giurista risponde

Turbata libertà degli incanti e concorsi P.A. Nella nozione di “gara”, oggetto della fattispecie di turbata libertà degli incanti punita ai sensi dell’art. 353 c.p., rientrano anche i concorsi per il reclutamento del personale di cui si avvale la Pubblica Amministrazione?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

La lettera della legge, pur interpretata nel senso estensivo indicato dalla giurisprudenza, nondimeno restringe l’area di tutela e delimita il perimetro operativo della fattispecie di cui all’art. 353 c.p. alle sole procedure indette per la cessione di un bene ovvero per l’affidamento all’esterno della esecuzione di un’opera o della gestione di un servizio. Dunque, non vi è nessun riferimento ai concorsi per il reclutamento del personale. – Cass. VI, 24 maggio 2023, n. 38127.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la condotta di un Segretario comunale, nonché Presidente della commissione e Responsabile unico del procedimento, il quale avrebbe agevolato con collusioni e/o mezzi fraudolenti, in relazione al concorso per titoli ed esami per la copertura di un posto a tempo indeterminato e part time di istruttore direttivo, il superamento di detto concorso di una dipendente del comune, con la quale aveva, peraltro, una frequentazione anche di carattere sessuale.

In particolare, il Tribunale di prime cure, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico Ministero avverso l’ordinanza con cui il Giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la domanda di applicazione della custodia in carcere, applicava nei confronti dell’imputato la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio per la durata di sei mesi, in relazione al reato di cui all’art. 353 c.p. Invero, secondo il Tribunale, la nozione di “gara” richiesta dalla fattispecie incriminatrice della turbata libertà degli incanti, comprenderebbe qualsiasi procedura pubblica finalizzata alla scelta del contraente e, dunque, anche la procedura concorsuale per titoli ed esami per la copertura di un posto di istruttore direttivo in seno all’amministrazione comunale.

Avverso detta sentenza proponeva, quindi, ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato il quale, tra i motivi di ricorso, contestava la erronea qualificazione del fatto che, secondo il ricorrente, sarebbe al più sussumibile nel delitto di abuso d’ufficio previsto ai sensi dell’art. 323 c.p piuttosto che nella fattispecie contestata di turbata libertà degli incanti.

La Corte di Legittimità, chiamata a decidere al riguardo, evidenzia preliminarmente che l’intervenuto ampliamento della portata della fattispecie della turbata libertà degli incanti non discende affatto dalla genericità della descrizione del fatto da parte del legislatore, ma dalla interpretazione data nel corso del tempo dalla giurisprudenza. Infatti, la Corte di Cassazione ha ricordato che la precedente giurisprudenza di legittimità, privilegiando una operazione di tipo estensiva, ha in molteplici occasioni ritenuto che nella nozione di “gara” rientra qualsivoglia procedura di gara, anche informale o atipica, a condizione che l’avviso informale o il bando e comunque l’atto equipollente indichino previamente i criteri di selezione e di presentazione delle offerte, ponendo i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto e i criteri in base ai quali formulare le proprie (in questo senso, Cass. 6 dicembre 2018, n. 2795). Tuttavia, con la sentenza in commento, la Corte di legittimità, discostandosi dai precedenti giurisprudenziali, ricorda che l’attività ermeneutica trova un limite nel significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore a cui il giudice non può assegnare un significato diverso da quello proprio, da quello semantico, al fine di ricercare profili ulteriori in grado di colorare in senso estensivo il perimetro dell’illecito. Ciò sulla scorta dei principi che regolano l’ordinamento giuridico tra cui quello della certezza del diritto, della tipicità della fattispecie incriminatrice nonché il principio del divieto di analogia in malam partem, da ultimo ricordato dalla Corte costituzionale con la recente sent. 98/2021.

In virtù di tali principi, la Corte di Cassazione, ritenendo fondato il ricorso, conclude che i concorsi per il reclutamento del personale non possono essere ricondotti alla fattispecie di turbata libertà degli incanti, ma al più al reato di abuso di ufficio, ove ne siano sussistenti i presupposti e ciò anche alla luce delle modifiche apportate all’art. 323 c.p. dalla L. 16 luglio 2020, n. 176.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Cass. pen., 13 aprile 2017, n. 9385
giurista risponde

Profitto nel delitto di rapina In cosa si sostanzia il profitto richiesto dall’art. 628 c.p.? Che rapporto intercorre tra le fattispecie criminose della rapina e della violenza privata, prevista e punita dall’art. 610 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

Nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, e in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. Non va poi trascurato che il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e, in base al principio di specialità, resta escluso, qualora sussista il fine di procurarsi un ingiusto profitto (dolo specifico) che rende configurabile un’ipotesi delittuosa più grave, quale quella della rapina. – Cass. II, 15 settembre 2023, n. 37861.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la condotta di alcuni detenuti che, al fine di dar luogo ad una rivolta in carcere, sottraevano agli agenti di custodia, con violenza e minaccia, le chiavi delle celle, poi successivamente restituite. In particolare, l’impossessamento delle chiavi veniva determinato dal fine specifico di aprire un cancello che avrebbe consentito ai soggetti agenti di accedere alla sezione antistante e porre in essere atti di rappresaglia per vendicare l’aggressione subita qualche giorno prima da un detenuto loro concittadino.

In secondo grado, la Corte di Appello di Salerno, riformando parzialmente la sentenza resa dal Giudicante di prime cure, confermava l’affermazione di responsabilità e, dunque, il trattamento sanzionatorio nei confronti dei detenuti in ordine al reato di concorso nel delitto di rapina. Invero, il Giudice di secondo grado, aveva escluso l’ipotesi criminosa della violenza privata in luogo della configurazione del delitto di rapina, sulla scorta sia del valore patrimoniale delle chiavi sottratte agli agenti, della oggettiva utilità raggiunta, ovverosia aprire le celle, nonché dell’ingiustizia del profitto realizzato con tale spossessamento.

Avverso detta sentenza proponevano, quindi, ricorso per Cassazione i difensori degli imputati i quali, tra i motivi di ricorso, contestavano la violazione degli artt. 628 e 610 c.p. nonché il vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica della condotta ascritta agli imputati in termini di concorso nel delitto di rapina, piuttosto che in quello della violenza privata. Secondo i ricorrenti, il giudice di merito aveva ingiustificatamente trascurato di considerare che la volontà degli imputati non era affatto finalizzata ad impossessarsi della chiave come bene in sé, dunque come bene avente valore patrimoniale, ma a costringere le persone offese, ossia gli agenti della Polizia Penitenziaria, ad aprire il cancello.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando l’infondatezza della censura relativa alla qualificazione giuridica del fatto, aderisce alla impostazione giurisprudenziale maggioritaria per la quale il requisito dell’ingiusto profitto, richiesto dalla norma di cui all’art. 628 c.p., non deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ma può concretizzarsi in qualsiasi utilità, anche non di natura economia. A tal riguardo, gli Ermellini precisano che già la giurisprudenza più risalente includeva nella definizione di profitto anche quelle cose che, se pur prive di reale valore di scambio, hanno comunque una importanza per il soggetto che le possiede, anche se non strettamente economica (così, tra le tante, Cass. 24 settembre 1976, n. 2004). Tale orientamento veniva poi ribadito anche dall’indirizzo maggioritario della giurisprudenza di legittimità in virtù del quale nel delitto di rapina il profitto può concretizzarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, e in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (così, tra le tante, Cass. 14 febbraio 1990, n. 7778). Nel medesimo senso anche la recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che, in merito alla fattispecie incriminatrice del furto, con l’informazione provvisoria 7/2023, hanno stabilito che il fine di profitto del reato di furto, caratterizzante il dolo specifico dello stesso, può consistere anche in un fine di natura non patrimoniale. Ne consegue, dunque, che anche la rapina, che rispetto al delitto di furto presenta il quid pluris della violenza e della minaccia, può essere integrata da una condotta appropriativa tesa a perseguire un vantaggio non economico.

Oltre a quanto sin qui detto, nella decisione in commento, i Giudici di Piazza Cavour, richiamando una giurisprudenza risalente, rappresentano che il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e, dunque, in base al principio di specialità espresso ai sensi dell’art. 15 c.p. esso soccombe rispetto al delitto di rapina, fattispecie delittuosa più grave, quando sussiste il dolo specifico di procurarsi un ingiusto profitto (così Cass. 24 ottobre 1985, n. 275).

Nel caso che occupa, infine, la Corte di cassazione specifica che a nulla rileva la circostanza, sollevata dai ricorrenti, per cui le chiavi sarebbero poi state riconsegnate agli agenti della Polizia Penitenziaria, in quanto il delitto di rapina si configura quando la persona offesa viene costretta, con violenza o minaccia, a consegnare un proprio bene, anche per l’uso meramente momentaneo, e ne perda il controllo durante l’utilizzo da parte dell’agente il quale, in tal modo, consegue l’autonoma disponibilità della cosa (così Cass. 26 febbraio 2019, n. 16819).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., 14 febbraio 1990, n. 7778
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Rapina impropria e omicidio aggravato dal nesso teleologico Nelle ipotesi di tentata rapina impropria e tentato omicidio aggravato dal nesso teleologico è configurabile l’assorbimento della circostanza aggravante nel reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

Nelle ipotesi di rapina impropria, ove la violenza esercitata immediatamente dopo la sottrazione dei beni determini la morte della persona offesa, la circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. è assorbita nel reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p. data la coincidenza tra le fattispecie criminose della modalità commissiva dell’uso della violenza e dell’elemento finalistico (cioè l’aver agito allo scopo di assicurarsi il profitto del reato o l’impunità). – Cass., sez. I, 11 settembre 2023, n. 37070.

La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’assorbimento del nesso teleologico nelle ipotesi di tentata rapina impropria e tentato omicidio.

Nei precedenti gradi di giudizio l’odierno ricorrente è stato condannato per tentata rapina impropria commessa mediante attacco di esplosivo al sistema bancomat, tentato omicidio aggravato dal nesso teleologico, detenzione e porto di arma comune da sparo e danneggiamento aggravato. La Corte di appello, in conferma della decisione di primo grado, ha ritenuto sussistente la circostanza aggravante del nesso teleologico in riferimento al rapporto tra tentato omicidio e tentata rapina impropria. Con un articolato atto di ricorso la difesa ha contestato la violazione del canone metodologico di cui all’art. 192 c.p.p., l’erronea applicazione della legge penale in punto di qualificazione giuridica del fatto come tentato omicidio, il vizio di motivazione in riferimento alla configurabilità del nesso teleologico e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della recidiva. I giudici di legittimità hanno accolto la censura relativa all’esclusione della circostanza aggravante in oggetto, aderendo, così, a quell’indirizzo interpretativo che non si sofferma sulla cd esorbitanza della violenza. Invero, in tema di assorbimento del nesso teleologico, gli orientamenti giurisprudenziali che si sono susseguiti nel tempo hanno prospettato soluzioni diverse.

Come è noto, l’art. 628 c.p. incrimina, al comma 1, la condotta di chi, per procurare un ingiusto profitto, mediante violenza o minaccia si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene (rapina propria); al secondo comma, invece, punisce chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione per assicurarsi il possesso o per procurarsi l’impunità (rapina impropria). La diversa sequenza temporale in cui si sostanziano gli elementi costitutivi si spiega in ragione del fatto che nella rapina propria la violenza o minaccia si pone in un rapporto di strumentalità rispetto alla condotta di sottrazione (“mediante violenza o minaccia”), mentre nella rapina impropria la violenza o minaccia – oltre a giustificarsi sulla base della condotta di sottrazione – è funzionale ad un ulteriore obiettivo, ossia quello del possesso o dell’impunità. Proprio su questi presupposti la giurisprudenza ha incentrato le questioni relative alla configurabilità del tentativo in caso di rapina impropria e all’assorbimento della circostanza del nesso teleologico. La prima questione è stata risolta dalle Sezioni Unite che, valorizzando la funzione estensiva della tipicità svolta dall’art. 56, c.p., hanno ammesso la configurabilità del reato nella forma tentata (Cass., Sez. Un., 12 settembre 2012, n. 3492). Diversamente, il quesito relativo al possibile assorbimento del nesso teleologico si presta, ancora oggi, a soluzioni contrastanti. Come anticipato, con la pronuncia in oggetto la Cassazione ha aderito a quell’indirizzo che riconosce l’assorbimento della circostanza aggravante. L’orientamento contrapposto, invece, nega tale possibilità in virtù del fatto che non è riscontrabile incompatibilità giuridica tra il reato di rapina impropria e l’aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. laddove la violenza esercitata dall’agente risulti esorbitante rispetto a quella idonea a configurare la rapina (in tal senso Cass. 17 maggio 2019, n. 21730; Cass. 16 maggio 2019, n. 21458). Questi principi si fondano non tanto sulle caratteristiche specifiche della rapina nella forma impropria, quanto nell’elemento dell’esorbitanza della violenza rispetto al soddisfacimento dell’interesse di lucro perseguito: l’aggravante del nesso teleologico sussiste nel caso in cui la violenza esercitata sia smisurata rispetto a quella strettamente funzionale all’esecuzione della rapina (così Cass. 12 dicembre 2022, n. 46869). In tali ipotesi, quindi, i reati di omicidio e rapina impropria concorrono con l’aggravante in questione (Cass. 13 maggio 2020, n. 14940; Cass. 28 marzo 2018, n. 14301). A sostegno di questa tesi è stato precisato che la violenza o la minaccia integrano elementi costitutivi della rapina impropria, insieme all’elemento oggettivo dell’impossessamento del bene e all’elemento soggettivo del dolo specifico. Il dolo specifico esaurisce la sua funzione nell’ambito della rapina, per cui l’aggravante del nesso teleologico permette di legare due autonome fattispecie di reato non sovrapponibili tra di loro. Più precisamente «commesso il delitto di rapina impropria, trasmodando l’azione violenta del soggetto attivo del reato nell’omicidio, si rende autonomamente rilevante accanto alla fattispecie di rapina quella dell’omicidio, con la conseguenza che l’aggravante teleologica di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. collega queste due figure di reato secondo il rapporto strumentale esistente tra mezzo e fine» (Cass. 21 marzo 2017, n. 18116).

L’indirizzo interpretativo espresso di recente dai giudici di legittimità – e condiviso dalla Prima Sezione nella sentenza in epigrafe – si articola in senso contrario a quanto fin qui detto. Nelle ipotesi in cui l’omicidio sia commesso immediatamente dopo l’impossessamento vi è coincidenza tra le due fattispecie, oltre che delle modalità commissive (la violenza), anche del finalismo dell’azione (violenza per assicurarsi l’impunità) che, avvalorando la tesi opposta, finirebbe per essere incriminato due volte: la prima in quanto elemento costitutivo della rapina impropria, la seconda come elemento che caratterizza l’aggravante del delitto di omicidio (così anche Cass. 8 settembre 2022, n. 33117). Nel caso di specie, dunque, la Cassazione ha valorizzato la natura soggettiva dell’aggravante teleologica che, ove applicata, andrebbe a duplicare un effetto sanzionatorio in modo non consentito. La volontà del soggetto, infatti, è assunta come elemento costitutivo del reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p. e non può essere valutata nella previsione sanzionatoria per il delitto di violenza contestualmente commesso (in tal senso anche Cass. 21 giugno 2017, n. 51457; Cass. 16 novembre 2006, n. 42371). Quest’aspetto spiega l’assorbimento del disvalore della circostanza di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. nella fattispecie di rapina impropria.

Diversamente, l’aggravante del nesso finalistico tra omicidio e rapina può sussistere in caso di rapina propria commessa immediatamente dopo l’omicidio che, configurandosi come reato-mezzo, viene commesso per eseguire la rapina ad esso posteriore.

In conclusione, in tema di rapina impropria, ove la violenza esercitata immediatamente dopo la sottrazione dei beni determini la morte della persona offesa, la circostanza aggravante del nesso teleologico è assorbita – per il principio di specialità – nel reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p. data la coincidenza tra le fattispecie criminose della modalità commissiva dell’uso della violenza e dell’elemento finalistico (cioè l’aver agito allo scopo di assicurarsi il profitto del reato o l’impunità).

Alla luce delle esposte ragioni il Collegio ha annullato senza rinvio la sentenza limitatamente alla censura in esame.

Gli altri motivi prospettati dalla difesa, ad eccezione di quello relativo all’erronea applicazione di legge in riferimento alla ritenuta sussistenza della recidiva, sono stati dichiarati manifestamente infondati data l’assenza di vizi logici o processuali. In particolare, quanto alla qualificazione giuridica del tentato omicidio, la Corte di legittimità ha ribadito che ai fini della configurabilità del reato è sufficiente il dolo diretto anche nella forma di dolo alternativo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 8 settembre 2022, n. 33117; Cass., sez. I, 21 giugno 2017, n. 51457; Cass., sez. I, 16 novembre 2006, n. 42371
Difformi:      Cass., sez. I, 12 dicembre 2022, n. 46869; Cass., sez. II, 13 maggio 2020, n. 14940; Cass., sez. I, 17 maggio 2019, n. 21730; Cass., sez. II, 16 maggio 2019, n. 21458; Cass., sez. II, 28 marzo 2018, n. 14301; Cass., sez. I, 21 marzo 2017, n. 18116
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Requisito abitualità particolare tenuità del fatto Ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. quando può ritenersi integrato il requisito dell’abitualità?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

L’abitualità è un requisito ostativo all’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. e, come si evince dal tenore letterale, sussiste nel caso in cui i reati commessi siano della stessa indole e nel caso in cui i reati abbiano ad oggetto condotte abituali, reiterative o plurime. – Cass., sez. III, 11 settembre 2023, n. 37046.

La questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte trae origine da una condanna per omessa denuncia di materiale infiammabile – ex art. 679 c.p. – e per il mantenimento di un impianto di distribuzione carburanti privo del certificato antincendi (artt. 16 e 20, D.Lgs. 139/2006).

Il ricorrente, oltre a presentare censure in punto di fatto volte ad una alternativa ricostruzione probatoria (che, in quanto tale, non è consentita in sede di legittimità) e censure meramente procedurali, ha contestato la manifesta illogicità della motivazione per la mancata applicazione dell’art. 131bis, c.p.

Prima di procedere alla disamina della questione è opportuno ricordare (per quanto di interesse in questa sede) l’ambito applicativo e la ratio della causa di non punibilità in oggetto. L’istituto della particolare tenuità del fatto è stato introdotto dal D.Lgs. 28/2015 con lo scopo di «espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo» (Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13682). Come chiarito dalle Sezioni Unite Coccimiglio il nuovo istituto integra una causa di non punibilità e persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio, con effetti anche in tema di deflazione del processo penale. In quest’ottica proporzione e deflazione si intrecciano coerentemente.
Il perimetro di applicabilità è stato determinato in relazione alla pena edittale che, in modifica a quanto originariamente previsto, non rileva più in riferimento al limite massimo (“pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni”), ma in relazione al minimo edittale (“pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”). L’ambito applicativo, tuttavia, non è delineato solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale, ma anche da un profilo soggettivo afferente alla non abitualità del comportamento. In tal senso le Sezioni Unite Tushaj hanno chiarito che «la norma intende escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto comportamenti “seriali”» (Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13681). La nozione di abitualità è definita dallo stesso art. 131bis, c.p. e sussiste nel caso in cui i reati commessi siano della stessa indole o abbiano ad oggetto condotte abituali, reiterative o plurime. Il concetto di “reati della stessa indole” si desume, invece, dall’art. 101, c.p. che, oltre a considerare tali i reati che violano la medesima disposizione di legge, fa riferimento anche a quelli che presentano profili di omogeneità sia sul piano oggettivo, cioè in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive, sia sul piano soggettivo, cioè in relazione ai motivi a delinquere che hanno avuto efficacia causale nella decisione criminosa. L’identità dell’indole, inoltre, deve essere valutata in concreto dal giudice, quindi verificando la presenza di caratteri fondamentali comuni (in tal senso Cass. 16 luglio 2018, n. 32577).

Le Sezioni Unite Tushaj hanno altresì evidenziato l’importanza del dato numerico. Più precisamente, l’abitualità del comportamento si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole, quindi almeno due, diversi da quello per il quale si procede – ciò significa che in presenza del terzo illecito della stessa indole si può parlare di serialità della condotta che, in quanto tale, osta all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131bis, c.p. – (in senso conforme anche Cass. 30 dicembre 2022, n. 49678).

Nel caso in esame la questione controversa riguarda la presenza, o meno, di più reati della stessa indole in quanto i giudici di merito hanno negato il riconoscimento della particolare tenuità del fatto in ragione dell’abitualità della condotta, ossia alla luce dei precedenti penali annoverati dall’imputato (nello specifico i reati di cui agli artt. 612 e 614 c.p.). La difesa, per converso, ha contestato la mancata sussistenza del requisito dell’abitualità data la diversa identità dell’indole dei reati.

La doglianza suesposta è stata ritenuta fondata. Invero, i precedenti considerati ostativi al riconoscimento della causa di non punibilità non sono della stessa indole del reato oggetto del giudizio. Il Collegio, in conformità ai principi sanciti dalle Sezioni Unite, ha ribadito che il presupposto ostativo rappresentato dall’abitualità della condotta si concretizza quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti della stessa indole oltre quello preso in esame (così anche Cass. 14 novembre 2022, n. 43065). L’omogeneità dei reati, inoltre, deve essere valutata in concreto, analizzando il profilo formale e quello sostanziale.
Dopo aver disposto l’annullamento con rinvio limitatamente a questo motivo di ricorso, la Cassazione si è soffermata sul rapporto tra prescrizione ed esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. La prescrizione estingue il reato, mentre l’istituto di cui all’art. 131bis, c.p. lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica, ragion per cui la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sull’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Tale precisazione si è resa necessaria in quanto, nel giudizio di rinvio, il reato non può essere dichiarato prescritto quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale (come nel caso di specie).

Il Collegio, in conclusione, ha disposto l’annullamento con rinvio in relazione all’applicazione dell’art. 131bis, c.p. e ha dichiarato l’inammissibilità dei restanti motivi di ricorso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13681; Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13682; Cass., sez. II, 16 luglio 2018, n. 32577; Cass., sez. V, 14 novembre 2022;
Cass., sez. II, 30 dicembre 2022
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Elemento soggettivo tentato omicidio Nelle ipotesi di tentato omicidio qual è l’elemento soggettivo richiesto ai fini della configurabilità del reato?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

In tema di tentato omicidio – ai fini della configurabilità del reato – è sufficiente il dolo diretto anche nella forma di dolo alternativo, quindi caratterizzato dalla previsione in capo all’agente di una duplicità di esiti della sua condotta, entrambi voluti ed equivalenti nella sua prospettazione psicologica. – Cass., sez. I, 6 settembre 2023, n. 36853

Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte ha ribadito i principi dettati in materia di dolo omicidiario.
Nel caso di specie il ricorrente – condannato all’esito di un giudizio abbreviato per tentato omicidio, resistenza a pubblico ufficiale, maltrattamenti e lesioni – ha contestato la decisione di merito in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo che, ad avviso della difesa, avrebbe potuto essere configurato in termini di dolo eventuale, quindi incompatibile con il tentativo. Il dato letterale dell’art. 56, c.p., infatti, esclude la compatibilità del dolo eventuale con il tentativo poiché postula una intenzionalità diversa da quella diretta. In tal senso le Sezioni Unite, con la storica sentenza ThyssenKrupp (Cass., Sez. Un., 8 settembre 2014, n. 38343), hanno ampiamente delineato (per quel che rileva in questa sede) i confini del dolo eventuale e del dolo diretto, asserendo che «il dolo eventuale designa l’area dell’imputazione soggettiva dagli incerti confini in cui l’evento non costituisce l’esito finalistico della condotta, né è previsto come conseguenza certa o altamente probabile: l’agente si rappresenta un possibile risultato della sua condotta e ciononostante s’induce ad agire accettando la prospettiva che l’accadimento abbia luogo. Si ha, invece, dolo diretto quando la volontà non si dirige verso l’evento tipico e, tuttavia, l’agente si rappresenta come conseguenza certa o altamente probabile della propria condotta un risultato che però non persegue intenzionalmente». Esclusa la compatibilità tra dolo eventuale e delitto tentato, è pacifico affermare la punibilità del tentativo a titolo di dolo diretto anche nella forma di dolo alternativo, in quanto il soggetto agente prevede e vuole indifferentemente due eventi alternativi tra loro come conseguenza della sua condotta cosciente e volontaria (in tal senso anche Cass. 31 luglio 2023, n. 33435; Cass. 29 aprile 2019, n. 17755; Cass. 1 ottobre 2018, n. 43250; Cass. 3 ottobre 2013, n. 9663).

Nel caso in esame la Corte territoriale ha prospettato un’analitica ricostruzione del fatto e delle condotte tenute dal ricorrente che, come confermato dai giudici di legittimità, sono state ritenute indicative dell’esistenza dell’animus necandi. Invero, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’animus necandi assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata ex post ma con riferimento alla situazione che si presentava ex ante all’imputato, cioè al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso e alle peculiarità intrinseche dell’azione criminosa (in tal senso anche Cass. 20 gennaio 2023, n. 2513; Cass. 9 settembre 2021, n. 33327; Cass. 18 marzo 2019, n. 11928).
I giudici di appello tenendo conto della condotta dell’imputato, della tipologia di arma utilizzata, nonché delle dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio dell’udienza di convalida, hanno confermato la decisione di primo grado, ritenendo pienamente sussistente il dolo omicidiario.
Alla luce di tali valutazioni la Corte di Cassazione ha rigettato le censure proposte, ribadendo che nelle ipotesi di delitto tentato l’elemento soggettivo è ravvisabile anche nella forma del dolo alternativo che, quanto alla componente volontaristica, non si rapporta all’ intensità della volontà del fatto tipico ma all’oggetto della volontà e, pertanto, sussiste qualora l’agente si rappresenti come certo il verificarsi di due eventi – alternativi tra loro – e diriga la propria volontà indifferentemente ad entrambi gli eventi.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 20 gennaio 2023, n. 2513; Cass., sez. I, 31 luglio 2023, n. 33435;
Cass. sez. I, 9 settembre 2021, n. 33327; Cass., sez. I, 18 marzo 2019, n. 11928; Cass., sez. I, 29 aprile 2019, n. 17755; Cass., sez. I, 1 ottobre 2018, n. 43250;
Cass., sez. I, 3 ottobre 2013, n. 9663
giurista risponde

Rimedi negata trascrizione accordo negoziazione assistita Quali sono i rimedi esperibili nel caso di negata trascrizione dell’accordo di separazione con negoziazione assistita?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

La pacifica natura non contenziosa del procedimento di reclamo previsto dalla legge contro le decisioni del Conservatore, oltre ad escludere la stessa ricorrenza dei presupposti per l’ammissibilità del ricorso straordinario, esclude che la questione interessata dal motivo legittimi la ricorribilità in Cassazione del provvedimento impugnato, trattandosi di questione che, per quanto controversa, potrà in ogni caso essere devoluta alla cognizione dell’Autorità giudiziaria nell’ambito di un processo a cognizione piena. – Cass. II, 4 agosto 2023, n. 23851.

Il caso sottoposto alla Suprema Corte è stato occasionato da un mancato adempimento pubblicitario da parte di un Conservatore dei registri immobiliari di una convenzione di negoziazione assistita di separazione personale, in quanto ritenuta mancante dell’autenticazione delle sottoscrizioni previste dalla legge ad opera di un pubblico ufficiale a tanto abilitato.

Il Tribunale aveva accolto la richiesta dei reclamanti, ritenendo che l’autenticazione certificata da parte degli avvocati fosse sufficiente a rendere trascrivibile l’atto in forza di quanto previsto dall’art. 6, D.L. 132/2014, norma che equipara gli accordi in esame ai provvedimenti che definiscono i procedimenti di separazione personale, per i quali non è richiesta alcuna ulteriore autenticazione delle sottoscrizioni ai fini della loro trascrivibilità.

Nei confronti di tale provvedimento con il quale si ordinava al Conservatore di provvedere alla trascrizione prima rifiutata, proponeva reclamo l’Agenzia delle entrate. Con successiva ordinanza, la Corte territoriale accoglieva il reclamo, sostenendo che nel caso di specie venisse in rilievo l’art. 5, D.L. 132/2014 la quale, disponendo che ai fini della trascrizione degli accordi in esame fosse sempre necessaria la indicazione da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, costitusce disposizione di portata generale, mentre la norma citata dalla coppia (art. 6), riguardante la negoziazione assistita in ambito familiare, non contiene alcuna deroga al suddetto principio. Difatti, per la Corte di Appello deve ancora attribuirsi portata prevalente alla previsione di cui all’art. 2657 c.c., che individua i requisiti di forma che deve avere l’atto ai fini della trascrizione: tale norma non può reputarsi derogata dalla diversa previsione di cui al citato art. 6, D.L. 132/2014 che in maniera generica si limita a prevedere una equiparazione dall’accordo di negoziazione ai provvedimenti che definiscono i procedimenti di separazione.

La coppia pertanto aveva proposto ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 Cost.

La Suprema Corte ha preliminarmente affermato l’inammissibilità del ricorso straordinario avverso il procedimento di reclamo previsto dalla legge nei confronti delle decisioni del Conservatore in materia pubblicitaria. Il ricorso straordinario è infatti esperibile solo contro decisioni conclusive di procedimenti contenziosi. Il provvedimento in questione, al contrario, è pronunciato all’esito di un procedimento che non comporta esplicazione di un’attività giurisdizionale in sede contenziosa. Esso è privo dei caratteri della decisorietà e definitività e, pertanto, insuscettibile di passare in giudicato. Tale conclusione è stata raggiunta in numerosi ulteriori casi in cui veniva in rilievo il diniego di trascrizione. Si pensi, a titolo esemplificativo, al provvedimento adottato all’esito del reclamo di cui all’art. 113bis disp. att. c.c. per il diniego di iscrizione di ipoteca giudiziale a garanzia di un credito, in cui la Corte ha ribadito che il procedimento avverso il rifiuto dell’Agenzia del territorio di eseguire una trascrizione, previsto dall’art. 745 c.p.c., cui rinvia l’art. 113bis disp. att. c.c., ha natura di volontaria giurisdizione non contenziosa (Cass. 28 gennaio 2011, n. 2095).

Con specifico riferimento al caso de qua, essendo la questione rappresentata dai requisiti minimi che deve rivestire la forma necessaria per la trascrizione e non dal diritto alla trascrivibilità del provvedimento, il diniego del Conservatore risulta emesso ex art. 2674 c.c. in quanto non è stato negato il diritto a procedere alla trascrizione dell’accordo di negoziazione assistita, ma è stata esclusa a monte l’idoneità della forma ai fini dell’adempimento pubblicitario. Pertanto, non si riscontra alcun conflitto di interessi tra due parti, l’una interessata ad eseguire la trascrizione e l’altra interessata a non eseguirla. La pacifica natura non contenziosa del procedimento di reclamo previsto dalla legge contro le decisioni del Conservatore, oltre ad escludere la stessa ricorrenza dei presupposti per l’ammissibilità del ricorso straordinario, esclude la stessa ricorribilità in Cassazione del provvedimento impugnato, trattandosi appunto di questione che potrà essere devoluta alla cognizione dell’Autorità giudiziaria nell’ambito di un processo a cognizione piena.

La Cassazione, pertanto, ha rigettato il ricorso statuendo che per il caso di specie le parti devono ricorrere ad un contenzioso ordinario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. I, 28 gennaio 2011, n. 2095
giurista risponde

Usucapione servitù costruzione con limiti di legge inferiori È ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore di quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

In materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore di quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali. Ciò vale anche nel caso in cui la costruzione sia abusiva, atteso che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem. – Cass. II, 5 settembre 2023 n. 2584.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a stabilire la possibilità o meno di usucapire il diritto a tenere un immobile a distanza ulteriore da quella legale.

In primo e secondo grado era stato rigettato il ricorso, e accolta l’eccezione dei convenuti – ai quali veniva contestata l’illegittimità della costruzione di un fabbricato realizzato in violazione delle distanze legali, nonché l’arretramento del muretto di recinzione per invasione del fondo – che sostenevano l’intervenuta usucapione del diritto a mantenere il fabbricato a distanza inferiore a quella legale, ritenendo i limiti imposti dai piani regolatori e dagli strumenti urbanistici ex art. 873, comma 2, c.c. derogabili dai privati.

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando l’illegittimo aggiramento dell’inderogabilità delle norme che impongono il rispetto di distanze minime tra fondi finitimi.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, respingendo il ricorso, si è posta in linea di continuità con i propri precedenti, ammettendo l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore di quella fissata dalle norme del codice civile, o da quelle dei regolamenti (Cass. 22 febbraio 2010, n. 4240; Cass. 22 aprile 2022, n. 12865).

Tale orientamento, specifica la Corte, non mira ad affermare la generica derogabilità delle norme in materia di distanze, bensì risponde all’esigenza di garantire la stabilità dei rapporti giuridici in relazione al decorso del tempo.

Tale conclusione, peraltro, non determina alcuna compressione dei poteri della pubblica amministrazione la quale può agire in ogni momento per conformare la proprietà a quanto previsto dalle norme di legge. Resta ferma, infatti, la distinzione dei caratteri tra potere pubblico e potere privato, ciascuno contraddistinto dai limiti generali della categoria a cui appartiene (Cass. 10 gennaio 2023, n. 343).

In conclusione, la Suprema Corte afferma il venir meno della facoltà del ricorrente di far valere il proprio diritto soggettivo alle distanze legali, ferma restando la possibilità dell’intervento della p.a. per ripristinare la legalità nel caso di immobile abusivo. Per tale motivo, ha rigettato il ricorso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. II, 22 febbraio 2010, n. 4240; Cass. II, 22 aprile 2022, n. 12865;
Cass. II, 10 gennaio 2023, n. 343
giurista risponde

Revoca assenso adozione È ammissibile la revoca dell’assenso all’adozione in casi particolari del proprio figlio minore, inizialmente espresso dal genitore biologico in favore del c.d. genitore di intenzione?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

Il genitore biologico può revocare l’assenso all’adozione del figlio minore in favore del partner con cui ha condiviso il progetto procreativo; la legittimità di tale revoca deve essere peraltro valutata dal giudice esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, secondo il modello del dissenso al riconoscimento. – Cass. I, 29 agosto 2023, n. 25436.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la possibilità da parte del genitore biologico di revocare il consenso all’adozione in casi particolari da parte del genitore d’intenzione del minore nato a seguito di p.m.a.

Nel primo e secondo grado era stato respinto il ricorso proposto dalla genitrice d’intenzione contro la revoca del consenso all’adozione in casi particolari espressa da parte della genitrice biologica. In particolare, i giudici di merito avevano ritenuto che l’assenso all’adozione dovesse perdurare sino alla data della sentenza e che lo stesso, anche ove già espresso, fosse revocabile. Nel caso di specie, si era accertato che la genitrice naturale del minore aveva revocato il suo assenso all’adozione a seguito della cessazione della convivenza con la ricorrente e che la conflittualità tra le parti era molto elevata.

Veniva quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando la violazione dell’art. 44, comma 1, lett. d) e art. 46 della L. 184/1983. In particolare, si affermava che nel consentire la revoca del consenso non si sarebbe tenuto in considerazione il superiore interesse del minore a fondamento del quale è prevista l’adozione in casi particolari.

La Suprema Corte nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha fatto proprio quanto stabilito da Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2022, n. 38162, secondo cui, in tema di adozione in casi particolari, l’effetto ostativo del dissenso del genitore biologico all’adozione da parte del genitore sociale deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, sicché il genitore biologico può validamente negare l’assenso all’adozione del partner solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure, pur avendo partecipato al progetto di procreazione, abbia poi abbandonato partner e minore. È possibile invece superare la rilevanza ostativa del dissenso ove si rischi di sacrificare uno dei rapporti sorti all’interno della famiglia nella quale il bambino è cresciuto, privandolo di un apporto che potrebbe essere fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo.

Nel caso di specie i giudici di merito hanno deciso in ragione del mero riscontro dell’avvenuta revoca dell’assenso da parte del genitore biologico, evidenziando le peculiarità del caso, ma omettendo di prendere in esame il superiore interesse del minore. Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima, svolgendo una nuova valutazione della controversia, sotto il profilo della conformità all’interesse del minore.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2022, n. 38162
giurista risponde

Pacchetti turistici e servizi collegati Gli artt. 169, par. 1 e 2, lett. a), TFUE, e 114, par. 3, TFUE ostano all’art. 5 della 2015/2302 relativa ai pacchetti turistici e ai servizi turistici collegati, giacché, tra le informazioni precontrattuali obbligatorie per il viaggiatore, detto articolo non include il diritto, di risolvere il contratto prima dell’inizio del pacchetto,  in caso di circostanze inevitabili e straordinarie?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

L’art. 5, par. 1, della direttiva (UE) 2015/2302 deve essere interpretato nel senso che esso impone a un organizzatore di viaggi di informare il viaggiatore del suo diritto di risoluzione di cui all’art. 12, par. 2, di tale direttiva. La validità dell’art. 5, par. 1, di detta direttiva alla luce dell’art. 169, par. 1 e par. 2, lett. a), TFUE, in combinato disposto con l’art. 114, par. 3, TFUE, non può pertanto essere rimessa in discussione per il motivo che esso non prevedrebbe di informare il viaggiatore del suo diritto di risoluzione di cui all’art. 12, par. 2, della medesima direttiva.

L’art. 12, par. 2, della direttiva (UE) 2015/2302 deve essere interpretato nel senso che esso non osta all’applicazione di disposizioni del diritto processuale nazionale che sanciscono i principi dispositivo e di congruenza, in forza dei quali, qualora la risoluzione di un contratto di pacchetto turistico soddisfi le condizioni previste da tale disposizione e il viaggiatore interessato sottoponga al giudice nazionale una domanda di rimborso inferiore a un rimborso integrale, tale giudice non può concedere d’ufficio a detto viaggiatore un rimborso integrale, purché tali disposizioni non escludano che detto giudice possa informare d’ufficio tale viaggiatore del suo diritto ad un rimborso integrale e consentire a quest’ultimo di farlo valere dinanzi ad esso. – CGUE II, 14 settembre 2023, causa C-83/22.

Nel caso di specie, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, adita dal Tribunale di primo grado, n. 5 di Cartagena, Spagna, in via pregiudiziale e senza possibilità di pronunciarsi nel merito della controversia, è chiamata a pronunciarsi sulla validità dell’articolo 5 della direttiva (UE) 2015/2302 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2015, alla luce degli artt. 114 e 169 TFUE, nonché sull’interpretazione degli artt. 114 TFUE, 169 TFUE e 15 della direttiva in esame.

Nel primo caso, la Corte di Lussemburgo, ha chiarito che gli artt. 169, par. 1 e 2, lett. a), TFUE, e 114, par. 3, TFUE devono essere interpretati nel senso che non ostano alla validità dell’art. 5 della direttiva (UE) 2015/2302, nonché della legge di recepimento spagnola (Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios y otras leyes complementarias, BOE del 30 novembre 2007, n. 287).

Invero, sebbene, tra le informazioni precontrattuali obbligatorie per il viaggiatore, dette norme non includano espressamente il diritto, riconosciuto dall’art. 12 della direttiva (UE) 2015/2302, di risolvere il contratto prima dell’inizio del pacchetto, ottenendo il rimborso integrale della somma versata, in caso di circostanze inevitabili e straordinarie che hanno un’incidenza sostanziale sull’esecuzione del pacchetto, non significa che le stesse lo escludano.

L’art. 5, par. 1, della direttiva (UE) 2015/2302 infatti prevede che gli Stati membri garantiscano che un organizzatore di viaggi fornisca al viaggiatore le informazioni standard mediante il pertinente modulo di cui all’allegato I, parte A o B di tale direttiva, prima che quest’ultimo sia vincolato da un contratto di pacchetto turistico.

Il modulo contiene il riferimento – espresso o mediante collegamento ipertestuale – ai diritti fondamentali di cui i viaggiatori devono essere informati, tra i quali, rientra il diritto di risoluzione del contratto (indicato dal settimo trattino delle parti A e B dell’allegato I) senza corresponsione delle spese di risoluzione, purché in presenza di circostanze inevitabili e straordinarie incidenti sull’esecuzione del pacchetto, così come conferito dall’art. 12, par. 2, della medesima direttiva ai succitati viaggiatori.

In virtù di tale richiamo, alla luce dell’art. 169, par. 1 e 2, lett. a), TFUE, nonché dell’art. 114, par. 3, TFUE, l’art. 5 della direttiva deve essere interpretato nel senso che non esclude e, dunque, impone, l’obbligo di informare il viaggiatore del suo diritto di risoluzione di cui all’art. 12, par. 2, ponendo nel nulla qualsivoglia questione relativa alla validità dello stesso articolo.

Per quanto concerne la seconda questione pregiudiziale, la CGUE statuisce che l’art. 12, par. 2, letto ed interpretato alla luce degli artt. 114 e 169 TFUE, non impedisce l’applicazione di disposizioni di diritto processuale nazionale che sanciscono i principi dispositivo e di congruenza (ex artt. 216 e 218, par. 1, Ley 1/2000 de Enjuiciamiento Civil, BOE dell’8 gennaio 2000, n. 7) e che, pertanto, in forza di tali principi, resta precluso al giudice della controversia accordare d’ufficio al ricorrente il rimborso integrale dei pagamenti eccedendo l’importo richiesto dallo stesso, senza che ciò possa ostacolare la tutela effettiva del ricorrente in qualità di consumatore.

La Corte precisa che in virtù del principio di autonomia processuale degli Stati membri nell’assicurare la tutela dei diritti sanciti dalla direttiva (UE), il diritto dell’Unione non può imporre al giudice nazionale di esaminare d’ufficio un motivo vertente sulla violazione di disposizioni dell’Unione ma accorda al giudice stesso la facoltà di agire d’ufficio solo in casi eccezionali, in cui il pubblico interesse esige il suo intervento (CGUE, Sez. I, 7 dicembre 2009, C‑227/08, Martín Martín, C‑227/08, EU:C:2009:792, punti 19 e 20) oppure l’obiettivo di tutela effettiva dei consumatori non può essere raggiunto (CGUE, Sez. II, 5 marzo 2020, C‑679/18, OPR-Finance, C‑679/18, EU:C:2020:167, punto 23).

La Corte constata quindi che, data la centralità del diritto di risoluzione conferito dalla direttiva (UE) ex art. 12, par. 2 qualificato come diritto fondamentale (nonché del conseguente diritto al rimborso integrale dei pagamenti effettuati) e data la mancata dovuta informazione circa l’esistenza del suo diritto di risoluzione da parte della resistente, la tutela effettiva del diritto richiede che il giudice nazionale possa rilevarne d’ufficio la violazione.

Tale esame d’ufficio è tuttavia subordinato a talune condizioni che, nel caso di specie, e fatta salva la valutazione del giudice spagnolo del rinvio, sembrano essere soddisfatte.

Il giudice del rinvio sarebbe quindi tenuto ad esaminare d’ufficio il diritto di risoluzione, da un lato, informando il viaggiatore di tale diritto e, dall’altro, conferendogli la possibilità di farlo valere nel procedimento giurisdizionale in corso.

Tuttavia l’esame d’ufficio non impone al giudice nazionale di risolvere d’ufficio il contratto di pacchetto turistico di cui trattasi senza spese, conferendo al ricorrente il diritto al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per tale pacchetto.

Un siffatto potere d’ufficio non garantirebbe una tutela effettiva del diritto di risoluzione del consumatore di cui all’art. 12, par. 2, della direttiva e si porrebbe in contrasto con il principio d’iniziativa di parte, sub specie di autonomia del ricorrente nell’esercizio del suo diritto di risoluzione, nonché con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Se la direttiva concedesse al giudice il potere d’ufficio di risolvere il contratto, legittimerebbe di fatto la sostituzione del giudice nell’esercizio di un diritto e di una volontà propri del ricorrente, con il rischio di conseguenze irragionevoli quale l’esercizio del diritto di risoluzione del contratto contro la volontà del ricorrente stesso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    CGUE, Sez. I, 7 dicembre 2009, C‑227/08, Martín Martín (C‑227/08, EU:C:2009:792);

CGUE, Sez. II, 5 marzo 2020, C‑679/18, OPR-Finance (C‑679/18, EU:C:2020:167)

giurista risponde

Caso fortuito e condotta del terzo o del danneggiato Nella nozione di caso fortuito di cui all’art. 2051 c.c. rientra anche la condotta del terzo o dello stesso danneggiato?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

Il caso fortuito è un fatto giuridico e si colloca in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza l’interposizione di alcun elemento soggettivo, laddove la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atti giuridici caratterizzati dalla colpa (art. 1227, primo comma, c.c.), con rilevanza causale esclusiva o concorrente, intesa, nella specie, come caratterizzazione di una condotta oggettivamente imprevedibile da parte del custode. – Cass. III, 8 settembre 2023, n. 26209.

Nel caso di Specie la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’appello di non accogliere la domanda risarcitoria ex art. 2051 c.c. proposta dal motociclista nei confronti del Comune in relazione alla caduta dal motociclo, avvenuta a causa della presenza di una buca sul manto stradale.

La condotta del danneggiato è risultata imprudente e disattenta al punto tale da integrare il caso fortuito e, di conseguenza, giustificare l’esclusione di responsabilità del Comune in ordine alla caduta.

La prova del caso fortuito è l’unica prova liberatoria che il legislatore ammette in capo al custode, a nulla rilevando la prova della sua diligente custodia.

Pertanto la mancanza di prova relativa alla prevedibilità o meno del fatto dannoso (sub specie caduta dal motociclo) da parte del custode (il Comune) non rileva; ciò che conta è solo la prova dell’esistenza di un caso fortuito, nella specie, integrato dal contegno colposamente disattento del danneggiato, non mero concorrente nell’evento di danno ma autonomo responsabile del danno stesso.

Nel giungere a tale esito la Corte di Cassazione ha strutturato il proprio impianto argomentativo sulla scorta dell’intervento nomofilattico inaugurato dalle storiche sentenze gemelle del 2006 (Cass. III, 6 luglio 2006, n. 15383 e Cass. III, 6 luglio 2006, n. 15384) e del 2018 (Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2483 e Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2477) e terminato con un’ulteriore pronuncia a Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30 giugno 2022, n. 20943).

Appare opportuno ripercorrere, per punti salienti, l’analisi strutturale condotta dalla giurisprudenza intorno agli artt. 2051 e 1227 c.c. sulla quale si fonda la presente pronuncia e da cui emerge un vero e proprio statuto della responsabilità del custode:

a) preliminarmente, è necessario precisare che il legislatore del 1942 non ha mai fornito una definizione normativa della custodia. Invero l’art. 2051 c.c. si è limitato a tradurre l’espressione francese sous sa garde presente nell’art. 1384, comma 1, Code Napoleon. La giurisprudenza di legittimità ha tuttavia rilevato le diverse accezioni della portata della custodia come criterio di determinazione della responsabilità, rinvenibili dalle fonti romane (vedasi la accezione di diligentia e custodiendae rei).

In ordine alla definizione del concetto di custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c. sono maturati in giurisprudenza due opposti orientamenti: secondo il primo, minoritario, si può definire “custode” colui che usa e sfrutta economicamente la res. Il profitto tratto dal soggetto a seguito dell’utilizzo della cosa, in ragione del principio cuius commoda eius et incommoda, giustifica l’addossamento in capo allo stesso della qualifica di custode e, quindi, della relativa responsabilità.

Invece, in base al secondo orientamento considerato prevalente, è “custode” il soggetto che, a qualsiasi titolo (esclusi i casi di mera detenzione temporanea o di cortesia), conserva un potere di fatto sulla cosa.

Per pervenire ad una pronuncia di responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c., dunque, non è sufficiente né necessario accertare l’esistenza di una relazione giuridica (proprietà, possesso, detenzione qualificata) tra soggetto e cosa ma di un potere di fatto sul bene, in virtù del quale il custode può vigilare, controllare i rischi inerenti alla cosa e intervenire tempestivamente in caso di pericolo per i terzi (ex multis Cass. III, 9 febbraio 2004, n. 2422).

Dal momento che la relazione giuridica con la cosa non è una relazione qualificata (come potrebbe essere la relazione esistente in forza di un contratto o di natura proprietaria) ma è una relazione di mero fatto, la stessa non è elemento costitutivo della responsabilità – a differenza di quanto previsto dagli artt. 2052, 2053, 2054 c.c. – motivo per cui il responsabile ex art. 2051 c.c. può ben essere un soggetto diverso da quello che abbia un titolo giuridico sulla res.

L’applicazione dell’art. 2051 c.c. si arresta soltanto dinanzi alle cose insuscettibili di custodia in termini oggettivi (acqua, aria).

b) È quindi “ormai indiscutibile” che la responsabilità ex 2051 c.c. sia di natura oggettiva e non presunta (o semioggettiva). È una responsabilità da relazione in quanto, ciò che rileva quale presupposto ai fini della configurazione della stessa, è l’esistenza di una mera relazione di custodia tra il soggetto e il bene.

Invero il criterio di imputazione della responsabilità individuato dall’art. 2051 c.c., prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché non rilevano la pericolosità o le caratteristiche intrinseche della cosa custodita così come non rileva la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza eventualmente commesse dal custode (rilevante solo ai fini della fattispecie di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c. c.), salvo che la deduzione delle stesse non sia diretta soltanto a sostenere la prova del rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso.

c) Sul custode, invece, grava l’onere della prova liberatoria sub specie di prova dell’esistenza del caso fortuito, a nulla rilevando la prova della diligenza o, a contrario, dell’assenza di colpa del custode stesso.

Se la colpa rilevasse, il custode si libererebbe ogni qualvolta riuscisse a provare che, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso.

d) Il caso fortuito, così come definito dalla succitata sentenza delle Sezioni Unite, è rappresentato da un fatto causale naturale o un fatto del terzo, estraneo alla sfera soggettiva del custode e connotato dai caratteri di imprevedibilità ed inevitabilità da intendersi dal punto di vista oggettivo e della regolarità causale (adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode.

Questo è confermato dalla circostanza per cui, le modifiche improvvise della struttura della cosa, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, si trasformano in nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere.

Occorre, in altre parole, effettuare un giudizio di probabilità per dimostrare che quell’evento è frutto di un fatto del tutto imprevedibile in base all’id quod plerumque accidit (la comune esperienza).

Sul punto la presente pronuncia interviene al fine di precisare che, sul piano della struttura della fattispecie, il caso fortuito è un fatto giuridico e si colloca in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza l’interposizione di alcun elemento soggettivo.

Ciò significa che il caso fortuito è la causa diretta e esclusiva dell’evento, senza alcun coinvolgimento di fattori soggettivi o colpevoli.

e) Invece la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atti giuridici caratterizzati dalla colpa (art. 1227, comma 1, c.c.), i quali possono rappresentare la causa principale del danno (rilevanza causale esclusiva) o possono contribuire insieme al caso fortuito all’evento dannoso (rilevanza causale concorrente), dando vita ad un concorso tra causa umana e causa naturale.

Anche le condotte umane suddette devono possedere i caratteri di imprevedibilità e inevitabilità, intesi da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o adeguata) ovvero presentarsi come oggettivamente imprevedibili da parte del custode.

A tal fine, il comportamento del danneggiato che entri in interazione con la cosa e risulti colposo, può atteggiarsi in ordine di crescente di gravità integrando, alternativamente, o un mero concorso causale colposo (in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1) o un fatto idoneo a recidere il nesso causale tra cosa e danno e, di conseguenza, escludere la responsabilità del custode (integrando un caso fortuito ex art. 2051 c.c.).

La Cassazione ha infatti osservato che quanto più è possibile evitare la situazione di pericolo attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato tanto più l’incidente deve considerarsi l’effetto del comportamento del danneggiato, fino ad escludere ogni responsabilità del custode.

Se, da un lato, il rapporto tra cosa e custode è improntato al principio di precauzione – per cui egli deve sempre predisporre tutte le misure affinché il bene sia reso inoffensivo – dall’altro lato, i soggetti che vengono in contatto con la cosa devono, del pari, adottare tutta le misure di normale diligenza richieste dalla situazione specifica.

Il dovere generale di ragionevole cautela in capo al danneggiato costituisce espressione del generale dovere di solidarietà, ex art. 2 Cost.

Quanto più il danneggiato può prevedere e superare la situazione di possibile danno attraverso l’adozione delle normali cautele richieste dalle circostanze, tanto più il comportamento imprudente dello stesso deve considerarsi dotato di incidenza causale nella causazione del danno.

Il comportamento imprudente del danneggiato può addirittura giungere ad interrompere il nesso eziologico tra cosa custodita ed evento dannoso tutte le volte in cui sia prevedibile in astratto ma imprevedibile in concreto da parte del custode (ovvero sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale).

Quindi la solidarietà, letta come dovere di cautela rispetto alla situazione concreta ed entro la normale diligenza valutabile in base al canone della proporzionalità, condiziona il grado di incidenza causale che ha il comportamento del danneggiato sull’evento dannoso e, quindi, sulla responsabilità del custode.

f) La sentenza ha il pregio di chiarire che il fondamento della responsabilità per danno da cose in custodia, intesa come responsabilità oggettiva, riposa su elementi di fatto individuati tanto in positivo (l’accertamento di un danno giuridicamente rilevante, la prova di una relazione causale tra l’evento dannoso e la cosa custodita e l’imputazione in capo al custode dell’obbligazione risarcitoria, dalla quale il custode si libera provando il caso fortuito) quanto in negativo (l’inaccettabilità di una mera presunzione di colpa in capo al custode e l’irrilevanza della prova di una sua condotta diligente).

Pertanto, nonostante la presenza della buca sul manto stradale, la condotta imprudente del motociclista è risultata idonea a interrompere il nesso di causalità tra la cosa (il manto stradale maltenuto) e il danno (caduta del motociclista) così escludendo qualsivoglia responsabilità in capo al Comune (custode del bene), a nulla rilevando la negligenza tenuta dal Comune nella manutenzione della strada.

Per tale ragione la Cassazione ha rigettato il ricorso con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 30 giugno 2022, n. 20943; Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2483;
Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2477; Cass. III, 6 luglio 2006, 15383;
Cass. III, 6 luglio 2006, e 15384; Cass., Sez. Un., 11 novembre 1991, n. 12019;
Cass. III, 9 febbraio 2004, n. 2422
Difformi:      Cass. III, 2 febbraio 2007, n. 2308; Cass. III, 14 marzo 2006, n. 5445;
Cass. III, 20 febbraio 2006, n. 3651