interessi di mora

Interessi di mora: 12,25% fino al 31 dicembre 2024 Il MEF ha reso noto il saggio applicabile al secondo semestre dell'anno, in leggera flessione (0,25 in meno) rispetto al primo semestre 2024

Interessi di mora 2024

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha reso noto con comunicato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 29 luglio 2024 il saggio applicabile per il secondo semestre dell’anno (4,25%), ossia per il periodo che va dal 1° luglio al 31 dicembre 2024. Un tasso che mostra una leggere flessione al ribasso (-0,25%) rispetto alla percentuale del primo semestre.

Cosa sono gli interessi di mora

Gli interessi moratori vanno pagati al creditore nell’ipotesi di ritardo nel pagamento di un’obbligazione pecuniaria (ex art. 1224 c.c.), salvo che il debitore dimostri che il ritardo è stato determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Gli interessi moratori vanno corrisposti anche laddove non espressamente pattuiti dalle parti. La loro funzione è in sostanza quella di un “ristoro” per le conseguenze pregiudizievoli subite dal creditore per via del ritardo nel pagamento.

Interessi moratori al 12,25%

Se il pagamento tardivo riguarda una transazione commerciale, gli interessi di mora decorrono sulla base del tasso di riferimento comunicato dal Mef, cui va aggiunta la maggiorazione dovuta alla competenza fissa per le transazioni commerciali, pari all’8%, come previsto dall’art. 2 del Dlgs. n. 192/2012. Il Mef ha comunicato che “ai sensi dell’art. 5 del dlgs n. 231/2002, come modificato dalla lettera e) del comma 1 dell’art. 1 del decreto legislativo n. 192/2012 – per – il periodo 1° luglio – 31 dicembre 2024 il tasso di riferimento e’ pari al 4,25 per cento”.

Per cui, complessivamente per il secondo semestre 2024 la maggiorazione ammonterà a 12,25%.

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jammer auto reato

Jammer in auto: è reato? Scatta il reato ex art. 617-bis c.p. se il jammer usato per impedire di essere intercettati, di fatto impedisce le comunicazioni tra terzi

Jammer in auto

Per la quinta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 28084-2024)scatta il reato se lo strumento (jammer) per impedire di essere intercettato di fatto impedisce comunicazioni tra terzi.

La vicenda

Nella vicenda, gli Ermellini sono stati chiamati ad esprimersi sul ricorso di un uomo condannato in appello a un anno di reclusione in quanto riconosciuto colpevole del delitto previsto dal’art. 617-bis, commi primo e secondo, codice penale, per avere tenuto, fuori dai casi consentiti dalla legge, nell’autovettura da lui condotta – in un cassetto lato posto-guidatore – un disturbatore di frequenza c.d. jammer, in funzione, al fine di impedire le comunicazioni telefoniche e via radio tra altre persone (ovvero le comunicazioni di seguito in auto dallo stesso con l’aggravante dell’aver commesso il fatto in danno di pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni, disturbando le comunicazioni via radio della pattuglia della volante del commissariato di zona.

Il ricorso

L’uomo si doleva della inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonché della contraddittorietà della motivazione della sentenza in relazione ala sussistenza del delitto previsto dall’art. 617-bis c.p., “che si configurerebbe solo se l’installazione sia finalizzata a impedire comunicazioni fra persone diverse dall’agente”. Nella fattispecie, invece, asseriva, il disturbo si sarebbe verificato esclusivamente nelle vicinanze della sua auto, quando l’auto della polizia giudiziaria vi si avvicinava, a dimostrazione che «l’istallazione» era finalizzata a impedire solo che qualcuno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno del suo veicolo.

D’altra parte, sosteneva il ricorrente, il possesso dell’apparecchio, risultando in libera vendita, non costituirebbe in sé reato, in assenza di una perizia che ne accerti l’effettiva potenzialità a disturbare e/o impedire le comunicazioni fra persone diverse dall’agente.

Il reato di cui all’art. 617 bis c.p.

Per la S.C., il ricorso è inammissibile.
“Il delitto di installazione di apparecchiature atte a intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni, previsto dall’art. 617-bis cod. pen. – ricordano i giudici – sanziona la condotta di chi predispone apparecchiature finalizzate a intercettare o impedire conversazioni telegrafiche o telefoniche altrui”.

Secondo la giurisprudenza di legittimità esso si configura soltanto “se l’installazione è finalizzata a intercettare o impedire comunicazioni tra persone diverse dall’agente. Pertanto, il delitto non ricorre nell’ipotesi in cui si utilizzi un jammer al fine di impedire l’intercettazione di comunicazioni, sia tra presenti che
telefoniche, intrattenute dal soggetto che predispone l’apparecchio” (cfr. Cass. n. 39279/2018).

Inoltre, il delitto in parola “si configura come un reato di pericolo che si perfeziona al momento della mera installazione degli apparecchi disturbatori di frequenze e, dunque, anche nel caso in cui essi non abbiano funzionato o non siano stati attivati (cfr., ex multis, Cass. n. 1834/2021).

La decisione

Nel caso in esame, dalle annotazioni di polizia giudiziaria acquisite agli atti, è emerso che l’uomo aveva occultato, nell’autovettura su cui viaggiava, un jammer, con il quale erano state disturbate le comunicazioni radio tra la centrale operativa della Questura e la pattuglia che lo seguiva, allertata dalla segnalazione di un rappresentante di gioielli che aveva notato come l’autoveicolo dell’imputato lo seguisse in modo sospetto. E dal momento che tali comunicazioni radio risultavano tanto più disturbate quanto più la vettura in uso alla polizia giudiziaria si avvicinava al veicolo condotto dall’imputato, le sentenze di merito hanno logicamente concluso che il jammer fosse stato attivato proprio per ostacolare eventuali comunicazioni tra le Forze di polizia che lo avessero avvicinato e la centrale operativa della Questura.
La motivazione dei giudici di merito, pertanto, per piazza Cavour, è congrua e logica, e il ricorso rappresenta “la mera mera prospettazione di una lettura alternativa del materiale probatorio, ipotizzando, senza peraltro offrire alcun riscontro alla tesi difensiva, che il disturbatore fosse finalizzato a impedire che taluno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno dell’auto dell’imputato”.

Per cui, il ricorso è inammissibile.

giurista risponde

Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati L’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. può essere estesa anche alle fattispecie di reato tentate e non consumate?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

In assenza di specifica previsione normativa, considerata la pervasività delle pene accessorie e la diversificata gamma di reati sessuali, non è possibile estendere l’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. alle fattispecie tentate. La questione è, comunque, oggetto di contrasto giurisprudenziale. – Cass., sez. III, 5 marzo 2024, n. 9312.

A seguito di una condanna inflitta in primo grado con rito alternativo per i reati di maltrattamenti e tentata violenza sessuale aggravata ai danni della moglie, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso in Cassazione denunciando l’asserita violazione di legge per la mancata applicazione automatica all’imputato delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., sostenendo la compatibilità di tale disposizione anche con le fattispecie tentate (e non solo consumate).

La Suprema Corte non ha condiviso la doglianza ed ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso.

Preliminarmente la Corte rileva che l’art. 609nonies c.p. si riferisce ai “delitti” da intendersi come consumati e non tentati; evidenzia, inoltre, che il delitto tentato costituisce una figura autonoma rispetto alla fattispecie consumata, distinguendosi da questa perché caratterizzata da un minor grado di offensività, pur essendo perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza). L’autonomia dogmatica del tentativo, pertanto, comporta che gli effetti giuridici previsti dalla norma penale per la consumazione del reato non possono estendersi automaticamente anche alla sua figura, a fortiori se manca una disposizione di legge che lo preveda.

E’ proprio da questo vulnus normativo che è sorta una divergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. La prima ritiene, pressoché in modo stabile da oltre quarant’anni, che il problema debba essere affrontato in base al singolo caso concreto, escludendo a monte la possibilità di una soluzione univoca e generalizzata. La giurisprudenza, invece, anche al di fuori delle ipotesi relative ai reati sessuali, ha pressoché risolto positivamente la questione rinvenendo, nella punibilità del tentativo, la medesima ratio repressiva dell’applicazione della pena nei delitti consumati.

Il tema è tuttora dibattuto e non risolto ed è, peraltro, oggetto di contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche tra le Sezioni della Corte di Legittimità.

Nel caso di specie, la Corte, nella propria motivazione, ha richiamato e condiviso le argomentazioni della sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28910) in cui è stata evidenziata la distinzione tra le pene principali e quelle accessorie: mentre le prime hanno una funzione retributiva, di prevenzione generale e speciale, oltre che rieducativa, quelle accessorie, specialmente quelle interdittive e inabilitative, hanno una funzione prettamente specialpreventiva, oltre che di rieducazione personale, perché mirano a realizzare il forzoso allontanamento del reo dal contesto professionale, operativo e/o sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, per impedirgli di reiterare in futuro la sua condotta criminosa. Proprio in virtù dello specifico finalismo preventivo, è necessario modulare l’applicazione delle pene accessorie al disvalore del fatto e alla personalità del reo così che, in relazione allo specifico caso concreto, non necessariamente la durata della pena accessoria deve riprodurre quella della pena principale, così come prevede l’art. 37 c.p. Il Supremo Consesso, sulla base di queste considerazioni, ha espresso il seguente principio di diritto: “Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.

Aderendo a tali considerazioni, la Corte ritiene che, in mancanza di una disposizione espressa, e in ragione della forte invasività che caratterizza le pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., non è possibile la loro automatica applicazione anche alle ipotesi solo tentate.

Così decidendo, pertanto, la Sezione Terza della Cassazione si è posta in continuità con uno dei suoi precedenti giurisprudenziali nel quale ha affermato che le misure di sicurezza personali previste, dall’art. 609nonies, comma 3, c.p., in caso di determinati reati consumati aggravati, sono applicabili solo nel caso di condanna a fattispecie consumate ivi previste, e non alle ipotesi tentate. Tale interpretazione si impone non solo in virtù della littera legis della disposizione, ma anche al fine di evitare il paradosso che la tentata violenza sessuale aggravata venga punita più gravemente rispetto ad una violenza sessuale consumata ma non aggravata. – Cass., sez. III, 24 maggio 2017, n. 25799.

 

Contributo in tema di “Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

assegno inclusione indicazioni

Assegno inclusione: le indicazioni del ministero Il ministero del Lavoro fornisce indicazioni utili per i beneficiari dell'assegno di inclusione

Assegno di inclusione

È stata pubblicata la Nota n. 12607 del 16 luglio 2024, sul sito del ministero del lavoro con cui si riassumono le principali indicazioni utili nella gestione delle attività indirizzate ai beneficiari dell’Assegno di Inclusione, “al fine di assicurare una capillare informazione su alcune nuove disposizioni e funzionalità messe a disposizione ai fini dell’attuazione della misura”.

Cosa contiene la nota

La nota approfondisce le seguenti tematiche:

  • decadenza o sospensione pagamento beneficio;
  • esclusione dagli obblighi di monitoraggio;
  • mantenimento del possesso dei requisiti;
  • cambi di residenza;
  • istanze di riesame.

Decadenza beneficio e mantenimento requisiti

In particolare, in ordine alla decadenza dal beneficio rileva la mancata presentazione alle convocazioni dei Servizi sociali, senza giustificato motivo. “Anche in assenza di convocazione i beneficiari – infatti specifica il dicastero – sono tenuti a presentarsi spontaneamente ai servizi nei tempi stabiliti dalla norma: in caso di mancata presentazione agli incontri, che devono tenersi entro 120 giorni dalla sottoscrizione del PAD, ovvero, per le domande ADI pervenute ad INPS entro il 29 febbraio 2024, entro 120 giorni dalla successiva trasmissione dei dati delle domande ai comuni tramite la piattaforma GePI, il beneficio viene sospeso”.

Ai fini del mantenimento del possesso dei requisiti, si ricorda, inoltre, che i requisiti di accesso alla domanda devono essere posseduti nel corso di tutto il periodo di erogazione. L’INPS ogni mese, prima dell’erogazione della mensilità, effettua le verifiche automatiche.

Per saperne di più:

Leggi anche Assegno di inclusione: le indicazioni INPS

dirigenti sanitari ssn intramoenia

Dirigenti sanitari SSN: intramoenia illegittima La Consulta ha bocciato la legge della Regione Liguria che consentiva ai dirigenti sanitari in rapporto di lavoro esclusivo con il SSN di svolgere attività intramoenia

Intramoenia dei dirigenti sanitari Ssn

Incostituzionali le norme della regione Liguria che consentono ai dirigenti sanitari in regime di rapporto di lavoro esclusivo con il SSN di svolgere attività intramoenia presso le strutture private accreditate. Lo ha stabilito la Consulta, con la sentenza n. 153-2024, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 47, comma 1, della legge della Regione Liguria 28 dicembre 2023, n. 20, nella parte in cui consente, in via transitoria e fino al 2025, alle «strutture private accreditate, anche parzialmente, con il Servizio sanitario regionale, di avvalersi dell’operato di dirigenti sanitari dipendenti dal Servizio sanitario nazionale che abbiano optato per il regime di attività libero professionale intramuraria» (ALPI).

Contrasto con la tutela della salute

La Corte ha affermato che la citata previsione si pone in contrasto con un principio fondamentale in materia di tutela della salute, vincolante per tutte le Regioni, che vieta ai medici che abbiano optato per il rapporto di lavoro esclusivo con il SSN e ai quali è dunque consentito svolgere attività libero professionale solo intramoenia, di svolgere l’ALPI presso strutture sanitarie private accreditate.

Anche allorquando, infatti, è stata transitoriamente introdotta, in considerazione della carenza degli spazi disponibili, la possibilità di un’ALPI “allargata” e si è consentito al direttore generale di assumere le specifiche iniziative per reperire fuori dall’azienda spazi sostitutivi, includendovi anche gli studi professionali privati, è stata sempre ribadita l’espressa esclusione delle strutture sanitarie private accreditate.

Divieto mira a garantire efficienza del servizio sanitario pubblico

Con tale divieto, stabilito dall’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007 e ripetutamente affermato dal legislatore statale negli anni, il legislatore «ha inteso garantire la massima efficienza e funzionalità operativa al servizio sanitario pubblico», evitando che «potesse spiegare effetti negativi il contemporaneo esercizio da parte del medico dipendente di attività professionale presso strutture» accreditate, con il «pericolo di incrinamento della funzione ausiliaria» della rete sanitaria pubblica, che queste ultime svolgono.

Diverso esito hanno trovato, invece, le censure di incostituzionalità rivolte al comma 2 dello stesso art. 47 della legge della Regione Liguria n. 20 del 2023, là dove consente, «[i]n via transitoria» e comunque solo «fino all’anno 2025», alle aziende sanitarie, enti e istituti del SSR di acquisire dai propri sanitari prestazioni in regime di ALPI «[a]l fine di ridurre le liste di attesa» e ovviare alla carenza di organico (prestazioni aggiuntive o integrative).

La disposizione regionale impugnata è, infatti, ha concluso la Corte, in linea con la normativa statale, ad eccezione della previsione della possibilità che le prestazioni acquistate dall’azienda sanitaria dai propri dirigenti sanitari in regime di ALPI siano effettuate presso strutture sanitarie accreditate.

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edilizia pubblica incostituzionale residenza

Edilizia pubblica: incostituzionale chiedere la residenza La Corte Costituzionale ha bocciato la legge del Piemonte che richiedeva per ottenere un'abitazione di edilizia pubblica il requisito della residenza nel territorio regionale

Alloggio di edilizia pubblica e residenza

E’ incostituzionale richiedere la residenza o l’attività lavorativa pregressa e protratta nel territorio regionale al fine di ottenere un’abitazione di edilizia pubblica. “Non c’è alcuna ragionevole correlazione – infatti – fra l’esigenza di accedere al bene casa, ove si versi in condizioni economiche di fragilità, e la pregressa e protratta residenza o attività lavorativa nel territorio regionale”. Lo ha ribadito la Corte costituzionale con la sentenza n. 147-2024, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 3, comma 1, lettera b), della legge della Regione Piemonte 17 febbraio 2010, n. 3.

Ostacolo al diritto all’abitazione

La Corte ha sottolineato come “il requisito della pregressa e protratta residenza sul territorio regionale, così come quello della pregressa e protratta attività lavorativa, pone un ostacolo al soddisfacimento del diritto all’abitazione che deve invece fondarsi sulla situazione di bisogno o di disagio, rispetto alla quale la durata della permanenza pregressa nel territorio regionale non presenta alcun collegamento logico”.

Si tratta, infatti, di requisiti che, “proprio perché sganciati da ogni valutazione su tale stato di bisogno, sono incompatibili con il concetto stesso di servizio sociale, inteso quale servizio destinato prioritariamente ai soggetti economicamente deboli”. Né “valgono a indicare una prospettiva di radicamento sul territorio regionale”.

Incostituzionale sotto un triplice profilo

Il giudice delle leggi ha pertanto riscontrato che la legge piemontese viola l’art. 3 Cost. sotto un triplice profilo: “per intrinseca irragionevolezza, perché prevede requisiti del tutto non correlati con la funzione propria dell’edilizia sociale; perché determina una ingiustificata diversità di trattamento tra persone che si trovano nelle medesime condizioni di fragilità; e perché tradisce il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

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rischio caldo istruzioni inps

Rischio caldo: le istruzioni Inps per l’accesso agli ammortizzatori Pubblicate le istruzioni Inps per l'accesso agli ammortizzatori sociali per le ondate di calore, come previsto dalla legge di conversione del decreto agricoltura

Pubblicate le istruzioni Inps per l’accesso agli ammortizzatori sociali per il rischio caldo. Con due messaggi, n. 2735/2024 e 2736/2024 l’istituto ha fornito le indicazioni per l’accesso agli ammortizzatori sociali previsti per eventi meteorologici avversi, in particolare le ondate di calore, come previsto dalla legge di conversione del decreto agricoltura.

Cosa prevede la legge di conversione del decreto agricoltura

“In considerazione dell’eccezionale ondata di calore che sta interessando tutto il territorio nazionale e dell’incidenza che tali condizioni climatiche possono determinare sulle attività lavorative e sull’eventuale sospensione o riduzione delle stesse, si riassumono le indicazioni circa le modalità con le quali richiedere le prestazioni di integrazione salariale e i criteri per la corretta valutazione delle istanze” anticipa l’Inps illustrando le novità introdotte dalla legge di conversione del decreto agricoltuar n. 63/2024. Nello specifico si tratta di:
  • cassa integrazione speciale operai agricoli (CISOA), per le sospensioni o riduzioni dell’attività lavorativa effetuate nel periodo dal 14 luglio al 31 dicembre 2024, nei casi di intemperie stagionali per gli operai agricolo a tempo indeterminato;
  • integrazione salariale ordinaria (CIGO) in favore dei settori edile, lapideo e delle escavazioni. Si applica per le sospensioni o ridiuzioi dell’attività lavoratoiva dall’1 luglio al 31 dicembre a causa di eventi oggettivamente non evitabili (EONE);
  • trattamenti di sostegno al reddito, in favore dei lavoratori di imprese operanti in aree di crisi industriale complessa.

La domanda

Per quanto riguarda le istanze di CISOA per gli operai agricoli a tempo indeterminato, con riduzione dell’attività lavorativa pari alla metà dell’orario giornaliero contrattualmente stabilito e per periodi compresi dal 14 luglio 2024 al 31 dicembre 2024, l’Inps ricordai ai datori di lavoro di seguire le consuete modalità indicando quale causale dell’istanza “CISOA eventi atmosferici a riduzione”.

Per le domande di integrazione salariale ordinaria per eventi oggettivamente non evitabili (EONE), le istanze invece andranno presentate entro la fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio l’evento di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa.

Per maggiori info, consultare i messaggi dell’istituto con tutte le istruzioni per la presentazione delle domande.

particolarità causa compensare spese

Non basta la particolarità della causa per compensare le spese La Cassazione chiarisce che la particolarità della controversia non è sufficiente per compensare le spese di lite

Compensazione spese di lite

Non è sufficiente la “particolarità” della causa per compensare le spese di lite. Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza n. 17966/2024 accogliendo il ricorso di un lavoratore. 

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Napoli respingeva il gravame di una Spa, confermando la sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda di un lavoratore volta ad ottenere la condanna della società datrice al pagamento di una somma a titolo di “conguaglio ore”. 
La Corte territoriale, tuttavia, aveva disposto anche la compensazione delle spese del grado per la “particolarità della controversia e le oscillazioni della giurisprudenza di merito sulla questione esaminata”.

Il ricorso

L’uomo adiva quindi il Palazzaccio dolendosi della compensazione “in assenza di soccombenza reciproca, essendo la società appellante totalmente soccombente” e denunciando la nullità parziale della sentenza per motivazione apparente atteso che la “particolarità” e le “oscillazioni giurisprudenziali” non si evincevano nè dal provvedimento nè dalle allegazioni processuali.  

L’art. 92 c.p.c.

Per gli Ermellini, l’uomo ha ragione.
Nel caso di specie, premettono, “di procedimento iniziato in primo grado nel 2020, trova applicazione l’art. 92 c.p.c. nella formulazione successiva alle modifiche apportate dall’art. 13, decreto-legge. n. 132/14, convertito dalla legge n. 162/14, secondo cui: ‘Se vi è’ soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero’; a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 77 del 2018, la compensazione delle spese, parzialmente o per intero, può essere disposta ‘anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni’.
In base all’art. 92 c.p.c., come risultante dalle modifiche sopra citate, proseguono i giudici, “la compensazione delle spese di lite può essere disposta (oltre che nel caso di soccombenza reciproca), soltanto nell’eventualità di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti o nelle ipotesi di sopravvenienze relative a tali questioni e di assoluta incertezza che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità delle situazioni tipiche espressamente previste dall’art. 92, comma 2, c.p.c.”. 
La “particolarità” della controversia, dunque, peraltro “non meglio specificata nella sentenza impugnata né desumibile dalla materia del contendere, non corrisponde a nessuno dei presupposti idonei a legittimare, per dettato normativo, la compensazione delle spese”. E neppure le “oscillazioni della giurisprudenza di merito, nella specie neanche individuate attraverso puntuali citazioni di precedenti di segno diverso, sono riconducibili alle ipotesi contemplate dal citato art. 92, caratterizzate da elementi di novità idonei ad alterare o, comunque, ad interferire sulla originaria prospettazione difensiva o da altre analoghe ragioni connotate da eccezionalità e gravità”.
Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza.
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giurista risponde

Assicurazione responsabilità civile e clausola claims made In tema di assicurazione della responsabilità civile in ambito sanitario è valida la clausola claims made che preveda l’ultrattività della polizza per un periodo inferiore a dieci anni?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

In tema di assicurazione della responsabilità civile, la clausola claims made che non preveda un periodo di ultrattività decennale della polizza conforme alla previsione di cui all’ art. 11 L. 24/2017 non può essere dichiarata per ciò solo nulla, dovendosi piuttosto procedere a verificare se nel caso concreto, anche alla luce del rapporto tra rischio e premio, risulti effettivamente svuotare di ogni ragion pratica il contratto. – Cass., sez. III, 12 marzo 2024, n. 6490.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della compagnia di assicurazioni avverso la sentenza della Corte d’Appello che, dichiarata la nullità della clausola che limitava la validità della polizza al caso di richieste formulate entro dodici mesi dalla scadenza della stessa, l’ aveva sostituita con la clausola di ultrattività decennale di cui all’art. 11 L. 24/2017 in tema di responsabilità sanitaria.

I Giudici di legittimità ricordano a proposito che il potere di sostituzione della clausola claims made tratteggiato con la sentenza Cass., Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22437 presuppone anzitutto un corretto accertamento della nullità contrattuale e poi una corretta individuazione del sostrato sostitutivo che realizzi un equo contemperamento delle posizioni dei contraenti.

Nel caso di specie, invece, il giudice a quo era intervenuto ravvisando un “buco di copertura” dovuto alla mancata previsione di una clausola di ultrattività decennale, senza ulteriormente motivare se la specifica conformazione della clausola di ultrattività annuale, riguardata alla luce del rapporto tra rischio e premio, svuotasse effettivamente di ogni ragion pratica il contratto.

In altri termini la Corte d’Appello aveva considerato la previsione contenuta nel secondo periodo dell’art. 11, della legge Gelli Bianco quale regola generale in tema di copertura assicurativa in ambito sanitario, sanzionando con la nullità la convenzione non aderente a detto paradigma.

La Suprema Corte censura il difetto di motivazione e l’omessa indagine in concreto in ordine all’idoneità della clausola a realizzare gli interessi delle parti.

Si tratta di un’omissione ancor più significativa se si considera che in altre sedi la clausola claims made con previsione di ultrattività annuale è stata ritenuta valida dalla giurisprudenza di legittimità.

Infine, rileva che l’ultrattività decennale è prevista per la sola ipotesi della cessazione definitiva dell’attività professionale e che pertanto non costituisce un modello inderogabile in materia di assicurazioni sulla responsabilità civile del medico.

Contributo in tema di “Assicurazione della responsabilità civile”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

Referendum: come si usa la piattaforma per la raccolta firme digitali Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 25 luglio il Dpcm 18 luglio 2024 che prevede l’attivazione della nuova piattaforma digitale per la raccolta delle firme per il referendum. Ecco come funziona

Referendum: piattaforma digitale raccolta firme

È stato pubblicato il 25 luglio in Gazzetta ufficiale il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm del 18 luglio 2024) che prevede l’attivazione della nuova piattaforma digitale dedicata alla raccolta delle firme per i referendum. Ne dà notizia il ministero della Giustizia sul proprio sito Gnewsonline.

La piattaforma è concepita per agevolare la sottoscrizione digitale dei referendum abrogativi o costituzionali, e delle iniziative legislative di natura popolare.

Con questa nuova iniziativa progettuale, curata dal Dipartimento per l’Innovazione Tecnologica della giustizia tramite la Direzione Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati, il Ministero della Giustizia “ribadisce il proprio impegno nel promuovere strumenti innovativi volti a facilitare la partecipazione attiva dei cittadini e garantire processi democratici più accessibili e trasparenti”.

Come funziona il sistema

Il sistema, che ha ottenuto il parere del Garante per la protezione dei dati personali, è utilizzabile dai promotori di proposte referendarie e dagli uffici della Corte di Cassazione e delle Camere, per gestire tutte le fasi del processo di raccolta delle firme dei sostenitori in formato digitale. Il sistema effettua poi la verifica della presenza e validità delle firme, mediante interoperabilità con il sistema dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR), presso le anagrafi dei comuni ove sono residenti i cittadini firmatari delle proposte.

“La piattaforma rappresenta un’innovazione cruciale per la partecipazione politica in Italia e pone il Ministero e il nostro Paese all’avanguardia nell’uso delle tecnologie digitali a supporto della democrazia”, ha dichiarato il Ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Operatività piattaforma dal 25 luglio 2024

Ex art. 1 del decreto, l’operatività della piattaforma per la raccolta digitale delle sottoscrizioni in materia di referendum e di proposte di legge di iniziativa popolare è attestata a partire dalla data di entrata in vigore del Dpcm, ossia dal 25 luglio stesso.

Per cui, le firme degli elettori a sostegno delle proposte referendarie ex art. 75 e 138 Costituzione e dei progetti di legge ex art. 71, 2° comma, Cost., saranno raccolte in forma digitale.

Leggi anche Referendum, arriva la piattaforma digitale

Come si utilizza la piattaforma

Il ministero ha pubblicato un utile vademecum sull’utilizzo della piattaforma , la quale è accessibile dall’area privata con la propria identità digitale (Spid, Cie, Cns o eIDAS), effettuando la scelta preliminare tra “cittadini” e “comitati promotori” e potendo così sostenere e gestire una o più proposte referendarie.

Una volta completata l’autenticazione, con un semplice click si può sostenere un’iniziativa tra quelle disponibili. Al termine, è possibile scaricare l’attestato di sottoscrizione.

La piattaforma consente anche di promuovere un referendum abrogativo, costituzionale o una legge di iniziativa popolare. Il sistema garantisce una procedura guidata intuitiva e strumenti utili, come la sezione che permette di visualizzare il numero di firme raccolte a livello territoriale per la specifica iniziativa.

Alla scadenza della raccolta firme si potrà scaricare un attestato, emesso dal ministero della Giustizia, di messa a disposizione dei dati e delle sottoscrizioni del quesito all’Ufficio referendum della Corte di cassazione.

Nell’homepage della piattaforma, sezione “Elenco iniziative”, sono presenti le proposte referendarie attive e quelle già chiuse, con dettagli sul quesito, i firmatari e i promotori dell’iniziativa. Per tutti coloro che si sono autenticati, é disponibile sulla Hp, in calce, una form per la richiesta di assistenza.

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