responsabilità del notaio

La responsabilità del notaio Responsabilità del notaio: cos'è, tipologie di responsabilità, obbligo assicurativo e prescrizione della responsabilità notarile

Cos’è la responsabilità del notaio

La responsabilità del notaio costituisce uno dei profili centrali dell’attività notarile, data la delicatezza e l’importanza degli atti pubblici da lui redatti. Il notaio, in quanto pubblico ufficiale e professionista liberale, è soggetto a un regime di responsabilità articolato e rigoroso, che copre sia l’aspetto pubblicistico, connesso alla funzione certificativa, sia quello privatistico, legato al rapporto con il cliente.

La responsabilità del notaio si configura quando quest’ultimo viola obblighi di legge o doveri professionali nell’esercizio delle proprie funzioni, arrecando un danno patrimoniale o morale a terzi o alle parti coinvolte nell’atto notarile.

La sua attività è regolata, oltre che dalla normativa civilistica generale, dalla:

  • Legge notarile (L. 89/1913);
  • Codice civile (artt. 1176, 1218, 2043, 2236 c.c.);
  • Codice deontologico notarile.

Il notaio è tenuto a garantire legalità, validità e certezza dell’atto, assumendo un ruolo di garanzia per tutte le parti. È responsabile non solo di errori formali, ma anche di mancati controlli e omissioni informative che avrebbero potuto evitare l’insorgenza di contenziosi.

Tipologie di responsabilità del notaio

La responsabilità notarile può articolarsi in diverse forme, ciascuna con proprie caratteristiche e conseguenze:

1. Responsabilità civile

La responsabilità civile deriva dalla violazione di obblighi contrattuali o extracontrattuali che causano un danno economicamente quantificabile al cliente o a terzi.

Si distinguono:

  • Responsabilità contrattuale: in virtù del contratto d’opera professionale (art. 2230 c.c.), il notaio risponde ai sensi degli articoli 1176 e 1218 c.c., con una presunzione di colpa a suo carico.
  • Responsabilità extracontrattuale: si applica nei confronti dei terzi danneggiati, ex art. 2043 c.c., che devono dimostrare il fatto illecito, il danno e il nesso causale.

Esempi pratici:

  • mancata iscrizione dell’ipoteca o della trascrizione dell’atto;
  • mancato controllo della libertà dell’immobile da vincoli;
  • omessa verifica dell’identità o della capacità giuridica delle parti.

2. Responsabilità penale

Il notaio può incorrere in responsabilità penale nei casi di comportamenti illeciti che integrano reati propri del pubblico ufficiale, come:

  • falsità ideologica in atto pubblico (art. 479 c.p.);
  • omessa denuncia di reati o falsità materiale;
  • concussione o corruzione, se abusano della funzione.

3. Responsabilità disciplinare

Il notaio è sottoposto anche a controlli deontologici e disciplinari da parte del Consiglio notarile di appartenenza. Può essere sanzionato per:

  • negligenza professionale;
  • condotta non conforme al decoro e alla dignità della funzione;
  • violazione del segreto professionale;
  • mancata conservazione dei repertori e dei registri.

Le sanzioni vanno dall’avvertimento alla sospensione, fino alla destituzione nei casi più gravi.

L’obbligo assicurativo del notaio

Il notaio, ai sensi della legge n. 89/2013ha l’obbligo di stipulare una polizza assicurativa per la responsabilità civile professionale.

Questa assicurazione:

  • copre i danni causati nell’esercizio dell’attività notarile;
  • è condizione necessaria per l’esercizio della professione;
  • garantisce tutela ai clienti e alle controparti in caso di errori o omissioni.

L’importo minimo della copertura è fissato dal Consiglio Nazionale del Notariato e varia in base al volume d’affari del professionista. Alcune polizze includono anche la copertura per il personale dipendente dello studio.

La prescrizione della responsabilità del notaio

I termini di prescrizione per la responsabilità del notaio variano in base alla natura del rapporto:

Contrattuale:

  • Il termine è di 10 anni, ex art. 2946 c.c., decorrenti dal momento in cui il cliente ha effettiva conoscenza del danno e della condotta causale del professionista.

Extracontrattuale:

  • La responsabilità verso terzi si prescrive in 5 anni, ai sensi dell’art. 2947 c.c.

Tuttavia, in presenza di reato, la responsabilità può prescriversi nei termini previsti per il reato medesimo, con possibilità di estensione.

 

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lettera di patronage

Lettera di patronage Lettera di patronage: cos'è, normativa, funzione, tipologie, differenze con la fideiussione e modello

Cos’è la lettera di patronage

La lettera di patronage è uno strumento giuridico atipico e largamente utilizzato nella pratica commerciale, soprattutto in ambito bancario e finanziario. Sebbene non espressamente disciplinata dal codice civile, essa assume una rilevanza fondamentale nel garantire indirettamente il rispetto di obbligazioni assunte da società controllate o partecipate, tramite l’intervento della società capogruppo (patron).

Essa consiste in una dichiarazione unilaterale con cui una società (generalmente la holding o capogruppo) esprime il proprio impegno morale o giuridico a sostenere un soggetto terzo (di solito una società controllata) nell’adempimento di obbligazioni contrattuali assunte verso un creditore (es. una banca o un fornitore).

Il suo scopo è quello di rafforzare l’affidabilità del debitore principale, senza ricorrere a una garanzia vera e propria, come accade con la fideiussione.

Normativa di riferimento

La lettera di patronage è un negozio atipico e, pertanto, non regolato da specifiche norme del codice civile. Tuttavia, trova applicazione nei principi generali del diritto contrattuale (artt. 1321 e ss. c.c.), nel principio di buona fede (art. 1375 c.c.) e, in caso di inadempimento, nei criteri di responsabilità precontrattuale o extracontrattuale (artt. 2043 e 1218 c.c.).

Funzione della lettera di patronage

Lo scopo principale della lettera di patronage è quello di rassicurare il creditore circa la solidità e l’affidabilità del debitore. In particolare, la società madre si impegna, a seconda dei casi, a:

  • fornire supporto finanziario alla controllata;
  • mantenere il controllo societario su di essa;
  • evitare situazioni che compromettano l’adempimento dell’obbligazione contrattuale;
  • in alcuni casi, a garantire direttamente o indirettamente il pagamento.

Tipologie di lettere di patronage: forti e deboli

Le lettere di patronage si distinguono in due categorie principali, che determinano il livello di vincolatività dell’impegno assunto.

1. Lettere di patronage forti

  • Contengono un impegno giuridicamente vincolante.
  • La società patron si obbliga a garantire o a intervenire direttamente in caso di inadempimento.
  • Possono generare una responsabilità contrattuale in caso di inadempimento.
  • Hanno un contenuto simile a una fideiussione attenuata, ma restano strumenti distinti.

2. Lettere di patronage deboli

  • Esplicitano un mero impegno morale o di buona fede.
  • La società capogruppo non assume un’obbligazione esecutiva, ma solo un dovere di vigilanza o supporto.
  • In caso di inadempimento, la responsabilità è extracontrattuale o precontrattuale, più difficile da provare.

Differenze tra lettera di patronage e fideiussione

Aspetto

Lettera di patronage

Fideiussione

Natura giuridica

Negozio atipico

Contratto tipico (art. 1936 c.c.)

Impegno assunto

Morale o giuridico, a seconda del tipo

Impegno diretto e giuridicamente vincolante

Azionabilità in giudizio

Solo se “forte” o se provata responsabilità

Sempre azionabile in caso di inadempimento

Registrazione e forma

Libera, spesso in forma scritta

Forma scritta richiesta ex art. 1937 c.c.

Diffusione d’uso

Rapporti bancari, leasing, forniture

Obbligazioni garantite formalmente

Fac-simile di lettera di patronage (debole)

La redazione accurata del testo è fondamentale per evitare ambiguità e contenziosi, specie nel distinguere tra lettere deboli e forti. È sempre consigliabile avvalersi dell’assistenza di un avvocato esperto in contrattualistica per redigere o valutare simili documenti. Il modello fornito è un’esemplificazione da utilizzare puramente come spunto.

[Ragione Sociale – Società Capogruppo]

[Indirizzo]

[CAP – Città]

[Telefono – Email]

Alla cortese attenzione di

[Nome della Banca o del Fornitore]

[Indirizzo]

Oggetto: Lettera di patronage in favore di [Ragione sociale della controllata]

Gentili Signori,

con la presente, la scrivente [Società Capogruppo], in qualità di azionista di controllo della società [Società controllata], dichiara di essere a conoscenza del rapporto contrattuale instaurato tra quest’ultima e la Vostra spettabile società, relativo a [breve descrizione del contratto].

In tale contesto, la scrivente conferma il proprio interesse al buon esito dell’operazione e si impegna, nei limiti delle proprie possibilità, a mantenere il controllo societario su [Società controllata], affinché siano create le condizioni per il regolare adempimento degli obblighi contrattuali assunti dalla medesima.

La presente non costituisce garanzia ai sensi degli artt. 1936 e ss. c.c., né potrà essere interpretata come assunzione di obblighi patrimoniali diretti a favore della Vostra società.

Cordiali saluti,

[Luogo e data]

[Firma del Legale Rappresentante]

 

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giunto tecnico condominiale

Il giunto tecnico condominiale Giunto tecnico condominiale: definizione, funzione, normativa e ripartizione delle spese

Che cos’è un giunto tecnico o giunto strutturale

Il giunto tecnico condominiale, anche noto come giunto strutturale, è un’interruzione fisica progettata tra due edifici contigui o tra due parti dello stesso edificio per evitare che, in caso di sollecitazioni meccaniche o movimenti strutturali (come terremoti, dilatazioni termiche o assestamenti del terreno), le strutture entrino in contatto diretto danneggiandosi reciprocamente. In particolare, esso previene il cosiddetto martellamento, ovvero l’urto tra edifici adiacenti con differenti risposte dinamiche.

Il giunto strutturale può essere visibile (ad esempio con un profilo metallico o un elemento elastico di copertura) oppure nascosto, in ogni caso è essenziale per garantire la sicurezza statica e l’autonomia strutturale delle costruzioni.

A cosa serve il giunto tecnico in un condominio

Nel contesto condominiale, il giunto tecnico svolge quindi una duplice funzione:

  • strutturale: garantisce l’indipendenza statica delle unità immobiliari, soprattutto in edifici pluriblocco costruiti con corpi di fabbrica separati;
  • funzionale: evita infiltrazioni d’acqua, dispersioni termiche o rumori, grazie all’inserimento di materiali flessibili, guarnizioni o profili metallici.

Oltre alla funzione edilizia e strutturale, il giunto strutturale ha quindi anche un’importanza ai fini della manutenzione dell’involucro edilizio e della sicurezza abitativa.

Normativa di riferimento

Sebbene non esista una normativa codificata specifica per il giunto strutturale in ambito condominiale, il suo utilizzo è prescritto dalle Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC 2018), approvate con D.M. 17 gennaio 2018, che impongono l’adozione di distacchi adeguati tra edifici per garantire la sicurezza sismica.

In ambito condominiale, il giunto tecnico assume rilevanza anche in relazione ad alcuni articoli del codice civile, che riguardano le spese per i beni comuni:

  • Art. 1117 c.c. (beni comuni);
  • Art. 1123 c.c. (criteri di ripartizione delle spese);
  • Art. 1134 c.c. (spese urgenti).

Come si ripartiscono le spese per il giunto tecnico

Una questione delicata riguarda  la ripartizione delle spese per la manutenzione o sostituzione del giunto tecnico.

La giurisprudenza e la dottrina più accreditata, come emerge anche dalla sentenza Cassazione civile n. 8292/2000 ritengono che le spese per la conservazione del valore capitale mirano a garantire o ripristinare l’integrità del bene e si basano sulla proprietà, suddividendosi proporzionalmente alle quote. Queste spese, indipendenti dai vantaggi personali derivanti dall’utilizzo del bene, rispondono a una funzione oggettiva legata alla tutela del capitale. Le spese legate all’uso dipendono invece dal godimento soggettivo e personale del bene e sono ripartite in proporzione al grado di utilizzo, riflettendo la funzione e il fondamento specifici del godimento. Ne consegue che  qualora i giunti strutturali richiedano interventi di manutenzione, le decisioni relative e le spese devono essere sostenute dai condomini coinvolti, salvo diverso accordo stipulato, in base ai millesimi di proprietà. In questo modo si garantisce una distribuzione proporzionata alle quote di ciascun condomino.

Sull’argomento si segnala anche la recente sentenza della Corte d’appello di Bari n. 457/2025, la quale ha affermato che il giunto tecnico, essendo un elemento essenziale per l’intera struttura, comporta una ripartizione proporzionale delle spese tra i condomini. La Suprema Corte del resto ha stabilito che interventi su pilastri di edifici separati da giunti tecnici, necessari a sostenere non solo l’edificio, ma anche parti comuni come porticati, seguono il criterio di ripartizione previsto dall’art. 1123 c.c. Tutti i condomini devono quindi contribuire “pro-quota” alle spese, indipendentemente dal diritto di proprietà.

condizione risolutiva

La condizione risolutiva Condizione risolutiva: cos’è, normativa, funzionamento, differenze con la clausola risolutiva espressa, giurisprudenza

Cos’è la condizione risolutiva

La condizione risolutiva è una clausola contrattuale che prevede l’estinzione di un contratto se si verifica un determinato evento futuro e incerto. Essa si distingue dalla condizione sospensiva, che condiziona l’efficacia al verificarsi di un evento futuro.

La condizione risolutiva infatti opera quando il contratto è già in vigore e cessa di avere effetto quando si verifica l’evento condizionante. La condizione risolutiva permette, dunque, di “annullare” l’effetto del contratto al verificarsi dell’evento stabilito. Non c’è quindi la necessità di risolvere giudizialmente l’accordo.

Normativa di riferimento

La condizione risolutiva è disciplinata dal Codice Civile Italiano, dall’articolo 1359 c.c, che si occupa delle condizioni contrattuali. Esso stabilisce che “La condizione può essere sospensiva o risolutiva. La condizione risolutiva è quella che determina la cessazione dell’efficacia del contratto se si verifica l’evento futuro e incerto.”

Il Codice Civile non fornisce una definizione dettagliata di condizione risolutiva. Esso si limita stabilire che la stessa produce un effetto automatico, senza bisogno di il ricorrere a una pronuncia giudiziale.

Come funziona la condizione risolutiva

Il funzionamento di questa condizione, da quanto detto finora, è piuttosto semplice. Un contratto può prevedere che, al verificarsi di un determinato evento futuro (ma non certo), questo faccia cessare gli effetti del contratto stesso. Questo significa che, una volta che la condizione si realizza, il contratto si estingue automaticamente. Non sono necessarie cioè comunicazioni o formalizzazione ulteriori.

Esempio di applicazione pratica

Immaginiamo un contratto di vendita sottosto alla condizione del conseguimento del finanziamento da parte dell’acquirente. Se, nel termine stabilito, l’acquirente non ottiene il prestito necessario, il contratto si risolve automaticamente, senza la necessità di una dichiarazione formale da parte delle parti.

Questo tipo di clausola viene utilizzato soprattutto quando le parti vogliono tutelarsi contro il rischio di un imprevisto che potrebbe rendere il contratto inefficace. La condizione risolutiva, dunque, offre maggiore flessibilità rispetto a un contratto definitivo.

Differenza con la clausola risolutiva espressa

La condizione risolutiva viene spesso confusa con la clausola risolutiva espressa, che è una clausola tipica dei contratti stipulati tra le parti. Sebbene entrambe abbiano la funzione di determinare la risoluzione di un contratto, le due sono concettualmente diverse e si applicano in contesti distinti.

La condizione risolutiva si applica quando il contratto prevede che si annulli o cessi di essere efficace al verificarsi di un evento futuro e incerto. Non è necessaria una decisione delle parti per risolvere il contratto, esso si scioglie automaticamente. In un contratto di vendita, ad esempio se la condizione risolutiva è subordinata alla mancata concessione del finanziamento all’acquirente, il contratto si risolve automaticamente.

La clausola risolutiva espressa, invece, prevede che il contratto venga risolto in maniera automatica e immediata se una delle parti non adempie a una determinata obbligazione, senza necessità di una condizione sospensiva. La differenza fondamentale con la condizione risolutiva è che la clausola risolutiva espressa agisce per inadempimento di una delle parti. Se in un contratto di appalto l’appaltatore non esegue una prestazione essenziale, la clausola risolutiva espressa farà cessare automaticamente l’efficacia del contratto, senza che ci sia bisogno di un intervento giudiziale.

In sintesi la condizione risolutiva dipende dal verificarsi di un evento futuro e incerto, mentre la clausola risolutiva espressa dipende dall’inadempimento o dalla violazione di un obbligo espressamente pattuito nel contratto.

Giurisprudenza sulla condizione risolutiva

La giurisprudenza italiana ha avuto numerosi pronunciamenti sul tema della condizione risolutiva, chiarendo il suo funzionamento in vari ambiti. Ecco alcuni esempi significativi.

Cassazione n. 24318/2022

La clausola inserita nel preliminare di vendita, che prevede la risoluzione automatica del contratto se i permessi di costruzione non vengono rilasciati entro una data stabilita per cause indipendenti dalla volontà delle parti, configura una condizione risolutiva. Ciò significa che l’efficacia del contratto è subordinata a un evento futuro e incerto, ovvero il rilascio dei permessi entro il termine concordato. Se tale evento non si verifica, il contratto si considera risolto fin dall’origine, come se non fosse mai stato stipulato, senza necessità di ulteriori azioni da parte dei contraenti. La clausola non attribuisce al venditore la facoltà di sciogliersi unilateralmente dal contratto, ma stabilisce una conseguenza automatica al verificarsi di una circostanza oggettiva.

Cassazione n. 21427/2022

Se una parte viola l’obbligo di agire in buona fede durante il periodo in cui una condizione sospensiva è pendente, come richiesto dall’articolo 1358 del codice civile, il momento in cui si verifica tale violazione, che è fondamentale per calcolare il danno risarcibile e quando inizia a decorrere, non è quando la parte in malafede chiede al giudice di annullare il contratto (che era già diventato inefficace perché la condizione non si è verificata). Piuttosto, il momento rilevante è l’ultimo istante in cui si può dimostrare che la parte non ha fatto ciò che era necessario per permettere alla condizione di avverarsi. In altre parole, il danno viene calcolato a partire dal momento in cui la parte ha smesso di agire in buona fede, non da quando ha cercato di sfruttare la situazione in tribunale.

Cassazione n. 9550/2018

Quando un contratto è soggetto a una condizione, sia essa sospensiva (che ne ritarda l’efficacia) o risolutiva (che ne determina la cessazione), e le parti non stabiliscono un termine preciso per il verificarsi di tale condizione, la legge interviene per evitare situazioni di incertezza prolungata. In questi casi, se trascorre un periodo di tempo considerato ragionevolmente sufficiente senza che la condizione si avveri (nel caso di condizione sospensiva) o si verifichi (nel caso di condizione risolutiva), una delle parti può rivolgersi al giudice per ottenere una dichiarazione di inefficacia del contratto. Il giudice, valutando le circostanze specifiche e la natura dell’evento condizionante, determinerà se il tempo trascorso è da considerarsi eccessivo, portando così alla caducazione del contratto. In sostanza, anche in assenza di un termine esplicito, la legge prevede un limite temporale implicito, volto a garantire la certezza dei rapporti giuridici.

 

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danno endofamiliare

Il danno endofamiliare Danno endofamiliare: cos’è, normativa, presupposti, tipologie, quantificazione, prescrizione del diritto risarcitorio

Cos’è il danno endofamiliare

Il danno endofamiliare rappresenta la conseguenza di una particolare ipotesi di responsabilità civile, che si verifica in ambito familiare. Si tratta di un danno non strettamente patrimoniale, causato da un comportamento illecito di un componente della famiglia che viola i doveri derivanti dal rapporto familiare. La sua risarcibilità è stata oggetto di un’evoluzione giurisprudenziale significativa, culminata in un riconoscimento sempre più ampio da parte della Corte di Cassazione.

Con il termine “danno endofamiliare” si indica il pregiudizio che una persona subisce all’interno della propria famiglia a causa della violazione dei doveri giuridici derivanti dai rapporti familiari, così come delineati dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, nonché dagli articoli 143 e ss. del Codice civile. Esempi classici di danno familiare sono quelli che conseguono alle seguenti condotte:

  • violenze domestiche;
  • tradimento coniugale lesivo della dignità del partner;
  • privazione affettiva nei confronti dei figli;
  • abbandono della prole o del coniuge in condizione di bisogno.

Normativa di riferimento

Non esiste una norma codificata che disciplini espressamente il danno endofamiliare. Tuttavia, il suo riconoscimento si fonda sull’interpretazione sistematica delle seguenti disposizioni:

  • Art. 2043 c.c.: prevede l’obbligo di risarcire ogni fatto illecito che cagiona un danno ingiusto;
  • Art. 2059 c.c.: legittima il risarcimento del danno non patrimoniale nei casi previsti dalla legge;
  • Art. 143 c.c. e ss.: sancisce i doveri coniugali e genitoriali;
  • Art. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost.: proteggono i diritti inviolabili della persona e i diritti della famiglia.

Fondamentale è stata la Cassazione a Sezioni Unite n. 26972/2008, che ha chiarito che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi previsti dalla legge, ma anche quando sussiste una lesione grave di diritti inviolabili della persona.

Presupposti risarcimento danno endofamiliare

Perché il danno endofamiliare sia risarcibile è necessario che sussistano i seguenti elementi:

  1. vi sia una condotta illecita da parte di un componente della famiglia;
  2. la condotta violi obblighi giuridici derivanti da norme costituzionali o codicistiche;
  3. la lesione riguardi diritti inviolabili della persona (es. salute, dignità, integrità morale);
  4. il danno sia serio, grave e ingiusto e non si configuri come un semplice disagio o sofferenza passeggera.

La giurisprudenza esclude il risarcimento in caso di meri conflitti o attriti fisiologici nella vita familiare.

Tipologie di danno risarcibile

Il danno endofamiliare può assumere forme differenti:

  • danno biologico: lesione alla salute psicofisica;
  • danno morale: sofferenza interiore provocata dalla violazione del rapporto affettivo.
  • danno esistenziale: alterazione delle abitudini di vita e del progetto esistenziale.

Quantificazione del danno endofamiliare

La quantificazione del danno endofamiliare avviene in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., e si basa su criteri oggettivi e soggettivi:

  • gravità della condotta;
  • durata della lesione;
  • intensità del vincolo affettivo leso;
  • prova documentale e testimoniale;
  • eventuale presenza di patologie collegate al trauma (es. disturbi post-traumatici).

Prescrizione del diritto al risarcimento

Il diritto al risarcimento del danno endofamiliare si prescrive in 5 anni, ai sensi dell’art. 2947, comma 1, c.c., decorrenti dal momento in cui il fatto si è verificato. In caso di reato, si applica il termine più lungo previsto per l’azione penale, ex art. 2947, comma 3, c.c.

 

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supercondominio

Il supercondominio Supercondominio: cos'è, requisiti, obbligatorietà, differenze con il condominio parziale, ripartizione spese e giurisprudenza

Cos’è il supercondominio?

Il supercondominio è un tipo particolare di condominio, che insorge  quando più edifici, aventi parti comuni, sono organizzati in un unico complesso. Questo istituto, disciplinato dall’art. 1117-bis c.c., si applica quando più condomini condividono spazi, strutture o servizi comuni, rendendo necessaria una gestione unitaria per la loro amministrazione e ripartizione delle spese.

Il supercondominio sorge in pratica quando più condomini condividono parti comuni come strade, parcheggi, impianti di illuminazione, fognature, ingressi, giardini o servizi comuni. Trattasi di una struttura sovraordinata che regola i rapporti tra singoli condomini appartenenti a edifici distinti, ma collegati da elementi comuni.

Il supercondominio è una realtà sempre più diffusa nei grandi complessi residenziali e richiede una gestione attenta e strutturata. La sua disciplina è simile a quella del condominio ordinario, ma con alcune peculiarità.

La Cassazione ha ribadito più volte l’obbligo di una gestione unitaria, specialmente in relazione alle spese e alla nomina dell’amministratore. È quindi fondamentale conoscere le norme applicabili per evitare conflitti tra condomini e garantire una corretta amministrazione.

Esempi pratici di supercondominio

  • un complesso residenziale formato da più palazzine con un unico ingresso, un vialetto d’accesso e un parcheggio comune;
  • un gruppo di edifici che condividono un’area verde o un impianto idrico centralizzato;
  • un residence con più unità abitative e un sistema di sicurezza comune.

Requisiti per la nascita del supercondominio

Secondo la giurisprudenza, il supercondominio nasce ipso iure et facto, ossia automaticamente, quando più condomini utilizzano e godono di beni e servizi comuni. Non è necessario un atto costitutivo formale, poiché la sua esistenza dipende dalla presenza di elementi comuni tra edifici autonomi.

Alla luce di quanto detto finora i requisiti fondamentali per il suo riconoscimento sono:

  • pluralità di condomini: devono esserci almeno due distinti condomini;
  • esistenza di parti comuni: devono essere presenti beni o servizi ad utilizzo collettivo;
  • una gestione unitaria, indispensabile a causa della condivisione di elementi comuni.

Il supercondominio è obbligatorio?

La legge non rende obbligatoria la formazione di un supercondominio. Ciò nonostante, nel caso in cui diversi edifici condividano servizi indispensabili, ad esempio reti idriche o impianti di riscaldamento, costituire un supercondominio si rivela frequentemente necessario per assicurare una gestione efficace e una divisione dei costi equa.

Differenza tra condominio parziale e supercondominio

È fondamentale distinguere tra condominio parziale e supercondominio, poiché spesso i due concetti vengono confusi.

Aspetto

Condominio Parziale

Supercondominio

Definizione

Un condominio in cui solo alcuni condomini utilizzano un bene comune.

Più condomini distinti che condividono strutture comuni.

Normativa

Art. 1123, comma 3, c.c.

Art. 1117-bis c.c.

Nascita

Non è automatico, ma deriva da una specifica suddivisione delle spese.

Nasce automaticamente se ci sono beni comuni tra più condomini.

Gestione

L’amministrazione riguarda solo alcuni condomini.

Necessita di un’amministrazione unica per le parti comuni.

Un esempio pratico di condominio parziale è una palazzina in cui solo alcuni condomini beneficiano dell’ascensore o del garage, mentre gli altri no. In questo caso, solo chi ne usufruisce dovrà partecipare alle spese di gestione e manutenzione.

Ripartizione delle spese  

La gestione economica del supercondominio segue le regole generali del condominio. Le spese vengono suddivise tra i condomini in base alle regole sancite dall’art. 1123 c.c, ossia in base al valore della groprietò di ciascuno, all’uso che ciascuno può farne e all’utilità che il gruppo di condomini ne trae.

Le principali categorie di spesa sono rappresentate dalle:

  • spese ordinarie: manutenzione di vialetti, illuminazione, aree verdi;
    spese straordinarie: ristrutturazioni, rifacimento fognature, sostituzione di impianti comuni.
    spese di amministrazione: compenso dell’amministratore del supercondominio, assicurazione, spese legali.

Se il regolamento di supercondominio prevede un fondo speciale per le spese straordinarie, i contributi dovranno essere versati in base ai criteri stabiliti dallo stesso.

Giurisprudenza 

La giurisprudenza ha consolidato diversi principi in materia di supercondominio, chiarendo aspetti fondamentali della sua gestione e regolamentazione.

Cassazione n. 8254/2025:  l’articolo 67 delle disposizioni di attuazione del codice civile stabilisce che nei supercondomini o complessi con più di 60 partecipanti, ogni condominio è obbligato a nominare un proprio rappresentante per le decisioni ordinarie sulle parti comuni e per la nomina dell’amministratore. Questa nomina deve avvenire con la maggioranza prevista dall’articolo 1136, quinto comma, del codice civile. Se un condominio non nomina il suo rappresentante, ogni condomino di quel condominio può rivolgersi al giudice affinché provveda alla nomina. Allo stesso modo, se alcuni condominii non designano il loro rappresentante, il tribunale può nominarli su richiesta anche di uno solo dei rappresentanti già designati. In sostanza, la legge impone una delega collettiva obbligatoria attraverso la figura del rappresentante per semplificare la gestione nei supercondomini più grandi.

Cassazione n. 22954/2022: Per riscuotere le quote dovute per la manutenzione dei beni comuni del supercondominio, l’amministratore deve rivolgersi direttamente ai proprietari delle singole unità immobiliari.

Cassazione n. 32237/2019: un supercondominio si costituisce automaticamente (“ipso iure et facto”) quando più edifici, anche se già organizzati in condomini separati, sono legati da beni o servizi comuni essenziali (manufatti, impianti, servizi) che impedirebbero ai singoli edifici di funzionare autonomamente. La definizione di “supercondominio” riprende quella di condominio, applicandola a una pluralità di edifici. Il legame di dipendenza tra le parti comuni che servono e gli edifici serviti fa sì che si applichino le norme specifiche del condominio anziché le regole generali sulla comunione dei beni.

Cassazione n. 15262/2018: Se un immobile privato subisce danni a causa di beni o parti comuni di uno specifico edificio all’interno di un complesso supercondominiale, l’unico soggetto responsabile legalmente è quel particolare condominio. Pertanto, l’azione legale va indirizzata verso quell’amministrazione condominiale, rappresentata dal suo amministratore, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo possa essere anche l’amministratore del supercondominio.

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danno emergente e lucro cessante

Danno emergente e lucro cessante Danno emergente e lucro cessante: cosa sono, differenze, normativa, come si provano e sentenze della Cassazione

Danno emergente e lucro cessante: voci di danno

Il danno emergente e il lucro cessante nel diritto civile italiano, rappresentano le voci primarie di danno patrimoniale conseguenti a un illecito o a un inadempimento contrattuale, in favore di chi ha subito un pregiudizio patrimoniale

Queste due voci risarcitorie hanno finalità riparative differenti: il primo risarcisce la perdita già subita, il secondo compensa il guadagno non realizzato a causa dell’evento dannoso.

Normativa danno emergente e lucro cessante

La base normativa per la liquidazione del danno patrimoniale si trova in due disposizioni fondamentali del codice civile:

  • Art. 1223 c.c.: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore (danno emergente) come il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.
  • Art. 2056 c.c., applicabile in materia di responsabilità extracontrattuale, rinvia ai criteri degli articoli precedenti in tema di danno da inadempimento. In dettaglio la norma dispone infatti che: “Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223 12261227.2. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.”

Queste disposizioni richiedono che il danno sia causato direttamente e immediatamente dall’evento lesivo, escludendo i pregiudizi indiretti o meramente eventuali.

Cos’è il danno emergente

Il danno emergente rappresenta la perdita effettiva subita dal patrimonio del danneggiato. È una voce di danno concreto, attuale e dimostrabile, legata a costi sostenuti, spese affrontate o beni danneggiati.

Esempi tipici:

  • spese mediche e farmaceutiche sostenute a seguito di un sinistro;
  • riparazione o sostituzione di beni danneggiati;
  • costi per consulenze tecniche o legali;
  • perdita di beni materiali (es. distruzione di merci, macchinari o strumenti di lavoro);
  • costi per trasferimenti o per rimediare ai danni subiti.

Come si prova

È necessario fornire documentazione probatoria come:

  • fatture, ricevute e scontrini;
  • contratti e perizie tecniche;
  • testimonianze o relazioni di professionisti.

Cos’è il lucro cessante

Il lucro cessante indica invece il mancato guadagno che il danneggiato avrebbe potuto conseguire in assenza dell’illecito o dell’inadempimento. È un danno futuro e potenziale, ma risarcibile purché sia prevedibile e ragionevolmente certo.

Esempi tipici:

  • perdita di ricavi da un’attività commerciale temporaneamente interrotta;
  • mancato profitto derivante da un contratto non concluso;
  • minore fatturato a seguito della lesione di un bene produttivo (es. fermo impianti);
  • perdita di opportunità professionali o di mercato.

Come si prova

La prova del lucro cessante è più complessa, poiché riguarda eventi non verificatisi, ma astrattamente prevedibili. La giurisprudenza richiede una prova rigorosa, basata su:

  • documenti contabili e bilanci pregressi;
  • stime economiche di esperti;
  • contratti sfumati o ordini non evasi;
  • indicatori economici coerenti con il tipo di attività.

Differenze tra danno emergente e lucro cessante

Elemento

Danno emergente

Lucro cessante

Natura

Perdita già subita

Guadagno non realizzato

Temporalità

Attuale e concreta

Futuro e potenziale

Prova

Oggettiva (ricevute, fatture)

Prospettica (stime, dati economici)

Finalità risarcitoria

Ripristino del patrimonio

Compensazione del mancato arricchimento

Esigibilità

Generalmente più semplice

Richiede elevata attendibilità delle previsioni

Come si calcolano

Per il danno emergente, il calcolo è di norma analitico, basato sulle spese effettivamente sostenute.

La quantificazione del danno secondo criteri equitativi riguarda soprattutto il lucro cessante e può essere effettuata dal giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c., quando non sia possibile la prova precisa del danno. Ai fini del calcolo del lucro cessante, si applicano in genere i seguenti criteri:

  • proiezioni storiche (es. media dei profitti passati);
  • studi di settore e perizie economico-finanziarie;
  • elementi oggettivi di confronto tra periodo precedente e successivo all’evento.

Sentenze su danno emergente e lucro cessante

Negli anni la Cassazione ha sancito importanti principi generali in materia di risarcimento del danno:

Cassazione n. 17670/2024

Il danno patrimoniale si articola in danno emergente (perdita effettiva) e lucro cessante (mancato guadagno). Queste categorie generali comprendono una molteplicità di specifiche voci di danno che possono o meno presentarsi in un determinato caso di illecito o inadempimento. Spetta al giudice di merito esaminare attentamente il caso concreto per accertare l’effettiva sussistenza di queste specifiche ripercussioni negative subite dal creditore o danneggiato, a prescindere dall’etichetta che viene loro attribuita. Il suo compito è garantire un integrale risarcimento di tutti i danni effettivamente provati. È fondamentale che il giudice consideri e risarcisca tutte le voci di danno patrimoniale esistenti e provate, senza tralasciarne alcuna, per rispettare il principio del risarcimento integrale. Tuttavia, questo principio è strettamente correlato al fatto che il responsabile è tenuto a risarcire solo i danni direttamente causati dal suo illecito o inadempimento, evitando così ingiustificate duplicazioni risarcitorie.

Cassazione n. 9277/2023

La facoltà del giudice di quantificare il danno in via equitativa (come previsto dagli articoli 1226 e 2056 del Codice Civile) è una manifestazione del suo più ampio potere discrezionale sancito dall’articolo 115 del Codice di Procedura Civile. Il giudice può esercitare questo potere autonomamente, senza bisogno di una specifica richiesta delle parti, basandosi su un principio di “equità giudiziale” che mira a correggere o integrare la valutazione del danno. Tuttavia, questo potere ha un limite fondamentale: non può supplire alla mancanza di prova né della responsabilità del debitore né dell’esistenza stessa del danno. In altre parole, il giudice non può inventare la responsabilità o l’esistenza del danno se queste non sono state provate. L’equità interviene solo nella quantificazione del danno la cui esistenza e la cui responsabilità siano già state accertate.

 

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mobbing

Il mobbing Mobbing: cos’è, quando è reato, differenze con bossing e straining, tutele e risarcimento del danno

Cos’è il mobbing

Il mobbing è un fenomeno sempre più riconosciuto nei contesti giuridici e organizzativi, caratterizzato da comportamenti sistematicamente ostili nei confronti di un lavoratore. Nonostante l’assenza di una normativa specifica, la giurisprudenza italiana ha tracciato criteri ben precisi per la sua individuazione e per il riconoscimento delle tutele risarcitorie.

Il termine “mobbing” deriva dall’inglese to mob, che significa assalire in gruppo. In ambito lavorativo, il mobbing consiste in una serie di azioni persecutorie, protratte nel tempo, finalizzate a emarginare o espellere un lavoratore dall’ambiente professionale.

Le condotte tipiche includono:

  • esclusione sistematica dalle attività lavorative;
  • critiche continue e immotivate;
  • offese personali o professionali;
  • dequalificazione mansionale;
  • isolamento fisico o relazionale;
  • assegnazione di compiti umilianti o inadeguati.

Il mobbizzato, ossia la vittima di mobbing, sviluppa spesso danni psicofisici che impattano sulla salute e sull’equilibrio familiare e sociale.

Requisiti mobbing secondo la giurisprudenza

La Cassazione ha identificato precisi elementi che devono coesistere per qualificare il mobbing:

  1. una pluralità di atti ostili;
  2. durata prolungata nel tempo;
  3. intento persecutorio;
  4. danno alla salute o alla dignità del lavoratore;
  5. nesso causale tra condotta e danno;
  6. prevaricazione sistematica da parte di colleghi, superiori o anche subordinati.

Di recente la Cassazione con la sentenza n. 3791/2024 ha chiarito che grava sul datore di lavoro l’obbligo di garantire al lavoratore un ambiente lavorativo sano e privo di stress.

Differenze tra mobbing, bossing e straining

  • Mobbing: insieme coordinato e ripetuto di comportamenti ostili.
  • Bossing: forma specifica di mobbing verticale, in cui il persecutore è un superiore gerarchico (es. dirigente, capo reparto).
  • Straining: singola condotta ostile di forte impatto, non necessariamente ripetuta, ma tale da alterare l’equilibrio psicologico del lavoratore (Cassazione n. 123/2025: Il datore di lavoro è ritenuto responsabile se permette che si sviluppi un ambiente di lavoro stressante e non interviene per prevenire o risolvere i conflitti tra i dipendenti.)

Il mobbing implica reiterazione; lo straining si fonda su un solo episodio stressogeno ma persistente nei suoi effetti.

Cosa dice la legge sul mobbing

Nel diritto italiano non esiste una normativa ad hoc sul mobbing, ma la tutela del lavoratore deriva da diverse disposizioni:

  • art. 2087 c.c.: obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore;
  • art. 2043 c.c.: responsabilità extracontrattuale per fatto illecito;
  • Costituzione italiana: artt. 2, 3, 32 e 41 (diritti inviolabili, uguaglianza, salute e dignità).

Il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere anche per culpa in vigilando o culpa in eligendo se non ha impedito condotte vessatorie tra colleghi.

Quando il mobbing è reato

Le condotte persecutorie possono integrare uno o più reati del codice penale, tra cui:

  • lesioni personali (art. 582 c.p.), se provocano danni alla salute;
  • atti persecutori o stalking (art. 612-bis c.p.), se i comportamenti producono ansia o alterazioni della vita quotidiana;
  • maltrattamenti (art. 572 c.p.), in caso di reiterazione sistematica in un contesto di subordinazione;
  • abuso d’ufficio, se il mobbing è esercitato da pubblici ufficiali.

Risarcimento del danno

Il lavoratore vittima di mobbing può chiedere in sede civile il risarcimento del danno, dimostrando:

  • la condotta illecita del datore o colleghi;
  • il danno subito (biologico, morale, esistenziale);
  • il nesso causale tra i comportamenti e il danno.

Le voci risarcibili includono:

  • danno biologico (patologie certificate);
  • danno morale (sofferenza soggettiva);
  • danno esistenziale (alterazione del progetto di vita).

In alcuni casi, si può anche ottenere la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, per perdita di opportunità professionali o stipendi non percepiti.

Tutele e strumenti di difesa

Il lavoratore che ritiene di subire mobbing può:

  1. raccogliere prove documentali (email, ordini, testimoni);
  2. rivolgersi al medico del lavoro o al medico competente;
  3. denunciare i fatti all’Ispettorato del lavoro;
  4. farsi assistere da un sindacato o un avvocato giuslavorista;
  5. promuovere un’azione giudiziaria in sede civile e, se del caso, penale.

In ambito aziendale è consigliato attivare i canali interni (es. organismi di vigilanza, comitato etico, RLS), ove presenti.

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servitù di panorama

La servitù di panorama Servitù di panorama: definizione, riferimenti normativi, differenze rispetto al diritto di veduta e sentenze della Cassazione

Cos’è la servitù di panorama

La servitù di panorama è un diritto reale su cosa altrui che consente al titolare del fondo dominante di mantenere una vista libera e panoramica da un determinato punto del proprio immobile, limitando la facoltà del proprietario del fondo vicino (fondo servente) di costruire o modificare in modo tale da ostruire la visuale.

Diversamente dal diritto di veduta (che riguarda il diritto di affacciarsi e guardare sul fondo altrui), la servitù di panorama si riferisce alla possibilità di godere di una visuale aperta – ad esempio verso il mare, una vallata, un parco o un centro storico – e alla conseguente tutela dell’interesse estetico o economico connesso alla visuale stessa.

La servitù di panorama nel codice civile

Il codice civile italiano non contiene una disciplina espressa di questa servitù. Tuttavia, essa può essere ricondotta alla categoria delle servitù atipiche previste dall’art. 1027 c.c., secondo cui: “La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.”

La servitù di panorama, dunque, rientra tra le servitù prediali purché:

  • sia costituita per iscritto (o per usucapione nei casi ammessi);
  • ci sia un fondo dominante e un fondo servente, entrambi identificabili;
  • l’utilità sia duratura e oggettiva, non meramente personale o estetica.

Differenze rispetto al diritto di veduta 

Spesso si confonde la servitù di panorama con il diritto di veduta, ma i due istituti hanno natura e disciplina differenti:

Caratteristica

Diritto di veduta

Servitù di panorama

Fonte

Normativa espressa (art. 907 c.c. e ss.)

Servitù atipica ex art. 1027 c.c.

Oggetto

Affacciarsi e guardare sul fondo altrui

Mantenere una vista panoramica libera

Costituzione

Anche per usucapione

Solo per titolo scritto o usucapione se evidente e continuata

Limitazioni

Distanze minime da rispettare

Divieto di costruire che ostacoli la visuale

Natura

Servitù apparente o non apparente

Generalmente non apparente

Il diritto di panorama, per essere tutelato, deve essere costituito formalmente come servitù, altrimenti il proprietario del fondo vicino ha piena libertà di edificazione entro i limiti urbanistici e civilistici.

Costituzione e tutela 

La servitù di panorama può essere costituita:

  • per contratto: mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata;
  • per testamento;
  • per usucapione: se l’esercizio della servitù è continuo, pacifico e inequivoco per almeno venti anni, e l’esistenza della servitù è “visibile” (ad esempio per l’esistenza di parapetti o terrazze dedicate).

Una volta costituita, la servitù vincola il fondo servente a non costruire o sopraelevare in modo da pregiudicare la visuale panoramica del fondo dominante.

In assenza di servitù, non si può impedire al vicino di costruire: il solo fatto di godere di una bella vista non attribuisce un diritto acquisito alla sua conservazione.

Servitù di panorama: Cassazione

La Corte di Cassazione nel tempo ha fornito importanti precisazioni sul contenuto e sulle modalità di acquisto della servitù di panorama:

Cassazione n. 17922/2023: il diritto di veduta panoramica si configura come una servitù che, a seconda dei casi, si traduce in un divieto di costruire (non aedificandi) o di sopraelevare (altius non tollendi). Questo diritto può essere acquisito tramite contratto (a titolo derivativo), per destinazione del padre di famiglia o per usucapione (a titolo originario). Tuttavia, queste ultime modalità richiedono, oltre alla specifica destinazione data dall’originario unico proprietario o all’esercizio prolungato per oltre vent’anni di attività corrispondenti alla servitù, anche la presenza di opere visibili e permanenti che siano ulteriori rispetto a quelle che semplicemente consentono la vista.

Cassazione n. 2973/2012: la servitù di panorama, che valorizza la piacevolezza di un fondo grazie alla vista che offre, è un tipo di servitù “altius non tollendi” che limita sia le costruzioni che la crescita degli alberi. Per poterla acquisire tramite la destinazione del padre di famiglia o l’usucapione, è necessario che esistano opere visibili e permanenti ulteriori rispetto a quelle che permettono semplicemente la veduta. In altre parole, tali opere devono essere specificamente destinate all’esercizio della servitù di panorama invocata, altrimenti quest’ultima sarebbe sempre implicita nella servitù di veduta.

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invalidità del matrimonio civile

Cause di invalidità del matrimonio civile Cause di invalidità del matrimonio civile: nullità e annullabilità, procedura, conseguenze e giurisprudenza

Invalidità del matrimonio civile

L’invalidità del matrimonio civile consegue al mancato rispetto dei requisiti specifici previsti dalla legge. In alcuni casi, possono verificarsi infatti situazioni che rendono nullo o annullabile il matrimonio. L’invalidità del matrimonio si verifica quindi quando manca uno degli elementi essenziali previsti dalla normativa italiana, difetto che comporta la dichiarazione di nullità o annullamento del matrimonio da parte dell’autorità giudiziaria.

Le cause di invalidità del matrimonio civile

Le cause di invalidità del matrimonio civile sono disciplinate dal Codice Civile, in particolare dagli articoli 117-129 bis. Esse si dividono in cause di nullità e cause di annullabilità.

1. Nullità assoluta del matrimonio

Un matrimonio è nullo quando manca un requisito essenziale. La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, compreso il Pubblico Ministero. Le principali cause di nullità sono:

Matrimonio contratto in violazione degli impedimenti assoluti (art. 117 c.c.), ad esempio:

  • Matrimonio tra persone già coniugate (bigamia);
  • Matrimonio tra parenti in linea diretta o tra fratelli e sorelle
  • Matrimonio contratto tra persone una delle quali è stata condannata per omicidio o tentato omicidio del coniuge dell’altra.

2. Annullabilità del matrimonio

L’annullabilità riguarda situazioni in cui il matrimonio è valido, ma presenta vizi che ne permettono l’annullamento su richiesta di una delle parti. Le cause principali sono:

  • Incapacità del coniuge al momento del matrimonio (art. 120 c.c.):
    • Minore età senza autorizzazione.
    • Interdizione per infermità mentale.
  • Errore sull’identità o sulle qualità essenziali del coniuge (art. 122 c.c.):
    • Ad esempio, se un coniuge ignora che l’altro sia sterile o abbia commesso reati gravi.
  • Matrimonio contratto per timore (art. 122 c.c.):
    • Se un coniuge si sposa per una minaccia grave.

Procedura di annullamento del matrimonio

L’azione per far dichiarare nullo o annullabile un matrimonio viene presentata dinanzi al tribunale ordinario.

  • L’azione di nullità assoluta può essere promossa da chiunque abbia interesse, senza limiti di tempo.
  • L’azione di annullabilità deve essere promossa entro un termine specifico (generalmente un anno dalla scoperta del vizio).

Se il tribunale accoglie la domanda, il matrimonio viene dichiarato nullo con efficacia retroattiva (ex tunc), come se non fosse mai stato celebrato.

Conseguenze invalidità matrimonio civile

Le principali conseguenze della dichiarazione di invalidità del matrimonio sono:

  • perdita della qualità di coniuge, riacquisto della libertà di stato;
  • cessazione degli obblighi coniugali: i coniugi cessano di avere diritti e doveri reciproci;
  • effetti sui figli: i figli nati da un matrimonio nullo conservano lo stato di figli legittimi (art. 128 c.c.);
  • perdita dei benefici economici: cessazione dei diritti ereditari, cessazione della eventuale comunione coniugale, nullità delle donazioni fatte nell’ambito del matrimonio;
  • perdita del rapporto di affinità con i parenti dell’ex coniuge.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha fornito interpretazioni importanti sui casi di invalidità del matrimonio.

Cassazione n. 1772/2024

In ambito matrimoniale, la validità di un matrimonio putativo, ovvero un matrimonio nullo ma considerato valido per gli effetti civili a causa della buona fede di almeno uno dei coniugi, è regolata dal principio generale di presunzione di buona fede. Questo significa che, al momento della celebrazione del matrimonio, si presume che entrambi i coniugi fossero in buona fede, cioè che ignorassero le cause di nullità del matrimonio. Di conseguenza, chiunque contesti la validità del matrimonio putativo o la buona fede di uno dei coniugi, ha l’onere di dimostrare la loro mala fede.

Tribunale di Livorno 12 luglio 2024

L’errore sulle qualità personali del coniuge è considerato essenziale e può portare all’annullamento del matrimonio solo se, conoscendo la verità, l’altro coniuge non avrebbe dato il suo consenso. Questo vale specificamente per errori riguardanti malattie fisiche o psichiche, o anomalie sessuali, che impediscono la normale vita coniugale. Tuttavia, la semplice mancata conoscenza del sesso originario del coniuge non è sufficiente per annullare il matrimonio. Considerata la durata di 18 anni del matrimonio e l’intenzione di adottare, la richiesta di annullamento deve essere respinta.

Corte di Cassazione n. 28409/2023

il matrimonio può essere annullato se uno dei coniugi, al momento della celebrazione, era incapace di intendere e di volere. Questa incapacità deve essere di tale gravità da impedirgli di comprendere il significato e le conseguenze del matrimonio. In altre parole, non è sufficiente una semplice immaturità o fragilità emotiva, ma è necessario che la persona si trovasse in uno stato patologico che avesse compromesso significativamente le sue facoltà mentali, rendendola incapace di esprimere una volontà cosciente. Tale condizione deve essere assimilabile a un grave deficit psichico, tale da annullare la capacità di comprendere appieno l’atto matrimoniale.