amministratore condominio

Amministratore condominio: deve fornire le credenziali del sito web Il tribunale di Ivrea si sofferma sul corretto adempimento da parte dell'amministratore di condominio dell'obbligo di rendicontazione

Credenziali web del condominio

L’amministratore è tenuto a fornire le credenziali del sito web del condominio, poiché i condomini hanno diritto di visionare i documenti ed estrarne copia in tempi ragionevoli. Lo ha  precisato il tribunale di Ivrea con la sentenza n. 917/2024.

La vicenda

Con ricorso ex art. 633 c.p.c. una condomina trascinava in giudizio il proprio condominio chiedendo al tribunale di ingiungere all’amministratore la consegna dei registri della contabilità condominiale e gli estratti conto del conto corrente condominiale a partire dal 2019. Il tribunale con decreto ingiuntivo ingiungeva la consegna di detta documentazione e l’amministratore spiegava opposizione sostenendo di aver convocato l’assemblea informando i condomini con fascicoletto esplicativo della contabilità e della gestione tenuta sino ad allora e di avere messo a disposizione le c.d. “pezze giustificative” previo appuntamento per tutti i 5 giorni precedenti l’assemblea condominiale.

L’opposizione

Per cui, parte attrice, previo deposito integrale della documentazione richiesta con li d.i. opposto in sede di citazione, evidenziava l’operato intellegibile dell’amministratore improntato alla massima trasparenza chiedendo la revoca del decreto ingiuntivo emesso. Evidenziava, infatti, come la richiesta di ostensione della documentazione condominiale, da parte della condomina fosse generica e non circostanziata e in ogni caso non giustificata dal momento che tutta la documentazione era visibile tramite l’accesso al sito internet del Condominio, senza intermediazione dell’amministratore.
Sotto distinto ma connesso profilo parte attrice lamentava il fatto che non sussistesse in capo al condomino il diritto di ricevere copia (ovvero trasmissione della documentazione) quanto piuttosto uno speculare diritto di prendere visione e che, dunque, il geometra non poteva essere considerato inadempiente.
Parte attrice chiedeva, quindi, conclusivamente la revoca del d.i. opposto.
Con comparsa di costituzione e risposta la condomina chiedeva che venisse dichiarata la cessata materia del contendere, stante li deposito della documentazione ingiunta. In punto fattuale, ad ogni modo evidenziava come solo successivamente alla notifica del d.i., l’amministratore avesse comunicato le credenziali per l’accesso all’area web riservata del condominio.

La decisione

Il tribunale, dà preliminarmente atto dell’avvenuta cessazione della materia del contendere, tenuto conto della produzione in giudizio di tutta la documentazione richiesta in sede di ingiunzione. Tuttavia, afferma che se scrutinata nel merito, la domanda dell’amministratore sarebbe stata senz’altro infondata.

La documentazione richiesta infatti non era mai stata formalmente messa in disponibilità della condomina nè dai documenti in atti risultava che le password e le credenziali di accesso che erano stampigliate nelle lettere di convocazioni fossero da utilizzare per accedere al sito condominiale e ciò anche a tacere del fatto che le stesse risultavano incomplete e dunque non funzionanti. Peraltro, le stesse lettere di convocazioni “enunciano e fanno chiaramente intendere che l’ostensione fosse subordinata all’appuntamento con l’amministratore e che, dunque, non vi era facoltà di accesso illimitato alla documentazione archiviata in cloud da parte dei condomini”. In ogni caso, evidenzia ancora il giudice, le credenziali sono state consegnate dall’allora amministratore solo dopo la notifica del d.i. opposto.

L’obbligo di rendicontazione

Riguardo alle modalità attraverso le quali si ritiene che “tale obbligo di rendicontazione risulti adempiuto – rammenta quindi il tribunale – la giurisprudenza ha chiarito che ciascun condominio ha questo diritto di ostensione, ovvero di prendere visione dei documenti di rilievo ed estrarre copia, senza condizionare l’esercizio a determinate tempistiche, ancorché ragionevolmente si debba ritenere che lo stesso vada evaso in tempi ragionevoli (e tre-quattro mesi, come nel caso di specie, non appaiono un tempo ragionevole).

Ciò posto è evidente, conclude il giudicante, “che se vi fosse stata reale intenzione di rendere visibile sin da subito la documentazione richiesta dalla signora sarebbe stato agevole per l’amministratore di Condominio indicare e rammentare le password, le credenziali e il c.d. PID onde consentire la presa visione dei documenti in cloud, ma ciò non è avvenuto”.

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diritto di proprietà

Diritto di proprietà Il diritto di proprietà nell’ordinamento italiano: il contenuto, i modi di acquisto e i limiti imposti dalla legge. In particolare: la funzione sociale prevista dalla Costituzione

Cosa si intende per diritto di proprietà

Il diritto di proprietà è il più importante ed esteso dei diritti reali, cioè di quei diritti che individuano il potere del soggetto su una cosa. Come dispone l’art. 832 del codice civile, il titolare del diritto di proprietà su un bene ha diritto di goderne in modo esclusivo e di disporne a proprio piacimento (ad esempio, di venderlo o di donarlo), entro i limiti previsti dall’ordinamento.

Per comprendere quali siano tali limiti, occorre fare riferimento al dettato costituzionale in tema di proprietà.

Il diritto di proprietà nella Costituzione. La funzione sociale

Secondo l’art. 42 della Costituzione, la proprietà deve avere una funzione sociale. Ciò significa che lo scopo di tale istituto non è meramente quello di soddisfare l’interesse del suo titolare: esempi di limitazioni del diritto di proprietà per perseguire una funzione sociale sono la previsione di un prezzo calmierato per gli affitti (si pensi al c.d. equo canone, nell’esperienza dell’ordinamento italiano), l’acquisto per usucapione (di cui si dirà oltre) e l’espropriazione del bene.

Quest’ultima ipotesi è espressamente prevista dal terzo comma della norma appena citata, il quale dispone che la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale, salvo il riconoscimento di un indennizzo in favore del titolare. L’entità di tale indennizzo deve essere giusta, a norma dell’art. 834 c.c., pur non dovendo corrispondere al valore di mercato del bene; a tal riguardo, la Corte Costituzionale ha parlato di “serio ristoro” del sacrificio del privato (in questo senso, vedasi la risalente sentenza Corte Cost. n. 5/1980).

Come si può acquistare il diritto di proprietà?

Su un piano più generale, l’art. 42 Cost. dispone che la proprietà può essere pubblica o privata (a seconda della natura del soggetto titolare del bene) e che la stessa è “riconosciuta e garantita” dalla legge, che ne determina i modi di acquisto ed i limiti.

Quanto ai modi di acquisto, essi possono essere a titolo originario (cioè, quando l’acquisto avviene indipendentemente dalla volontà di un altro soggetto) o a titolo derivativo, come avviene nelle comuni compravendite o donazioni (atti inter vivos) o nelle successioni (atti mortis causa, richiamati anche dall’art. 42 Cost. ultimo comma); particolari modi acquisto della proprietà sono, inoltre, l’espropriazione per pubblica utilità, di cui si è detto sopra, o la confisca.

I modi di acquisto della proprietà a titolo originario sono puntualmente elencati dall’art. 922 del codice civile e sono l’occupazione, l’invenzione, l’accessione, la specificazione, l’unione o commistione e l’usucapione.

Quest’ultima, come più sopra accennato, si sostanzia in un istituto che tutela la funzione sociale della proprietà e valorizza l’operato del soggetto che, pur non effettivo titolare della proprietà sul bene, ne ha esercitato il possesso per un determinato periodo di tempo come se ne fosse stato il proprietario (ad esempio, un soggetto che abbia coltivato, e quindi reso fruttuoso anche per la collettività, un terreno non suo).

Per maggiori dettagli, vi rimandiamo a Usucapione e buona fede

La disciplina civilistica della proprietà

Con particolare riguardo alla proprietà fondiaria (terreni e costruzioni), la normativa civilistica pone una dettagliata disciplina in tema di rispetto delle distanze tra gli immobili, dell’apertura di luci e vedute (es. finestre), di comunione forzosa dei muri, di scarico delle acque etc. (artt. 873 e ss. cod. civ.).

Analogamente, viene disciplinata l’estensione della proprietà, la quale si estende lungo la sua superficie in orizzontale (con diritto del proprietario di recintarne i confini) e in modo verticale, “nella sua proiezione verso il sottosuolo e verso lo spazio aereo soprastante” (artt. 840 e ss. c.c.).

Le azioni a difesa della proprietà

In questo breve excursus sulle linee generali che definiscono il diritto di proprietà nel nostro ordinamento, vanno necessariamente ricordate le azioni a difesa della proprietà, previste dal codice civile, e in particolare le c.d. azioni petitorie previste dagli artt. 948 ss. del codice civile.

Nello specifico, l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.) mira a consentire al proprietario che abbia perso il possesso del bene di rivendicare lo stesso e recuperarlo. Con l’azione negatoria (art. 949 c.c.), invece, il proprietario mira a far accertare il proprio diritto e a far dichiarare l’inesistenza dei diritti affermati da altri sulla cosa.

In tema di diritto di proprietà, ricordiamo anche alcuni casi specifici, come la comunione (in cui la proprietà su un bene spetta a più soggetti) e il condominio; la c.d. proprietà intellettuale su opere e invenzioni (si veda l’articolata disciplina su marchi e brevetti); e la c.d. proprietà fiduciaria.

affidamento condiviso

Affidamento condiviso L’affido condiviso e il principio di bigenitorialità: la centralità degli interessi del minore nei provvedimenti del giudice sulla separazione dei coniugi

L’affidamento condiviso nella separazione

L’affidamento condiviso è la condizione in cui, di regola, si trovano i figli in conseguenza della separazione dei genitori.

L’affido congiunto si contrappone ad altre possibili soluzioni che il giudice può adottare in sede di separazione dei coniugi con prole, come ad esempio l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori in considerazione di particolari circostanze (in particolare, quando l’affidamento all’altro genitore, anche in via condivisa, sia contrario all’interesse del minore).

Affido condiviso come funziona

Fino all’emanazione della legge 54/2006, la regola, in tema di affidamento dei figli in sede di separazione, era rappresentata dall’affido esclusivo. Con tale provvedimento legislativo, invece, si è scelto di rendere centrale il ruolo dell’affido condiviso paritario per garantire, da un lato il diritto di ciascun coniuge all’esercizio della responsabilità genitoriale e alla partecipazione alle decisioni più importanti nell’interesse dei figli, e dall’altro, il diritto di questi ultimi alla c.d. bigenitorialità.

Il principio della bigenitorialità

Il principio della bigenitorialità è riassunto nella formula dell’art. 337-ter del codice civile, in base al quale “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

Più in generale, il secondo comma della norma citata evidenzia come oggi l’affidamento condiviso rappresenti la regola, in quanto impone al giudice, in caso di separazione dei coniugi, di valutare prioritariamente “la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”. Solo quando tale strada non sia percorribile egli è chiamato a stabilire a quale dei genitori i figli debbano essere affidati, fermi restando il diritto e il dovere di ciascuno dei genitori di contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.

Quali sono le regole per l’affidamento condiviso

Il regime di affido paritario non esclude, peraltro, che tra i due genitori ne sia individuato uno presso la cui abitazione i figli continueranno a dimorare.

Il collocamento dei figli

Al genitore collocatario, di norma, è concessa la possibilità di continuare ad abitare nella casa familiare. In tal caso, all’altro genitore viene garantita la presenza dei figli presso il proprio domicilio (evidentemente, una casa diversa presso cui il coniuge non collocatario è andato a vivere dopo la separazione). Sta al giudice, in assenza di accordo tra le parti, individuare i giorni o i periodi in cui i figli si trasferiscono presso l’abitazione del genitore non collocatario (frequente è, ad esempio, l’adozione di provvedimenti giudiziali che prevedano i c.d. fine settimana alternati presso ciascun genitore).

Una particolare tendenza emersa nelle decisioni della più recente giurisprudenza è quella di prevedere, nell’interesse dei figli, che questi abitino permanentemente nella casa familiare e che ad alternarsi nella presenza all’interno di essa siano gli ex coniugi.

In altre parole, tali provvedimenti mirano a garantire una stabilità emotiva, nei rapporti e nella vita quotidiana, in favore dei figli ed evitare che questi ultimi siano trattati, come si usa dire, come “pacchi postali”, in continua peregrinazione tra le attuali abitazioni dei due genitori. I giudici che seguono tale orientamento impongono, dunque, a ciascun genitore di abbandonare, in determinati giorni, la casa familiare per far posto all’altro coniuge.

Tale filone giurisprudenziale, che annovera anche autorevoli pronunce di legittimità (v. Cass., ord. n. 6810/2023), incontra, per avverso, le critiche di chi vi scorge un’eccessiva gravosità per i coniugi nella gestione della propria vita e dei propri rapporti quotidiani.

Quando decade l’affidamento condiviso

In ultima analisi, con l’affido condiviso viene garantita la partecipazione di entrambi i genitori alle più importanti decisioni relative alla cura e all’educazione dei figli, si pensi ad esempio al percorso scolastico da seguire, alle attività extrascolastiche da praticare o alle scelte in ambito sanitario, come la decisione di sottoporsi o meno ad un vaccino.

In ogni caso, ai figli minori è garantito l’ascolto da parte del giudice, ai sensi dell’473 bis 4 c.p.c. che prevede in capo al minore che abbia compiuto gli anni dodici (o meno, se capace di discernimento) un generale diritto di essere ascoltato in relazione ai provvedimenti giudiziali che lo riguardano.

Infine, va ricordato che ogni provvedimento giudiziale in tema di affidamento dei figli – ivi compreso quello che dispone sull’assegno di mantenimento  – può essere sottoposto a revisione su richiesta di uno dei genitori, ai sensi dell’art. 337-quinquies c.c.

pedone distratto

Pedone distratto: va risarcito se cade in un tombino Il pedone distratto va comunque risarcito se la sua condotta non è abnorme, tanto più se il Comune non segnala che il tombino è scoperto

Risarcimento danni pedone

Il pedone distratto, se cade in un tombino posto su una via pubblica, deve essere risarcito. Solo se la disattenzione del pedone è abnorme e sia quindi la causa esclusiva della caduta e del danno che ne consegue il diritto al risarcimento è escluso. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 19078-2024.

Pedone distratto cade in un tombino

La vicenda ha inizio con la caduta di una donna in un tombino presente ai margini di una strada comunale, sulla banchina, coperto di rami e foglie.

Il tribunale riconosce alla donna un risarcimento del danno di Euro 39.153,00.

Il Comune soccombente appella la decisione, ma il giudice dell’impugnazione la rigetta. La questione viene portata quindi all’attenzione della Corte di Cassazione.

Distrazione non rileva se non è causa esclusiva della caduta

La Cassazione rigetta ancora una volta il ricorso del Comune. Il pedone distratto infatti ha diritto al risarcimento se la sua condotta non è abnorme. Come affermato da precedente Cassazione sulla responsabilità dell’ente per le cose in custodia “può influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell’art. 1227 c.c.” 

Natura pubblica della strada: obbligo di custodia del Comune

La Cassazione rileva inoltre che nei precedenti gradi di giudizio i giudici di merito hanno accertato che la strada aveva carattere comunale o comunque ad uso pubblico e che la strada interponderale era aperta all’uso pubblico. L’ente quindi doveva provvedere alla custodia del bene. Lo stesso sarebbe dovuto intervenire affinché il tombino presente sulla banchina non restasse scoperto o segnalare quantomeno l’assenza di copertura dello stesso. Corretta quindi la condanna dell’Ente a rispondere dei danni per cose in custodia in base all’articolo 2051 c.c.

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accettazione beneficio inventario

Accettazione con beneficio di inventario L'accettazione con beneficio di inventario è l'accettazione dell’eredità che tutela il chiamato e che va esercitata con precise modalità

Accettazione con beneficio d’inventario: cos’è

L’accettazione con beneficio di inventario è uno dei modi che la legge mette a disposizione del chiamato per accettare l’eredità. L’articolo 470 del codice civile prevede infatti che l’eredità possa essere accettata puramente e semplicemente o con beneficio di inventario. Il chiamato può accettare l’eredità in questo modo anche se il testatore lo ha vietato nel suo testamento.

Leggi anche: Accettazione tacita eredità: il punto della Cassazione

“Con beneficio di inventario”: significato

L’accettazione dell’eredità con “beneficio di inventario” è una forma di accettazione che tutela il chiamato all’eredità. Il soggetto che sceglie questo tipo di accettazione deve infatti procedere alla redazione dell’inventario dei beni, dei debiti e dei crediti del de cuius prima o dopo aver accettato l’eredità. Il chiamato evita così di subire le conseguenze negative che potrebbero derivare dall’accettazione di un’eredità in cui i debiti superino i crediti.

Gli effetti

L’accettazione con beneficio di inventario infatti produce determinati effetti.

  • L’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e gli obblighi che aveva nei confronti del defunto fatta accezione per quelli che si sono estinti con la morte.
  • L’erede non deve pagare i debiti e i legati oltre il valore di quanto pervenuto.
  • I creditori dell’eredità e i legatari sono preferiti rispetto ai creditori dell’erede sul patrimonio del de cuius. 

Come si accetta l’eredità con beneficio di inventario

L’art. 484 del codice civile, che disciplina l’accettazione con beneficio di inventario, prevede che il chiamato all’eredità debba rendere una dichiarazione. Questa dichiarazione può essere resa davanti a un notaio o al cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione. La dichiarazione è poi inserita nel registro delle successioni, che viene conservato presso il Tribunale.

Decorso un mese dall’inserzione della dichiarazione nel registro, il cancelliere del Tribunale deve trascriverla presso l’ufficio dei registri immobiliari del luogo in cui è stata aperta la successione. Se la dichiarazione segue la redazione dell’inventario nel registro è necessario indicare la data in cui lo stesso è stato compiuto. In caso contrario, l’ufficiale pubblico che lo ha redatto, entro un mese, deve far inserire nel registro la data di compimento dell’inventario.

Tempi di redazione dell’inventario

I tempi per accettare l’eredità con beneficio di inventario sono diversi a seconda che il chiamato all’eredità sia o non sia nel possesso di beni ereditari.

Possesso di beni ereditari

Il chiamato all’eredità in possesso dei beni ereditari deve procedere all’inventario dei beni entro 3 mesi dall’apertura della successione o dalla notizia della devoluta eredità. Il decorso di questo termine senza la redazione dell’inventario comporta che il chiamato sia considerato erede puro e semplice. L’erede può comunque chiedere una proroga dei termini che non può superare i 3 mesi, a meno che vi siano circostanze gravi che giustifichino un termine più lungo.

Se invece il chiamato ha provveduto alla redazione dell’inventario, ma non ha reso la dichiarazione, ha 40 giorni di tempo dal suo compimento per accettare. Decorso questo termine se il chiamato non dichiara di accettare con beneficio, è considerato erede puro e semplice.

Non possesso di beni ereditari

Il chiamato all’eredità che non è nel possesso dei beni ereditari può invece dichiarare di accettare con beneficio di inventario fino alla scadenza del termine decennale per esercitare il diritto di accettazione dell’eredità.

Il soggetto che procede alla dichiarazione deve redigere l’inventario entro 3 mesi. L’autorità giudiziaria però può disporre la  proroga dei termini. Il chiamato che non rende la dichiarazione in questi termini deve considerarsi erede puro e semplice.

Quando invece il soggetto procede all’inventario prima della dichiarazione di accettazione, questa deve essere fatta entro il termine di 40 giorni dal compimento dell’inventario. Il mancato rispetto degli stessi comporta la perdita del diritto di accettare l’eredità.

Regole particolari per minori, interdetti e inabilitati

L’articolo 489 c.c dispone un’eccezione in favore degli interdetti, degli inabilitati e dei minori. Questi soggetti hanno infatti un anno di tempo, da quando cessa la condizione di inabilitato o interdetto o da quando il minore compia 18 anni, per accettare l’eredità con benefico di inventario nel rispetto delle regole e dei termini visti sopra.

condomino trasferito senza avviso

Condomino trasferito senza avviso: l’amministratore non ha colpa Se il condomino si è trasferito senza avvisare, non è responsabile l'amministratore della mancata convocazione all'assemblea condominiale

Condomino trasferito senza avviso: mancata convocazione

Un condomino si è trasferito senza avvisare, l’amministratore non è responsabile della mancata convocazione. La mancata comunicazione del trasferimento non consente infatti all’amministratore di aggiornare il registro anagrafico. Le comunicazioni effettuate al condominio all’indirizzo risultante dal registro devono quindi  considerarsi regolarmente perfezionate. Lo ha stabilito il Tribunale di Rieti nella sentenza n. 329-2024.

Mancata convocazione in assemblea

Un condominio ottiene un decreto ingiuntivo nei confronti di un singolo condomino per recuperare il mancato pagamento delle spese condominiali. Il condomino si oppone alla richiesta, il Giudice di Pace respinge l’opposizione e il soccombente impugna la decisione in appello davanti al Tribunale competente. Il condomino nell’appellare la decisione fa presente in uno dei motivi, di non aver ricevuto la convocazione all’assemblea nel corso della quale era stato approvato il bilancio che giustificava le voci di spesa richieste in pagamento. Lo stesso precisa anche che la convocazione all’assemblea era stata inviata con raccomandata con ricevuta di ritorno alla sua vecchia residenza. Lo stesso però non aveva ritirato la raccomandata perché si era trasferito precedentemente in un’altra casa, come emerso anche dal certificato storico del Comune.

Il condomino evidenzia di non aver avuto conoscenza neppure del verbale di assemblea, che gli è stato inviato con plico a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, anche questo presso la vecchia residenza e anche in questo caso non ritirato per compiuta giacenza. Lo stesso lamenta infine il mancato ricevimento della raccomandata con cui il Condominio ha sollecitato il pagamento dell’importo per cui è causa. Sollecito non ritirato sempre per compiuta giacenza perché anche questo notificato in una residenza diversa.

Delibera annullabile: assemblea non costituita da tutti i condomini

Queste le ragioni per le quali il condomino richiede l’annullamento della delibera assembleare, che ha approvato la spesa richiesta poi in pagamento con decreto ingiuntivo. Nello specifico il condomino afferma la mancata costituzione dell’assemblea da parte di tutti gli aventi diritto. Lo stesso osserva infine che la mancata comunicazione delle delibere nei suoi confronti non ha determinato la decorrenza del termine dei 30 giorni previsti dalla legge per chiedere l’annullamento della decisione condominiale.

Amministratore senza colpa se il condomino si trasferisce

Il Tribunale non accoglie le doglianze del condomino perché non sono condivisibili alla luce della normativa condominiale. L’introduzione dell’anagrafe condominiale (art. 1130 n. 6 codice civile) ha posto in capo all’amministratore l’obbligo di annotare sullo stesso i dati anagrafici dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e personali di godimento, comprese le variazioni. A tale compito l’amministratore deve provvedere direttamente o a spese del singolo condomino se questo soggetto non provvede a comunicare i dati e le variazioni.

Condomino: obbligo di comunicare i cambi di indirizzo

Il condomino deve comunicare eventuali variazioni entro 60 giorni in forma scritta. In caso di ritardo o di inerzia l’amministratore può richiedere con lettera raccomandata i dati necessari per aggiornare il registro. Nell’ipotesi invece di risposta incompleta od omessa entro 30 giorni dalla richiesta, l’amministratore può acquisire personalmente le informazioni necessarie addebitando il costo al singolo condomino.

Se quindi da un alto l’amministratore deve tenere e aggiornare regolarmente il registro di anagrafe condominiale, dall’altra il singolo condomino deve comunicare con tempestività all’amministratore il suo trasferimento in un altro domicilio. La mancata comunicazione della variazione da parte del condomino determina il regolare perfezionamento della comunicazione all’indirizzo che risulta dal registro dell’anagrafe. Il condomino quindi, in questi casi, è l’unico responsabile della mancata ricezione. Non si può esigere in capo all’amministratore una continua e costante verifica in ordine all’esistenza o meno di trasferimenti di residenza di ciascun singolo condomino, specie alla luce dell’obbligo di cui sopra gravante sui condomini, che fa presumere la piena idoneità dell’indirizzo già comunicato alla ricezione delle comunicazioni, in assenza di successiva comunicazione di variazione del medesimo”. 

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convivente di fatto familiare

Il convivente di fatto è un familiare La disciplina dell'impresa familiare si applica dunque anche al convivente di fatto. Illegittimi gli artt. 230bis e 230-ter c.c.

Convivente di fatto e impresa familiare

Il convivente di fatto è un familiare perciò si applica la disciplina dell’impresa di famiglia. E’ quanto ha affermato la Corte Costituzionale (sentenza n. 148/2024) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare – oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo – anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto».

Inoltre, in via consequenziale, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che, introdotto dalla legge n. 76 del 2016 (cosiddetta legge Cirinnà), riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta.

Conviventi di fatto: la legge e la giurisprudenza

Per «conviventi di fatto» – secondo la definizione prevista dall’art. 1, comma 36, di tale legge – si intendono «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale».

Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare – in riferimento, in particolare, agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione – nella parte in cui il convivente more uxorio non era incluso nel novero dei «familiari».

La Corte costituzionale ha accolto le questioni rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.

L’impresa familiare

“Rimangono – osserva ancora la Corte – le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio; ma quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni”.

Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che, “nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”.

La decisione

Nel sottolineare che “la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare” la Consulta ha quindi ritenuto irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.

“All’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis del codice civile al convivente di fatto è conseguita l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che – nell’attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare – comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione”.

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interessi di mora

Interessi di mora: 12,25% fino al 31 dicembre 2024 Il MEF ha reso noto il saggio applicabile al secondo semestre dell'anno, in leggera flessione (0,25 in meno) rispetto al primo semestre 2024

Interessi di mora 2024

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha reso noto con comunicato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 29 luglio 2024 il saggio applicabile per il secondo semestre dell’anno (4,25%), ossia per il periodo che va dal 1° luglio al 31 dicembre 2024. Un tasso che mostra una leggere flessione al ribasso (-0,25%) rispetto alla percentuale del primo semestre.

Cosa sono gli interessi di mora

Gli interessi moratori vanno pagati al creditore nell’ipotesi di ritardo nel pagamento di un’obbligazione pecuniaria (ex art. 1224 c.c.), salvo che il debitore dimostri che il ritardo è stato determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Gli interessi moratori vanno corrisposti anche laddove non espressamente pattuiti dalle parti. La loro funzione è in sostanza quella di un “ristoro” per le conseguenze pregiudizievoli subite dal creditore per via del ritardo nel pagamento.

Interessi moratori al 12,25%

Se il pagamento tardivo riguarda una transazione commerciale, gli interessi di mora decorrono sulla base del tasso di riferimento comunicato dal Mef, cui va aggiunta la maggiorazione dovuta alla competenza fissa per le transazioni commerciali, pari all’8%, come previsto dall’art. 2 del Dlgs. n. 192/2012. Il Mef ha comunicato che “ai sensi dell’art. 5 del dlgs n. 231/2002, come modificato dalla lettera e) del comma 1 dell’art. 1 del decreto legislativo n. 192/2012 – per – il periodo 1° luglio – 31 dicembre 2024 il tasso di riferimento e’ pari al 4,25 per cento”.

Per cui, complessivamente per il secondo semestre 2024 la maggiorazione ammonterà a 12,25%.

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compensi avvocato inesigibili

Compensi avvocato inesigibili se soggetti a condizione Compensi avvocato: se il pagamento è soggetto a condizione mista perché dipende dall’adempimento di un terzo si applica l’art. 1358 c.c.

Inesigibilità compensi avvocato se sottoposti a condizione

Un avvocato non può esigere il pagamento dei propri compensi da un cliente quando la loro corresponsione è subordinata all’adempimento di un terzo. Questa situazione configura una condizione mista, regolata dall’art. 1358 del codice civile, che impone alle parti di agire nel rispetto del principio della buona fede durante la pendenza della condizione. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 19022-2024.

Azione per il pagamento del compenso

Un avvocato, che assiste due clienti in diverse cause, stipula con loro un patto di quota lite a causa delle difficoltà previste nella causa originale. Dopo la sentenza di primo grado e il ricorso in appello, le parti raggiungono un accordo per risolvere l’intera questione, firmato da tutti i soggetti coinvolti. Alla scadenza del termine previsto per il pagamento, gli assistiti non provvedono però al pagamento del preavviso dell’avvocato. Al legale non resta che richiedere il versamento dell’importo a lui dovuto stabilito in sentenza o concordato nel patto do quota lite o in ultimo quello concordato nell’accordo di transazione.

Compenso residuo: condizionato al pagamento del Condominio

Gli assistiti si oppongono alla richiesta, sostenendo di aver già provveduto al pagamento di quanto stabilito dalla sentenza. Il pagamento dell’importo residuo del compenso è infatti condizionato  dall’incasso delle somme dovute dal condominio, che però non ha ancora provveduto.

Compenso Avvocato: accoglimento parziale della domanda

Il Tribunale di Napoli accoglie in parte la domanda dell’avvocato e condanna i clienti a pagare una somma inferiore a quella richiesta.

Condizione causale o mista, non meramente potestativa

I clienti ricorrono quindi in Cassazione, poiché a loro dire la clausola relativa all’esigibilità dei compensi è stata interpretata in maniera erronea.

Essi sostengono che la clausola dell’accordo transattivo obbliga al pagamento dei compensi entro dieci giorni dall’incasso delle somme dal condominio, che non ha ancora pagato. Essi precisano inoltre che l’importo indicato nell’accordo si riferisce al saldo e non all’acconto già versato. Per loro infine la condizione deve considerarsi casuale, al massimo mista, ma non meramente potestativa come interpretato dal Tribunale.

Condizione “Potestativa” e “Meramente Potestativa”

La Cassazione in motivazione ricorda che una condizione è “meramente potestativa” quando il suo avveramento dipende esclusivamente dall’arbitrio di parte.

La condizione è invece “potestativa” quando dipende da valutazioni di interesse e convenienza, influenzate da fattori esterni che incidono sulla volontà del contraente, anche se la decisione finale è a discrezione dell’interessato.

Condizione mista: buona fede in pendenza della condizione art. 1358 c.c.

Nel caso di specie non sussiste una condizione meramente potestativa, come sostenuto dal Tribunale, il pagamento delle competenze professionali dell’avvocato è condizionato dall’adempimento del condominio terzo, trattasi quindi di una condizione mista poiché il suo avveramento dipende dal caso o dal terzo e in parte dalla volontà di uno dei contraenti.

La disciplina dell’art. 1358 del Codice Civile, che impone la buona fede durante la pendenza della condizione, si applica anche in questo caso.

La Cassazione accoglie quindi il primo e il secondo motivo del ricorso, con conseguente assorbimento del terzo motivo e con rinvio al Tribunale in diversa composizione per riconsiderare la pretesa dell’avvocato alla luce dell’accordo transattivo e delle pattuizioni in esso contenute.

 

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capacità giuridica

La capacità giuridica Definizione e profili storici della disciplina della capacità giuridica. In particolare: la tutela del concepito e le differenze con la capacità di agire

Capacità giuridica, definizione

La capacità giuridica è l’attitudine di una persona ad essere titolare di diritti e di doveri giuridici.

Tale istituto, tanto essenziale nei suoi caratteri quanto fondamentale nell’ambito di un ordinamento giuridico, è disciplinato dall’art. 1 del codice civile, che stabilisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita.

Profili storici della disciplina della capacità giuridica

L’importanza di una disciplina espressa riguardo all’istituto in parola si coglie più compiutamente attraverso un confronto con la disciplina prevista in altri periodi storici, quando era contemplata la possibilità di limitare o privare della capacità giuridica (c.d. morte civile) taluni soggetti per motivi politici o razziali.

È ciò che avvenne, ad esempio, in Italia durante il regime fascista, e un importante riflesso ne è l’attuale testo dell’art. 22 della Costituzione, il quale espressamente dispone che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Acquisto e perdita della capacità giuridica: l’art. 1 del codice civile

Come si è detto, la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, con ciò intendendosi il momento del distacco del feto dal grembo materno.

Ciò significa che il nascituro non è considerato, nel nostro ordinamento, soggetto di diritto, sebbene sia comunque oggetto di tutela da parte della legge.

La capacità giuridica del concepito

Infatti, ad esempio, il concepito (e a dire il vero anche il non-concepito, se si intenda il figlio di una determinata persona vivente al tempo della morte del de cuius) può succedere per testamento e ricevere per donazione.

I diritti del nascituro, però, sono subordinati all’evento della nascita, come prevede il secondo comma dell’art. 1 del codice civile.

Perdita della capacità giuridica

Analogamente, la capacità giuridica di un soggetto termina con la sua morte naturale. Per vero, anche la dichiarazione (con sentenza) di morte presunta, ex art. 58 c.c., determina la perdita della capacità giuridica del soggetto, con contestuale apertura della relativa successione.

Capacità delle persone giuridiche

Oltre che appannaggio delle persone fisiche, la capacità giuridica è configurabile anche in capo alle persone giuridiche, sebbene ciò non postuli il possesso da parte di queste ultime di alcuni diritti propri delle persone fisiche (si pensi a quelli afferenti al diritto familiare).

Le persone giuridiche sono titolari, peraltro, di alcuni rilevanti diritti, quali quello al nome (o alla denominazione) e all’immagine.

Differenza tra capacità giuridica e capacità di agire

Sul tema in oggetto, è importante distinguere tra loro i concetti, ben differenti, di capacità giuridica e capacità di agire.

Se la capacità giuridica, come si è detto, attiene alla generica attitudine alla titolarità di diritti e obblighi giuridici, la capacità di agire indica, invece, la possibilità di porre in atto atti giuridici, e quindi di divenire volontariamente titolare di diritti o di obbligarsi verso terzi.

A differenza della capacità giuridica, la capacità d’agire non si acquista con la nascita ma, come disposto dall’art. 2 cod. civ., si consegue, come regola generale, alla maggiore età, attualmente fissata al compimento dei 18 anni.

In alcuni casi, peraltro, l’ordinamento prevede che determinati atti giuridici possano essere posti in atto anche dal minore (vedi le norme in tema di matrimonio e riconoscimento del figlio da parte del minore emancipato), e che in altri casi la capacità di agire possa essere limitata, anche a tutela del soggetto stesso (interdizione o inabilitazione).

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