giurista risponde

Assegno divorzile e funzione perequativa-compensativa Il sacrificio della propria carriera da parte di un coniuge al fine di dedicare il proprio tempo alla famiglia è elemento rilevante nella quantificazione dell’assegno divorzile?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

L’assegno divorzile spetta all’ex coniuge non esclusivamente in funzione assistenziale bensì anche in funzione perequativa-compensativa proprio per le scelte operate dallo stesso in costanza di matrimonio. In queste sono ricompresi non solo il contributo offerto alla comunione familiare ma anche la rinuncia concordata a occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio e l’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge (Cass., sez. II, 26 agosto 2024, n. 23083).

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte dichiara infondati i motivi di ricorso miranti all’eliminazione dell’assegno divorzile riconosciuto dai giudici di merito nei confronti dell’ex coniuge. Sia il Tribunale di prime cure che la Corte d’Appello territorialmente competente avevano infatti dichiarato lo scioglimento di un matrimonio durato venticinque anni e confermato la spettanza dell’assegno divorzile posto a carico del ricorrente. Come provato in queste sedi, il coniuge beneficiario ha rinunciato a numerose occasioni di carriera per agevolare l’attività professionale del marito fino a sacrificarla definitivamente quando questa è diventata incompatibile con la crescita della famiglia, dedicandosi completamente a soddisfare i bisogni di quest’ultima.
La cessazione del matrimonio comporta il venir meno della condizione coniugale ma il sorgere di obblighi di carattere patrimoniale fondati sulla perdurante solidarietà postconiugale. Tra gli obblighi così identificati si staglia quello di corresponsione dell’assegno divorzile contenuto nell’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898.

All’esito di un percorso interpretativo inaugurato a metà degli anni ’70, le Sezioni Unite hanno definitivamente superato gli indirizzi volti a considerare nella funzione assistenziale l’unico parametro alla luce del quale valutare la spettanza e la consistenza dell’istituto in esame. La Cassazione ha, così, ricostruito la funzione dell’assegno divorzile assegnando rilevanza centrale ai principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo. La natura composita di tale funzione, insieme assistenziale e perequativo-compensativa, rappresenta una declinazione di tale principio di solidarietà volta al raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle eventuali aspettative professionali sacrificate (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Ciò avviene all’interno di un meccanismo di “profilazione economico-patrimoniale del coniuge” che si serve dei criteri delineati dall’art. 5 cit. Le Sezioni Unite precisano, in particolare, la necessità di provare l’incidenza causale tra il sacrificio delle aspettative di carriera serie e concrete e la condizione di disequilibrio dalla quale genera la spettanza dell’assegno divorzile.

La ricostruzione in questi termini del quadro normativo ed ermeneutico di riferimento permette alla Cassazione nella sentenza in commento, di ritenere soddisfatti i criteri sopra menzionati e fornita la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescite professionale in costanza di matrimonio e dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge, così come chiarito da Cass., Sez Un., 5 novembre 2021, n. 32198.

Contributo in tema di “Assegno divorzile e la funzione perequativa-compensativa”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

servizi sociali

Servizi sociali anche per violenza sessuale La Cassazione chiarisce che può essere concesso l'affidamento ai servizi sociali anche per il reato ex art. 609-bis c.p.

Affidamento ai servizi sociali

Sì all’affidamento ai servizi sociali al soggetto che si è macchiato del reato di violenza sessuale (ex art. 609 bis c.p.). Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 17374/2024.

La vicenda

Nella vicenda, iI Tribunale di sorveglianza di Torino respingeva l’istanza di differimento pena ai sensi dell’art. 147 cod. pen. e dell’affidamento in prova al servizio sociale formulate. Ciò a ragione della gravità dei reati commessi, tra cui quello di cui all’art. 609-bis cod. pen., nonchè dell’assenza di una seria e verificabile attività lavorativa e della sperimentazione, allo stato, di altre forme trattamentali (permessi premio), infine della mancanza di elementi sulla base dei quali superare la diagnosi di pericolosità derivante dal reato commesso.

Il ricorso

Avverso tale ordinanza l’imputato adiva il Palazzaccio, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al rigetto dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale.
A dire della difesa, il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto dirimente e preponderante, rispetto agli elementi positivi pur evidenziati dalla relazione di sintesi dell’equipe e, comunque, emergenti dagli atti, la gravità del reato commesso e i plurimi precedenti di cui risulta gravato, sottostimando, invece, plurimi elementi positivi, quali il parere ampiamente favorevole dell’equipe.

Affidamento in prova ai servizi sociali: presupposti

Per la S.C., il ricorso è fondato.
L’art. 47, comma 2, ord. pen. consente l’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale ove si possa ritenere che la misura, «anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati».
Nel caso di specie, il giudice specializzato ha reso una motivazione contraddittoria e, comunque, carente. Benché “nella stringata parte espositiva avesse dato atto dell’assenza di precedenti penali e carichi pendenti, senza minimamente confrontarsi con quanto emergente dalla relazione dell’equipe trattamentale – spiegano dalla S.C. – ha concentrato in via esclusiva la sua attenzione sulla condanna per il delitto di cui all’art. 609-bis c.p., sull’asserita mancata sperimentazione di permessi premio e sulla mancanza di prospettive lavorative”. Invece, la relazione dell’equipe della casa circondariale aveva espresso parere favorevole al riconoscimento della misura alternativa, valorizzando il fatto che l’uomo avesse aderito volontariamente ad un programma specifico rivolto ai condannati per reati di violenza di genere e che, compatibilmente con le condizioni di salute (che non rendevano possibile una partecipazione più ampia alle attività trattamentali), avesse svolto un percorso detentivo positivo.
Il giudice specializzato, in definitiva, secondo i giudici di piazza Cavour, ha fondato il provvedimento di rigetto sul solo argomento della gravità dei reati commessi, facendo di essi una considerazione assoluta e ponendoli da soli a sostegno della decisione, senza considerazione adeguata di diversi altri fattori riguardanti l’evoluzione della personalità del ricorrente, successiva alla consumazione della condotta sanzionata e senza fare congrua valutazione delle risultanze indicate nella relazione dell’equipe.
Al riguardo, dunque, la Corte ribadisce i principi ormai consolidati, secondo i quali “in tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine alla realizzazione delle prospettive cui è finalizzato l’istituto, e, quindi, dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza, non possono, di per sé, da soli, assumere decisivo rilievo, in senso negativo, elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza, né può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo sufficiente che, dai risultati dell’osservazione della
personalità, emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato (Sez. 1, n. 1410 del 30/10/2021, M., Rv. 277924; Sez. 1, n. 773 del 03/12/2013, dep. 2014, Naretto, Rv. 258402)”.

Il principio di diritto

Il Tribunale non ha fatto, dunque, buon governo del principio di diritto secondo cui «ai fini della concessione di una misura alternativa alla detenzione, si deve tener conto del grado di consapevolezza e di rieducazione raggiunto dal condannato, nonché dell’evoluzione della sua personalità successivamente al fatto, al fine di consentire un’ulteriore evoluzione favorevole e un ottimale reinserimento sociale» (cfr. Cass. n. 10586/2019).

Il profilo che deve essere valorizzato non è se abbia o meno l’interessato ammesso le sue colpe ovvero, pur avendole ammesse, ne abbia depotenziato li valore, ma se abbia accettato la sentenza e quindi la sanzione a lui inflitta, prestando la dovuta collaborazione nel percorso rieducativo.

La decisione

Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata relativamente al diniego dell’affidamento in prova al servizio sociale, con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Torino per nuovo esame che, libero negli esiti, sia ossequiante dei principi sopraesposti.

Allegati

daspo

Daspo: cos’è e come funziona Il Daspo è un provvedimento amministrativo che consiste nel divieto di accesso a manifestazioni sportive per un periodo determinato. Analizziamo come funziona e le tipologie oggi esistenti

Daspo (Divieto di Accesso alle manifestazioni sportive)

Il Daspo (abbreviazione di “Divieto di Accesso alle manifestazioni Sportive”) è una misura preventiva di natura amministrativa che viene applicata a chi è ritenuto responsabile di comportamenti violenti o pericolosi durante eventi sportivi. L’obiettivo principale di questa normativa è quello di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza, prevenendo gli episodi di violenza e mantenendo l’integrità degli eventi sportivi.

Di seguito analizziamo in dettaglio cos’è il Daspo, come funziona, le tipologie esistenti e quale legge lo ha istituito.

Cos’è il Daspo

Il Daspo è un provvedimento amministrativo che consiste nel divieto di accesso a manifestazioni sportive per un periodo determinato. Viene applicato nei confronti di individui che abbiano compiuto atti di violenza, disordini o altri comportamenti pericolosi durante eventi sportivi. È una misura preventiva, cioè destinata a impedire che chi ha compiuto determinati atti illeciti possa ripetere tali comportamenti in futuro, tutelando così l’ordine pubblico e la sicurezza degli spettatori, degli atleti e degli organizzatori.

Il Daspo non è una condanna penale, ma una sanzione amministrativa, che non prevede l’ingresso in carcere ma l’imposizione di un divieto di partecipazione a eventi sportivi. La durata di tale divieto può variare, ma solitamente va da un minimo di uno a un massimo di cinque anni.

La disciplina del Daspo

Il Daspo è stato istituito dalla Legge 401/1989, che ha introdotto una serie di misure contro la violenza nelle manifestazioni sportive. In particolare, l’articolo 6 della legge stabilisce che, in seguito a determinati comportamenti violenti o di disordine, l’autorità di pubblica sicurezza può disporre un divieto di accesso a manifestazioni sportive per i trasgressori. La legge è stata successivamente modificata e integrata con altre disposizioni che hanno ampliato le tipologie di reati che giustificano il Daspo e ne hanno esteso l’applicazione.

Un’importante evoluzione del Daspo è avvenuta nel 2017 con il Decreto Legge n. 8, che ha esteso l’applicazione del Daspo a tutti i tipi di eventi sportivi, non solo alle partite di calcio. Inoltre, sono stati previsti maggiori poteri per la Polizia di Stato, che può emettere il Daspo anche in base a specifiche situazioni di rischio o all’esistenza di precedenti comportamenti pericolosi. Il Daspo, quindi, non riguarda solo i tifosi più violenti, ma può essere applicato anche a chi rappresenta una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico.

Come funziona il Daspo

Il Daspo viene emesso dalle autorità di pubblica sicurezza, solitamente dalla Polizia di Stato, in seguito a episodi di violenza o di disordini verificatisi in occasioni di manifestazioni sportive. La decisione viene presa sulla base di indagini e prove che dimostrano la responsabilità di una persona in atti di violenza o comportamento pericoloso.

Una volta emesso, il Daspo impedisce all’individuo di partecipare ad eventi sportivi, sia locali che internazionali, durante il periodo di validità del provvedimento. Il divieto può includere anche il divieto di avvicinarsi a determinate aree o stadi in occasione di eventi sportivi. In alcuni casi, il Daspo può prevedere l’obbligo di firma presso una stazione di polizia nei giorni in cui si svolgono gli eventi.

Se una persona violasse il Daspo, incorrerebbe in sanzioni più severe, tra cui l’arresto o l’estensione del divieto.

Tipologie di Daspo

Esistono diverse tipologie di Daspo, che possono variare in base alla gravità dei comportamenti violenti o illeciti e alla situazione specifica. Le principali tipologie sono:

Daspo Ordinario

Il Daspo ordinario è quello più comune e viene applicato a chi ha compiuto reati durante una manifestazione sportiva, come ad esempio risse, aggressioni, danneggiamento di beni, lancio di oggetti pericolosi o altri atti di violenza. La durata del divieto di accesso agli stadi varia da uno a cinque anni, e il provvedimento viene emesso dalla Questura o dalla Polizia di Stato.

Daspo Speciale

Il Daspo speciale è una versione più restrittiva, applicata a chi ha compiuto atti particolarmente gravi o che ha recidivato, ossia che ha già ricevuto un Daspo in passato e ha continuato a compiere comportamenti violenti o pericolosi. In alcuni casi, il Daspo speciale può comportare il divieto di accesso anche a tutte le manifestazioni sportive, comprese quelle che non abbiano attinenza con il precedente comportamento violento.

Daspo Urbano

Il Daspo urbano è una misura più recente e riguarda chi commette reati non necessariamente legati allo sport, ma che avvengono nelle vicinanze degli impianti sportivi o in contesti legati alla viabilità verso e dai luoghi di svolgimento di eventi sportivi. Può riguardare atti di vandalismo o anche episodi di teppismo che disturbano la sicurezza pubblica. Il Daspo urbano si estende anche ai comportamenti violenti in zone di particolare concentrazione di pubblico, come aree residenziali o centrali in prossimità degli stadi.

dl anti-violenze

Dl anti-violenze ai medici: legge in vigore In vigore dal 26 novembre 2024 la nuova legge per contrastare i fenomeni di violenza nei confronti dei sanitari che prevede pene fino a 5 anni e arresto nelle 48 ore

Pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 25 novembre 2024, la nuova legge n. 171/2024, di conversione del Dl anti-violenze ai medici, n. 137/2024, varato dal Consiglio dei Ministri il 27 settembre scorso e approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati il 13 novembre.

Il testo, recante “misure urgenti per contrastare i fenomeni di violenza nei confronti dei professionisti sanitari, socio-sanitari, ausiliari e di assistenza e cura nell’esercizio delle loro funzioni nonché di danneggiamento dei beni destinati all’assistenza sanitaria“, è in vigore dal 26 novembre 2024.

Contrasto violenza medici: cosa prevede la nuova legge

La nuova legge che si compone di quattro articoli, nasce per arginare i gravi episodi di violenza nei confronti del personale sanitario e prevede un aumento delle pene fino a 5 anni e l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, con possibilità di differimento a determinate condizioni.

L’articolo 1 (modificato dal Senato) interviene sugli artt. 583-quater e 635 c.p., estendendo l’ambito di applicazione delle sanzioni previste per le lesioni procurate agli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni al personale che si occupa di “servizi di sicurezza complementare”.

Inoltre, aggiungendo un altro comma dopo il terzo all’art. 635 c.p., disciplina la fattispecie del danneggiamento di “cose mobili o immobili destinate al servizio sanitario o socio-sanitario”, punendolo con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa fino a 10mila euro. La pena è aggravata se il fatto è commesso da più persone riunite.

L’articolo 2, modifica gli articoli 380, 382-bis e 550 cpp, prevede l’arresto obbligatorio in flagranza e, in particolari condizioni, l’arresto differito per i delitti di lesioni personali commessi nei confronti di chi esercita una professione sanitaria, socio-sanitaria e attività ausiliare, nonché per il reato di danneggiamento dei beni destinati all’assistenza sanitaria ex terzo comma art. 635 c.p.

Gli articoli 3 e 4 recano, infine, la clausola d’invarianza finanziaria (criticata dalle opposizioni) e l’entrata in vigore del testo.

Allegati

motivazione per relationem

Motivazione per relationem: valida se esaustiva Nel processo civile, la motivazione per relationem per essere valida deve contenere in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni della decisione

Processo civile e motivazione per relationem

La motivazione per relationem per essere valida deve contenere in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni della decisione. Così la sentenza n. 28517/2024 della sezione tributaria della Cassazione.

La vicenda

Nella vicenda, l’Agenzia delle Entrate notificava un avviso di accertamento, con cui rettificava, ai fini IRPEF, la dichiarazione dei redditi presentata per l’anno 2006, avendo accertato che il contribuente aveva ricevuto un bonifico di oltre un milione di euro da una società francese. Il contribuente, chiamato a rendere giustificazioni circa il detto versamento, dichiarava trattarsi di ‘giroconto fondi’ per vendita di un’abitazione. L’Ufficio acclarava, quindi, che detto importo corrispondeva, in realtà, ad utili della società distribuiti all’uomo, quale socio al 100% della società, sicchè riprendeva a tassazione il 40% dell’importo, quale reddito di capitale di fonte estera.
Il contribuente impugnava l’avviso e la CTP di Pordenone accoglieva il ricorso. L’ufficio quindi proponeva appello alla CTR la quale confermava la sentenza di prime cure e il fisco a questo punto adiva la Cassazione, lamentando nullità della sentenza in quanto sia il thema decidendum sia la motivazione risulterebbero del tutto carenti. La motivazione, in particolare, sarebbe affidata a mere clausole di stile, con rimando alla decisione di prime cure.

Motivazione per relationem

La Corte dà ragione all’Agenzia. “Giova premettere che secondo la giurisprudenza di questa Corte la motivazione è solo «apparente» e la sentenza è nulla quando benché graficamente esistente, non renda percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere li ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie ipotetiche congetture (Cass., Sez. U., 7/4/2014 n. 8053)” affermano innanzitutto dal Palazzaccio.

Con riferimento, in particolare, “alla tecnica motivazionale per relationem – aggiunge la Corte che è stato ripetutamente affermato che –  detta motivazione è valida a condizione che i contenuti mutuati siano fatti oggetto di autonoma valutazione critica e le ragioni della decisione risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo (Cass., Sez. U., 4/6/2008 n. 14814)”.

Il giudice di appello, proseguono da piazza Cavour, “è tenuto ad esplicitare le ragioni della conferma della pronuncia di primo grado con riguardo ai motivi di impugnazione proposti (ex multis, Cass., 7/8/2015 n. 16612) sicché deve considerarsi nulla – in quanto meramente apparente – una motivazione per relationem alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione, come nel caso di specie, non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello (ex multis, Cass. 21/9/2017 n. 22022 e Cass. 25/10/2018 n. 27112)”.

La decisione

Nel caso di specie, la CTR ha indicato in modo del tutto generico la materia del contendere, limitandosi ad affermare, apoditticamente, che le valutazioni dei giudici di primo grado fossero «ineccepibili». “Tali affermazioni, per la loro genericità, non consentono in alcun modo di apprezzare l’iter logico posto a fondamento della decisione di appello e di verificare le ragioni che hanno indotto la CTR a confermare la sentenza di primo grado”.

Da qui l’accoglimento del ricorso. Parola al giudice del rinvio.

Allegati

oblazione

Oblazione: guida all’istituto L’oblazione è un istituto di diritto penale e processuale penale che consente di estinguere i reati minori pagando una somma di denaro

Oblazione: definizione

L’oblazione è una misura prevista dal sistema giuridico italiano, che consente di estinguere il reato in cambio di un pagamento di una somma di denaro, senza il bisogno di affrontare il processo penale.

Riferimenti normativi

L’oblazione è quindi una forma di estinzione della punibilità prevista e disciplinata dagli articoli 162 e 162-bis del Codice Penale. L’art. 141 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale si occupa invece del procedimento che la riguarda.

In questo articolo, esamineremo le caratteristiche di questo istituto, la sua applicabilità, i limiti e le interpretazioni giuridiche più rilevanti.

Cos’è l’oblazione?

L’oblazione è un istituto giuridico che consente all’imputato di estinguere il reato, riducendo la propria responsabilità penale attraverso il pagamento di una somma di denaro o l’adempimento di altre obbligazioni. Questo meccanismo è previsto per i reati di natura contravvenzionale e, in alcuni casi, anche per reati di carattere più grave. L’oblazione consente di evitare il procedimento penale e, in molti casi, la condanna.

La normativa prevede che l’oblazione possa essere applicata solo a determinati tipi di reati, che devono essere di minor gravità rispetto ai crimini più gravi (ad esempio, i delitti). Inoltre, la somma da pagare varia in base alla pena prevista per il reato e deve essere versata prima dell’apertura del dibattimento o del decreto penale di condanna.

L’oblazione nelle contravvenzioni: art. 162 c.p.

L’articolo 162 del Codice Penale regola l’istituto per i reati contravvenzionali. Esso prevede che, per una serie di contravvenzioni punite solo con la pena dell’ammenda, il colpevole possa estinguere il reato mediante un pagamento di una somma di denaro, pari alla terza parte della pena massima prevista per quel reato, oltre le spese del procedimento. L’imputato che paga prima dell’apertura del dibattimento del decreto di condanna non è sottoposto a procedimento penale, né a pena detentiva.

L’articolo 162-bis del Codice Penale

L’articolo 162-bis del Codice Penale amplia le possibilità di applicazione dell’oblazione, permettendo di estinguere anche reati di natura contravvenzionale puniti con pene alternative.

La norma si applica in particolare ai reati contravvenzioni per i quali la legge stabilisce la pena alternativa dell’arresto o dellammenda. Il contravventore in questo caso, sempre prima del dibattimento e del decreto penale di condanna può pagare “una somma corrispondente alla metà del massimo della ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento.” Il pagamento della somma prevista comporta l’estinzione del reato.

Limiti applicativi dell’oblazione

L’oblazione non è consentita quando è presente una recidiva reiterata nella commissione della contravvenzione e quando l’imputato è un contravventore abituale o professionale ai sensi degli articoli 104 e 105 del codice penale. Il giudice comunque può respingere la domanda di oblazione quando il fatto commesso è grave.

Procedimento di oblazione

La procedura per l’ammissione all’oblazione segue un iter specifico delineato dall’art. 141 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale.

La norma dispone che durante le indagini preliminari, l’indagato può presentare domanda di oblazione al pubblico ministero. Quest’ultimo è tenuto a trasmettere la richiesta, insieme agli atti del procedimento, al giudice per le indagini preliminari. Il pubblico ministero, inoltre, può informare l’indagato, qualora sussistano i presupposti, della possibilità di richiedere l’oblazione e degli effetti estintivi del reato che derivano dal suo pagamento.

Se l’indagato non è stato avvisato di questa facoltà prima dell’emissione del decreto penale, nel decreto deve essere comunque indicata la possibilità di richiedere l’oblazione. Quando la domanda viene presentata, il giudice valuta il parere del pubblico ministero. Se ritiene che la richiesta non sia fondata, rigetta l’istanza con un’ordinanza e, se necessario, restituisce gli atti al pubblico ministero. Al contrario, se accoglie la domanda, stabilisce l’importo da versare e informa l’interessato. Dopo il pagamento, se la richiesta è avvenuta in fase di indagini preliminari, gli atti vengono rinviati al pubblico ministero; negli altri casi, il giudice dichiara il reato estinto con sentenza.

In situazioni in cui l’imputazione viene modificata in una che consente l’oblazione, o in caso di nuove contestazioni, l’imputato ha la possibilità di presentare domanda. Se accolta, il giudice stabilisce un termine, non superiore a dieci giorni, per il pagamento. Con l’avvenuto pagamento, il reato è dichiarato estinto tramite sentenza.

Ratio e natura preventiva dell’oblazione

La Corte di Cassazione ha chiarito diversi aspetti legati all’applicabilità dell’istituto. In una sentenza del 2020, la Cassazione ha ribadito che l’oblazione non può essere applicata nei reati gravi come quelli associati a criminalità organizzata o terrorismo, in quanto il fine di questa misura è esclusivamente quello di estinguere reati di minor entità.

Inoltre, la Corte ha evidenziato che l’oblazione è incompatibile con il procedimento penale già avviato, se l’imputato non adempie alla condizione di pagamento prima dell’inizio del processo. L’oblazione è quindi una soluzione preventiva, che deve essere adottata prima che il procedimento giuridico prenda il via.

 

Leggi anche gli altri interessanti articoli di diritto penale 

giurista risponde

Reati tributari e sequestro preventivo di beni immobili In tema di reati tributari può essere disposta la confisca su di un ammontare superiore al valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dell’amministrazione finanziaria per le imposte evase?

Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini

 

In tema di reati tributari, i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venire meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo o profitto di tale delitto (Cass. pen., sez. III, 13 agosto 2024, n. 32578).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la correttezza della confisca disposta su beni aventi un valore superiore a quella della imposta la cui riscossione è stata resa inefficace.

Il Tribunale, in qualità di giudice del riesame, con ordinanza, aveva annullato il decreto di sequestro preventivo disposto a carico di tre indagati in relazione al reato di cui all’art. 11 D.Lgs. 74/2000.

In particolare, il sequestro era stato disposto dal Gip in relazione a una provvisoria imputazione avente a oggetto la violazione dell’art. 11 predetto, per avere i tre indagati compiuto atti simulati o fraudolenti dismissivi del patrimonio della società allo scopo di rendere vana o inefficace la procedura di riscossione coattiva delle imposte. Il Gip, ritenuta la sussistenza del fumus delicti, aveva ritenuto di assoggettare alla misura cautelare, strumentale a una eventuale confisca ex art 12bis del citato decreto legislativo, non solamente i beni aventi il valore del debito tributario gravante sulla società, ma l’intero valore dei beni oggetto delle transazioni fraudolente, sebbene questo fosse superiore all’importo dei carichi tributari.

L’impostazione è stata ritenuta non corretta dal Tribunale del riesame, il quale ha affermato che in tal modo si giungerebbe al risultato di ipotizzare la possibilità di disporre la confisca di beni aventi un valore superiore a quella della imposta la cui riscossione è stata resa inefficace, facendo assumere alla predetta confisca carattere sanzionatorio.

Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il P.M. deducendo la violazione degli artt. 11 e 12bis D.Lgs. 74/2000 in cui il Tribunale sarebbe incorso nell’affermare che il principio per cui il profitto del reato di cui al menzionato art. 11 è rappresentato dal valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti dell’amministrazione finanziaria per le imposte evase, e non dall’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, debba applicarsi limitatamente ai casi in cui tale ammontare superi il valore dei beni oggetto delle operazioni fraudolente.

Nell’impostazione del Tribunale del riesame, la limitazione del profitto del reato sequestrabile alla soglia del valore del debito tributario inadempiuto sarebbe imposta: dal principio di proporzionalità di cui agli artt. 3, 25 e 27 Cost, 17 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; dall’interpretazione teleologica delle disposizioni del D.Lgs. 74/2000, improntato alla tutela dell’adempimento delle obbligazioni tributarie e al recupero delle somme dovute all’erario, quindi dalla necessaria configurazione della confisca ivi prevista come misura ristorativa dell’interesse violato con il reato; dal rilievo che il sequestro finalizzato alla confisca non possa avere a oggetto cose di cui non sia consentita la misura ablatoria finale; dal principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’estinzione del debito tributario determina l’illegittimità del decreto di sequestro preventivo emesso in relazione al reato ex art. 11 D.Lgs. 74/2000 negando in tal modo che il profitto del reato in esame debba sempre essere ancorata al solo valore dei beni fraudolentemente sottratti alla garanzia dell’amministrazione finanziaria.

A confutazione di tale impostazione, il Pm ricorrente ha osservato che: l’individuazione del profitto di cui all’art. 11 D.Lgs. 74/2000 nella riduzione, pur eccedente l’ammontare del debito tributario inadempiuto, del patrimonio dell’agente su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi sarebbe coerente con la struttura di reato di pericolo della fattispecie in parola; che i beni di cui sia contestata la sottrazione fraudolenta alla garanzia dei crediti dell’amministrazione finanziaria sarebbero confiscabili ex art. 240, comma 1, c.p. in quanto strumenti della consumazione del reato, a prescindere dalla relativa qualificazione come profitto dello stesso; infine, che l’illegittimità di un sequestro preventivo disposto nonostante l’intervenuto adempimento del debito tributario non dipenderebbe dal venir meno del reato o del profitto da esso derivante, bensì dal venir meno della stessa esigenza cautelare giustificativa della misura reale.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha affermato, preliminarmente, che sebbene l’art. 12bis D.Lgs. 74/2000 prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena per uno dei reati previsti dal decreto legislativo in esame, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, deve, tuttavia, rilevarsi che l’art. 240, comma 1 c.p. consente, nel caso di condanna, al giudice di procedere alla confisca, oltre delle cose che costituiscono il profitto o il prodotto del reato, anche di quelle che “servirono o furono destinate a commettere il reato”. Fra queste devono essere ricompresi, secondo il Collegio, i beni che sono stati l’oggetto delle transazioni simulate o fraudolente che costituiscono la materiale condotta attraverso la quale si è determinato il reato.

In tal senso la Corte ha richiamato il principio di diritto secondo cui in tema di reati tributari, i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venir meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo profitto di tale delitto.

Il Collegio ha evidenziato che, seppure sia vero che, il profitto del reato di cui all’art. 11 del D.Lgs. 74/2000 sia rapportabile oggettivamente al valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti dell’Amministrazione finanziaria per le imposte evase e non già al debito tributario rimasto inadempiuto, una tale regola deve, tuttavia, essere declinata coerentemente con la finalità la cui disposizione precettiva e sanzionatoria è preposta: cioè quella di assicurare agli organi pubblici una più agevole forma di esazione coattiva delle imposte interessate dalla normativa in esame il cui versamento sia stato, anche in un secondo momento rispetto al compimento degli atti simulati o fraudolenti, omesso dal contribuente.

Ebbene, nel caso di specie la Corte ha ritenuto che la confisca, e lo strumentale sequestro preventivo, siano riconducibili, quanto a sua causale normativa, non all’art. 12bis D.Lgs. 74/2000, ma all’art. 240, comma 1, c.p., cioè alle cose che “servirono o furono destinate a commettere il reato”. Invero, ricorrendo a una tale accezione normativa non vi è più la necessità di contenere l’ammontare del valore dei beni soggetti alla misura ablativa alla ratio dell’illiceità penale della condotta attribuita all’agente (l’esistenza di un possibile debito erariale in ordine al quale rendere ragionevole l’azione esecutiva fiscale) considerato che ora la confisca non sarebbe relativa al profitto del reato ma allo strumento utilizzato per la sua perpetrazione.

Tale principio deve essere inteso in termini rigidi, vale a dire che laddove l’attività di fraudolenta dismissione dei beni si sia articolata attraverso non un solo atto depauperativo del patrimonio del contribuente ma attraverso una pluralità di essi, ciascuno riferito a beni diversi o a porzioni diverse di un medesimo bene, gli atti effettivamente rilevanti dal punto di vista penale sono quelli che hanno determinato un concreto pericolo di inefficacia dell’azione esecutiva dell’Erario volta alla riscossione delle imposte. Risulta, pertanto, necessario che anche l’oggetto di tali ulteriori atti costituisca corpo del reato, cioè che anche questi atti siano stati in grado di ledere ex se il bene giuridico tutelato dalla norma.

Infine, la Corte ha ritenuto superata la problematica che il Tribunale del riesame ha posto in relazione alla necessità dell’esistenza di un rapporto di proporzionalità fra la misura ed il valore del bene oggetto di essa. Invero, secondo la Corte, siffatta problematica risulta essere ultronea ove si riporti la ratio della confisca non alla ipotesi della ablazione del profitto del reato ma a quella della confisca degli strumenti per mezzo dei quali il reato è stato consumato. Ipotesi per la quale non è determinante che i beni abbiano un valore economico proporzionato all’imposta alla cui evasione è finalizzata l’attività simulata o fraudolenta di dismissione patrimoniale.

Alla luce di tali argomentazioni, il Collegio annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale competente.

Contributo in tema di “Reati tributari e sequestro preventivo di beni immobili”, a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

bonus natale

Bonus Natale 2024: i chiarimenti del fisco L'Agenzia delle Entrate fornisce, con una circolare, le indicazioni e le novità per ottenere il beneficio del bonus Natale

Bonus Natale 2024: la circolare dell’Agenzia delle Entrate

Bonus Natale 2024: sono pronte le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate per ottenere il beneficio previsto per quest’anno dal Dl n. 113/2024 (Decreto Omnibus), destinato ai lavoratori dipendenti.

Con la Circolare n. 19 del 10 ottobre 2024 il fisco aveva già fornito le istruzioni operative agli uffici per garantirne l’uniformità di azione. Alla luce dei cambiamenti introdotti con il Dl 167/2024 (G.U. del 14 novembre 2024), l’Agenzia delle Entrate illustra, con la circolare n. 22/E del 19 novembre 2024, il rinnovato perimetro dell’agevolazione: in particolare, ferme restando le altre condizioni (limite di reddito e capienza fiscale), i datori di lavoro potranno riconoscere il bonus ai lavoratori con almeno un figlio a carico a prescindere dal fatto che siano coniugati, separati, divorziati, monogenitori o conviventi (ai sensi della legge n. 76 del 2016). La norma prevede, tuttavia, che il bonus non spetta al lavoratore dipendente coniugato o convivente il cui coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, o convivente sia beneficiario della stessa indennità.

Bonus Natale: platea allargata

Prima delle novità introdotte dal Dl 167, una delle condizioni per accedere al beneficio era avere sia il coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, sia almeno un figlio fiscalmente a carico o, in alternativa, far parte di un nucleo familiare cosiddetto monogenitoriale (es: figlio riconosciuto o adottato da un solo genitore). Adesso, invece, il “requisito familiare” si considera soddisfatto con la semplice presenza di un figlio a carico. La circolare – richiamando l’articolo 12, comma 2 del Tuir – ricorda che sono considerati fiscalmente a carico i figli di età non superiore a 24 anni con reddito complessivo fino a 4mila euro al lordo degli oneri deducibili (i figli con più di 24 anni, invece, si considerano fiscalmente a carico se hanno un reddito non superiore a 2.840,51 euro). Un chiarimento importante riguarda l’impossibilità di cumulare il bonus: se entrambi i coniugi, non legalmente ed effettivamente separati, o entrambi i conviventi (ai sensi della legge n. 76 del 2016) sono lavoratori dipendenti, nel rispetto degli altri requisiti, solo uno di essi avrà diritto al contributo.

Come richiedere il beneficio

Restano fermi, dunque, gli altri due requisiti: avere nel 2024 un reddito complessivo non superiore a 28mila euro e avere un’imposta lorda di importo superiore a quello della detrazione per lavoro dipendente.

Per ottenere il bonus, il dipendente è tenuto a comunicare – tramite autocertificazione – di possedere i requisiti di reddito e familiari previsti dalla norma e a dichiarare che il coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, o il convivente, non sia beneficiario della stessa indennità.

La circolare del fisco specifica che i dipendenti che hanno già fatto richiesta al sostituto d’imposta non devono presentare una nuova autocertificazione, tranne nel caso in cui, nel rispetto delle nuove regole, sia necessario comunicare il codice fiscale del convivente, e dichiarare che quest’ultimo non sia beneficiario del bonus.

Il sostituto d’imposta riconoscerà il contributo insieme alla prossima tredicesima mensilità, generalmente in arrivo con la busta paga di dicembre; in ogni caso, il lavoratore che, pur avendo diritto al bonus, non dovesse riceverlo, potrà “recuperarlo” con la dichiarazione dei redditi relativa all’anno d’imposta 2024, da presentare nel 2025.

amnistia

Amnistia: guida completa Amnistia: atto di clemenza concesso da una legge specifica che estingue il reato o fa cessare l’esecuzione della pena e delle pene accessorie

Cos’è l’amnistia?

L’amnistia è un atto di clemenza previsto dall’ordinamento giuridico italiano, che può comportare l’estinzione di reati e delle pene ad essi connessi. La sua regolamentazione è contenuta nell’articolo 151 del Codice Penale.

Articolo 151 c.p: cosa prevede

L’articolo 151 c.p stabilisce che l’istituto comporta l’estinzione del reato e della pena per i fatti commessi, ma solo se è prevista da una legge ad hoc. In altre parole, l’amnistia non è applicabile automaticamente, ma deve essere concessa attraverso una legge speciale, approvata dal Parlamento.

Essa può avere effetti retroattivi, ciò significa che può estinguere reati commessi anche prima della sua promulgazione, purché questi siano compatibili con i criteri stabiliti dalla legge stessa.

Caratteristiche dell’amnistia

L’istituto presenta alcune caratteristiche principali.

  • Una volta concessa, il reato non viene più considerato tale, e la pena viene completamente eliminata.
  • Non tutti i crimini possono beneficiare dell’ In genere, reati particolarmente gravi, come omicidi o crimini di terrorismo, sono esclusi dal beneficio.
  • La sua concessione può essere sottoposta a condizioni o obblighi.
  • Questo atto di clemenza non è applicabile ai recidivi (art. 99 c.p) ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, salvo eccezioni.

Condizioni e limiti dell’amnistia

La legge che la dispone può stabilire alcuni limiti specifici all’amnistia.

  1. Tipologia di reati: non tutti i reati possono beneficiare dell’amnistia, in particolare quelli di terrorismo, omicidio e crimini contro l’umanità.
  2. Periodo di applicazione: l’amnistia può avere effetti retroattivi, ma solo entro i limiti stabiliti dalla legge che la dispone.
  3. Efficacia legale: una volta concessa, l’amnistia estingue ogni effetto penale, ma non necessariamente quelli civili o amministrativi legati al reato.

Giurisprudenza della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha fornito diverse interpretazioni sull’applicazione di questo istituto, in particolare in relazione all’estinzione del reato e delle pene.

In una sentenza del 2016, la Cassazione ha chiarito che l’amnistia non solo estingue la pena, ma elimina anche il reato sotto il profilo giuridico. Ciò significa che un soggetto che ne beneficia non avrà più alcuna condanna penale a suo carico, e non potrà essere sottoposto a misure penali future relative a quel reato.

La Cassazione ha inoltre ribadito che l’amnistia può essere applicata anche a procedimenti in corso, a condizione che i reati siano compatibili con la legge che l’ha introdotta. Tuttavia, l’eventuale amnistia non cancella gli effetti civili del reato, come il risarcimento danni alle vittime.

Differenze con l’indulto

Sebbene amnistia e indulto siano spesso confusi, le differenze tra i due provvedimenti sono significative. La prima è un provvedimento che ha l’effetto di estinguere i reati e le pene connesse a determinati comportamenti criminali. Il secondo invece riduce la pena, ma non elimina il reato. L’amnistia può essere concessa dallo Stato per motivi politici, sociali o di particolare necessità, ma non è applicabile a tutti i reati.

Ecco le differenze principali tra i due istituti.

Estinzione del reato vs. riduzione della pena:

  • Amnistia: elimina completamente il reato e la pena, annullando ogni effetto penale. La persona non viene più considerata condannata.
  • Indulto: riduce o estingue la pena, ma il reato rimane formalmente tale. La persona non è più sottoposta alla pena detentiva, ma il reato rimane nel suo casellario giudiziario e può avere altre implicazioni legali.

Effetto retroattivo:

  • Amnistia: ha effetti retroattivi, il che significa che può estinguere reati commessi anche prima dell’entrata in vigore della legge.
  • Indulto: generalmente si applica solo alle pene future, anche se può ridurre le pene già in corso.

Reati esclusi:

  • Amnistia: tende a escludere i reati più gravi, come quelli legati a terrorismo, mafia, omicidi, ecc.
  • Indulto: non esclude necessariamente i reati più gravi, ma la sua applicazione dipende dalla legge speciale che lo autorizza. In genere, l’indulto non si applica a crimini gravi come quelli di terrorismo, ma può essere esteso ad altri reati meno gravi.

Procedura di concessione:

  • Amnistia: viene concessa tramite una legge speciale approvata dal Parlamento. Ha una portata generale e collettiva, riguardando categorie di detenuti.
  • Indulto: viene anch’esso concesso dal Parlamento tramite una legge speciale, ma ha una portata più limitata. Esso di solito si applica a specifici gruppi di reati o detenuti.

 

Leggi anche: Estinzione del reato: riparazione entro il dibattimento

conducenti taxi e ncc

Conducenti taxi e Ncc: no alla residenza nella regione La Consulta ha dichiarato illegittimo costituzionalmente il requisito della residenza nella regione per i conducenti di taxi e Ncc

Conducenti taxi e Ncc, requisito residenza

“Non è costituzionalmente legittimo il requisito della residenza in uno dei comuni della regione per l’iscrizione nel ruolo dei conducenti di taxi e di NCC”. Così la Consulta (sentenza n. 183/2024) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettera i), della legge della Regione Umbria n. 17 del 1994. La norma imponeva come requisito per l’iscrizione nel ruolo dei conducenti di taxi e di noleggio con conducente (NCC) il fatto di essere residenti in uno dei Comuni della Regione Umbria. La Corte ha ritenuto tale disposizione incompatibile con la Costituzione, in particolare con i principi di ragionevolezza e concorrenza.

Il contesto della norma regionale e il giudizio del TAR Umbria

La norma regionale in questione era stata già censurata dal TAR Umbria, che aveva rilevato come il requisito della residenza fosse lesivo del principio di ragionevolezza e ostacolasse la libera concorrenza nel mercato degli autoservizi pubblici non di linea. Secondo il TAR, tale disposizione impediva l’ingresso di nuovi lavoratori o imprese nel “bacino lavorativo” regionale, limitando di fatto la possibilità di accesso al mercato per chi non fosse residente in Umbria. Il tribunale amministrativo aveva inoltre invocato la violazione dell’art. 117 della Costituzione, che assegna allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela della concorrenza, e la violazione dei principi della legge quadro n. 21 del 1992 riguardante il trasporto pubblico locale non di linea.

La posizione della Corte Costituzionale

La Corte ha accolto la questione sollevata, ritenendo che la norma regionale violasse sia il vecchio che il nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione. La Corte ha sottolineato che, in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione, il sistema di riparto delle competenze tra Stato e Regioni è cambiato, ma alcuni limiti posti all’esercizio della potestà legislativa regionale sono rimasti invariati, tra cui la tutela della concorrenza. Questo principio, che la Corte ha riconosciuto come uno dei valori fondanti del diritto dell’Unione Europea, deve essere rispettato anche dalla legislazione regionale, in quanto impone limiti all’esercizio della legislazione autonoma da parte delle Regioni.

La tutela della concorrenza e il principio di ragionevolezza

La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza consolidata, che ha sempre riconosciuto la libera concorrenza come un principio ordinatore fondamentale del diritto europeo, ma anche dell’ordinamento interno, in quanto presidiato dall’art. 41 della Costituzione, che tutela la libertà di iniziativa economica. Secondo la Corte, anche prima della riforma del Titolo V, la concorrenza costituiva un limite all’esercizio della potestà legislativa regionale, e tale limite non può essere ignorato nemmeno nel nuovo sistema di riparto delle competenze.

L’inadeguatezza del requisito della residenza

Inoltre, la Corte ha ritenuto che il requisito della residenza fosse lesivo anche del principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 della Costituzione. La Corte ha osservato che tale requisito, che impone una localizzazione geografica come condizione per l’iscrizione nel ruolo dei conducenti, rappresenta uno strumento sproporzionato rispetto allo scopo che la norma intendeva perseguire, ossia garantire l’adeguata professionalità e la conoscenza del territorio da parte degli aspiranti conducenti. La Corte ha ritenuto che il principio di ragionevolezza esiga che i mezzi utilizzati per raggiungere un obiettivo non siano eccessivi rispetto al fine da conseguire.