obbligo mantenimento e carcere

Il mantenimento non viene meno col carcere La Cassazione ricorda che lo stato di detenzione carceraria non rappresenta una causa di forza maggiore che consente di non corrispondere il mantenimento ad ex e figli

Obbligo di mantenimento e carcere

Lo stato di detenzione in carcere non è certo una scriminante per la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento all’ex coniuge e ai figli, poichè la responsabilità per l’omessa prestazione non è esclusa dall’indisponibilità dei mezzi necessari, quando questa sia dovuta, anche parzialmente, a colpa dell’obbligato. Lo ha stabilito la prima sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 12478-2024.

La vicenda

Nella vicenda, è il marito a ricorrere innanzi al Palazzaccio avverso la sentenza d’appello che aveva confermato a suo carico l’addebito della separazione, con affidamento esclusivo dei figli alla madre nonchè l’obbligo di contribuire al mantenimento degli stessi e della ex. L’uomo lamenta, tra le tante doglianze, che la circostanza incontestata di essere detenuto presso la casa circondariale non prestando alcuna attività lavorativa, non può che far restare sospeso ogni obbligo di mantenimento. A supporto richiama la stessa giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. n. 31651/2019) secondo la quale “lo stato di detenzione dell’obbligato, può configurarsi quale scriminante a condizione che li periodo di detenzione coincida con quello dei mancati versamenti e  l’obbligato non abbia percepito comunque dei redditi”.

La giurisprudenza della Cassazione

Per la Cassazione, il motivo è infondato e va respinto.

Infatti, la giurisprudenza menzionata dalla Cassazione penale, con riferimento allo stato di detenzione, “non esclude affatto la debenza dell’obbligo contributivo ma pone in discussione soltanto l’accertamento se tutto ciò comporti la scusabilità penale della condotta astrattamente criminosa”. Infatti, come osservato da Cass. Sez. 6, Sentenza n. 41697 del 15/09/2016: “In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’indisponibilità da parte dell’obbligato dei mezzi economici necessari ad adempiere si configura come scriminante soltanto se perdura per tutto il periodo di tempo in cui sono maturate le inadempienze e non è dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’obbligato”.

Anche la più recente pronuncia della Sez. 6 n. 13144 del 01/03/2022 afferma che: “In tema di violazione degli
obblighi di assistenza familiare, lo stato di detenzione dell’obbligato non può considerarsi causa di forza maggiore giustificativa dell’inadempimento, in quanto la responsabilità per l’omessa prestazione non è esclusa dall’indisponibilità dei mezzi necessari, quando questa sia dovuta, anche parzialmente, a colpa dell’obbligato, ma può rilevare ai fini della verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato”.

La decisione

Alla luce dei richiamati principi, il ricorso per la S.C. è del tutto infondato e va respinto, con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di legittimità.

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messaggi whatsapp prova

WhatsApp: è prova nel processo Il tribunale di Urbino ribadisce che i messaggi WhatsApp possono assumere la veste di prova nel processo

Messaggi WhatsApp prova

“I messaggi WhatsApp possono assumere la veste di prova nel processo, in quanto, con l’avvento delle nuove tecnologie, sempre più persone si affidano, anche per le pratiche commerciali, a Short Messages oad altro tipo di messaggeria”. Così il tribunale di Urbino con ordinanza del 7 giugno 2024 sciogliendo la riserva in una controversia relativa al mancato pagamento di un credito.

Art. 2712 e art. 2719 c.c.

A tal proposito, ribadisce il tribunale, l’art. 2712 c.c. dispone che “ogni rappresentazione meccanica di fatti e cose forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentante. se colui contro il quale sono state prodotte non ne disconosce la conformità”. Ed ancora l’art. 2719 c.c. sancisce “le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta”.

A tal stregua, per il giudice, si collocano i messaggi WhatsApp, nei confronti dei quali, nel caso di specie parte opponente non ha disconosciuto la paternità.

Perizia tecnica

Tuttavia, in conformità a quanto sancito dalla Cassazione, la quale ha affermato che “in merito all’utilizzabilità dei messaggi WhatsApp che essi hanno valore di prova purché vi siano i supporti informatici (gli smartphone o il pc) nei quali sono presenti le conversazioni (sentenza .n 49016 del 2017)”, il giudice ha ritenuto necessario procedere con la perizia tecnica sul dispositivo. A tal fine, quindi, ha nominato CTU affinché, acquisito il dispositivo, verifichi l’autenticità delle conversazioni Whatsapp tra le parti nonché la collocazione temporale dei messaggi stessi.

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abbattimento alberi condominio

Abbattimento alberi in condominio: innovazione vietata L'abbattimento di alberi condominiali è una innovazione vietata e richiede l'assenso unanime di tutti i partecipanti al condominio

Abbattimento alberi condominiali

L’abbattimento di alberi, “comportando la distruzione di beni comuni, integra una innovazione vietata ai sensi dell’articolo 1121 c.c. e in quanto tale, richiede l’unanime consenso di tutti i partecipanti al condominio”. Lo ha precisato il tribunale di Santa Maria Capua Vetere con sentenza n. 292/2024.

Nella vicenda, una condomina impugnava le delibere assembleari aventi ad oggetto la scelta della ditta per i lavori di abbattimento degli alberi ad alto fusto nel proprio condominio, deducendo che si trattava di innovazioni vietate per le quali la legge richiede l’unanimità dei consensi. Per il condominio, non era stata realizzata alcuna innovazione e l’assemblea aveva confermato le delibere impugnate comportandone la caducazione, con conseguente cessazione della materia del contendere.

Innovazione vietata

Per il tribunale, il ricorso della condomina è fondato, ritenendo che le delibere impugnate siano nulle e non semplicemente annullabili, giacché avendo ad oggetto un intervento di abbattimento di beni comuni, necessitavano ai fini della loro approvazione dell’unanimità di tutti i condomini. Il tribunale si rifà alla giurisprudenza di merito e di legittimità che ha più volte chiarito che “deliberandosi sulla distruzione di un bene comune, la relativa decisione richiede l’unanimità dei consensi, con la conseguenza che è nulla la delibera adottata a maggioranza” (cfr., Cass. n. 20249/2009). Non solo. La Cassazione, scrive il giudicante “ha particolarmente valorizzato la presenza e l’importanza degli alberi nei cortili condominiali non solo sotto il profilo estetico architettonico, ma anche in relazione alla qualità della vita degli abitanti del condominio (cfr. Cassazione n. 3666/1994), salvo ovviamente che il taglio degli alberi non sia imposto da ragioni di sicurezza e di salvaguardia di staticità degli edifici”.

Peraltro, a tal fine, sono necessarie in alcuni casi, “anche delle specifiche autorizzazioni, in presenza di vincoli ambientali o paesaggistici, ovvero per la tutela della fauna”.

La decisione

Nel caso di specie, l’abbattimento di un numero considerevole di alberi di cedro (ben 41), sui cui peraltro sono risultati presenti diversi nidi di tortora, deve ritenersi dunque una innovazione vietata. “Detti alberi, per il loro numero e caratteristiche, costituiscono senza dubbio parte integrante e fondamentale del decoro architettonico del complesso condominiale in questione, oltre ad avere una funzione essenziale per il benessere non solo dei condomini ma anche della restante parte della comunità”. Inoltre, prosegue il tribunale, “dalla lettura del verbale assembleare non emerge che detto abbattimento sia stato finalizzato al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, trattandosi, per le ragioni sopra evidenziate, di vere e proprie innovazioni per cui è richiesta l’unanimità dei consensi”.

Per cui, venendo in rilievo una ipotesi di nullità, e non di semplice annullabilità, conclude il tribunale, “va quindi disattesa l’eccezione di decadenza dell’impugnazione per decorso del termine di cui all’art. 1137 c.c., sollevata dal convenuto”.

giurista risponde

Obbligazione solidale debiti diversi Sussiste un’obbligazione solidale tra debiti aventi diversa natura?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Ai fini della responsabilità solidale di cui all’art. 2055, comma 1, c.c., che è norma sulla causalità materiale integrata nel senso dell’art. 41 c.p., è richiesto solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale), in quanto la norma considera essenzialmente l’unicità del fatto dannoso, e tale unicità riferisce unicamente al danneggiato, senza intenderla come identità di norme giuridiche violate; la fattispecie di responsabilità implica che sia accertato il nesso di causalità tra le condotte caso per caso, per modo da potersi escludere se a uno degli antecedenti causali possa essere riconosciuta efficienza determinante e assorbente tale da escludere il nesso tra l’evento dannoso e gli altri fatti ridotti al semplice rango di occasioni. – Cass. Sez. Un. 27 aprile 2022, n. 13143.

Le obbligazioni solidali passive identificano quelle obbligazioni in cui più debitori devono eseguire la stessa prestazione, ma l’adempimento da parte di uno di essi libera anche gli altri. Dal punto di vista funzionale, la solidarietà passiva assolve a una funzione unitaria e chiaramente identificabile, quella di rendere più sicuro e agevole il conseguimento del credito da parte del creditore, delineando una sorta di generica funzione di garanzia e di rafforzamento delle ragioni creditorie.

Come per tutte le obbligazioni plurisoggettive, gli elementi costitutivi sono: la pluralità di soggetti, l’identità della prestazione dovuta (eadem res debita) e, infine, l’unicità della fonte di obbligazione (eadem causa obligandi).

Quest’ultimo elemento, tuttavia, si atteggia in modo peculiare con riferimento alle obbligazioni risarcitorie da fatto illecito, che, ai sensi dell’art. 2055 c.c., si pongono in nesso di solidarietà allorché “il fatto dannoso” sia imputabile a più persone. In ossequio al principio generale del favor riparationis che informa la disciplina della responsabilità aquiliana, la giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503) ha chiarito che l’espressione “fatto dannoso va riferita non già, in prospettiva “autoriale”, alla condotta attiva o omissiva che ha causato l’evento, bensì, in prospettiva “vittimologica”, alla conseguenza dannosa. In altri termini, affinché i più danneggianti rispondano in solido ex art. 2055 c.c., ciò che necessita è l’unicità del danno e non anche della condotta che lo ha cagionato ovvero del titolo della responsabilità dei danneggianti (che ben possono aver concorso a cagionare l’evento dannoso con distinte violazioni di diversi doveri giuridici). La pluralità delle condotte e/o il diverso titolo della responsabilità dei danneggianti (contrattuale o extracontrattuale) non osta, pertanto, alla solidarietà delle obbligazioni risarcitorie degli stessi allorché si accerti che hanno efficacemente contribuito alla produzione di un’unitaria conseguenza dannosa.

Il problema sorge, tuttavia, quando sia diversa la natura delle obbligazioni.

Orbene, l’orientamento tradizionale (cfr. Cass. 11 dicembre 2019, n. 32402) nega, salva diversa previsione delle parti, la solidarietà tra obbligazioni aventi natura differente come l’obbligazione principale e quella di garanzia autonoma. Si rileva che la prestazione del garante autonomo non è omogenea rispetto a quella del debitore principale, attesa la sua natura indennitaria: l’obbligo del garante, infatti, non è quello di adempiere la stessa prestazione dell’obbligato principale, ma di tenere indenne il creditore dall’inadempimento del debitore principale.

Questa impostazione, tuttavia, è stata sottoposta a revisione dalla giurisprudenza più recente.

In una prima decisione, infatti, la Suprema Corte (21 agosto 2020, n. 17553) ha affermato che se la causa concreta della garanzia autonoma è di trasferire da un soggetto a un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione dell’obbligazione principale, al contempo, da ciò, non può automaticamente discendere la natura non solidale della garanzia autonoma, come emerge dall’art. 1293 c.c. secondo cui la solidarietà non è esclusa dal fatto che i singoli debitori siano tenuti ciascuno con modalità diverse, o il debitore comune sia tenuto con modalità diverse di fronte ai singoli creditori, sicché il carattere di solidarietà tra il credito del garante e il credito del debitore principale non può ritenersi escluso “ex se” dalla natura autonoma della garanzia.

In un’altra pronuncia (11 marzo 2020, n. 7016), ancora, la Cassazione ha considerato solidali l’obbligazione risarcitoria (nel caso di specie della Consob, per mancata vigilanza) e restitutoria (dell’intermediario finanziario, in correlazione alla invalidità dell’operazione di investimento), nei confronti di un investitore danneggiato da un’operazione finanziaria per lui nociva.

Questo secondo orientamento ha ricevuto il definitivo sigillo dalle Sezioni Unite nella decisione ine same, per le quali in contrapposizione all’art. 2043 c.c. – che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla commissione di un fatto doloso o colposo – l’art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il “fatto dannoso”; sicché, mentre la prima norma si riferisce all’azione del soggetto che cagiona l’evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno a favore del quale è stabilita la solidarietà. In tale prospettiva viene richiamata e condivisa la precedente decisione a Sezioni Unite (Cass. 16503/2009) secondo cui l’art. 2055 c.c. «richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate.

In particolare, il caso di specie riguardava un’azione risarcitoria promossa da degli investitori ex L. 1966/1939 contro una società fiduciaria, al fine di ottenere la restituzione del capitale consegnato per inadempimento della stessa, e contro il MISE (Ministero dello sviluppo economico) per omessa vigilanza. Affermata la solidarietà tra i due debiti (restitutorio e risarcitorio), è stata riconosciuta l’efficacia interruttiva della prescrizione della domanda, con cui il ricorrente si era insinuato al passivo della procedura concorsuale per il recupero della somma versata, anche nei confronti della separata azione attivata contro il Ministero per il risarcimento del danno. Non si dubita, a detta delle Sezioni Unite, infatti, dell’applicazione dell’art. 1310, comma 1, c.c. perché l’effetto precipuo di ogni atto interruttivo consiste nella “conservazione” del diritto del creditore a ricevere la prestazione nei confronti di tutti i debitori solidali, e quindi nella cessazione di qualsiasi utilità del periodo di tempo già decorso prima dell’atto interruttivo e nell’inizio di un periodo nuovo, senza rilevanza della conoscenza o meno dell’atto medesimo da parte dei singoli.

caro bollette accise

Caro bollette: l’intervento della Corte Costituzionale E' incostituzionale l'inclusione delle accise nel contributo straordinario di solidarietà del 2022 a carico delle imprese energetiche

Caro bollette: illegittimo l’art. 37 del dl 21/2022

Anche «nella materia tributaria e persino quando, in momenti particolari, siano implicate straordinarie e preminenti esigenze della collettività», la Corte costituzionale «è chiamata comunque ad assicurare, nella valutazione del bilanciamento operato dal legislatore, quanto meno il rispetto di una soglia essenziale di non manifesta irragionevolezza, oltre la quale lo stesso dovere tributario finirebbe per smarrire la propria giustificazione in termini di solidarietà, risolvendosi invece nella prospettiva della mera soggezione al potere statale».

È quanto ha stabilito la Consulta nella sentenza n. 111-2024, con la quale ha esaminato le questioni sollevate dalle Corti di giustizia tributaria di Milano e di Roma in riferimento al contributo straordinario di solidarietà istituito per l’anno 2022 dall’art. 37 del decreto-legge n. 21 del 2022, dichiarando l’illegittimità del medesimo articolo ma solo nella parte in cui non esclude dalla base imponibile le accise versate allo Stato e indicate nelle fatture attive. Secondo la pronuncia «non appare arbitrario che il fortissimo aumento dei prezzi dei prodotti energetici nell’eccezionale situazione congiunturale» che si è verificata in conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina e lo specifico mercato in cui le imprese energetiche hanno operato siano stati identificati dal legislatore – al verificarsi di una serie di condizioni – come un indice rivelatore di ricchezza.

Intervento normativo sui generis

La sentenza ha precisato che sarebbe stato certamente fisiologico fare riferimento ai dati dichiarati ai fini dell’imposta sui redditi delle società (IRES), dal momento che la maggiore ricchezza è facilmente riscontrabile in termini di surplus di utili conseguiti; al contrario l’aver mutuato le regole applicative di un’imposta indiretta come l’IVA non garantisce con altrettanta sicurezza il risultato di intercettare la maggiore ricchezza. Tuttavia, erano in gioco circostanze straordinarie che hanno qualificato «in termini del tutto sui generis l’intervento normativo».

Da un lato, la situazione di crisi, che, se non fosse stata «affrontata rapidamente», avrebbe potuto «avere gravi effetti negativi sull’inflazione, sulla liquidità degli operatori di mercato e sull’economia nel suo complesso». Dall’altro, la circostanza che, in quel particolare contesto, i dati desumibili dai saldi IVA erano gli unici disponibili e, quindi, i soli che avrebbero potuto essere considerati dal legislatore per intervenire tempestivamente a finanziare, con una nuova e temporanea imposta, l’insieme di interventi urgenti, a sostegno di famiglie e imprese, previsti dal d.l. n. 21 del 2022. Non vi era, pertanto, la possibilità di riferirsi ai più adeguati dati rilevanti ai fini dell’IRES, perché sarebbe stato necessario, per intercettare la maggiore forza economica dell’anno 2022 (in cui si è verificata la prima impennata dei prezzi), attendere che le imprese provvedessero a chiudere i bilanci societari: l’ammontare degli utili, pertanto, avrebbe potuto essere contabilizzato solo dopo la conclusione dell’anno di imposta in quel momento in corso, e quindi nel 2023.

Straordinarietà del momento non giustifica qualsiasi imposizione

È solo tenendo conto del carattere del tutto particolare del contesto in cui è stato calato il temporaneo intervento impositivo che, quindi, può eccezionalmente ritenersi non irragionevole lo strumento utilizzato dal legislatore, ovvero il riferimento ai dati relativi alla determinazione dell’imponibile dell’IVA, nonostante il loro oggettivo grado di approssimazione nell’intercettare la maggiore forza economica delle imprese energetiche. Resta però fermo che la straordinarietà del momento e la temporaneità della imposizione non possono essere ritenute una giustificazione per l’introduzione di qualsiasi forma di imposizione fiscale. Pertanto l’inclusione nella base imponibile delle accise versate allo Stato e indicate in fattura – che per alcuni soggetti «vanno ad aumentare, anche in misura considerevole, la base imponibile del contributo straordinario di solidarietà, senza che tale aumento possa in alcun modo dirsi rappresentativo di una maggiore ricchezza» –, compromette «radicalmente», su questo aspetto, la ragionevolezza della disposizione censurata.

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Responsabilità del revisore: l’intervento della Consulta Per la Consulta, non è incostituzionale far decorrere dal deposito della relazione bilancio la prescrizione del risarcimento del danno della società che ha conferito l'incarico

Responsabilità del revisore

“Nella disciplina delle azioni di responsabilità nei confronti dei revisori legali dei conti, non è manifestamente irragionevole far decorrere, dalla data di deposito della relazione sul bilancio, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno che può far valere la società che ha conferito l’incarico”. È quanto si legge nella sentenza n. 115-2024, depositata oggi dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità, sollevate dal Tribunale di Milano sull’articolo 15, comma 3, del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, sul presupposto che l’ambito applicativo della disposizione si intenda riferito alla sola azione risarcitoria della società.

Ampio margine di discrezionalità del legislatore

“Il legislatore ha un ampio margine di discrezionalità nel disciplinare la decorrenza della prescrizione – ha ricordato il giudice delle leggi – e, nel caso delle azioni risarcitorie, deve contemperare l’interesse del danneggiato a far valere il proprio diritto al risarcimento con le esigenze di certezza del diritto e di tutela dell’interesse del danneggiante a non doversi difendere a distanza di molto tempo da richieste di danni”.

Il caso dei revisori legali

Nel caso dei revisori legali, “il bilanciamento realizzato dalla norma censurata non – è – manifestamente irragionevole quando l’azione risarcitoria è fatta valere dalla stessa società che ha conferito l’incarico”. In siffatta ipotesi, da un lato, infatti, ha osservato la Consulta, “il revisore è esposto a una responsabilità solidale con gli amministratori”, dall’altro, “sin dal deposito di una relazione inesatta o scorretta, il suo inadempimento produce un danno alla società che ha conferito l’incarico, la quale può già far valere una pretesa risarcitoria”.

“Quel medesimo termine – invece – non può valere per soci e terzi, i quali, fintantoché l’affidamento ingenerato dalla relazione erronea o scorretta non abbia determinato un concreto sviamento della loro autonomia negoziale, non subiscono danni”. Ad essi, dunque, ha concluso la Corte, dovrà “applicarsi la regola generale dell’art. 2947 c.c., che fa decorrere la prescrizione dal fatto illecito produttivo di danni”.

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quattordicesima pensionati

Quattordicesima pensionati: pagamenti dal 1° luglio L'INPS comunica il pagamento della quattordicesima per i pensionati con redditi bassi, indicando i limiti di reddito validi e gli importi dovuti (tra i 336 e i 655 euro)

Quattordicesima pensionati

Da oggi primo luglio, al via il pagamento della quattordicesima per i pensionati con redditi bassi. La somma aggiuntiva si aggira tra i 336 e i 655 euro. Lo ricorda l’INPS con il messaggio n. 2362/2024, indicando i limiti di reddito validi per quest’anno, gli importi dovuti in base ai redditi e agli anni di contribuzione e la platea degli interessi al pagamento.

La corresponsione della quattordicesima, spiega l’INPS, è effettuata d’ufficio ai pensionati “per i quali nelle banche dati dell’Istituto sono disponibili i dati reddituali utili per effettuare la lavorazione”.

Cosa deve fare chi non la riceve

Coloro che non ricevono la quattordicesima, ma ritengono comunque di averne diritto, chiarisce l’istituto, devono presentare l’apposita domanda di ricostituzione online, attraverso il servizio dedicato.

Reddito annuo inferiore ai limiti

Inoltre, l’INPS precisa che il diritto al beneficio viene preso in considerazione anche in base al reddito annuo del richiedente; tale reddito, in relazione agli anni di contribuzione, deve essere inferiore ai limiti indicati nella tabella allegata al messaggio.

Leggi anche la guida alla Quattordicesima

equo compenso avvocati

Equo compenso avvocati: norma in vigore dal 2 luglio Entra in vigore domani 2 luglio, la modifica al codice deontologico forense in materia di equo compenso

Equo compenso: modifica codice deontologico forense

Entra in vigore il 2 luglio 2024, la modifica al Codice deontologico forense in materia di equo compenso, ossia 60 giorni dopo la pubblicazione del comunicato del CNF in Gazzetta Ufficiale (n. 102/2024).

Già con nota del 1° marzo 2024, il CNF aveva anticipato al mondo dell’avvocatura la formulazione definitiva del nuovo art. 25 bis del Codice deontologico forense.

Il via libera definitivo della disposizione in materia di equo compenso, ai sensi della L. n. 49/2023, è stato dato nella seduta amministrativa del 23 febbraio 2024.

Il nuovo art. 25-bis Codice deontologico forense

Il testo del nuovo art. 25-bis rubricato “Violazioni delle disposizioni in materia di equo compenso” è il seguente:

“1. L’avvocato non puo’ concordare o preventivare un compenso che, ai sensi e per gli effetti delle vigenti disposizioni in materia di equo compenso, non sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta e non sia determinato in applicazione dei parametri forensi vigenti.

2. Nei casi in cui la convenzione, il contratto, o qualsiasi diversa forma di accordo con il cliente cui si applica la normativa in materia di equo compenso siano predisposti esclusivamente dall’avvocato, questi ha l’obbligo di avvertire, per iscritto, il cliente che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare in ogni caso, pena la nullità della pattuizione, i criteri stabiliti dalle disposizioni vigenti in materia.

3. La violazione del divieto di cui al primo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura. La violazione dell’obbligo di cui al secondo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento”.

Diritto di proprietà: prova del danno tramite presunzioni In caso di limitazione delle facoltà insite nel diritto di proprietà, l'esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni

Diritto di proprietà

Il diritto di proprietà ha insite le facoltà di godimento e disponibilità del bene. Per cui una volta limitate le stesse, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni. E’ quanto ha statuito la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 17758-2024.

La vicenda

Nella vicenda, avente ad oggetto il risarcimento dei danni causati dall’installazione illegittima di una canna fumaria posta a 38 centimetri di distanza dal balcone dell’attore, la Corte d’appello rigettava la sua domanda risarcitoria ritenendo insussistente il danno alla salute e carente di prova il danno derivante dalla compromissione del godimento del bene.

Il ricorso in Cassazione

La proprietaria adiva quindi il Palazzaccio, dolendosi, con l’unico motivo di ricorso, del fatto che la corte territtoriale, pur avendo accertato l’intrinseca pericolosità della canna fumaria posta a distanza inferiore a quella legale, avesse rigettato la domanda risarcitoria “senza tener conto che l’esistenza di un manufatto in amianto limiterebbe il godimento del bene”. La ricorrente contesta la “fallacia del ragionamento inferenziale, che, in tema di violazione delle distanze, ammette il ricorso ad elementi presuntivi per l’accertamento e la determinazione del danno” e richiama l’orientamento di legittimità che riconosce il danno in re ipsa nell’ipotesi di violazione delle distanze.

Rispetto distanze

Per gli Ermellini, il motivo è fondato.
“Il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’art. 890 c.c. – affermano preliminarmente – è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che è assoluta ove prevista da una norma del regolamento edilizio comunale, ed è invece relativa – e, come tale, superabile con la dimostrazione che, in relazione alla peculiarità della fattispecie ed agli accorgimenti usati, non esiste danno o pericolo per li fondo vicino – ove manchi una simile norma regolamentare (cfr. Cass. 15246/2017). Nel caso di specie, la Corte di merito, proseguono i giudici della S.C., “ha accertato la violazione delle distanze della canna fumaria dal balcone di proprietà dell’attrice e la sua intrinseca pericolosità, attesa la sua composizione in amianto e le pessime condizioni manutentive, pericolosità che era superabile con la dimostrazione da parte dei convenuti di aver adottato idonee cautele tecniche al fine di salvaguardare la dispersione nell’ambiente di sostanze nocive”.
La sentenza impugnata, ha escluso il risarcimento in assenza di un danno diretto alla salute, “omettendo però di valutare, anche in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante dall’esposizione ad amianto, abbia limitato il godimento del bene, a prescindere dalla verifica delle immissioni nocive”.

Prova del danno

Quanto alla tutela risarcitoria, le Sezioni Unite, con sentenza del 15.11.2022, n. 33645, in tema di prova del danno da violazione del diritto di proprietà e di altri diritti reali, ricordano ancora dalla S.C., “hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della I Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile. La questione se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria è risolta dalle Sezioni Unite in senso positivo”. E’ stato dato seguito al principio di diritto, più volte affermato dalla Cassazione, “secondo cui, in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria (ex multis Cass. Sez. 11, 18.7.2013, п.17635)”. La linea evolutiva della giurisprudenza della S.C., ha sostituito la locuzione “danno in re ipsa” con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato. Ed è stato quindi definito “il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà: esso riguarda non la cosa ma li diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione”. Per cui, il nesso di causalità giuridica si stabilisce “fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il
requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire”.

Prova per presunzioni

Quindi, “nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. Per cui ha errato la Corte d’appello ad escludere la tutela risarcitoria “senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a
compromettere li godimento del bene, come l’intrinseca pericolosità della canna fumaria per la composizione in amianto, la difformità della canna alle prescrizioni di legge ed il suo cattivo stato di conservazione”. I giudici avrebbero dovuto accertare, invero, se “per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile per il rischio di dispersione nell’aria di sostanze altamente nocive”.
La sentenza impugnata, quindi concludono dalla S.C., non si pone in linea con l’orientamento di legittimità in tema di presunzione di danno correlato alla normale utilità del bene, “basato sull’assunto che il diritto di proprietà ha insite
le facoltà di godimento e disponibilità del bene ne è oggetto, sicché una volta soppresse o limitate tali facoltà, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni (Cassazione Civile, Sez. II, 23.6.2023, n.18108)”.

Il principio di diritto

Da qui l’accoglimento del ricorso con rinvio alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, che dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto: “In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore”.

Allegati

giurista risponde

Messaggi via social e reato di molestie L’invio di messaggi tramite le piattaforme Instagram e Facebook integra gli estremi di cui all’art. 660 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

L’espressione “col mezzo del telefono” dell’art. 660 c.p. deve essere riferita all’uso delle linee telefoniche e non del telefono quale dispositivo elettronico in quanto tale. Nel rispetto del principio di legalità, dunque, l’equiparazione tra un sistema di messaggistica telematica disponibile tramite smartphone e il sistema di comunicazioni tradizionali effettuate col mezzo del telefono non si giustifica, anche in ragione del fatto che l’invasività della comunicazione improvvisa dipende da una scelta del soggetto che la riceve, il quale può disattivare le notifiche. – Cass. pen., sez. I, 3 ottobre 2023, n. 40033.

Il reato di molestia integrato col mezzo del telefono è, di recente, stato esaminato dalla giurisprudenza, chiamata a verificare la compatibilità con la condotta descritta dalla fattispecie del comportamento dell’agente che, tramite Facebook, ha cercato di mettersi in contatto con i figli naturali, contattando persone a loro vicine, ivi compresi i genitori adottivi.

A seguito della condanna è stata contestata la qualificazione giuridica del fatto, che, pur concretizzatosi avvalendosi delle linee telefoniche, non si sostanzia nella condotta di molestia o di disturbo alle persone descritta dalla contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

Il predetto illecito punisce una condotta molesta dell’agente idonea a turbare la persona offesa, la cui sfera personale viene ad essere invasa e perturbata improvvisamente, senza alcuna possibilità di limitare o bloccare l’ingerenza altrui.

Per quanto concerne la molestia adoperata col mezzo del telefono, tale condotta è stata oggetto di continui mutamenti nel corso del tempo in ragione del progresso tecnologico, succedendosi una serie di orientamenti.

Sebbene in un primo momento con tale espressione si è inteso lo strumento di comunicazione tradizionale agganciato alla rete telefonica, si è poi passati a considerare tale anche il dispositivo mobile e lo smartphone. Ciò che connota la molestia telefonica è l’impossibilità della persona offesa di arginare la condotta lesiva dell’agente, giacché non era possibile limitare il traffico telefonico. Invero con l’avvento di apparecchiature telefoniche sempre più sofisticate e con la diffusione di strumenti alternativi, ma idonei alla comunicazione telefonica, come i tablet, si è rappresentata la possibilità di filtrare le telefonate e i messaggi ricevuti mediante sistemi di blocco de traffico in entrata.

Tale considerazione ha comportato una rilettura del mezzo telefonico da intendersi alla stregua di linea telefonica, di rete mobile di telecomunicazione, anche al fine di evitare che la fattispecie divenisse anacronistica. Da questo ultimo punto di vista si è assistito al graduale confronto della giurisprudenza con varie ipotesi di molestia telematica, che hanno contribuito a ridisegnare l’assetto della fattispecie.

Punto di partenza della speculazione della Cassazione sono state le comunicazioni di posta elettronica. Premesso che la comunicazione epistolare era già stata distinta da quella telefonica, sul punto si è precisato che il principio di stretta legalità e di tipizzazione impedisce che l’interpretazione dell’espressione “col mezzo del telefono” possa essere dilatata sino a comprendere anche le modalità di comunicazione asincrona, quale l’invio di messaggi di posta elettronica, poiché differiscono dagli sms che costringono il destinatario, sia de auditu che de visu, a percepirli con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, arrecandosi disturbo al destinatario (Cass. pen., sez. III, 28680/2004).

Un successivo orientamento ha sostenuto che anche l’invio di un messaggio di posta elettronica può realizzare in concreto una diretta e sgradita intrusione del mittente nella sfera delle attività del destinatario, allorquando il destinatario non possa impedirne la percezione e la comunicazione sia accompagnata da un avvertimento acustico, che ne indichi l’arrivo in forma petulante, con un’intensità tale da condizionare la tranquillità del ricevente (Cass. pen.,, sez. I, 36799/2011).

“Col mezzo del telefono” va, pertanto, inteso come rete telefonica e l’art. pe c.p. sanziona le condotte moleste perpetrate mediante una comunicazione di carattere invasivo cui il destinatario non può sottrarsi (Cass. pen., sez. I, 24510/2010).

Con specifico riguardo alla messaggistica istantanea, ossia di messaggi Whatsapp, si è affermato che l’interazione indesiderata si ha ogniqualvolta assieme al segnale acustico di notifica si accompagni l’anteprima del testo. Sarebbe irrilevante la circostanza che il destinatario di messaggi non desiderati possa evitarne la ricezione, senza compromettere la propria libertà di comunicazione, escludendo o bloccando il contatto indesiderato, poiché un simile comportamento preventivo si traduce comunque in una limitazione del destinatario.

La diffusività della messaggistica istantanea e la sua invasività costituiscono il fulcro delle riflessioni da ultimo maturate dalla giurisprudenza, che ha superato il precedente orientamento con cui si estendeva l’applicazione della fattispecie fino a ricomprendervi anche i casi in cui il destinatario potesse essere avvertito con sistemi di alert e preview e potesse procedere al blocco dell’utenza molesta.

Si è osservato che tanto l’attivazione di sistemi di blocco della ricezione di messaggi quanto della installazione di meccanismi di notifica ed anteprima del messaggio non dipendono, invero, dalla volontà dell’agente, bensì da quella del destinatario dei messaggi. La possibilità per il destinatario della comunicazione di sottrarsi all’interazione immediata con il mittente e di porre un filtro alla comunicazione rende tale forma di comunicazione oggettivamente meno invasiva e più vicina a quella epistolare.

Ne consegue che i comportamenti molesti perpetrati tramite messaggi inviati con Instagram e Facebook, le cui notifiche possono essere attivate per scelta libera dal soggetto che li riceve non è sussumibile nella fattispecie penale dell’art. 660 cod. pen., in quanto non commesso “col mezzo del telefono”, nel significato attribuito a questa locuzione dalla giurisprudenza di legittimità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. III, 1° luglio 2004, n. 28680
Difformi:      Cass. pen., sez. I, 22 ottobre 2021, n. 37974; Cass pen., sez. I, 23 luglio 2021, n. 28959