per indicare qualsiasi soggetto indiziato, anche nella fase delle indagini preliminari.

Il concetto moderno di “indagato”, distinto da quello di “imputato”, è stato introdotto soltanto con il nuovo codice di rito entrato in vigore nel 1989.

La continuità interpretativa della norma penale

Secondo la Corte, dunque, il termine “imputato”, così come impiegato nel terzo comma dell’art. 385 c.p., include anche l’indagato, alla luce del significato attribuitogli al momento della redazione della norma.

Non si configura pertanto alcuna violazione del principio di legalità, come dedotto dal giudice rimettente, poiché l’interpretazione estensiva che consente di punire l’indagato per evasione è coerente con la ratio originaria della disposizione e con l’evoluzione del diritto positivo.

giurista risponde

Abuso edilizio e ipoteca iscritta a favore del creditore Sono costituzionalmente legittimi gli artt. 7, comma 3, L. 28 febbraio 1985, n. 47 e 31, comma 3, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 nella parte in cui non prevedono la permanenza dell’ipoteca a garanzia del creditore nel caso in cui l’immobile abusivo sia oggetto di confisca edilizia?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio

 

È costituzionalmente illegittimo l’art. 7, comma 3, L. 47/1985 per contrarietà agli artt. 3, 24, 42 Cost., nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.

È altresì costituzionalmente illegittimo, in via consequenziale, l’art. 31, comma 3, primo e secondo periodo, D.P.R. 380/2001, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire (Corte cost. 3 ottobre 2024, n. 160).

La Corte costituzionale ha ritenuto l’art. 7, comma 3, L. 47/1985 costituzionalmente illegittimo in quanto impone al creditore, titolare di un diritto di ipoteca su un immobile abusivo, un sacrificio irragionevole ed eccessivamente sproporzionato, a più forte ragione se non ha concorso in alcun modo all’abuso edilizio. Questo sacrificio deriva dalla confisca edilizia di un immobile abusivo prevista allorquando il responsabile dell’abuso non provvede nei termini di legge alla demolizione dell’immobile e al ripristino dello stato dei luoghi. Questa previsione normativa, prima dell’intervento della Consulta, era corroborata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che prevedeva la caducazione di ipoteche, pesi e vincoli preesistenti, neutralizzando oltremodo l’eventuale anteriorità della trascrizione o iscrizione. In questo modo, dunque, venivano meno tutte le prerogative relative al diritto di ipoteca: lo ius sequelae, lo ius distrahendi, lo ius prelationis.

Tuttavia, se si guarda alla funzione della confisca edilizia, questa risponde ad una sanzione in senso stretto che rappresenta una reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima esegue un’opera abusiva, e poi, non adempie all’obbligo di demolirla (Corte cost. 15 luglio 1991, n. 345; Cass., sez. III, 26 gennaio 2006, n. 1693). Pertanto, sulla scorta della natura sanzionatoria della confisca, appare oltremodo irragionevole che ne subisca le conseguenze anche il creditore ipotecario del tutto estraneo all’abuso. Siffatta conclusione trova ulteriore conferma nel fatto che il creditore non è neppure obbligato propter rem alla demolizione, in quanto il diritto reale di garanzia non gli attribuisce né il possesso né la detenzione del bene.

Il sacrificio previsto nei confronti del creditore, oltre ad essere irragionevole, risulta sproporzionato, in quanto la norma che non fa salvo il suo diritto reale, di fatto, lo espone ad attività eccessivamente gravose, tra le quali una vigilanza continua sull’immobile al fine di chiedere all’autorità giudiziaria la cessazione degli atti del debitore e dei terzi, idonei a creare i presupposti per la confisca edilizia (Cass. 5 agosto 2021, n. 22352; Cass. 8 febbraio 2019, n. 3797; Cass. 11 marzo 2016, n. 4865).

Quanto, invece, all’art. 31, comma 3, D.P.R. 380/2001, tale disposizione condivide con l’art. 7, comma 3, L. 47/1985 il medesimo tenore letterale e prevede l’acquisto originario in capo al comune con estinzione del diritto di ipoteca precedentemente iscritto. In ragione di ciò la Consulta ha ritenuto costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire.

 

(*Contributo in tema di “Abuso edilizio e ipoteca iscritta a favore del creditore”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

interdittiva antimafia

Interdittiva antimafia: sospensione fino alla decisione del prefetto La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 34-bis, comma 7, cod. antimafia nella parte in cui non proroga la sospensione dell’interdittiva antimafia dopo l’esito positivo del controllo giudiziario

Controllo giudiziario e interdittiva antimafia

Con la sentenza n. 109/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 (codice antimafia) nella parte in cui non prevede la prosecuzione della sospensione degli effetti dell’informazione interdittiva antimafia anche dopo la conclusione con esito positivo del controllo giudiziario.

Secondo la Corte, la mancata proroga degli effetti sospensivi sino alla rivalutazione del provvedimento da parte del prefetto viola i principi di ragionevolezza e proporzionalità, causando un pregiudizio irragionevole per le imprese coinvolte.

Sospensione interrotta al termine del controllo

La questione nasce dal contrasto tra la ratio del controllo giudiziario – misura introdotta per recuperare alla legalità le imprese occasionalmente condizionate da ambienti mafiosi – e l’interpretazione data dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui la sospensione degli effetti interdittivi si interrompe alla chiusura del controllo, indipendentemente dal suo esito.

Questa ricostruzione determina, secondo la Corte, un vuoto di tutela: l’immediata riattivazione dell’interdittiva può vanificare gli esiti del percorso di risanamento, mettendo a rischio la continuità aziendale e favorendo un possibile riavvicinamento alla criminalità organizzata.

Le due ragioni dell’illegittimità costituzionale secondo la Corte

La Corte costituzionale ha basato la propria pronuncia su due argomenti centrali:

  1. Funzione strumentale della sospensione: la normativa prevede la sospensione per consentire all’impresa, sotto la vigilanza del tribunale e del controllore nominato, di operare legalmente durante il controllo giudiziario. Questo periodo serve a valutare concretamente il superamento dell’infiltrazione mafiosa.

  2. Irreparabilità degli effetti del riattivarsi dell’interdittiva: anche in caso di successiva emissione di informazione liberatoria da parte del prefetto, le conseguenze economiche e reputazionali dell’interdittiva reattivata nel frattempo non sono eliminabili. Si tratta di un pregiudizio che colpisce l’attività economica e può rendere vano l’intero percorso di risanamento.

Un sistema contraddittorio e irragionevole

La Consulta ha ritenuto contraddittoria la disciplina vigente per tre ragioni:

  1. La misura del controllo giudiziario è concepita come strumento di reinserimento dell’impresa nel circuito economico legale;

  2. Il percorso è oneroso per l’imprenditore e per la giustizia, e può durare fino a tre anni;

  3. Tuttavia, anche in caso di esito positivo, il legislatore non impedisce il riattivarsi automatico dell’interdittiva fino alla decisione del prefetto, annullando potenzialmente gli effetti del controllo.

Tale assetto, secondo la Corte, può generare un danno irreversibile, sia sul piano economico, sia sul versante della legalità sostanziale.

Proroga della sospensione fino alla decisione del prefetto

Con la sentenza n. 109/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 34-bis, comma 7, del codice antimafia, e ha esteso la sospensione degli effetti dell’informazione antimafia anche oltre la durata del controllo giudiziario, fino alla rivalutazione prefettizia prevista dall’art. 91, comma 5, del medesimo codice.

In tal modo, si garantisce la continuità della tutela e si valorizzano i risultati conseguiti con il percorso di monitoraggio giudiziario, impedendo che il ritorno automatico dell’interdizione frustri l’obiettivo del risanamento.

contributi nocivi

Pensioni: inammissibili le questioni sui contributi nocivi dei dipendenti pubblici La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sul mancato riconoscimento della neutralizzazione dei contributi “nocivi” nelle pensioni dei dipendenti pubblici

Inammissibili le qlc sui contributi nocivi nel lavoro pubblico

Contributi nocivi: con la sentenza n. 110/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 3, primo comma, della legge 30 dicembre 1965, n. 965 e all’art. 43, primo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092. Le disposizioni in esame regolano rispettivamente la liquidazione delle pensioni per i dipendenti civili dello Stato e per i dipendenti degli enti locali.

Le disposizioni oggetto di censura costituzionale

Le norme impugnate non prevedono, nel settore del pubblico impiego, la possibilità di applicare il meccanismo della neutralizzazione dei periodi contributivi. Tale istituto, in ambito previdenziale, consente di escludere dal calcolo pensionistico quei periodi che, pur oltrepassando il minimo contributivo richiesto, determinano un peggioramento della quota retributiva del trattamento pensionistico, per effetto di una retribuzione finale inferiore rispetto a quella percepita precedentemente.

La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale denunciando il contrasto con gli articoli 1, comma 1, 3, comma 1, 35, comma 1, 36, 38, comma 2, e 98, comma 1, della Costituzione.

Il cumulo gratuito come causa di inammissibilità

La Corte costituzionale non ha esaminato nel merito le questioni proposte in quanto il trattamento pensionistico oggetto del giudizio era stato liquidato mediante il meccanismo del “cumulo gratuito”. Introdotto dall’art. 1, commi da 239 a 248, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, questo strumento consente di unificare contributi versati in diverse gestioni previdenziali, anche se ciascuna da sola non dà diritto autonomo a pensione.

Nel caso di specie, il giudice a quo non ha preso in considerazione – né tantomeno censurato – la normativa sul cumulo gratuito, in particolare la previsione che impone l’utilizzo integrale di tutti i periodi assicurativi accreditati presso le diverse gestioni. Tale disposizione costituisce, secondo la Consulta, un autonomo ostacolo normativo alla possibilità di applicare il principio di neutralizzazione.

La motivazione dell’inammissibilità

L’omessa valutazione della disciplina vigente in materia di cumulo gratuito ha comportato, secondo la Corte, una ricostruzione incompleta del quadro normativo rilevante ai fini del giudizio. Tale incompletezza, come chiarito da costante giurisprudenza costituzionale, è causa di inammissibilità delle questioni di legittimità sollevate.

interessi moratori

Interessi moratori avvocati: da quando decorrono La Cassazione chiarisce che gli interessi moratori per i crediti professionali degli avvocati decorrono dalla messa in mora, anche stragiudiziale, e non dalla liquidazione del credito

Decorrenza interessi moratori nei crediti professionali

Con l’ordinanza n. 19421/2025, la Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di crediti professionali maturati dagli avvocati: gli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1224 del codice civile, decorrono dalla messa in mora del debitore, che può coincidere sia con la proposizione della domanda giudiziale sia con una richiesta stragiudiziale di adempimento.

Tale principio si applica anche qualora la liquidazione del compenso professionale avvenga nell’ambito del procedimento di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150/2011.

Il caso esaminato dalla Suprema Corte

Nel caso esaminato, due avvocati avevano prestato assistenza legale a favore di una società, successivamente condannata dal Tribunale di Bergamo – in contumacia – al pagamento della somma di € 10.248,99, oltre interessi legali dalla data della domanda e spese processuali.

I professionisti hanno impugnato la decisione, contestando l’erronea applicazione degli interessi legali in luogo di quelli moratori, e la decorrenza di tali interessi dalla domanda giudiziale, anziché dalla messa in mora avvenuta mediante più atti stragiudiziali.

Applicabilità del d.lgs. 231/2002 ai compensi forensi

La Corte, accogliendo il ricorso dei legali sul punto, ha affermato che la disciplina prevista dal d.lgs. n. 231/2002 in tema di ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali si applica anche ai contratti d’opera professionale. Tuttavia, per il riconoscimento degli interessi moratori è necessario che il ritardo non sia giustificato da una causa non imputabile al debitore, come previsto dall’art. 3 dello stesso decreto.

Ne deriva che la liquidazione del credito da parte del giudice non incide sulla decorrenza della mora, né può escluderla in caso di liquidazione in misura inferiore a quanto richiesto. Pertanto, gli interessi moratori decorrono dalla domanda, anche se la somma riconosciuta è diversa da quella originariamente domandata, purché sussista una condotta dilatoria ingiustificata.

La necessità dell’atto di costituzione in mora

La Corte ha invece rigettato la doglianza relativa alla mancata rivalutazione del credito. Le ricorrenti sostenevano che, in assenza di contestazioni sulla parcella, gli interessi e la rivalutazione monetaria dovessero maturare automaticamente dalla scadenza del pagamento.

Secondo la Cassazione, la mora non sorge automaticamente, nemmeno in presenza di crediti illiquidi. È necessario un atto formale di costituzione in mora, i cui effetti si producono solo per la parte di credito riconosciuta o accertata. Il principio romanistico in illiquidis non fit mora è superato solo quando il debitore, pur in presenza di un credito non determinato nel quantum, sia in grado di compierne una stima.

Condotta colpevole e interessi moratori

La Corte richiama il proprio orientamento consolidato (Cass. n. 24973/2022), secondo cui la mora del debitore può configurarsi anche in presenza di un credito illiquido, qualora il debitore abbia la possibilità di stimarne l’entità sulla base di tariffe professionali e attività chiaramente documentate.

Pertanto, l’ingiustificata contestazione del credito o una condotta dilatoria possono integrare una colpa rilevante ai fini dell’applicazione degli interessi moratori. In questi casi, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, ma limitatamente alla parte del credito non contestata o accertata con sentenza.

Conclusioni operative per gli avvocati

L’ordinanza n. 19421/2024 conferma che, per ottenere gli interessi moratori nei crediti professionali, è indispensabile procedere alla costituzione in mora del debitore, anche a mezzo di diffida stragiudiziale. La liquidazione giudiziale non esclude la mora, che si radica nella condotta colpevole del debitore.

È pertanto opportuno, nella gestione dei crediti professionali, formalizzare tempestivamente la richiesta di pagamento tramite diffide scritte, in modo da far decorrere gli interessi ai sensi del d.lgs. n. 231/2002, anche prima dell’introduzione del giudizio.

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