morte animale d'affezione

Morte animale d’affezione: risarcito il danno Morte animale d'affezione: risarcito il danno non patrimoniale, il rapporto con l’animale contribuisce allo sviluppo della personalità

Morte animale: lesione diritto costituzionale

La morte dell’animale d’affezione attribuisce il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. La perdita del proprio animale lede la sfera relazionale e affettiva tutelata a livello costituzionale dall’articolo 2. Il rapporto cane – padrone completa e sviluppa la personalità umana. Lo ha specificato il Tribunale di Prato con la sentenza n. 51/2025.

Danni non patrimoniali: morte animale d’affezione

Una famiglia affida la cagnolina Adel a una pensione per animali. Durante il soggiorno, l’animale muore. La Polizia Municipale li informa del decesso.

Quando i padroni arrivano alla struttura, trovano Adel abbandonata a terra con una coperta. Nessuno li aveva avvisati del peggioramento della cagnolina. La struttura non aveva contattato né loro né un veterinario. Un addetto rivela che Adel stava male da giorni. I volontari l’avevano trovata disidratata per una forte diarrea. La responsabile però non aveva dato indicazioni su come aiutarla.

I padroni, sconvolti, notano anche la scarsa igiene della struttura. Decidono quindi di agire in giudizio. Chiedono la risoluzione del contratto per inadempimento, la restituzione delle somme pagate e il risarcimento dei danni. Ritengono che la pensione abbia violato l’obbligo di custodia.

Per il risarcimento del danno non patrimoniale, invocano l’articolo 2 della Costituzione. Essi sostengono che il rapporto uomo-animale realizza la persona umana. Citano anche l’articolo 42 della Costituzione e l’articolo 6 del Trattato UE, per i danni economici e morali. Chiedono al giudice inoltre di considerare la sofferenza di Adel, lasciata morire senza cure.

La parte convenuta si difende e contesta la versione dei padroni e nega il diritto al risarcimento per la morte di Adel. Si appella a un orientamento della Cassazione, secondo cui la perdita di un animale non costituisce danno esistenziale. Sostiene inoltre che chi chiede il risarcimento deve provare il danno subito e il nesso di causa.

Sviluppo della personalità umana

Il Tribunale ricostruisce i fatti e decide di non seguire l’orientamento della Cassazione. Riconosce infatti agli attori il danno non patrimoniale. Secondo il giudice, la perdita di un animale d’affezione può ledere la sfera affettiva di una persona. Il rapporto tra padrone e animale contribuisce allo sviluppo della personalità. Se provato, il danno deve essere risarcito.

Le prove fotografiche mostrano che Adel era un membro della famiglia. Giocava con i bambini, veniva festeggiata ai compleanni e accompagnava la famiglia nelle gite. Dormiva nel letto con loro. Esisteva insomma un forte legame affettivo.

La morte improvvisa e le modalità dell’abbandono hanno causato ai padroni una grande sofferenza. Non sono stati informati delle condizioni della cagnolina e hanno scoperto il tragico evento solo all’ultimo momento. La sofferenza è stata aggravata dallo stupore e dal senso di tradimento. Si fidavano della struttura, dove avevano già lasciato Adel in passato.

Il Tribunale riconosce quindi il danno non patrimoniale, la padrona riceve 6.000 euro per il suo coinvolgimento diretto, gli altri membri della famiglia invece ottengono 4.000 euro ciascuno.

 

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bonus Tari

Bonus Tari: cos’è e come ottenerlo Bonus TARI 2025: pubblicato in Gazzetta il DPCM che riconosce un aiuto alle famiglie in difficoltà economica per il pagamento dei rifiuti

Bonus Tari 2025: sconto del 25%

Il Governo ha approvato il Bonus Tari  2025, una misura che prevede una riduzione del 25% sulla tassa rifiuti per i nuclei familiari con un ISEE basso. Il decreto (DPCM 24/2025) è presente sulla Gazzetta Ufficiale il 13 marzo 2025 e entrerà in vigore il 28 marzo 2025.

Chi può accedere al bonus

Possono accedere al bonus Tari 2025 i nuclei familiari che rispettano i seguenti requisiti economici e soggettivi:

  • un ISEE inferiore a 9.530 euro annui (che sale fino a 20.000 euro per nuclei familiari in cui sono presenti almeno quattro figli a carico);
  • il richiedente deve essere il titolare dell’utenza Tari ed essere residente nell’immobile per cui paga la tassa;
  • essere in regola con i pagamenti della TARI degli anni precedenti.

Come funziona il bonus TARI 2025

Il bonus sarà applicato automaticamente, senza la necessità di presentare una domanda specifica, sulla base dei dati ISEE che vengono forniti all’INPS. Il taglio del 25% riguarderà però solo i nuclei familiari con un ISEE inferiore a 9.350 euro, mentre per le famiglie con almeno quattro figli a carico, la soglia è stata elevata a 20.000 euro.

Esclusione dei trattamenti assistenziali dal calcolo ISEE

Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri prevede l’esclusione dei trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari dal calcolo del reddito ISEE per i nuclei familiari in cui vi siano persone disabili o non autosufficienti.

Passaggi successivi

Per rendere operativo il bonus, manca ancora l’approvazione del provvedimento da parte dell’Autorità per l’energia (Arera), in accordo con il Garante della privacy, che dovrà definire le modalità di trasmissione dei dati dall’INPS ai Comuni nel rispetto della privacy.

Obiettivo del bonus Tari 2025

Il Bonus Tari o bonus rifiuti rappresenta senza dubbio un sostegno economico importante per le famiglie a basso reddito, al fine di garantire un trattamento equo a livello nazionale.

 

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vietato divulgare i nomi

Avvocati: vietato divulgare i nomi dei clienti Vietato divulgare i nomi dei clienti: l'avvocato non può divulgarli, neppure utilizzando toni autocelebrativi e promozionali

Vietato divulgare i nomi dei clienti

Vietato divulgare i nomi dei clienti: l’articolo 35, comma 8 del Codice Deontologico Forense vieta all’avvocato di indicare, nelle informazioni al pubblico, i nominativi dei clienti o delle parti assistite, anche con il loro consenso. Tale divieto si applica anche quando i nominativi siano già di dominio pubblico. Inoltre, non è consentito eludere questa norma riproducendo in modo enfatico, autocelebrativo o promozionale informazioni già diffuse da media o terzi non soggetti alle regole deontologiche forensi.

Nel caso specifico, l’avvocato ha violato questa disposizione pubblicando sul proprio sito web e tramite una newsletter uno scritto che riprendeva una notizia di stampa relativa all’assistenza legale prestata in una complessa acquisizione societaria, includendo dettagli sui nominativi delle parti coinvolte. Questo quanto emerge dalla sentenza del CNF n. 294/2024.

Violato il divieto di divulgare i nomi dei clienti

Un esposto anonimo avvia un procedimento disciplinare nei confronti del titolare di uno studio legale perchè ritenuto responsabile di aver divulgato i nomi di clienti e parti assistite.

Il CDD ritiene sussistente la responsabilità disciplinare dell’avvocato tanto che gli irroga la sanzione disciplinare dell’avvertimento.

L’avvocato ritenuto responsabile però, nel ricorso al CNF precisa che “le notizie pubblicate sul sito web del suo studio legale, così come i relativi comunicati stampa, conseguivano alla pubblicazione di identici articoli già diffusi dai media. Laddove, quindi, come nel caso di specie, la “disclosure” del nominativo del cliente sia già stata fatta da terzi e con il consenso del cliente medesimo, non sarebbe ravvisabile la violazione dellart. 35 comma 8 del NCDF essendosi il difensore incolpato solo limitato a pubblicare notizie rese di pubblico dominio da altri”. 

Divieto di divulgazione art. 35 CDF

Il CNF nel respingere il ricorso dell’avvocato fornisce importanti precisazioni sul divieto di divulgazione dei nominativi di clienti e parti assistite. L’interpretazione fornita dal ricorrente dell’articolo 35 comma 8 del Codice deontologico Forense risulta infatti del tutto errata.

In primis occorre ricordare come la formulazione del comma 8 dell’articolo 8 sia rimasta nel tempo pressoché invariata. In secondo luogo il CNF rileva come la pubblicazione in prima istanza sulla stampa non qualificata (newsletter, siti ecc…) potrebbe ben essere utilizzata come escamotage dallo stesso avvocato per ritenersi poi autorizzato a riprodurre le stesse informazioni, eludendo in questo modo ogni divieto.

Vietato divulgare i nomi

Non coglie nel segno la tesi del ricorrente per il quale non sussisterebbe alcuna violazione ogni volta in cui il nominativo delle parti assistite dal legale e diffuso dallo stesso sia stato già reso di dominio pubblico da terzi.

Come chiarito correttamente dal CDD “il rapporto tra cliente e avvocato non è soltanto un rapporto privato di carattere libero-professionale e non può perciò essere ricondotto puramente e semplicemente al contratto dopera ed ad una logica di mercato.” L’avvocato  non è solo un libero professionista, manche un soggetto che partecipa attivamente allo svolgimento della funzione giurisdizionale pubblica.

Il principio di tutela dell’autonomia e del decoro della professione forense giustifica quindi il divieto per gli avvocati di pubblicare i nominativi dei propri clienti a fini pubblicitari, anche con il consenso degli stessi. L’articolo 35, comma 8 del Codice Deontologico Forense vieta questa pratica per prevenire interferenze, condizionamenti e strumentalizzazioni che potrebbero derivare dalla diffusione di tali informazioni.

Il tono autocelebrativo non rileva

Nel caso specifico esaminato dal Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) , l’Avv. ricorrente fondatore dello Studio Legale Omonimo & Associati, ha pubblicato sul sito web dello studio e inviato tramite newsletter comunicazioni relative a incarichi professionali svolti, indicando espressamente i clienti assistiti. Ad esempio, nella pubblicazione di gennaio 2022 si menzionava l’assistenza prestata a un certo Consorzio, mentre nella seconda comunicazione si faceva riferimento all’assistenza fornita a due soggetti specifici nei concordati preventivi.

Il CDD ha ritenuto che tali comunicazioni non si limitassero a riprodurre articoli di stampa o comunicati ufficiali dei clienti, ma fossero redatte in maniera autonoma, con toni promozionali e autocelebrativi. In particolare, l’avvocato ha attribuito il buon esito dell’operazione alla “tecnicalità adottata da ……..” e ha invitato a contattarlo per ulteriori informazioni sul leveraged buyout.

Infine, la newsletter, inviata a destinatari iscritti tramite il sito web dello studio, conferma la natura di informazione pubblica e la responsabilità diretta dello studio legale nella diffusione dei nominativi dei clienti assistiti, in violazione delle norme deontologiche.

 

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licenziamento legittimo

Licenziamento legittimo per il dipendente che discrimina la collega Licenziamento legittimo quello irrogato al dipendente che offende ripetutamente e discrimina la collega per il suo orientamento sessuale

Licenziamento legittimo condotta discriminatoria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6345 del 10 marzo 2025, conferma il licenziamento legittimo del  dipendente disposto per motivi disciplinari, perché ritenuto responsabile di aver offeso reiteratamente l’orientamento sessuale di una collega.

Offese reiterate di contenuto sessista rivolte alla collega

Un dipendente si rivolge a una collega con frasi disonorevoli e immorali, lesive della sua dignità. Il comportamento, reiterato e aggravato dalla presenza di altri colleghi, ha portato all’espulsione del lavoratore dall’azienda. Il dipendente però ha impugnato il provvedimento davanti all’autorità giudiziaria.

In primo grado, il Tribunale respinge l’impugnazione del lavoratore. La Corte d’Appello invece dichiara illegittimo il licenziamento, ritenendolo una misura sproporzionata, ma risolve comunque  il rapporto di lavoro, condannando l’azienda a pagare 20 mensilità di retribuzione. La società presenta ricorso incidentale in Cassazione, la quale accoglie il primo motivo, rinviando il caso alla Corte d’Appello per riesaminare la sussistenza della giusta causa di licenziamento. In sede di riassunzione, la Corte d’Appello rigetta il reclamo del lavoratore, confermando la legittimità della sanzione disciplinare.

Moleste le offese discriminatorie

I comportamenti offensivi e discriminatori legati all’orientamento sessuale di un collega integrano infatti una forma di molestia. La valutazione si basa sul contenuto oggettivo della condotta e sulla percezione soggettiva della vittima. Non occorre dimostrare lintenzione di arrecare danno da parte dell’autore. In questo caso, il lavoratore ha violato l’articolo 45, punto 6, del DPR 148/1931, che sancisce l’obbligo di mantenere una condotta rispettosa e decorosa nei confronti dei colleghi. Le frasi pronunciate sono state considerate disonorevoli, immorali e discriminatorie, immeritevoli di pubblica stima.

La Cassazione non può rivalutare il merito

La Cassazione respinge quindi i motivi sollevati dal lavoratore nei confronti della sentenza della Corte d’Appello, pronunciatasi in sede di rinvio. I giudici hanno ritenuto inammissibili tali argomentazioni,  perché finalizzate a ottenere una diversa valutazione dei fatti. La Suprema Corte  conferma quindi l’importanza del rispetto della dignità dei colleghi e della tutela contro le discriminazioni sessuali, elemento fondamentale dell’ordinamento giuridico italiano.

 

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pensione di reversibilità

Pensione di reversibilità: va valutato anche l’assegno di divorzio Pensione di reversibilità: l’assegno di divorzio è un elemento di valutazione e deve rispondere alla sua finalità solidaristica

Pensione di reversibilità e assegno di divorzio

La Cassazione nell’ordinanza n. 5839/2025 precisa che la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato non è vincolata all’importo dell’assegno divorzile. Quest’ultimo però deve essere considerato tra gli elementi di valutazione, senza automatismi, per garantire la finalità solidaristica della pensione.

Concorso tra ex coniuge e seconda moglie

Una vedova, titolare di una pensione di 500 euro mensili, agisce in giudizio per ottenere il riconoscimento della reversibilità nella misura dell’80% del trattamento pensionistico spettante all’ex marito defunto. Il matrimonio, contratto nel maggio del 1975 è cessato nell’ottobre del 2014. Alla stessa spetterebbe quindi un importo superiore a quello riconosciuto alla seconda moglie, il cui matrimonio è durato solo 5 anni. La donna ritiene inoltre che la reversibilità a lei spettante debba coincidere almeno con la misura dell’assegno di divorzio pari a 315,00 euro mensili.

Importo pensione di reversibilità

L’INPS nel costituirsi in giudizio precisa che l’importo della pensione di reversibilità, pari al 60% dell’importo della pensione del defunto, è di 1.905,79 euro e che dopo la morte del marito la pensione di reversibilità è stata erogata solo alla vedova superstite.

La seconda moglie in giudizio chiede invece il riconoscimento della pensione di reversibilità nella misura non inferiore all’80% di quello spettante al marito defunto.

Il giudice di primo grado però riconosce il 70% della pensione del de cuius alla ex moglie e il restante 30% alla seconda moglie. Quest’ultima ricorre in appello, ma la Corte respinge il ricorso, la donna decide così di ricorrere in Cassazione.

Nell’unico motivo la stessa lamenta di non avere ricevuto una quota di pensione di reversibilità sufficiente a soddisfare le esigenze di vita più elementari mentre la ex moglie, al contrario, ha ricevuto una quota di pensione del tutto sproporzionata rispetto all’assegno di divorzio. A fronte infatti di un assegno divorzile di 357,00 euro mensili alla ex moglie è stata riconosciuta una pensione di 1200 euro mensili.

L’assegno di divorzio incide sul calcolo

La Cassazione accoglie il ricorso nei limiti indicati nella motivazione nella quale enuncia il principio giuridico da applicare quando si deve riconoscere all’ex coniuge la pensione di reversibilità.

Per la Cassazione nel determinare la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato ai sensi dell’articolo 9, comma 3, della legge numero 898 del 1970, è importante sottolineare che tale quota non deve necessariamente coincidere con l’importo dell’assegno divorzile, né quest’ultimo rappresenta un limite massimo invalicabile. Tuttavia, in linea con un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’entità dell’assegno divorzile deve essere considerata tra gli elementi di valutazione, senza che ciò implichi un automatismo. L’obiettivo è garantire che l’attribuzione della quota di pensione risponda alla finalità solidaristica dell’istituto, che si traduce nel sostenere economicamente coloro che hanno subito la perdita del supporto finanziario fornito in vita dal lavoratore defunto.

 

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patto di quota lite

Patto di quota lite: quando è vietato Il patto di quota lite è vietato quando è commisurato all’esito della lite e questo vale sia per l’attività giudiziale che stragiudiziale

Patto di quota lite: vietato anche per stragiudiziale

Il patto di quota lite consiste in un accordo tra avvocato e cliente, in base al quale il compenso per l’attività professionale svolta viene determinato in misura percentuale sul bene controverso o sul suo valore. La sentenza del CNF n. 352/2024, pubblicata sul sito del Codice Deontologico Forense in data 11 marzo 2025, conferma il divieto del patto sia quando riguarda l’attività giudiziale che quella  stragiudiziale. Il CNF annulla così il provvedimento di archiviazione del CDD, che aveva ritenuto la percentuale del 15% sul risarcimento riconosciuto alla cliente in sede transattiva con l’Assicurazione e percepita dall’avvocato a titolo di compenso legittima perché proporzionata alla difficoltà dell’incarico.

Risarcimento danno: 15% dell’importo all’avvocato

Una donna presenta un esposto al COA competente per territorio contro un avvocato. La stessa aveva conferito l’incarico a un legale per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa di un intervento chirurgico. La compagnia assicurativa con cui l’avvocato aveva accettato di transigere la vertenza provvedeva al pagamento del risarcimento del danno nella misura di 89.180,00 euro.

La compagnia pagava l’importo concordato al legale, che però consegnava alla cliente 69.880,00 euro. L’esponente chiedeva quindi chiarimenti sul minore importo corrisposto. Il legale la informava di aver sottoscritto un accordo, che prevedeva il riconoscimento in suo favore del 15% del risarcimento che le sarebbe stato riconosciuto, a titolo di compenso.

Percentuale proporzionata

Il procedimento proseguiva innanzi al CDD. Il Consiglio concludeva che tra le parti era intercorso un patto di quota lite vietato dall’articolo 2233 c.c nella sua formulazione originaria, disciplinato dall’articolo 25 comma 1 e considerato lecito nei limiti sanciti dall’articolo 29 comma IV del Codice deontologico forense. Nel caso di specie però l’accordo si era realizzato in forma scritta e l’importo risultava proporzionato alla difficoltà dell’incarico. Il CDD decideva quindi di archiviare il procedimento. Il COA però ricorreva al CNF, chiedendo la sospensione dell’avvocato dall’esercizio della professione da un minimo di due fino a un massimo di sei mesi. Per il Consiglio dell’Ordine l’avvocato aveva infatti violato l’articolo 25, comma 2 del Codice deontologico.

Patto di quota lite: evoluzione normativa

Il CNF sul motivo di ricorso del patto di quota lite, ricorda che, prima del 2006, la legge vietava severamente tali patti. Con il decreto Bersani del 2006, il divieto venne rimosso.  Gli accordi basati sul risultato pratico e sulla percentuale del valore dei beni o degli interessi litigiosi divenivano quindi leciti.

La legge 247/2012 però ha reintrodotto il divieto con l’articolo 13, comma 4. La norma vieta infatti all’avvocato di ricevere come compenso una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa. Tuttavia, il comma 3 consente la pattuizione di compensi a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il cliente. Il tutto in base al principio della libera pattuizione del compenso.

Il patto però è lecito quando si basa sul valore dei beni o sugli interessi litigiosi, è illecito se legato all’esito della lite. Questa distinzione mira a prevenire la commistione di interessi tra avvocato e cliente, evitando che il rapporto professionale si trasformi in un rapporto associativo.

Il divieto vale per lattività giudiziale e stragiudiziale

Nel caso specifico, il CDD di Firenze ha riconosciuto un patto di quota lite tra l’avvocato e la cliente ritenendo però corretta dal punto di vista deontologico, la condotta del legale.

Il CNF nella motivazione precisa che il divieto del patto di quota lite concerne sia lattività giudiziale che quella stragiudiziale. Nel caso di specie il contratto sottoscritto dal professionista al punto 2. ha così previsto il compenso in caso di attività stragiudiziale: A. stragiudiziale: proporzionato al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, nella misura percentuale del 15% da calcolare sulla somma che verrà riconosciuta al cliente oltre cassa nazionale previdenza (4%). Si precisa che tale importo non è comprensivo delle spese legali poste a carico della controparte in sede stragiudiziale stabilita in favore dellavvocato… Pertanto, in aggiunta al compenso riconosciuto dalla controparte in via stragiudiziale, è dovuto dalla cliente allavvocato un ulteriore compenso determinato in percentuale sulla somma riconosciuta al cliente”.

Questo compenso ulteriore, legato al risultato della prestazione viola l’articolo 13 della legge n. 247/201e e l’articolo 25 del CdF. Il ricorso del COA quindi va accolto, con remissione degli atti al CDD che deve proseguire il procedimento nei confronti dell’avvocato.

 

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guida in stato di ebbrezza

Guida in stato di ebbrezza per l’incidente nel viale del condominio Aggravante incidente stradale guida in stato di ebbrezza: applicabile anche se il teatro del sinistro è un vialetto condominiale

Guida in stato di ebbrezza:  aggravante confermata

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10000/2025 ha riconosciuto l’aggravante di aver cagionato un incidente stradale anche il fatto si è verificato in  un’area privata. Tale aggravante, relativa al reato di guida in stato di ebbrezza è stata riconosciuta quindi anche se il sinistro è avvenuto in un vialetto condominiale. La decisione conferma in questo modo l’applicabilità del Codice della Strada anche in aree private destinate all’uso pubblico, al fine di tutelare la sicurezza della circolazione e la salute dei cittadini.

Sinistro nel vialetto condominiale

Un giovane risulta positivo all’etilometro, dopo aver perso il controllo del veicolo mentre imboccava un vialetto pedonale in un parcheggio condominiale. Lo stesso ha urtato un’auto in sosta, un lampione e poi le mura esterne di un edificio condominiale. L’imputato ha quindi contestato l’aggravante, sostenendo che l’incidente era avvenuto in un’area privata e delimitata, non accessibile al pubblico.

Aggravante incidente stradale: rileva l’uso pubblico

La Cassazione però respinge la tesi della difesa, affermando che l’area condominiale era liberamente accessibile, come accertato dai verbali di polizia. Ha ribadito inoltre che le norme del Codice della Strada si applicano in qualsiasi contesto di uso pubblico della viabilità, compresi i vialetti condominiali aperti al transito di veicoli motorizzati. La Corte ha quindi stabilito che l’aggravante per incidente stradale si applica anche in aree private, purché destinate alla circolazione di un numero indeterminato di veicoli e persone. Non è necessario che siano coinvolti terzi o altri veicoli, ma è sufficiente che l’evento interrompa la normale circolazione e crei pericolo per la collettività.

Aggravante incidente stradale e danneggiamenti

La Cassazione del resto rileva come i giudici di merito abbiano confermato l’illecita condotta di guida in stato di ebbrezza, riscontrata visivamente dagli agenti di polizia e confermata dall’etilometro, che ha rilevato un tasso alcolemico elevato (2,16-2,04 g/l). L’imputato, proprio perché in tali condizioni, ha danneggiato due auto in sosta, un lampione e un muro condominiale.

Il ricorso pertanto è inammissibile e l’imputato deve essere condannato  al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di 3.000 euro a favore della cassa delle ammende.

 

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danno parentale

Danno parentale: il vincolo di sangue non è imprescindibile Danno parentale: per il riconoscimento non rileva il legame di sangue ma la dedizione e l'assistenza morale e materiale

Danno parentale al padre vicario

Per il riconoscimento del danno parentale previsto per la perdita del congiunto il legame di sangue non è un elemento imprescindibile di valutazione. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza. n. 5984/2025, riconoscendo il danno parentale da perdita al compagno di una madre che ha perso la figlia di 4 anni in un incidente stradale. L’uomo merita di essere risarcito perché ha svolto il ruolo di padre vicario nei confronti della bambina, provvedendo a tutte le sue necessità nella sua breve vita.

Danno parentale da perdita del congiunto al compagno

Una donna e il compagno fanno causa ai responsabili della morte della figlia della sola donna conseguente a un sinistro stradale. Nella domanda chiedono la condanna in solido di tutti i responsabili al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.

In giudizio uno dei convenuti rende noto l’avvenuto pagamento in favore della madre della somma di 270.000,00 euro. La CTU medico legale riconosce però alla madre il massimo risarcimento previsto dalle tabelle di Roma per il danno parentale. Il Giudice di primo grado rigetta la richiesta risarcitoria avanzata dal compagno della donna finalizzata a ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale. La Corte d’Appello tuttavia ribalta la decisione e dispone in suo favore il risarcimento. L’uomo ha svolto infatti il ruolo di padre sostituto del padre biologico, eclissatosi completamente dalla vita, seppur breve, della figlia. La sentenza viene impugnata in Cassazione e nel terzo motivo si contesta “la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale disposta in favore del compagno della madre, per la morte della figlia di quest’ultima, in assenza di convivenza e della prova della effettiva assunzione, da parte dell’istante, del “ruolo morale e materiale di genitore”.

Cassazione: rilevano dedizione e assistenza

Per la Cassazione però il motivo è inammissibile perché si basa su una critica all’idoneità e alla sufficienza delle prove acquisite, cercando una rivalutazione del materiale probatorio. Compito questo che non spetta al giudice di legittimità. L’obiettivo del motivo consiste nell’ottenere una nuova valutazione delle prove. La Corte d’Appello ha fornito una motivazione ragionevole e coerente dal punto di vista giuridico. La stessa ha infatti accertato, sulla base delle prove raccolte, che il ricorrente aveva assunto un ruolo di “padre vicario” nei confronti della vittima, una bambina deceduta in un incidente. Il padre biologico era assente dalla vita della bambina, e il ricorrente ha fornito dedizione e assistenza morale e materiale per oltre tre anni, su un totale di quattro anni di vita della minore. Il ricorrente pertanto ha subito, senza alcun dubbio, un danno da perdita del rapporto parentale.

La decisione della Corte si basa sul principio giurisprudenziale secondo cui la convivenza non è sufficiente a dimostrare il danno parentale. È necessario provare piuttosto la dedizione e l’assistenza morale e materiale fornite, come nel caso in esame. Il vincolo di sangue quindi non è essenziale per il riconoscimento del danno parentale; ciò che conta è l’esistenza di una relazione affettiva stabile e duratura, indipendentemente dalla consanguineità.

 

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mutuo solutorio

Mutuo solutorio valido: lo dice la Cassazione Sezioni Unite: valido il mutuo solutorio, è presente la disponibilità delle somme in favore del mutuatario

Mutuo solutorio valido: presente la datio rei giudica

Il mutuo solutorio, contratto per estinguere un debito precedente con la banca è legittimo e produce la “datio rei giuridica” che caratterizza il mutuo, anche se le somme accreditate sul conto vengono immediatamente e automaticamente impiegate dall’istituto di credito per estinguere gli obblighi precedenti. Lo hanno chiarito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 5841/2025.

Decreto ingiuntivo pagamento mutui: opposizione

Un istituto di credito ottiene un decreto ingiuntivo perché ha concesso diversi mutui ai medesimi soggetti e gli stessi non sono ancora rientrati nel pagamento. I clienti però si oppongono al decreto ingiuntivo, contestando la richiesta di pagamento. Per gli opponenti la condotta della banca deve ritenersi illegittima perché la stessa ha solo “apparentemente” erogato le somme concesse a titolo di mutuo. Le somme infatti non sono mai uscite dalle casse dell’istituto poiché utilizzate per estinguere i mutui e le aperture di credito concesse in precedenza.

Il Giudice di primo grado accoglie in parte l’opposizione e limita l’efficacia del titolo esecutivo a un determinato importo. La Corte d’Appello invece rigetta l’appello sollevato dai clienti della banca.

Nella sentenza il giudice di secondo grado precisa infatti che: il fatto che l’importo erogato fosse stato utilizzato per estinguere i precedenti debiti ipotecari era legittimo e non privava il mutuo della sua causa in concreto.”

Le parti soccombenti però non desistono e ricorrono in Cassazione precisando che nel caso di specie non si è verificata la tradito della somma con conseguente disponibilità delle stesse sul conto. La banca si sarebbe infatti riappropriata delle somme e dall’estratto conto si evince chiaramente un mero giroconto bancario e non l’erogazione di un mutuo.

Dubbi interpretativi sul mutuo solutorio

La seconda sezione della Cassazione nell’ordinanza interlocutoria rileva che i primi due motivi del ricorso sollevano questioni decisive sul mutuo solutorio, sul quale la giurisprudenza della stessa Corte non risulta uniforme.

Nel caso di specie ci si chiede se il ripianamento delle passività pregresse, effettuato dalla banca in modo autonomo e immediato mediante operazione di giroconto, come contestato dai ricorrenti, possa soddisfare il requisito della disponibilità giuridica della somma in favore del mutuatario. In particolare, ci si domanda se tale ripianamento possa configurare una modalità di utilizzo dell’importo mutuato, effettivamente entrato nella disponibilità del mutuatario.

Le Su dovrebbero quindi rispondere ai seguenti quesiti:

  • il mutuo solutorio è valido?
  • in caso di risposta positiva al primo quesito il contratto costituisce titolo esecutivo?
  • in caso di risposta affermativa ai due quesiti precedenti infine è valido anche il ripianamento delle passività di mutuo eseguito con un mero giroconto “autonomo e immediato” ossia senza il consenso del mutuatario?

Mutuo solutorio: tesi contrapposte

La Corte di Cassazione a SU prima di decidere ricorda le affermazioni dei due opposti orientamenti.

  • Per il primo orientamento il mutuo solutorio è valido, l’accredito delle somme sul conto integra la datio rei del mutuo, l’effettività della tradito è dimostrata dall’utilizzo del denaro per estinguere il debito esistente, per cui il patrimonio del debitore viene purgato da una posta negativa. Il ripianamento delle passività rappresenta infatti uno dei modi con i quali la somma erogata a mutuo può essere impiegata e tale utilizzo non è illecito. Il mutuo solutorio quindi consiste in una mera dilazione del termine di pagamento del debito preesistente o un pactum de non petendo.
  • Per l’orientamento opposto invece per il perfezionamento del mutuo è necessario che si verifichi il passaggio effettivo delle somme dal mutuante al mutuatario perché in questo modo si verifica l’effettiva acquisizione delle somme. Tale ipotesi non può verificarsi infatti se la banca impiega subito le somme per ripianare il mutuo precedente. In sostanza senza un trasferimento effettivo della proprietà delle somme non c’è acquisizione delle stesse e quindi non c’è l’obbligo di restituirle.

La soluzione delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite pongono fine al contrasto affermando che il contratto di mutuo si perfeziona e l’obbligo di restituzione sorge in capo al mutuatario nel momento in cui la somma mutuata, pur non essendo materialmente consegnata, è resa giuridicamente disponibile al mutuatario tramite accredito sul conto corrente. Non è rilevante che tali somme siano immediatamente utilizzate per saldare debiti pregressi con la banca mutuante, poiché tale destinazione è il risultato di atti dispositivi distinti e separati dal contratto stesso. Anche in caso di tale utilizzo, il contratto di mutuo, noto come mutuo solutorio, costituisce un valido titolo esecutivo se rispetta i requisiti dell’articolo 474 del codice di procedura civile.

 

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rapporto nonni-nipoti

Rapporto nonni-nipoti: un genitore può chiedere di regolarlo Rapporto nonni-nipoti: se nel corso della separazione giudiziale un genitore si oppone l’altro può chiedere che venga regolato

Regolamentato il rapporto nonni-nipoti

La Cassazione, con l’ordinanza n. 3539/2025, ha chiarito che in un giudizio di separazione, un genitore può chiedere al giudice di regolamentare il rapporto nonni -nipoti, se l’altro genitore li impedisce. Questo diritto esiste nonostante l’articolo 317-bis del Codice civile, che riconosce ai nonni il diritto di vedere i nipoti e di rivolgersi direttamente al Tribunale per i Minorenni. Per la Cassazione i genitori, responsabili legali dei figli, possono agire per tutelare l’interesse dei minori a mantenere rapporti con i nonni, anche durante una separazione.

Inammissibile la richiesta sul rapporto con i nonni

Una separazione giudiziale si conclude in primo grado con l’affido congiunto dei minori con domicilio prevalente presso la madre e con la regolamentazione del diritto di visita del padre. Il giudice obbliga inoltre il padre a versare l’importo mensile di 650 euro per il contributo al mantenimento dei figli e della moglie.

L’uomo ricorre la decisione in sede di appello dolendosi delle decisioni e della mancata pronuncia sulla domanda relativa alla conservazione dei rapporti dei minori con i parenti e nonni della linea paterna. La Corte d’appello dichiarata inammissibile questa richiesta poiché solo i parenti pretermessi possono formulare detta richiesta.

Ricorso per regolazione rapporti nonni-nipoti

Il padre e marito ricorre la decisione in Cassazione e con il quarto motivo contesta le conclusioni a cui è giunta la Corte d’Appello nel punto in cui gli ha negato la possibilità di chiedere la regolamentazione dei rapporti dei figli con i nonni e i parenti della linea paterna.

Diritto al rapporto dei minori con gli ascendenti

Per la Cassazione questo motivo di ricorso è fondato. Gli Ermellini ricordano a tale fine che l’articolo 317 bis del codice civile riconosce agli ascendenti il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. Se tale diritto viene impedito, l’ascendente può rivolgersi al giudice, ricordando che, in ogni caso, la legge pone l’interesse del minore al di sopra di ogni altro diritto.

Questa norma quindi non si applica nei giudizi di separazione o divorzio, dove i genitori rappresentano esclusivamente i figli. Sono gli ascendenti a dover avviare un procedimento separato se vogliono conservare la relazione con i minori.

La Cassazione ricorda di aver già chiarito che il diritto dei nipoti a mantenere rapporti con gli ascendenti non modifica i giudizi di separazione o divorzio. I nonni non possono infatti intervenire in queste  cause per sostenere le ragioni dell’uno o dell’altro genitore. Solo i genitori possono agire per questioni relative alla responsabilità genitoriale.

Tutela rapporto con i minori

Se poi la questione di tutelare il rapporto con i minori sorge, come nel caso di specie, nel corso della procedura di separazione esche l’altro genitore ostacola questa relazione, allora l’altro genitore può richiedere la regolamentazione dei rapporti tra nipoti e ascendenti.

La Cassazione ricorda che la Corte Costituzionale ha stabilito che le controversie relative all’articolo 317 bis del codice civile, che riguardano il diritto degli ascendenti a conservare rapporti significativi con i nipoti minorenni, sono di competenza del Tribunale per i Minorenni e che pertanto non è possibile unire tali controversie ai giudizi di separazione o divorzio.

Le parti e gli interessi in gioco sono diversi e unendoli si rischierebbe di aumentare la conflittualità tra i coniugi e di complicare l’ascolto dei minori.

In conclusione, nei giudizi di separazione, il genitore può chiedere la regolamentazione dei rapporti tra nipoti e ascendenti se l’altro genitore lo ostacola.

 

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