Cassonetti sotto la finestra? Delibera condominiale annullabile Cassonetti sotto la finestra? Il tribunale annulla la delibera condominiale se lede il diritto di proprietà e ignora soluzioni alternative praticabili

Cassonetti sotto la finestra e delibera

Cassonetti sotto la finestra e annullabilità della delibera: posizionare i contenitori dei rifiuti condominiali in prossimità di una finestra privata può portare all’annullamento della delibera assembleare, se ciò comporta un pregiudizio diretto al diritto di proprietà e non risulta giustificato da esigenze oggettive del condominio. Lo ha stabilito il Tribunale di Latina con sentenza n. 1025/2025, richiamando i principi di buon uso delle parti comuni e proporzionalità delle scelte collettive.

Cassonetti sotto la finestra e odori molesti

La causa prende avvio da una decisione dell’assemblea condominiale che aveva stabilito il collocamento dei cassonetti per la raccolta differenziata a pochi metri dalla finestra di un appartamento. La condomina interessata ha impugnato la delibera, lamentando un’interferenza ingiustificata con il proprio diritto di godimento dell’unità immobiliare, a causa delle esalazioni provenienti dai rifiuti.

Il giudice ha accolto la domanda, ritenendo che la scelta dell’assemblea configuri un uso anomalo delle parti comuni e un sacrificio sproporzionato degli interessi individuali, soprattutto in presenza di alternative praticabili.

Odori e distanze: i criteri di valutazione del tribunale

Il Tribunale ha fondato il proprio giudizio su presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., richiamando massime di esperienza secondo cui la vicinanza di rifiuti organici alle finestre può comportare odori sgradevoli e limitazioni al pieno utilizzo dell’abitazione, specialmente nei mesi estivi.

Rilevata una distanza inferiore ai 4 metri tra i cassonetti e la finestra, il giudice ha fatto riferimento, in via analogica, all’articolo 889 c.c. in materia di distanze tra costruzioni, trattandosi di una lacuna normativa in ambito condominiale e igienico-sanitario. In mancanza di norme locali specifiche, ha considerato quella distanza non idonea a garantire condizioni igieniche accettabili.

Le fotografie allegate dall’attrice, ritenute non contestate, hanno rafforzato la prova del disagio, contribuendo alla valutazione complessiva dell’illegittimità della delibera.

Eccesso di potere e alternative ignorate

Il provvedimento impugnato è stato ritenuto viziato da eccesso di potere, poiché ha sacrificato il diritto individuale senza che vi fosse una reale esigenza collettiva. La motivazione addotta dall’assemblea – ovvero la mancanza di spazi alternativi – è stata smentita dalla consulenza tecnica d’ufficio, che ha invece individuato il locale autoclave come area idonea, previa minima modifica.

Secondo il giudice, l’attività deliberativa del condominio deve rispettare il principio di equilibrio tra interesse collettivo e diritti dei singoli, evitando soluzioni irragionevoli o sproporzionate. La mancata considerazione dell’alternativa concretamente realizzabile ha reso la motivazione della delibera meramente apparente e quindi invalida.

Allegati

casa familiare

La casa familiare Casa familiare: cos’è, cosa accade in caso di separazione e come funziona l’assegnazione

Cosa si intende per casa familiare

La casa familiare, spesso detta anche casa coniugale, è l’immobile in cui si è svolta la vita quotidiana della famiglia e dove sono stati costruiti gli affetti, le abitudini e la routine domestica. Quando una coppia si separa, la sorte di questo bene diventa spesso oggetto di conflitto, poiché incide direttamente sulla tutela dei figli minori o economicamente non autosufficienti.

L’ordinamento italiano, in un’ottica di protezione della prole, prevede regole specifiche in merito all’assegnazione della casa familiare, disciplinata dall’art. 337-sexies del codice civile.

Occorre inoltre precisare che la casa familiare non è semplicemente un bene immobile: giuridicamente, è l’abitazione destinata alla vita della famiglia, indipendentemente dal regime patrimoniale scelto dai coniugi (comunione o separazione dei beni) o dall’intestazione del bene. L’assegnazione, quindi, non riguarda il diritto di proprietà, ma la destinazione d’uso dell’immobile in funzione dell’interesse superiore dei figli.

Normativa di riferimento: art. 337-sexies c.c.

L’art. 337-sexies c.c. stabilisce che:

“Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.”

Questo principio si applica nei procedimenti di:

  • separazione personale dei coniugi;
  • divorzio;
  • cessazione della convivenza more uxorio (anche per coppie non sposate con figli).

Il giudice può assegnare la casa familiare al genitore collocatario dei figli, anche se non è proprietario o intestatario dell’immobile, purché ciò sia ritenuto nell’interesse prevalente della prole.

Chi ha diritto alla casa familiare dopo la separazione

In caso di separazione o divorzio:

  • se ci sono figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti, la casa viene assegnata al genitore con cui i figli convivono stabilmente. Se la casa, ad esempio, è di proprietà esclusiva del padre, ma i figli vivono con la madre, la casa viene in genere assegnata alla madre per garantire la stabilità abitativa dei minori;
  • se non ci sono figli, l’assegnazione della casa segue i principi della proprietà, dell’uso o del possesso, salvo diversi accordi tra le parti.

Effetti dell’assegnazione della casa coniugale

L’assegnazione della casa non trasferisce la proprietà, ma comporta:

  • il diritto di abitazione gratuito per l’assegnatario;
  • la possibilità di registrare l’assegnazione nei pubblici registri immobiliari (art. 2643 c.c.);
  • il divieto per il proprietario di vendere o locare l’immobile in modo da pregiudicare il diritto dell’assegnatario.

Quando l’assegnazione può essere revocata

Il diritto all’uso della casa familiare non è eterno: può cessare quando:

  • I figli diventano economicamente autosufficienti o lasciano la casa;
  • cambiano le condizioni di affidamento (es. affidamento esclusivo all’altro genitore);
  • il genitore assegnatario convive con un nuovo partner in modo stabile, come riconosciuto dalla giurisprudenza di Cassazione.

La casa familiare nei rapporti patrimoniali

Per quanto riguarda il regime di ripartizione delle spese:

  • le spese di manutenzione ordinaria spettano al genitore assegnatario;
  • le spese straordinarie e le imposte gravano invece sul proprietario;
  • se la casa è in comproprietà, il coniuge non assegnatario può chiedere lo scioglimento della comunione, dopo la cessazione del diritto di abitazione.

Giurisprudenza di legittimità

La Cassazione è intervenuta più volte a sciogliere le questioni più controverse relative alla casa familiare.

Cassazione n. 308/2008: la casa familiare non è solo un luogo fisico, ma un vero e proprio centro di vita dove si coltivano affetti, interessi e abitudini quotidiane. Questo ambiente è fondamentale per la crescita e lo sviluppo della personalità dei figli. Di conseguenza, l’abitazione serve a proteggere i minori e a garantire il loro diritto di continuare a vivere nel proprio ambiente domestico, come stabilito dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione.

Cassazione n. 18603 del 2021: l’assegnazione della casa familiare si discosta dalle logiche patrimoniali o di mantenimento del coniuge in caso di separazione o divorzio. Il suo scopo principale è esclusivamente la tutela degli interessi dei figli.

Cassazione n. 8764/2023: per decide se un ex coniuge ha diritto all’assegno di divorzio, occorre considerare il termine “patrimonio” in un senso molto ampio. Questo significa che è necessario valutare ogni fattore che possa aumentare le risorse economiche della famiglia o anche solo dell’ex coniuge. Tra questi fattori rientra anche l’assegnazione della casa familiare.

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associazioni riconosciute

Associazioni riconosciute Associazioni riconosciute: cosa sono, quali sono e come si distinguono da quelle non riconosciute

Associazioni riconosciute: cosa sono

Le associazioni riconosciute si costituiscono per perseguire finalità comuni non economiche (culturali, religiose, sportive, benefiche, ecc.), dotandosi della personalità giuridica mediante un iter specifico di riconoscimento. A differenza delle associazioni non riconosciute, queste godono di un’autonomia patrimoniale perfetta, ossia il loro patrimonio è distinto da quello degli associati e degli amministratori.

Normativa di riferimento: artt. 14–35 c.c.

Le associazioni, in generale, sono regolate dal titolo II del libro I del codice civile (artt. 14–35 c.c.). Quelle riconosciute si distinguono in quanto acquisiscono personalità giuridica attraverso un atto formale di riconoscimento da parte dello Stato, sulla base di una valutazione dell’adeguatezza patrimoniale e della conformità dell’atto costitutivo e dello statuto alle norme vigenti.

Il riconoscimento avviene oggi ai sensi del D.P.R. 361/2000 per le persone giuridiche private non appartenenti al Terzo Settore, o tramite il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS) per gli enti iscritti.

Associazioni riconosciute: definizione e requisiti

Una associazione riconosciuta è un ente senza scopo di lucro che:

  • persegue una finalità lecita e di pubblica utilità (ad esempio culturale, educativa, sportiva, religiosa);
  • è dotata di atto costitutivo e statuto conformi alle disposizioni di legge;
  • è riconosciuta dallo Stato o da un ente pubblico competente, tramite l’iscrizione in appositi registri;
  • è in possesso di un patrimonio adeguato al perseguimento delle proprie finalità.

Differenza tra associazioni riconosciute e non riconosciute

Aspetto

Associazione riconosciuta

Associazione non riconosciuta

Personalità giuridica

No

Responsabilità patrimoniale

Limitata al patrimonio

Anche personale (degli amministratori)

Requisiti di costituzione

Atto pubblico + riconoscimento

Atto costitutivo anche privato

Controlli pubblici

Sì, anche su bilanci e statuti

Minori obblighi formali

Capacità giuridica piena

Sì, agisce in nome proprio

Agisce per il tramite di rappresentanti

La differenza principale tra queste due figure consiste nella responsabilità: nelle associazioni non riconosciute, in caso di debiti, possono essere chiamati a rispondere personalmente gli amministratori (art. 38 c.c.), mentre le associazioni riconosciute rispondono solo con il proprio patrimonio.

Come si costituisce un’associazione riconosciuta

Per ottenere il riconoscimento giuridico, è necessario:

  1. redigere un atto costitutivo e uno statuto, in forma pubblica;
  2. presentare richiesta all’autorità competente (Prefettura, Regione, RUNTS);
  3. dimostrare di possedere un patrimonio iniziale adeguato, normalmente non inferiore a 15.000 euro (variabile);
  4. attendere il provvedimento formale di riconoscimento e l’iscrizione nei registri previsti.

Nel caso di associazioni del Terzo Settore, l’iscrizione nel Registro Unico Nazionale (RUNTS) comporta il riconoscimento automatico della personalità giuridica, come stabilito dal D.lgs. n. 117/2017 (Codice del Terzo Settore).

Esempi di associazioni riconosciute

  • Associazioni culturali riconosciute (es. accademie, fondazioni artistiche);
  • Associazioni sportive dilettantistiche;
  • Associazioni di volontariato o promozione sociale;
  • Associazioni dei consumatori;
  • Associazioni per la protezione ambientale.

Giurisprudenza

La giurisprudenza civile ha spesso ribadito la distinzione tra soggettività giuridica e responsabilità patrimoniale, sottolineando come la concessione della personalità giuridica non dipenda dalla sola volontà delle parti, ma da un provvedimento amministrativo formale. Inoltre, è frequente l’intervento della Cassazione nei casi in cui si discute della responsabilità personale degli amministratori di associazioni non riconosciute, specie in caso di obbligazioni contratte in nome dell’ente.

 

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consiglio di supercondominio

Il consiglio di supercondominio Consiglio di supercondominio: definizione, funzioni, normativa, maggioranze decisionali e giurisprudenza rilevante

Cos’è il consiglio di supercondominio?

Il consiglio di supercondominio è un organo che facilita la gestione di un supercondominio, ossia un complesso formato da più edifici con parti comuni (come vialetti, impianti, parcheggi o giardini). Il consiglio non è obbligatorio per legge. Lo stesso però può essere istituito per agevolare il processo decisionale, coordinare le esigenze delle singole palazzine e rappresentare i condomini in assemblea. Il consiglio di supercondominio è un organo consultivo e di rappresentanza ed è composto dai delegati delle singole unità condominiali che fanno parte del supercondominio. Non ha poteri decisionali vincolanti, ma svolge un ruolo di raccordo tra le varie realtà condominiali. In questo modo facilita la gestione delle parti comuni.

Funzioni principali del consiglio di supercondominio

Da quanto accennato emerge quindi che il consiglio diu supercondomonio svolge principalmente le seguenti funzioni:

– Consulenza: supporta l’amministratore del supercondominio nella gestione delle parti comuni.
Rappresentanza: fa da tramite tra i singoli condomini e l’assemblea del supercondominio.
Coordinamento: agevola la comunicazione e la risoluzione dei problemi tra i diversi edifici.
Verifica delle spese: monitora l’uso delle risorse comuni per evitare sprechi.

Non è un organo obbligatorio, ma può essere previsto nel regolamento condominiale o deciso dall’assemblea del supercondominio.

Normativa di riferimento

Il supercondominio è regolato dagli articoli 1117-bis e 67 delle disposizioni di attuazione del codice civile, che disciplinano la gestione di beni comuni in strutture condominiali complesse. Tuttavia, il consiglio di supercondominio non è espressamente previsto dalla legge, ma può essere istituito in base alle seguenti norme:

Art. 67 disp. att. c.c.: stabilisce che, nei supercondomini con più di 60 partecipanti, i condomini devono nominare un rappresentante per ciascun edificio, che li rappresenti nelle assemblee del supercondominio.

Art. 1136 c.c.: disciplina le maggioranze necessarie per le delibere condominiali, applicabili anche al supercondominio.

Art. 1105 c.c.: regola l’amministrazione delle parti comuni in caso di comunione, applicabile in via analogica al supercondominio.

Il consiglio di supercondominio può essere previsto nel regolamento condominiale o istituito con una delibera assembleare a maggioranza.

Maggioranze necessarie per le decisioni

Le decisioni del consiglio di supercondominio non sono vincolanti, ma servono come supporto all’assemblea del supercondominio. Tuttavia, se il regolamento prevede che il consiglio abbia compiti specifici (ad esempio, la selezione di preventivi per lavori comuni), le sue decisioni devono essere ratificate dall’assemblea con le seguenti maggioranze:

Spese ordinarie (es. manutenzione del giardino condominiale): maggioranza semplice (50%+1 dei presenti).
Spese straordinarie (es. rifacimento del tetto di un edificio comune): maggioranza qualificata (almeno ⅔ dei millesimi).
Nomina di un rappresentante di palazzina: maggioranza semplice dei condomini della singola palazzina.

Se un edificio del supercondominio non partecipa alle spese per un determinato bene o servizio, i suoi rappresentanti non hanno diritto di voto sulle decisioni relative a quel bene.

Giurisprudenza sul consiglio di supercondominio

La giurisprudenza ha chiarito diversi aspetti del consiglio di supercondominio. Vediamo in che modo.

Cassazione n. 33057/2018: l’assemblea condominiale può legittimamente nominare una “commissione di condòmini” con il compito di esaminare preventivi e spese per lavori. Tuttavia, questa commissione non può sostituirsi all’assemblea nelle sue funzioni.

Ciò significa che le decisioni prese dalla commissione, come la scelta del contraente (ad esempio, un’impresa edile) e la ripartizione dei costi, sono vincolanti per tutti i condòmini (inclusi i dissenzienti) solo se approvate dall’assemblea con le maggioranze previste dalla legge. Di conseguenza, se l’amministratore stipula un contratto d’appalto per lavori di manutenzione straordinaria (non urgenti) basandosi sulle scelte della commissione, ma senza una delibera assembleare di approvazione, tale contratto non è legalmente opponibile ai condòmini. In altre parole, i condòmini non sarebbero vincolati da un contratto non approvato dall’assemblea.

Corte di Appello Torino n. 1667/2017: una delibera del Consiglio di Condominio è invalida se non ha un contenuto meramente consultivo, ma prende una vera e propria decisione, specialmente se non convocata dall’Amministratore. Questo perché il Consiglio di Condominio, secondo la Riforma del 2013, ha solo funzioni consultive e di controllo sull’operato dell’Amministratore (amministrativo, tecnico e contabile). Ad esempio, se un’Assemblea del Consiglio di Condominio decidesse sull’assegnazione di lavori di rifacimento di un terrazzo, eccederebbe chiaramente le sue prerogative, rendendo la delibera illegittima.

 

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moglie tradita

Risarcimento di 10.000 euro per la moglie tradita Moglie tradita: spetta il risarcimento del danno non patrimoniale di 10.000 euro per le umiliazioni e le mortificazioni

Risarcimento del danno per la moglie tradita

Alla moglie tradita, umiliata e mortificata a causa del tradimento del marito con una allieva della scuola di danza, che gestivano insieme, spetta un risarcimento del danno di 10.000 euro, quantificato in via equitativa. Lo ha deciso il Tribunale di Treviso nella sentenza n. 201/2025.

Moglie tradita: domanda di separazione con addebito

Una donna agisce in giudizio, vantando una richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti del suo ex marito. La coppia, sposatasi il 25 agosto 2007, dopo anni di frequentazione, condivideva una passione comune per la danza che li ha portati a fondare insieme una società sportiva di successo. Nel periodo tra settembre e novembre 2011 però, la donna scopre, visionando il cellulare del marito, che questi intratteneva una relazione extraconiugale con un’allieva della loro scuola di ballo. Circostanza ammessa dal marito nel momento in cui la moglie rinviene un biglietto inequivocabile scritto dall’amante. Nonostante le rassicurazioni del marito e il tentativo di salvare il matrimonio, la relazione extraconiugale prosegue anche nei primi mesi del 2012. A questo punto la moglie decide di abbandonare la casa coniugale nell’ottobre 2012 e avviare un giudizio di separazione con addebito.

Richiesta risarcitoria della moglie tradita

La sentenza di separazione, pubblicata il 19 febbraio 2019, riconosce la colpa in capo al marito, ma dichiara inammissibile la domanda risarcitoria in quella sede. La donna si rivolge quindi al Tribunale per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito, proponendo una liquidazione basata sulle tabelle milanesi in tema di danno da perdita del vincolo parentale o di diffamazione, da applicare per analogia.

Nessun risarcimento in assenza di danno

Il marito, costituitosi in causa, contesta la domanda risarcitoria. Per l’uomo la violazione del dovere di fedeltà non è sufficiente a giustificare un risarcimento del danno aquiliano. Occorre piuttosto che la lesione riguardi un diritto costituzionalmente garantito e che l’afflizione superi la soglia della normale tollerabilità. Tali presupposti però non sono ravvisabili nel caso di specie. Le parti hanno infatti alternato periodi di separazione di fatto. La moglie inoltre, già nel 2013, ha instaurato una relazione e una convivenza con un socio finanziatore della sua nuova attività imprenditoriale nel settore della danza. Circostanza questa che escluderebbe la violazione di un diritto alla salute. La moglie ha infatti dimostrato di saper riorganizzare sia la propria vita sentimentale che lavorativa. L’uomo nega inoltre che la sua condotta possa aver violato i diritti soggettivi della moglie come l’onore e la dignità personale, perché la relazione non è stata condotta in modo pubblico o ostentato. Per quanto riguarda il quantum del risarcimento infine, l’uomo ritiene del tutto sproporzionati i parametri scelti dall’attrice e non applicabili per analogia al loro caso.

Risarcimento danni non patrimoniali

Il Tribunale, istruita la causa, si pronuncia in favore della moglie sul diritto al risarcimento.

Il Giudice richiama a tale fine l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità per la quale la violazione del dovere di fedeltà coniugale può dar luogo a risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 c.c. Occorre però che l’afflizione superi la soglia della tollerabilità e si traduca nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto (salute, onore, dignità personale).

Nel caso specifico, il Tribunale ritiene integrati tali presupposti. Il tradimento, peraltro reiterato anche dopo le rassicurazioni dell’uomo di voler interrompere la relazione, si è verificato in un momento in cui la coppia aveva consolidato una solida progettualità, non solo attraverso la società di danza, ma anche con il comune desiderio di avere un figlio, come emerso dalla sentenza separativa.

Moglie tradita, umiliata e mortificata

Il Tribunale evidenzia come le modalità del tradimento abbiano provocato umiliazione e mortificazione alla donna. La relazione extraconiugale è infatti maturata nell’ambiente lavorativo della scuola di danza, con un’allieva verso cui l’uomo mostrava attenzioni particolari, notate dagli altri allievi e che hanno favorito il “vociferare nel corridoio” e il “malevolo pettegolezzo”. Le voci sulla relazione hanno circolato inoltre, non solo tra gli allievi, ma anche tra insegnanti di altre scuole. Un episodio significativo si è poi verificato durante una competizione all’estero. In questa occasione l’uomo è stato sorpreso in atteggiamenti intimi con l’allieva in presenza di altri allievi. Fatto questo che ha alimentato ulteriormente il chiacchiericcio.

Queste condotte, ritenute dal Tribunale superiori alla normale tollerabilità, hanno generato “strepitus”, curiosità e maldicenza di terzi. Questi fatti hanno ferito indubbiamente l’onore, il decoro, la stima professionale, la riservatezza e la privacy della donna, che ha vissuto momenti di depressione, tristezza e umiliazione, con innegabile pregiudizio morale.

Risarcimento del danno di 10.000 euro

Il Tribunale respinge però i parametri risarcitori proposti dall’attrice. Va infatti esclusa l’equiparazione del tradimento alla lesione del vincolo parentale o alla diffamazione a mezzo stampa, data la diversità dei presupposti costitutivi.

Il criterio risarcitorio da adottare è quello equitativo, ai sensi dell’articolo 1226 c.c, tenuto conto che:

  • il discredito subito dalla donna va circoscritto all’ambito lavorativo;
  • la lesione dei diritti soggettivi non le ha impedito di instaurare una nuova relazione sentimentale e di fondare una nuova scuola di danza con il compagno finanziatore;
  • il patimento e la tristezza sono durati circa due mesi.

Alla luce di tutti questi aspetti il Tribunale quantifica in € 10.000,00 il risarcimento dovuto alla moglie tradita.

 

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caso fortuito

Caso fortuito (art. 2051 c.c.) Caso fortuito (art. 2051 c.c.) nella responsabilità da cose in custodia: cos'è, come funziona e come provarlo

Responsabilità cose in custodia art. 2051 c.c

Prima di addentrarci nell’analisi del caso fortuito 2051 c.c è necessario precisare che nel sistema della responsabilità civile, l’art. 2051 del Codice civile disciplina la responsabilità del custode per i danni cagionati da cose in custodia. Si tratta di una forma di responsabilità oggettiva, che non richiede la colpa del custode, ma che può essere esclusa se il danno è causato dal caso fortuito.

Cos’è il caso fortuito 2051 c.c

Il caso fortuito 2051 c.c è un evento imprevedibile e inevitabile, che si verifica per una causa esterna alla cosa in custodia e che interrompe il nesso causale tra la cosa e il danno. Esso rappresenta l’unica causa di esonero dalla responsabilità del custode prevista espressamente dall’art. 2051 c.c.

In altre parole, anche se la cosa è sotto la custodia di un soggetto, quest’ultimo non risponde del danno se dimostra che esso è stato causato da un fattore estraneo alla propria sfera di controllo e gestione. Il caso fortuito può quindi consistere:

  • nel fatto di terzi (es. un danneggiamento doloso o colposo di un estraneo);
  • nella condotta imprevedibile della vittima (c.d. fatto del danneggiato);
  • in eventi naturali eccezionali (come nubifragi improvvisi o terremoti).

Responsabilità oggettiva del custode: una presunzione superabile

La responsabilità da cose in custodia, come stabilito dall’art. 2051 c.c., è presunta: non richiede prova della colpa del custode, ma la dimostrazione che:

  1. il danneggiante aveva la custodia della cosa;
  2. la cosa ha cagionato un danno;
  3. sussiste un nesso causale diretto tra la cosa e il danno.

Tuttavia, tale presunzione può essere superata se il custode riesce a provare il caso fortuito, ovvero a dimostrare che l’evento lesivo è dipeso da una causa a lui non imputabile, impossibile da prevedere e da evitare con la diligenza ordinaria.

Come si prova il caso fortuito 2051 c.c. 

La prova del caso fortuito 2051 c.c. grava sul custode. Egli deve dimostrare:

  • che l’evento che ha causato il danno era imprevedibile ed eccezionale;
  • che non vi era nessun nesso causale diretto tra la cosa e il danno;
  • che ha adottato tutte le misure di custodia idonee a prevenire il danno, ma l’evento si è verificato comunque.

Ad esempio, una caduta su una buca stradale può comportare la responsabilità dell’ente custode della strada. Tuttavia, se la buca si è formata per un evento imprevedibile (es. una rottura improvvisa causata da terzi) e il danno si è verificato prima che il custode potesse ragionevolmente intervenire, si può configurare il caso fortuito. In giurisprudenza, la valutazione avviene caso per caso: è necessario dimostrare che il comportamento diligente del custode non sarebbe comunque riuscito a evitare il danno.

Caso fortuito e fatto del terzo o della vittima

Come accennato sopra, il concetto di caso fortuito 2051 c.c include anche il cosiddetto:

  • fatto del terzo: quando un soggetto estraneo alla custodia interviene in modo autonomo e diretto nel causare il danno;
  • fatto del danneggiato: se la condotta della vittima è anormale, imprevedibile e determinante nella produzione dell’evento lesivo, può interrompere il nesso causale.

Tuttavia, affinché tali fatti abbiano efficacia esimente, devono essere autonomi, imprevedibili e dotati di forza causale esclusiva.

Quando non si configura il caso fortuito 2051 c.c. 

La giurisprudenza ha chiarito che non è sufficiente l’allegazione generica di eventi atmosferici o del comportamento di terzi per configurare il caso fortuito. In particolare:

  • l’omessa manutenzione (es. di scale, marciapiedi, impianti, ecc.) non è scusata dalla sola imprevedibilità del danno;
  • il custode non può invocare il caso fortuito se la cosa era in condizioni di degrado note o prevedibili.

Pertanto, anche eventi apparentemente accidentali possono non integrare il caso fortuito se rientrano nella normale prevedibilità o se derivano da una mancanza di vigilanza e custodia.

Considerazioni conclusive

Il caso fortuito 2051 c.c. costituisce una causa di esclusione della responsabilità oggettiva del custode, ma la sua applicazione è rigorosa e subordinata alla prova di un evento imprevedibile e inevitabile. Per evitare responsabilità, è fondamentale che il custode dimostri di aver adottato tutte le misure idonee alla corretta custodia della cosa e che il danno si sia verificato per cause totalmente estranee alla sua sfera di controllo.

 

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delibera annullabile

Condominio: delibera annullabile se i contrari pesano di più Per il tribunale di Lecce, una delibera è annullabile se i condòmini contrari rappresentano più millesimi, anche se i quorum minimi sono rispettati

Delibera annullabile e millesimi

Delibera annullabile se i contrari hanno più millesimi. Nel condominio, infatti, non basta rispettare i quorum previsti dall’art. 1136 c.c. per la validità delle delibere assembleari, se i voti contrari esprimono una maggioranza millesimale superiore. Questo il principio affermato dal Tribunale di Lecce con la sentenza n. 1620/2025, che ha accolto l’impugnazione di una delibera adottata in seconda convocazione per l’approvazione del rendiconto annuale.

Quorum rispettati ma contrari con più millesimi

La controversia nasce dalla delibera approvata da 30 condòmini (421 millesimi), contro cui si erano opposti 18 condòmini rappresentanti 539,91 millesimi. Nonostante il rispetto formale dei quorum minimi previsti dall’art. 1136, comma 3, c.c. (ossia maggioranza dei presenti e almeno un terzo del valore dell’edificio), il giudice ha ritenuto la delibera viziata e annullabile, poiché la volontà della maggioranza reale dei proprietari risultava sovrastata da una minoranza numericamente prevalente in millesimi.

Principio maggioranza: oltre il dato aritmetico

Il cuore della decisione risiede nell’applicazione del principio della maggioranza comparativa, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (tra cui le sentenze n. 25558/2020 e n. 16338/2020). Tale principio impone che, oltre al rispetto formale dei quorum, si valuti la comparazione tra voti favorevoli e contrari, sia sotto il profilo numerico, sia in termini di valore millesimale.

Questa interpretazione ha lo scopo di evitare che una minoranza, pur numericamente superiore, imponga decisioni alla maggioranza dei proprietari in termini di quote. È una garanzia sostanziale di democrazia condominiale, che tutela la reale volontà collettiva e l’equità nei processi deliberativi.

Invalidità della delibera

La delibera condominiale adottata in violazione della maggioranza comparativa non è nulla, ma annullabile, poiché affetta da un vizio sul procedimento di formazione della volontà assembleare. Si tratta di una lesione dell’equilibrio tra forma e sostanza nella rappresentanza condominiale, in cui il peso millesimale dei consensi diventa elemento centrale per la validità effettiva delle deliberazioni.

Il Tribunale salentino, seguendo una lettura funzionale e sistematica dell’art. 1136 c.c., ha posto l’accento sull’importanza di armonizzare i criteri numerici e patrimoniali, per evitare che il formalismo aritmetico si traduca in distorsioni antidemocratiche.

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soccida

La soccida La soccida: guida al contratto regolato dal codice civile, che disciplina la gestione condivisa degli animali tra soccidante e soccidario

Contratto di soccida: cos’è, come funziona

Il contratto di soccida è uno strumento giuridico tipico dell’impresa agricola, finalizzato alla gestione e all’allevamento di animali in forma condivisa tra due soggetti: il concedente (o soccidante) e il soccidario. Tale istituto è disciplinato dal codice civile agli articoli 2170 e seguenti, ed è tuttora utilizzato, seppur con modalità moderne, in particolare nel settore zootecnico e lattiero-caseario.

Normativa: articoli 2170- 2186 del codice civile

La disciplina della soccida è contenuta nel capo II, sezione IV, titolo II, libro V del codice civile. In sintesi:

  • Art. 2170 c.c. definisce la soccida come un contratto associativo mediante il quale una parte fornisce gli animali da allevare, e l’altra si impegna a curarli e condurli, con divisione degli utili e delle perdite secondo accordi.
  • Gli articoli 2171–2175 c.c. regolano le diverse forme di soccida, la ripartizione dei risultati e le modalità di cessazione del rapporto.
  • Gli articoli 2176-2186 c.c. invece disciplinano le vicende contrattuali.

Chi sono le parti del contratto di soccida

Il contratto viene stipulato tra due soggetti:

  • il soccidante: ossia colui che mette a disposizione gli animali (e talvolta i mezzi di produzione);
  • il soccidario: che è colui che si occupa invece dell’allevamento e della conduzione degli animali.

Entrambe le parti assumono rischi economici e hanno diritto a una quota dei risultati economici, che possono consistere in profitti (utili) o perdite.

Caratteristiche principali del contratto di soccida

Il contratto di soccida si distingue per le seguenti caratteristiche:

  • è un contratto associativo, non di lavoro subordinato né di appalto;
  • prevede la condivisione dei risultati, non un corrispettivo fisso;
  • riguardare sia beni mobili (animali da allevamento) sia, indirettamente, l’uso di terreni e strutture;
  • richiede forma scritta, anche per ragioni fiscali e previdenziali;
  • è soggetto a registrazione, ed è spesso monitorato dalla Pubblica Amministrazione per evitare abusi (es. interposizione fittizia di manodopera).

Tipologie di soccida

Il codice civile individua diverse forme di soccida, che si distinguono in base all’apporto delle parti.

  1. Soccida semplice: il soccidante fornisce gli animali, il soccidario li alleva.
  2. Soccida parziaria:  il bestiame viene conferito dai due contraenti nelle proporzioni convenute, e diventano comproprietari in proporzione al conferimento.

Durata e cessazione

Il contratto di soccida in genere è a termine, la durata è spesso legata al ciclo di vita o produttivo degli animali (es. ingrasso, lattazione, riproduzione). Se le parti non stabiliscono un termine la durata è di 3 anni (art. 2172 c.c.). Una volta giunto a scadenza il contratto non cessa di diritto. La parte che non vuole rinnovarlo deve comunicare però la disdetta almeno 6 mesi prima o nel termine maggiore stabilito dalla convenzione o dagli usi.  Se la parte non comunica la disdetta allora il contratto si rinnova di anno in anno.

Al termine del contratto si procede alla divisione degli animali dopo una nuova stima. Il soccidario, previo accordo don il soccidante preleva i capi nella misura corrispondente a quello apportato all’inizio tenuto conto dell’età, della razza, del sesso e del peso degli animali.

Quando conviene utilizzare il contratto di soccida

Il contratto di soccida è particolarmente utile in ambito agricolo e zootecnico, dove permette la condivisione dei rischi d’impresa tra chi ha capitale (animali, strutture) e chi offre lavoro e competenze. Il contratto però deve essere redatto con attenzione e trasparenza, evitando schemi elusivi che potrebbero essere riqualificati in sede ispettiva o fiscale.

Giurisprudenza sulla soccida 

Di seguito una serie di massime della Cassazione sulla soccida:

Cassazione n. 1146/2022: il contratto di soccida, disciplinato dagli articoli 2170 e seguenti del Codice Civile italiano, è un accordo agrario di tipo associativo. In pratica, due imprenditori collaborano per la gestione congiunta di un allevamento, con l’obiettivo di condividere gli incrementi del bestiame e i relativi profitti. Nel caso della soccida semplice, il soccidante (uno dei due imprenditori) fornisce gli animali e i mangimi necessari al loro mantenimento, occupandosi anche della direzione dell’attività di allevamento. Sia il soccidante che il soccidario (l’altro imprenditore) condividono il rischio d’impresa. In questa specifica tipologia, il regime speciale IVA per i produttori agricoli può essere applicato anche al soccidante, in quanto qualificabile come tale.

Tribunale di Parma, sentenza 11 agosto 2021: La soccida (art. 2170 c.c) è un contratto associativo agrario per la gestione del bestiame. Le parti si uniscono per un fine comune: ottenere la proprietà condivisa di prodotti e utili, non per una controprestazione. Questo scopo comune e la condivisione degli effetti la rendono simile a una società (art. 2247 c.c.), con particolare enfasi sull’acquisto della comune proprietà sul bestiame e i suoi frutti.

Cassazione n. 13739/2013: il soccidante, dirigendo l’impresa, ha responsabilità solidale per le condotte illecite del soccidario, anche per mancata vigilanza.

 

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caso fortuito e forza maggiore

Caso fortuito e forza maggiore Caso fortuito e forza maggiore: definizione, differenze e implicazioni giuridiche

Caso fortuito e forza maggiore

Nel linguaggio giuridico, i termini caso fortuito e forza maggiore sono spesso utilizzati in maniera intercambiabile, ma presentano distinzione concettuali e applicative rilevanti, soprattutto in ambito contrattuale e risarcitorio. Entrambi infatti pur rappresentando cause esimenti della responsabilità civile, si fondano su presupposti differenti.

Cosa si intende per caso fortuito

Il caso fortuito è un evento imprevedibile e inevitabile che si verifica per fattori interni o esterni al soggetto agente, e che interrompe il nesso causale tra un comportamento e il danno che ne deriva. Può consistere in:

  • un errore umano involontario ma non imputabile a negligenza;
  • un comportamento di terzi non controllabile;
  • una condotta anomala e imprevedibile della vittima;
  • eventi naturali improvvisi non preventivabili.

In generale, il caso fortuito si manifesta come un fattore causale estraneo alla volontà del soggetto, che non poteva essere né previsto né evitato con la normale diligenza.

Cosa si intende per forza maggiore

La forza maggiore, invece, è un evento straordinario, esterno e irresistibile, derivante da cause naturali o atti dell’autorità, che impedisce oggettivamente l’adempimento di un obbligo giuridico. Esempi tipici di forza maggiore includono:

  • le catastrofi naturali (terremoti, alluvioni, uragani);
  • i conflitti armati, sommosse, atti terroristici;
  • i provvedimenti autoritativi, come lockdown o chiusure forzate;
  • le epidemie e le pandemie (es. Covid-19).

La caratteristica essenziale della forza maggiore è che l’evento è esterno al soggetto e di tale entità da rendere impossibile l’adempimento, anche con la massima diligenza.

Differenze tra caso fortuito e forza maggiore

Riepilogando quindi, a parte la comune funzione di causa di esclusione della responsabilità, le due figure presentano differenze tecniche e giurisprudenziali:

Caso fortuito

Forza maggiore

Evento anche interno (es. errore umano, fatto del terzo)

Evento esclusivamente esterno

Può derivare da comportamenti non imputabili, ma non necessariamente straordinari

Deve essere un evento eccezionale e irresistibile

Rileva anche in ambito extracontrattuale (es. responsabilità da cose in custodia)

Rileva soprattutto in ambito contrattuale (es. inadempimento)

Focus sull’imprevedibilità e sull’interruzione del nesso causale

Focus sull’impossibilità oggettiva della prestazione

Dal punto di vista pratico, la giurisprudenza tende a valutarli congiuntamente come eventi che rendono l’inadempimento non imputabile, purché provati con rigore.

Rilevanza giuridica di caso fortuito e forza maggiore

Le due figure giuridiche assumono rilievo:

  • Nella responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., quale causa di esclusione dell’inadempimento imputabile;
  • Nella responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., e in ambiti specifici come la responsabilità per cose in custodia (art. 2051 c.c.);
  • Nel diritto del lavoro e negli appalti, per giustificare ritardi o sospensioni;
  • Nelle clausole contrattuali (force majeure clause), frequentemente inserite per disciplinare gli effetti di eventi eccezionali.

Prova del caso fortuito e della forza maggiore

La prova di queste esimenti è a carico del soggetto che le invoca , il quale deve dimostrare:

  • l’effettiva sussistenza dell’evento imprevedibile e inevitabile;
  • l’impossibilità oggettiva o l’interruzione del nesso causale;
  • l’adozione di tutte le misure idonee a evitare o limitare le conseguenze.

Nel caso della forza maggiore, è particolarmente rilevante la documentazione ufficiale (ordinanze, decreti, bollettini meteo, ecc.) che attesti l’evento straordinario.

Clausole contrattuali e pandemia

La recente esperienza della pandemia da Covid-19 ha posto al centro dell’attenzione il concetto di forza maggiore contrattuale, spesso invocata per giustificare la mancata esecuzione di obblighi pattuiti. Tuttavia, in assenza di una clausola espressa, l’applicazione delle esimenti si basa su una rigorosa valutazione casistica, e non è automatica.

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messa in mora

Messa in mora del creditore Messa in mora del creditore ex art. 1206 c.c.: normativa, funzionamento ed effetti

Cos’è la mora del creditore?

La messa in mora del creditore, disciplinata dall’articolo 1206 del Codice Civile, è una situazione giuridica che si verifica quando il creditore rifiuta senza giustificato motivo di ricevere la prestazione dovuta dal debitore o di compiere gli atti necessari affinché l’obbligazione possa essere adempiuta.

La mora del creditore si verifica quando quest’ultimo non collabora all’adempimento dell’obbligazione, rendendo impossibile al debitore l’esecuzione della prestazione. Questo principio tutela il debitore, impedendo che sia considerato inadempiente per cause a lui non imputabili.

L’art. 1206 c.c. stabilisce che il creditore è in mora quando:

  • rifiuta ingiustificatamente di ricevere la prestazione offerta dal debitore;
  • non compie gli atti necessari affinché il debitore possa adempiere all’obbligazione.

Esempi pratici:

  • il creditore non si presenta nel luogo concordato per il pagamento di una somma dovuta;
  • il locatore rifiuta di ricevere il pagamento del canone d’affitto dall’inquilino;
  • un venditore tenta di consegnare la merce, ma l’acquirente rifiuta di accettarla senza motivo valido.

Normativa e funzionamento della mora del creditore

Il Codice Civile disciplina la messa in mora del creditore attraverso una serie di articoli:

  • Art. 1206 c.c. – Definizione della mora del creditore;
  • Art. 1207 c.c. – Effetti della mora del creditore;
  • Art. 1208 c.c. – Offerta formale della prestazione;
  • Art. 1210 c.c. – Deposito liberatorio.

Per far valere la mora del creditore, il debitore deve provare di aver eseguito una offerta reale o formale della prestazione (art. 1208 -1209 c.c.), oppure di aver depositato la somma o il bene presso un istituto bancario o presso un notaio (art. 1210 c.c.).

Effetti della mora del creditore

La mora del creditore produce effetti giuridici rilevanti, così come sancisce l’articolo 1207 c.c.

  • Esclusione della responsabilità del debitore
    • Il debitore non può essere considerato inadempiente se l’obbligazione non viene eseguita a causa della condotta del creditore.
  • Cessazione dell’obbligo di risarcimento danni per ritardo
    • Il debitore non è tenuto a pagare interessi e frutti della cosa se il debitore non li ha percepiti
  • Risarcimento del danno
    • Il creditore deve risarcire i danni che derivano dalla sua mora al debitore.
  • Diritto al rimborso delle spese per custodia e conservazione del bene
    • Se il debitore è costretto a sostenere spese per la custodia e la conservazione del bene non accettato, può richiederne il rimborso al creditore

Come si fa valere la mora del creditore?

Per la messa in mora del creditore, il debitore deve compiere le seguenti azioni:

 Offerta formale della prestazione

L’offerta che il debitore presenta al creditore deve possedere i requisiti indicati dall’articolo 1206 c.c. (creditore o terzo capace di ricevere; persona che può adempiere; totalità della somma o cose dovute, termine scaduto; condizione verificata; aal creditore o al domicilio; dia un pubblico ufficiale autorizzato, consenso del debitore se occorre liberare i beni dalle garanzie)

 Deposito Liberatorio (Art. 1210 c.c.)

  • Se il creditore continua a rifiutare, il debitore può depositare la somma dovuta presso un notaio o un istituto di credito, come previsto dall’articolo 1210 c.c.
  • Se l’oggetto dell’obbligazione è una somma di denaro, il debitore può depositarla presso la Cassa Depositi e Prestiti o un altro ente autorizzato.
  • Se si tratta di un bene mobile, può essere affidato a un custode.

 Ricorso Giudiziale

Se il creditore continua a non collaborare, il debitore può agire in giudizio per ottenere una pronuncia che accerti la mora del creditore e lo obblighi a ricevere la prestazione.

 Giurisprudenza in materia

Ecco alcune sentenze fondamentali in materia di mora del creditore.

Cassazione n. 10605/2016: Nelle obbligazioni pecuniarie con termine di pagamento, è sufficiente che l’offerta reale della somma avvenga entro la scadenza. Non è invece necessario che entro tale termine siano completate anche le formalità successive al deposito, come la notifica al creditore del giorno del deposito o del verbale di deposito in caso di sua assenza. Queste formalità sono infatti solo eventuali e si rendono necessarie solo se il creditore non accetta l’offerta. Pertanto, il debitore può effettuare l’offerta reale anche l’ultimo giorno utile per il pagamento.

Cassazione n. 302/2015: Quando un creditore è in mora, il deposito della prestazione effettuato dal debitore ai sensi degli articoli 1210 e 1212 del Codice Civile (ad esempio, il deposito di una somma di denaro), se non viene accettato dal creditore, non estingue immediatamente l’obbligazione. Per liberare il debitore, è necessaria la convalida del deposito. Questa convalida può essere richiesta dal debitore anche in un momento successivo, ad esempio opponendosi a un precetto (atto di intimazione a pagare) che il creditore gli abbia notificato per ottenere l’adempimento dell’obbligazione. In tal caso, il debitore deve presentare una specifica domanda di convalida del deposito all’interno del giudizio di opposizione all’esecuzione. Spetta al debitore, in qualità di attore in questo giudizio, l’onere di allegare e provare che il deposito è stato eseguito correttamente e che sussistono i presupposti per la sua convalida.

Cassazione n. 20889/2012: La mora del creditore (o mora credendi) si verifica quando il creditore, senza un motivo legittimo, non accetta la prestazione offertagli dal debitore o non compie gli atti necessari per rendere possibile l’adempimento. Questo è quanto stabilito dall’articolo 1206 del Codice Civile. Di conseguenza, se il creditore non coopera, il debitore può subire dei danni. Questi danni, di cui all’articolo 1207, comma 3, del Codice Civile, possono includere, ad esempio, le spese sostenute per la conservazione della cosa dovuta o il lucro cessante per la mancata liberazione dall’obbligazione. Per far sì che si configuri la mora del creditore e per poter poi chiedere il risarcimento di tali danni, è fondamentale che il debitore abbia preventivamente eseguito un’offerta solenne della prestazione, ovvero un’offerta fatta secondo le formalità previste dalla legge.

 

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