danno da perdita di chance

Danno da perdita di chance Danno da perdita di chance: cos’è, normativa, prova, calcolo, differenze con il lucro cessante e giurisprudenza della Cassazione

Cos’è la perdita di chance

Il danno da perdita di chance è una particolare  voce di danno risarcibile nel nostro ordinamento, che riguarda la perdita di una concreta possibilità di ottenere un vantaggio futuro, sia esso economico, lavorativo o esistenziale. Non si tratta del mancato conseguimento del risultato, ma della frustrazione della probabilità seria e concreta di conseguirlo. Nel tempo, la giurisprudenza ha progressivamente riconosciuto la risarcibilità di questo danno, delineandone i presupposti, i criteri di prova e le modalità di liquidazione.

Definizione giuridica

La perdita di chance è intesa come il pregiudizio attuale e autonomo derivante dalla perdita della possibilità, seria e fondata, di conseguire un risultato favorevole. Non è, quindi, il danno futuro legato al mancato guadagno (lucro cessante), ma un danno attuale, rappresentato dalla scomparsa di un’opportunità concreta, con un valore patrimoniale o non patrimoniale proprio.

Normativa di riferimento

La perdita di chance non è regolata da una norma specifica, ma viene riconosciuta in base ai principi generali della responsabilità civile:

  • Art. 2043 c.c. (danno extracontrattuale): “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.”
  • Art. 1223 c.c. (danno da inadempimento contrattuale): prevede il risarcimento per la perdita subita e il mancato guadagno, includendo anche il valore della chance.

Come si prova il danno da perdita di chance

La prova della perdita di chance è uno degli aspetti più complessi, poiché si tratta di un evento non realizzatosi, ma che avrebbe potuto realizzarsi in base a una certa probabilità. Secondo la giurisprudenza, la chance, per essere risarcibile, deve essere:

  • seria: non meramente ipotetica o astratta;
  • concreta: basata su elementi oggettivi e verificabili;
  • attuale: riferita a una perdita già maturata.

La recente pronuncia della Cassazione n. 18568/2024 ha infatti chiarito che il risarcimento del danno da chance si configura come il ristoro per la perdita della concreta possibilità di ottenere un determinato risultato, possibilità che ha un valore giuridico ed economico autonomo rispetto al mancato raggiungimento del risultato stesso.

La prova può essere fornita tramite:

  • documentazione (es. bandi, graduatorie, offerte di lavoro);
  • testimonianze;
  • elementi statistici o peritali;
  • ricostruzioni logiche e presuntive, purché fondate.

Come si calcola la perdita di chance

Il giudice può procedere con liquidazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., valutando:

  1. il valore del risultato perduto (es. stipendio, premio, incarico);
  2. la probabilità di conseguirlo, espressa anche in termini percentuali;
  3. il nesso causale tra condotta illecita e perdita dell’opportunità.

La Cassazione ha più volte ribadito che la liquidazione del danno da perdita di chance debba avvenire sulla base di una valutazione probabilistica del vantaggio perso, la quale deve essere fondata su elementi oggettivi e attendibili.

Differenza tra perdita di chance e lucro cessante

La perdita di chance e il lucro cessante rappresentano due concetti distinti:

Elemento

Perdita di chance

Lucro cessante

Oggetto

Perdita di una possibilità

Perdita di un guadagno certo o altamente probabile

Natura

Danno attuale e autonomo

Danno futuro e conseguente

Prova richiesta

Probabilità seria e concreta

Prova rigorosa della certezza del guadagno

Liquidazione

Equitativa e proporzionale alla probabilità

Quantificazione precisa o fondata su proiezioni

Ambiti applicativi danno da perdita di chance

Il danno da perdita di chance è riconosciuto in numerosi contesti:

  • Diritto del lavoro: mancata assunzione, esclusione illegittima da un concorso pubblico;
  • Responsabilità medica: perdita della possibilità di guarigione o sopravvivenza;
  • Procedimenti amministrativi: mancata aggiudicazione di un appalto pubblico;
  • Responsabilità contrattuale: ritardo o inadempimento che esclude opportunità economiche.

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 5641/2018: il concetto di chance, originariamente sviluppato per danni patrimoniali, mal si adatta alla sfera del danno non patrimoniale, richiamando l’attenzione sulla distinzione cruciale tra il danno inteso come evento lesivo e l’accertamento del nesso di causalità.

Cassazione n. 31136/2022: nel valutare una richiesta di risarcimento per danno alla persona, il giudice deve innanzitutto stabilire se la domanda mira al risarcimento totale per l’evento dannoso o per la perdita di chance, trattandosi di danni concettualmente differenti che richiedono una diversa valutazione del nesso causale. Se si lamenta la perdita di un bene della vita, il giudice deve verificare, attraverso un ragionamento ipotetico, se un comportamento alternativo avrebbe con maggiore probabilità evitato il danno. Diversamente, nel caso di perdita di chance, l’accertamento riguarda se la condotta abbia causato la perdita di una concreta possibilità di ottenere un risultato sperato, e non il mancato ottenimento del risultato in sé, poiché l’oggetto del risarcimento è proprio la perdita di tale opportunità.

Cassazione n. 25910/2023: Chi chiede il risarcimento per perdita di chance deve dimostrare l’esistenza concreta e significativa dell’opportunità perduta, il potenziale beneficio che ne sarebbe derivato e il legame causale tra la condotta dannosa o l’inadempimento e la perdita di tale opportunità.

 

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somministrazione di lavoro

Somministrazione di lavoro Somministrazione di lavoro: cos’è, normativa, tipologie contrattuali, principali novità 2025, quando la somministrazione è irregolare

Cos’è la somministrazione di lavoro

La somministrazione di lavoro è una forma contrattuale regolata dal diritto del lavoro italiano che consente a un soggetto (agenzia per il lavoro) di assumere un lavoratore per poi “somministrarlo” a un’altra azienda. Questo modello è utilizzato per garantire flessibilità alle imprese e tutele ai lavoratori. La somministrazione di lavoro configura quindi un rapporto triangolare tra:

  • agenzia per il lavoro (somministratore), che assume il lavoratore;
  • lavoratore somministrato, assunto dall’agenzia;
  • impresa utilizzatrice, che ne utilizza le prestazioni lavorative.

L’impresa utilizzatrice non è il datore di lavoro in senso giuridico, ma esercita il potere direttivo e di controllo durante la prestazione.

Normativa di riferimento

Il contratto di somministrazione è regolato principalmente da:

  • Decreto legislativo  n. 81/2015, articoli 30-40;
  • Decreto legislativo n. 276/2003, per alcuni profili ancora vigenti;
  • Direttiva 2008/104/CE sul lavoro tramite agenzia interinale.

Le agenzie autorizzate devono essere iscritte nell’apposito albo dell’ANPAL e possono operare solo se accreditate.

Tipologie di contratto di somministrazione

Il contratto di somministrazione può essere:

1. A tempo determinato

È la forma più diffusa e ha una durata massima di 24 mesi presso lo stesso utilizzatore.

2. A tempo indeterminato (staff leasing)

Il lavoratore è assunto a tempo indeterminato dall’agenzia e messo a disposizione dell’utilizzatore per periodi anche lunghi, superiori ai 24 mesi. Questa forma è ammessa solo nei casi espressamente previsti dalla legge o dai contratti collettivi.

Somministrazione di lavoro: forma contratto

Il contratto di somministrazione deve essere:

  • stipulato per iscritto a pena di nullità;
  • deve contenere elementi essenziali come: identità delle parti, la durata, l’attività richiesta, la sede di lavoro, il livello contrattuale.

Anche il contratto di lavoro tra agenzia e lavoratore deve essere scritto e deve contenere:

  • le condizioni economiche e normative del rapporto di lavoro;
  • la previsione del diritto alla parità di trattamento del lavoratore in somministrazione rispetto agli altri dipendenti;
  • eventuali benefit (es. buoni pasto, premi aziendali).

Parità di trattamento e tutele del lavoratore

Il lavoratore in somministrazione, proprio in virtù del diritto alla parità di trattamnento, ha diritto alle medesime condizioni economiche e normative previste per i dipendenti diretti dell’impresa utilizzatrice (inclusi ferie, malattia, permessi, sicurezza sul lavoro, accesso alla mensa, ecc.).

Ha inoltre diritto alla:

  • formazione professionale da parte dell’agenzia;
  • indennità mensile di disponibilità (se a tempo indeterminato e non assegnato a missione);
  • copertura assicurativa INAIL e previdenziale INPS.

Somministrazione di lavoro: novità 2025 

Nel 2025 sono state apportate modifiche significative al contratto di somministrazione di lavoro ad opera del Decreto Lavoro 2024 (attuativo del PNRR), in particolare:

  • l’utilizzo di lavoratori somministrati a tempo indeterminato è contingentato: non possono superare il 20% dei dipendenti a tempo indeterminato dell’azienda utilizzatrice. Tuttavia, questa limitazione non si applica a categorie specifiche come i lavoratori in mobilità, i disoccupati da almeno sei mesi con sostegno al reddito e i lavoratori svantaggiati;
  • è stata eliminata la possibilità di impiegare lo stesso lavoratore somministrato a tempo determinato per periodi superiori a 24 mesi senza l’effetto di l’instaurare un contratto a tempo indeterminato con l’azienda utilizzatrice;
  • per i contratti a tempo determinato, inclusi quelli in somministrazione, è previsto un limite numerico complessivo: non possono eccedere il 30% dei lavoratori a tempo indeterminato dell’utilizzatore. Anche in questo caso, sono esenti da tale limite i lavoratori somministrati a tempo indeterminato, i disoccupati di lunga durata con ammortizzatori sociali e i lavoratori svantaggiati.

Somministrazione irregolare 

Se il contratto di somministrazione viene stipulato senza rispettare le condizioni previste dagli artt. 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), del decreto legislativo n. 81/2021, la somministrazione risulta irregolare (art. 38 d.lgs. 81/2015). In questo caso, il lavoratore può chiedere la constitutio ex tunc del rapporto con l’utilizzatore, con assunzione diretta.

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pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale Pubblico ufficiale: chi è, normativa, tipologie e differenze rispetto all’incaricato di pubblico servizio

Chi è il pubblico ufficiale

La figura del pubblico ufficiale riveste un ruolo centrale nel diritto penale e amministrativo italiano. Si tratta infatti di quei soggetti che, nell’esercizio delle loro funzioni, rappresentano direttamente la Pubblica Amministrazione, esercitando poteri autoritativi o certificativi. Capire chi è il pubblico ufficiale e quali sono le sue responsabilità è fondamentale per interpretare correttamente molte norme del nostro ordinamento.

Normativa di riferimento

La definizione giuridica di pubblico ufficiale è contenuta nell’articolo 357 del Codice Penale, che dispone:

“1. Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. 2. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.”

La norma specifica che la pubblica funzione implica l’esercizio di poteri autoritativi o certificativi, cioè la capacità di incidere direttamente nella sfera giuridica dei soggetti privati, manifestando la volontà della Pubblica Amministrazione.

Tipologie di pubblici ufficiali

In base all’attività svolta, i pubblici ufficiali possono essere suddivisi in varie categorie:

  • pubblici ufficiali legislativi: parlamentari, consiglieri regionali e comunali;
  • pubblici ufficiali giudiziari: magistrati, cancellieri, ufficiali giudiziari;
  • pubblici ufficiali amministrativi: sindaci, assessori, dirigenti pubblici, ufficiali di stato civile;
  • agenti di polizia giudiziaria: carabinieri, poliziotti, guardie di finanza, limitatamente a specifiche funzioni.

Anche i notai, nella redazione degli atti notarili, agiscono in qualità di pubblici ufficiali, attribuendo fede privilegiata ai documenti redatti.

Funzioni e poteri del pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale esercita:

  • poteri autoritativi, cioè può adottare provvedimenti che incidono unilateralmente sulle situazioni giuridiche dei privati (es. ordinanze, sanzioni);
  • poteri certificativi, ovvero può redigere atti pubblici che fanno piena prova fino a querela di falso (es. registrazione di nascite o decessi, verbalizzazioni ufficiali).

In virtù di questi poteri, il pubblico ufficiale gode di una particolare tutela penale, ma al contempo è soggetto a responsabilità aggravate in caso di reati contro la Pubblica Amministrazione.

Differenze tra pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio

Sebbene entrambe le figure collaborino con la Pubblica Amministrazione, vi sono differenze sostanziali:

Criterio

Pubblico ufficiale

Incaricato di pubblico servizio

Definizione

Soggetto che esercita pubbliche funzioni con poteri autoritativi o certificativi

Soggetto che svolge un’attività di pubblico interesse senza poteri autoritativi né certificativi

Funzione

Autoritativa e certificativa

Esecutiva o strumentale

Esempi

Sindaco, carabiniere, cancelliere, ufficiale di stato civile

Addetto a società di trasporti pubblici, personale sanitario convenzionato

Reati applicabili

Reati contro la Pubblica Amministrazione, inclusi quelli che presuppongono l’esercizio di pubblici poteri

Reati compatibili con l’assenza di pubblici poteri

Il pubblico ufficiale, dunque, ha una funzione più pregnante e rilevante dal punto di vista giuridico rispetto all’incaricato di pubblico servizio, proprio perché rappresenta in maniera diretta la volontà della Pubblica Amministrazione.

Responsabilità penale del pubblico ufficiale

I pubblici ufficiali sono destinatari di una disciplina penale speciale che riguarda i reati contro la Pubblica Amministrazione, tra cui:

  • Peculato (art. 314 c.p.).
  • Corruzione propria (art. 319 c.p.).
  • Concussione (art. 317 c.p.).
  • Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.).
  • Falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479 c.p.).

La qualità di pubblico ufficiale è una condizione soggettiva che aggrava la responsabilità penale e comporta conseguenze particolarmente rilevanti.

Giurisprudenza

Cassazione n. 11341/2022:  i consiglieri regionali, in quanto membri del gruppo partitico di riferimento, sono da considerarsi pubblici ufficiali per tutte le attività connesse all’esercizio della funzione legislativa pubblica all’interno dell’assemblea regionale. Questa qualifica si estende alle iniziative intraprese tramite il gruppo consiliare, in quanto espressione della loro partecipazione alla funzione legislativa. In sostanza, l’esercizio del mandato di consigliere regionale e l’operare attraverso il gruppo di appartenenza nell’ambito dell’attività legislativa regionale attribuiscono la qualifica di pubblico ufficiale.

Cassazione n. 5550/2022:  Per stabilire se una persona sia un pubblico ufficiale, non conta se lavora per un ente pubblico o privato, né che tipo di contratto abbia. L’elemento decisivo è il tipo di attività che svolge concretamente. Anche un privato può essere considerato pubblico ufficiale se la sua attività è di natura pubblica. Allo stesso modo, è incaricato di pubblico servizio chiunque svolga un servizio pubblico, indipendentemente dal fatto che sia un dipendente pubblico o meno. In sostanza, ciò che definisce la qualifica è la natura pubblica del servizio svolto, non la forma giuridica del datore di lavoro o del rapporto lavorativo.

Cassazione n. 17972/2019: riveste la qualifica di pubblico ufficiale il soggetto che, pur in forza di un contratto privatistico di collaborazione coordinata e continuativa per un incarico di consulenza e supporto alla direzione sanitaria regionale, partecipa alla formazione della volontà dell’ente e all’attuazione dei suoi obiettivi istituzionali. Ciò si verifica anche quando l’attività svolta ha una rilevanza interna al procedimento amministrativo. In sintesi, la natura pubblica della funzione esercitata prevale sulla forma privatistica del rapporto di lavoro, qualora l’attività del soggetto contribuisca concretamente alle decisioni e alle finalità dell’amministrazione.

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giurista risponde

Riduzione o mantenimento in schiavitù Quando rileva la situazione di necessità della vittima ai fini della punibilità del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di riduzione o mantenimento in schiavitù, presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente è la situazione di necessità da porsi in relazione non con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto; la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo adatta a condizionarne la volontà personale, coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cassazione, sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2450).

La Corte di Assise ha dichiarato colpevoli tre imputati delle condotte rispettivamente loro ascritte di riduzione in schiavitù, di tentata alienazione della persona offesa, di tentata estorsione, di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e di cessione di sostanze stupefacenti. In sede di appello, la Corte di Assiste d’appello ha parzialmente riformato la decisione di primo grado oggetto di gravame, assolvendo uno degli imputati dal delitto di tentata alienazione perché il fatto non sussiste, rideterminando la pena, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, riducendo altresì la pena nei confronti di altro imputato, ferma restando l’acclarata responsabilità penale di costoro.

Avverso la predetta sentenza è stato proposto ricorso in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi di ricorso presentati dagli imputati per il tramite dei loro difensori, l’insussistenza del delitto di riduzione in schiavitù posto che, secondo le argomentazioni del ricorrente, non sarebbe riscontrabile la mancanza di libertà di movimento da parte della persona offesa, l’impossibilità di comunicare con terze persone, la sottrazione del passaporto e la privazione dei mezzi di sussistenza, come formalmente contestato.

In merito al motivo di censura oggetto di interesse, la Suprema Corte, nel dichiarare il ricorso non fondato, ha analizzato la struttura nonché i presupposti del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù di cui all’art. 600 c.p. Il delitto in parola è un reato a fattispecie plurima ed è integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario – implicando così la reificazione della vittima ed ex se lo sfruttamento – ovvero dalla condotta di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa in relazione alla quale è richiesta la prova dell’imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima (prestazioni lavorative o sessuali, accattonaggio o comunque il compimento di attività illecite).

In particolare, la condizione personale della vittima del delitto di cui all’art. 600 c.p. qualificabile come “servitù” è caratterizzata da uno stato di soggezione continuativa, provocato e mantenuto con una delle modalità indicate al comma 2, ossia mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento della situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha l’autorità sulla persona, che si sostanza nel costringere o indurre la persona stessa a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.

Pertanto, ai fini della configurabilità del delitto di riduzione in stato di schiavitù o di servitù di una persona in stato di soggezione continuativa è richiesto, oltre la prova dell’imposizione alla persona offesa di prestazioni integranti una delle predette forme di sfruttamento di cui al comma 1 dell’art. 600 c.p., preliminarmente la dimostrazione che il soggetto agente ha ridotto o mantenuto la persona sfruttata in servitù tramite una delle modalità alternative indicate al comma 2.

Orbene, come espresso dalla Suprema Corte, il reato di riduzione in schiavitù non richiede la totale privazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione delle persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione richiesto dalla norma incriminatrice (Cass. 21 maggio 2020, n. 15662). Di conseguenza, la soggezione continuativa non viene meno in presenza di una limitata autonomia della vittima che non intacchi il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato.

Inoltre, i giudici di legittimità si sono espressi riguardo la “situazione di necessità” in cui deve versare la vittima ritenendo che costituisca presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente che essa non deve porsi in relazione con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata (art. 644, comma 5, n. 3 c.p.) e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto (art. 1418 c.c.); la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cass. 25 gennaio 2007, n. 2841).

Pertanto, si ha approfittamento della situazione di vulnerabilità della persona offesa anche quando l’autore del reato, conscio della condizione di debolezza fisica, psichica o esistenziale della persona offesa, se ne sia subdolamente avvalso per accedere alla sua sfera interiore, manipolandone la capacità critica e le tensioni emotive e per tale via inducendola in uno stato di remissività così da ridurla a mezzo per soddisfare più agevolmente il proprio proposito di sfruttamento sul piano lavorativo ovvero imponendo obblighi di facere.

Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, la Suprema Corte ha ritenuto che l’imputata si sia avvalsa della condizione oggettiva di vulnerabilità e inferiorità psichica della persona offesa, costringendola a prostituirsi, a lavorare fino a tarda notte e a consegnarle i proventi dell’attività di meretricio.

Alla luce delle argomentazioni esposte, la Suprema Corte ha, quindi, dichiarato l’infondatezza dei ricorsi presentati, rigettandoli e condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

(*Contributo in tema di “Riduzione o mantenimento in schiavitù”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Responsabilità professionale dell'avvocato

La responsabilità professionale dell’avvocato Responsabilità professionale dell’avvocato: cos'è, quando si configura, doveri dell'avvocato e Cassazione

Cos’è la responsabilità dell’avvocato

La responsabilità professionale dell’avvocato rappresenta un ambito fondamentale nel diritto civile e deontologico, essendo strettamente legata alla corretta esecuzione del mandato professionale conferito dal cliente. Il rapporto tra avvocato e assistito è regolato da regole codificate e principi giurisprudenziali, che delineano con precisione i limiti dell’obbligazione e i presupposti dell’eventuale responsabilità civile, disciplinare e penale.

La responsabilità professionale dell’avvocato si configura quando, nell’esercizio della sua attività, l’avvocato viola i doveri di diligenza, perizia o correttezza, arrecando un danno ingiusto al proprio cliente. Tale responsabilità può dar luogo a:

  • responsabilità civile, con obbligo risarcitorio;
  • responsabilità disciplinare, per violazione delle norme deontologiche;
  • responsabilità penale, in caso di comportamenti integranti fattispecie di reato (es. patrocinio infedele, truffa, falso ideologico).

Quando scatta la responsabilità dell’avvocato

La responsabilità dell’avvocato sorge quando la condotta professionale si discosta in modo significativo dallo standard richiesto a un professionista medio.

L’articolo 2236 c.c chiarisce però che “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.”

I casi tipici di responsabilità si configurano in presenza delle seguenti condotte:

  • mancata proposizione di un’impugnazione nei termini;
  • errata redazione di atti processuali;
  • omessa informazione al cliente sugli sviluppi della causa;
  • violazione dei doveri di lealtà e correttezza verso la controparte o il giudice;
  • inadempimento dell’obbligo di aggiornamento professionale.

L’onere della prova grava sul cliente che, per ottenere il risarcimento, dovrà dimostrare:

  1. l’inadempimento dell’avvocato;
  2. il danno subito;
  3. il nesso causale tra l’inadempimento e il pregiudizio subito.

I doveri dell’avvocato

L’avvocato, nell’esercizio della sua professione, è tenuto al rispetto di precisi doveri professionali, codificati sia dalla legge ordinaria sia dal Codice Deontologico Forense (approvato dal Consiglio Nazionale Forense).

Tra i principali doveri ricordiamo:

  • dovere di diligenza: curare con attenzione e precisione ogni aspetto del mandato;
  • dovere di competenza: possedere adeguate conoscenze tecniche e aggiornarsi costantemente;
  • dovere di lealtà e probità: comportarsi con correttezza verso il cliente, la controparte e l’autorità giudiziaria;
  • dovere di informazione: comunicare tempestivamente al cliente gli sviluppi della causa e le possibili conseguenze delle sue scelte;
  • dovere di riservatezza: mantenere il segreto professionale su fatti e informazioni appresi nell’esercizio del mandato.

L’inosservanza di tali doveri può dar luogo a responsabilità disciplinare, oltre che civile, e comportare sanzioni da parte del Consiglio dell’Ordine.

Obbligazione di mezzi e non di risultato

Un principio cardine in tema di responsabilità dell’avvocato è quello secondo cui la sua prestazione è un’obbligazione di mezzi e non di risultato. Ciò significa che l’avvocato non è tenuto a garantire l’esito favorevole della causa, ma ha l’obbligo di impiegare tutti i mezzi giuridici e tecnici adeguati, conformemente alla diligenza richiesta al professionista medio della categoria.

Limiti e condizioni della responsabilità

Non ogni errore comporta responsabilità. Per configurare la colpa professionale è necessario che l’errore:

  • sia rilevante e determinante ai fini della decisione giudiziaria;
  • non sia imputabile a cause esterne (es. comportamento scorretto del cliente, evento imprevedibile, errore del giudice non impugnabile).

Inoltre, l’azione risarcitoria nei confronti dell’avvocato è soggetta al termine di prescrizione di 10 anni, decorrente, secondo l’orientamento prevalente, dal momento in cui il cliente ha consapevolezza del danno e della sua riferibilità alla condotta del legale.

Responsabilità professionale dell’avvocato: Cassazione

Cassazione n. 475/2025: la responsabilità professionale degli avvocati esige una valutazione scrupolosa delle specifiche circostanze, escludendo meccanismi di risarcimento automatici. L’affermazione di responsabilità in capo al legale presuppone la dimostrazione inequivocabile che la sua condotta abbia generato un pregiudizio effettivo e suscettibile di quantificazione economica; in assenza di tale prova di un danno concreto e quantificabile, non si può configurare alcuna responsabilità risarcitoria.

Cassazione n. 469/2025: quando un cliente viene pienamente informato, comprende le diverse opzioni difensive disponibili e sceglie consapevolmente una strategia, tale decisione condivisa non può successivamente costituire motivo di responsabilità professionale per l’avvocato. In altre parole, se la linea difensiva è frutto di una decisione ponderata e accettata dal cliente dopo aver ricevuto adeguate spiegazioni, quest’ultimo non potrà in seguito contestare l’operato del legale basandosi su quella specifica scelta strategica.

Cassazione n. 28903/2024: Nel giudizio di responsabilità dell’avvocato per negligenza professionale, la valutazione prognostica sull’esito probabile di un’azione giudiziale (che avrebbe dovuto essere intrapresa o diligentemente seguita) e l’accertamento del nesso di causalità tra l’omissione dell’avvocato e il potenziale risultato favorevole per il cliente, rientrano nella valutazione di merito del giudice di merito.  Di conseguenza, tale valutazione prognostica non è sindacabile in sede di legittimità.

 

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bonus animali

Bonus animali 2025 Bonus animali 2025: agevolazione fiscale per aiutare le famiglie a basso reddito a curare gli animali e scoraggiare l'abbandono

Bonus animali 2025: cos’è

Il Bonus Animali 2025 aiuta a coprire le spese veterinarie e a combattere il fenomeno del randagio. La misura consente una detrazione del 19% per un importo massimo di 550,00 euro l’anno, con una franchigia di Euro 129,11. Non rileva il numero di animali posseduti. La misura è stata prevista dalla legge di bilancio 2024, che ha istituito un fondo destinato a sostenere i proprietari di animali di affezione.

Per l’anno 2024 i fondi su cui si potrà fare affidamento sono di 250.00 euro, mentre per il 2026 e il 2027 sono pario a 237.500.

Proprio in questi giorni la misura ha ricevuto l’approvazione della Conferenza Stato Regioni, che ha stabilito anche il riparto delle risorse tra le regioni.

Quali animali e requisiti

Il bonus è valido solo per gli animali registrati all’Anagrafe degli animali d’affezione, come cani, gatti, ma anche furetti e piccoli roditori e criceti.

Nel provvedimento sono inclusi anche gli animali che svolgono funzioni di supporto come i cani guida per i disabili, gli animali che vengono utilizzati nel percorsi di pet-therapy o di riabilitazione e quelli impiegati per finalità pubblicitarie.

Sono esclusi dalla misura gli animali destinati all’allevamento, alla riproduzione o al consumo alimentare. Le spese, ai fini della detrazione, devono essere tracciabili. Occorre cioè provvedere al pagamento delle stesse con carta di credito o debito o bonifico bancario, ad esempio.

Spese ammesse

La detrazione riguarda visite veterinarie specialistiche, interventi chirurgici, esami di laboratorio e farmaci. Il bonus non copre le spese per l’alimentazione e le cure per gli animali da allevamento.

Procedura per la richiesta

Per ottenere il bonus occorre fare istanza alla Regione di residenza. Per dimostrare le spese è necessario conservare le ricevute dei pagamenti effettuati con mezzi tracciabili.

Saranno poi le Regioni a pubblicare bandi e avvisi contenenti le istruzioni necessarie sui tempi, sui documenti da allegare e sulle modalità da rispettare per inviare la domanda.

Le domande varranno accolte in base all’ordine di invio e anche in base alle risorse disponibili.

Destinatari del bonus animali 2025

Il bonus è destinato ai proprietari di animali over 65, con ISEE inferiore a 16.215 euro e residenti in Italia.

Vantaggi del bonus animali 2025

Il bonus animali produce indubbi vantaggi:

  • incentiva le cure veterinarie e migliora la salute degli animali domestici, riducendo quelle malattie, spesso trascurate;
  • scoraggia l’abbandono degli animali, specialmente in famiglie con risorse limitate;
  • promuove una maggiore consapevolezza sull’importanza della salute degli animali e del loro ruolo sociale;
  • nelle famiglie a basso reddito riduce le difficoltà economiche legate alla cura degli animali.

 

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abuso d'ufficio

Abuso d’ufficio: l’abrogazione non è incostituzionale La Consulta all'esito dell'udienza pubblica ha ritenuto che l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio non è incostituzionale

Abrogazione reato di abuso d’ufficio

Non è incostituzionale l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. All’esito dell’udienza pubblica svoltasi il 7 maggio 2025, la Consulta ha esaminato in camera di consiglio le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici autorità giurisdizionali, tra cui la Corte di cassazione, sull’abrogazione del reato di cui all’art. 323 del codice penale ad opera della legge numero 114 del 2024.

Convenzione di Merida

La Corte, si legge nel comunicato stampa ufficiale, ha ritenuto ammissibili le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Merida).

Nel merito, la Corte ha dichiarato infondate tali questioni, ritenendo che dalla Convenzione non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso di ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale.

La motivazione della sentenza sarà pubblicata nelle prossime settimane.

 

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pagamento pensioni

Pagamento pensioni all’estero: attestazioni entro il 18 luglio L'INPS comunica che ai fini del pagamento delle pensioni all'estero l'invio delle attestazioni di esistenza in vita va effettuato entro il 18 luglio 2025

Pagamento pensioni INPS all’estero

Pagamento pensioni: l’INPS ha comunicato, con il messaggio n. 1419 del 5 maggio 2025, che i pensionati italiani residenti all’estero coinvolti nella campagna di accertamento dell’esistenza in vita per il biennio 2025-2026 dovranno far pervenire la relativa attestazione entro e non oltre il 18 luglio 2025, al fine di garantire la continuità dei pagamenti pensionistici.

Più tempo dunque per la prima fase di verifica che interessa i pensionati residenti in America, Asia, Estremo Oriente, Paesi scandinavi, Stati dell’Europa dell’Est e aree limitrofe. Le attestazioni dovranno essere inviate a Citibank N.A., secondo le modalità indicate nel modulo trasmesso ai destinatari da parte dell’Istituto previdenziale.

L’obiettivo della procedura è duplice: da un lato evitare l’erogazione indebita a soggetti deceduti, dall’altro assicurare la regolarità amministrativa dei flussi pensionistici. Il mancato invio dell’attestazione nei termini previsti può comportare la sospensione dell’erogazione della pensione.

Seconda fase accertamento esistenza in vita

La successiva fase di verifica sarà avviata a partire dal 17 settembre 2025 e proseguirà fino al 15 gennaio 2026, coinvolgendo i pensionati residenti in Europa (esclusi i Paesi della prima fase), Africa e Oceania. Anche in questo caso, gli interessati riceveranno apposita comunicazione e saranno tenuti a trasmettere l’attestazione di esistenza in vita entro la data indicata.

divieto di nova

Divieto di nova Divieto di nova nel giudizio di appello: definizione, normativa, giurisprudenza ed eccezioni al principio

Cos’è il divieto di nova

Il divieto di nova rappresenta uno dei principi fondamentali del processo civile in sede di appello. Esso vieta alle parti di introdurre nuove domande, eccezioni o prove rispetto a quelle formulate nel primo grado di giudizio. L’obiettivo principale di tale limite è quello di preservare la natura revisoria dell’appello, evitando che si trasformi in un nuovo giudizio di merito.

Il divieto di nova in appello costituisce un presidio di legalità processuale, volto a evitare che il giudizio di secondo grado si trasformi in un processo ex novo. L’art. 345 c.p.c., così come interpretato dalla giurisprudenza, ammette modificazioni compatibili con il principio del contraddittorio e impone un uso responsabile del diritto di difesa.

Normativa divieto di nova: l’art. 345 c.p.c.

Il divieto di nova trova la sua base normativa nell’art. 345 del codice di procedura civile, che così dispone: “1. Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti  e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. 2. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio. 3. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio. “

La norma, pertanto, opera una chiara distinzione tra il divieto assoluto di nova (domande ed eccezioni) e un divieto relativo per quanto concerne le prove.

Giurisprudenza della Cassazione

La giurisprudenza di legittimità è intervenuta ripetutamente a chiarire l’ambito di applicazione del divieto di nova.

Cassazione n. 34/2025: nel procedimento d’appello, la preclusione all’introduzione di nuove prove documentali non si applica quando si tratta di fatti sopravvenuti, ovvero eventi accaduti successivamente alla scadenza del termine utile per presentarli nel giudizio di primo grado. Questa eccezione si giustifica perché l’impossibilità di sollevare una specifica eccezione nel primo grado a causa della sua inesistenza temporale non pregiudica il principio del doppio grado di giudizio nel merito. In particolare, la nuova formulazione dell’articolo 345, comma 3, del codice di procedura civile consente, in deroga al generale divieto di nuove prove in appello, la produzione di documenti qualora la parte dimostri di non aver avuto la possibilità di proporli o produrli nel corso del primo giudizio.

Cassazione n. 6614/2023: la richiesta di restituzione delle somme versate in ottemperanza alla sentenza di primo grado o al decreto ingiuntivo può essere legittimamente avanzata nel giudizio d’appello, senza che ciò configuri una violazione del divieto di nuove domande stabilito dall’articolo 345 del codice di procedura civile. Questa ammissibilità si fonda sull’applicazione analogica del principio generale che, in un’ottica di economia processuale, consente di proporre in appello domande accessorie e consequenziali. La domanda di restituzione rappresenta un corollario diretto della riforma o dell’annullamento della decisione di primo grado, mirando a ripristinare la situazione patrimoniale antecedente all’esecuzione.

Cassazione n. 1244/2019: non si configura una violazione del divieto di introdurre nuove questioni in appello, sancito dall’articolo 345 del codice di procedura civile, qualora il giudice di secondo grado, pur mantenendosi entro i limiti della controversia definiti nel giudizio di primo grado, accolga la domanda applicando una diversa interpretazione giuridica dei fatti, che siano già stati acquisiti al processo, sia in modo implicito che esplicito. In sostanza, la riqualificazione giuridica dei fatti da parte del giudice d’appello non costituisce una novità vietata, purché non alteri i termini sostanziali della disputa originaria.

Eccezioni al divieto

Fanno eccezione al divieto:

  • le eccezioni rilevabili d’ufficio (es. nullità, decadenze legali);
  • I mezzi di prova nuovi, purché la parte dimostri la non imputabilità della loro mancata produzione in primo grado o la loro indispensabilità.

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insidie stradali

Le insidie stradali Insidie stradali: definizione, normativa di riferimento, risarcimento danni, onere della prova e responsabilità della PA

Insidie stradali

Le insidie stradali rappresentano una delle principali cause di responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, con importanti conseguenze risarcitorie per i danni causati agli utenti della strada. Buche, sconnessioni, caditoie aperte, segnaletica mancante o non visibile: tutte queste situazioni possono integrare la fattispecie dell’insidia o trabocchetto.

Definizione

Il concetto di insidia stradale si riferisce a una situazione di pericolo occulto presente sulla strada, non prevedibile e non evitabile dall’utente medio con l’ordinaria diligenza. Il danno che ne deriva è riconducibile alla responsabilità del custode della strada, ossia, nella maggior parte dei casi, l’ente pubblico proprietario o gestore della stessa.

Normativa di riferimento: l’art. 2051 c.c.

La responsabilità per danni da insidia stradale è inquadrata nell’ambito della responsabilità oggettiva del custode, ai sensi dell’art. 2051 del codice civile, secondo cui: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.”

In questo caso, la Pubblica Amministrazione (es. Comune, Provincia, ANAS) è considerata custode della rete stradale, e pertanto tenuta al risarcimento dei danni causati da difetti della stessa, salvo che dimostri che l’evento è avvenuto per caso fortuito.

Insidia stradale e trabocchetto

In ambito giurisprudenziale, l’insidia è una situazione pericolosa che non è percepibile con la normale attenzione. Il trabocchetto, analogamente, è un pericolo improvviso e imprevedibile, che sfugge alla comune diligenza dell’utente medio.

Perché si configuri un’insidia stradale è necessario che sussistano due requisiti fondamentali:

  •  il pericolo non deve essere visibile o facilmente evitabile;
  •  il danno non deve essere prevedibile con l’uso della normale prudenza.

Esempi tipici di insidie sono:

  • buche non segnalate;
  • dissesti dell’asfalto;
  • tombini rotti o aperti;
  • caditoie sporgenti o affossate;
  • ghiaccio non rimosso o segnalato in tempo utile.

Risarcimento danni insidie stradali

Chi subisce un danno a causa di un’insidia stradale (es. una caduta, un incidente con l’auto o la moto) può richiedere il risarcimento dei danni materiali e/o fisici al soggetto responsabile, in genere l’ente proprietario o gestore della strada.

Il risarcimento può comprendere:

  • danni patrimoniali (spese mediche, danni al veicolo, perdita di reddito);
  • danni non patrimoniali (biologici, morali, da perdita di qualità della vita).

Il termine per proporre l’azione risarcitoria è, di norma, 5 anni dalla data del sinistro (art. 2947 c.c., prescrizione per fatto illecito).

Distribuzione dell’onere della prova 

Nel giudizio civile per danno da insidia stradale, l’onere della prova è ripartito tra le parti in questo modo:

A carico del danneggiato

  • provare l’esistenza del danno (con referti medici, foto, verbali, testimoni);
  • dimostrare il nesso causale tra la condotta della PA e il danno subito;
  • provare la non visibilità e imprevedibilità dell’insidia.

A carico della Pubblica Amministrazione

  • Provare il caso fortuito, ovvero che l’evento si è verificato per un fatto esterno, imprevedibile e inevitabile, idoneo a interrompere il nesso causale (es. manomissione improvvisa da parte di terzi, evento atmosferico eccezionale).

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 270/2017 ha chiarito che per andare esente da ogni responsabilità, è compito della pubblica amministrazione dimostrare che l’evento sia stato determinato da cause estrinseche ed esterne create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, o da una situazione qualificabile come caso fortuito; deve trattarsi, in definitiva, di un antecedente causale idoneo a recidere il nesso di causalità tra condotta, attiva o omissiva, della P.A ed evento dannoso pregiudizievole della sfera giuridica del terzo.

Responsabilità PA insidie stradali: giurisprudenza

La giurisprudenza ha progressivamente ampliato l’applicazione dell’art. 2051 c.c anche alla Pubblica Amministrazione, superando l’orientamento tradizionale che richiedeva la prova della colpa ex art. 2043 c.c.

Oggi, grazie anche a sentenze come Cassazione n. 39965/2021 è pacifico che l’ente pubblico risponda dei danni da insidia a titolo oggettivo, quale custode della strada, salvo prova contraria.  La responsabilità stabilita dall’articolo 2051 del Codice Civile infatti è oggettiva, il che significa che deriva direttamente dalla dimostrazione del legame causale tra la cosa in custodia e il danno subito. Il custode può liberarsi da tale responsabilità solo provando l’esistenza di un caso fortuito, ovvero un elemento esterno che interrompe tale legame causale. Questo elemento può essere un evento naturale, l’azione di un terzo o il comportamento della vittima stessa.

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