Genitori responsabili dei profili social dei figli Genitori responsabili dei profili social dei figli: spetta a loro vigilare sulle attività, facendo attenzione anche ai software di manipolazione

Profili social dei figli

Genitori responsabili di quanto fanno i figli sui social. Essi hanno l’obbligo di controllare i profili social dei figli, anche se falsi, soprattutto se la prole è fragile o immatura. Il controllo serve a prevenire comportamenti illeciti o pericolosi. Non basta chiedere le password o dire di aver fatto il possibile. I genitori devono sorvegliare in modo attivo e costante. Il Tribunale di Brescia, con la recente sentenza n. 879/2025, ribadisce questo principio e condanna i genitori di una ragazza con un lieve ritardo intellettivo a risarcire 15mila euro alla vittima del comportamento della figlia.

Diffamazione aggravata e altri reati

Una ragazza crea più profili fake e con questi insulta una compagna e pubblica immagini pornografiche ottenute con un software di manipolazione delle immagini. Le indagini penali per diffamazione aggravata, atti persecutori e detenzione di materiale pedopornografico portano alla giovane.

I genitori della vittima decidono quindi di agire in giudizio e chiedono il risarcimento dei danni subiti dalla figlia. La giovane racconta infatti di aver ricevuto insulti continui su Instagram. A causa di questi episodi inoltre ha iniziato ad avere paura a uscire di casa da sola e ha temuto in diverse occasioni di essere  perseguitata da malintenzionati.

Genitori responsabili: attenzione massima ai social

Il Tribunale nel decidere sulle responsabilità e sul risarcimento richiesto, chiarisce quali sono i doveri dei genitori nella sorveglianza dei dispositivi digitali dei figli. Nel caso di specie la ragazza frequentava le superiori, aveva un’insegnante di sostegno e un’educatrice. Quest’ultima in particolare aveva avviato un percorso educativo sull’uso dei social, avvisando anche i genitori sui rischi di questi strumenti. Tutto questo però evidentemente non è bastato. La ragazza infatti ha creato molti profili falsi e sconosciuti alla famiglia e tramite questi ha commesso gli illeciti di rilievo penale che le sono stati contestati in sede penale.

I genitori si difendono dalle accuse loro rivolte, affermando di aver fatto il possibile. Il giudice però ritiene che quanto affermato non sia sufficiente. Per evitare la responsabilità genitoriale (art. 2047 c.c.) serve infatti dimostrare di non aver creato o tollerato situazioni pericolose. Il compito dei genitori è di prevenire i rischi, non di reagire solo quando è troppo tardi.

Massima attenzione anche alle immagini manipolabili

Il Tribunale si sofferma inoltre sull’impiego dei contenuti manipolati con software. I ragazzi oggi possono accedere facilmente a strumenti di intelligenza artificiale per modificare immagini o video. Per questo motivo i genitori devono aumentare ancora di più il controllo sui figli in relazione a questi strumenti. Lasciare i figli soli davanti allo schermo può avere infatti gravi conseguenze legali.

La giurisprudenza recente è concorde nel rafforzare l’obbligo di vigilanza dei genitori sull’utilizzo dei social da parte dei figli. I genitori sono chiamati a limitare sia il tempo sia le modalità di accesso ai social da parte dei figli. L’educazione digitale deve essere concreta e continua. Non basta dire ai figli cosa è giusto: è necessario verificare che lo mettano in pratica.

La precoce autonomia digitale dei minori non solleva i genitori dalle loro responsabilità. Al contrario, li obbliga a educare in modo ancora più attento e moderno. Serve un impegno reale nell’insegnare e verificare l’uso corretto delle tecnologie, inclusa l’intelligenza artificiale.

 

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divisori dei balconi

Divisori dei balconi in condominio Divisori dei balconi in condominio: cosa sono, normativa e ripartizione delle spese

Cosa sono i divisori dei balconi condominiali

I divisori dei balconi (o setti divisori) sono elementi verticali posti tra due balconi attigui di proprietà esclusiva, con la funzione di separare fisicamente e visivamente le unità immobiliari, garantendo privacy, sicurezza e, in alcuni casi, contribuendo al decoro architettonico della facciata condominiale. Possono essere realizzati in vari materiali: muratura, metallo, vetro opaco, PVC, o anche strutture leggere come grigliati e pannelli frangivista.

Pur essendo collocati tra balconi di proprietà privata, i divisori sono spesso soggetti a disciplina comune, soprattutto quando incidono sull’aspetto esteriore dell’edificio o sulla sua stabilità.

Normativa di riferimento

La disciplina dei divisori dei balconi condominiali si desume principalmente dal codice civile, in particolare dagli articoli:

  • Art. 1117 c.c. – beni comuni: nel caso in cui i divisori siano strutturalmente o funzionalmente collegati alla facciata, possono essere considerati parte comune;
  • Art. 1123 c.c. – ripartizione delle spese: occorre applicare la regola generale della proporzionalità al valore della proprietà;
  • Art. 1125 c.c. – spese per i muri divisori: la regola stabilisce la ripartizione a metà tra i proprietari delle unità separate;
  • Art. 1122 c.c. – innovazioni su parti di proprietà esclusiva: vieta interventi che pregiudichino il decoro architettonico o la stabilità dell’edificio.

La giurisprudenza ha più volte chiarito che, anche quando i balconi sono di proprietà esclusiva, i divisori verticali – se integrati nella facciata – assumono rilievo comune ai fini della tutela dell’aspetto architettonico dell’immobile.

Inoltre, l’installazione o modifica di divisori può richiedere autorizzazioni comunali o rispetto delle norme edilizie locali, specie nei casi di edifici vincolati o in zone soggette a tutela paesaggistica.

Tipologie di divisori tra balconi

I principali tipi di divisori in condominio sono:

  • muretti in laterizio o cemento;
  • pannelli in vetro satinato o opalino;
  • grigliati in legno o metallo;
  • pareti mobili o rimovibili in PVC o tessuto tecnico.

La scelta del tipo di divisorio deve rispettare l’estetica del fabbricato e non alterare la sicurezza, la salubrità o la stabilità delle strutture portanti.

Ripartizione delle spese per i divisori dei balconi

Uno degli aspetti più delicati riguarda la ripartizione delle spese di manutenzione, sostituzione o installazione dei divisori tra balconi.

Secondo l’art. 1125 c.c., le spese per la manutenzione dei muri divisori tra due proprietà contigue, come nel caso dei setti tra balconi, vanno ripartite in parti uguali tra i condomini proprietari dei balconi che il divisorio separa.

Ne consegue che:

  • se il divisorio è collocato tra due balconi di proprietà esclusiva, la spesa va divisa al 50% tra i due proprietari;
  • se il divisorio è parte integrante della facciata o dell’impianto architettonico condominiale, può essere considerato bene comune e la spesa va ripartita tra tutti i condomini secondo i millesimi di proprietà (art. 1123, comma 1, c.c.);
  • in caso di modifica unilaterale da parte di un solo condomino, questi ne sopporta interamente la spesa e risponde di eventuali danni o alterazioni al decoro (ex art. 1122 c.c.).

Anche gli interventi per il rifacimento dei divisori a seguito di infiltrazioni o degrado devono seguire il criterio del beneficio e della contiguità tra le proprietà, con eventuale delibera assembleare se l’opera incide sulle parti comuni.

Interventi e limiti da rispettare

Ogni intervento sui divisori quindi deve:

  • evitare modifiche che compromettano il decoro architettonico;
  • non limitare il diritto di veduta;
  • rispettare le distanze legali, previste dal codice civile o dai regolamenti edilizi locali.

Inoltre, qualora il divisorio sia modificato unilateralmente da un condomino (es. sostituzione di una parete opaca con una trasparente), l’amministratore può chiedere il ripristino dello stato originario qualora l’intervento risulti lesivo per il condominio.

 

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fermo tecnico

Il fermo tecnico Fermo tecnico: significato, normativa di riferimento, danno risarcibile e prova dello stesso, tipologie e giurisprudenza rilevante

Cos’è il fermo tecnico?

Il fermo tecnico è il periodo di tempo durante il quale un veicolo, un macchinario o un’attrezzatura non può essere utilizzato. Il mancato utilizzo può dipendere da un guasto o da un incidente che ne ha compromesso il normale funzionamento. Esso si verifica quindi quando un bene è immobilizzato per cause impreviste e necessita di riparazioni o interventi per tornare operativo.

Nel contesto di un incidente stradale, il fermo tecnico si riferisce al periodo in cui un veicolo non è utilizzabile perché danneggiato. Il proprietario quindi deve essere risarcito per i danni economici derivanti dalla perdita d’uso. Non si tratta di un danno fisico diretto al bene, ma di una perdita economica che può avere un impatto significativo sul reddito o sull’attività professionale.

Normativa di riferimento

Il fermo tecnico non ha una disciplina specifica all’interno del Codice Civile italiano. Esso si inserisce nel contesto delle disposizioni generali sui danni patrimoniali e sul risarcimento dei danni derivanti da incidenti e da responsabilità civile. Esso è collegato agli articoli 2043 e seguenti del Codice Civile, che trattano della responsabilità civile per i danni causati da fatti illeciti.

Nel caso di un incidente stradale, il danno da fermo tecnico viene generalmente risarcito dal responsabile dell’incidente. Costui infatti dovrà risarcire il danno subito dal proprietario del veicolo danneggiato. Il danneggiato può chiedere il risarcimento del fermo tecnico anche per il periodo in cui il veicolo o l’attrezzatura è inutilizzabile. La prova del danno può essere fornita da un preventivo di riparazione o da un certificato di inidoneità rilasciato da un professionista.

In cosa consiste il danno da fermo tecnico

Il danno da fermo tecnico consiste nella perdita di guadagni o nella riduzione della produttività a causa dell’incapacità di utilizzare il veicolo, il macchinario o l’attrezzatura. Ad esempio, nel caso di un incidente che danneggia un veicolo utilizzato per il lavoro, il danno da fermo tecnico si concretizza nel periodo in cui il mezzo non può essere impiegato, con conseguente perdita economica per l’azienda o per il professionista.

Nel caso di un veicolo, il danno può essere calcolato in base al costo del noleggio di un altro mezzo equivalente o al guadagno perso durante il periodo in cui il veicolo è stato immobilizzato. Per un macchinario, il danno da fermo tecnico può essere determinato attraverso una stima del valore economico che l’azienda perde per l’impossibilità di utilizzare l’attrezzatura, considerando la durata del fermo e il tipo di attività che viene impedita.

Tipologie di danno da fermo tecnico

  • Fermo tecnico di un veicolo: il danno si calcola sulla base della perdita economica derivante dall’impossibilità di utilizzare il mezzo (Es: attività commerciale che dipende dal trasporto).
  • Fermo tecnico di un macchinario: in questo caso, il danno riguarda il fermo produttivo e viene calcolato sulla base dei guadagni che l’impresa non è riuscita a realizzare a causa dell’impossibilità di utilizzare l’
  • Fermo tecnico in ambito professionale: può riguardare anche il caso di un libero professionista che non può utilizzare il proprio veicolo o attrezzatura per lavorare, con la conseguente perdita di reddito.

Come va dimostrato il danno

Dimostrare il danno da fermo tecnico è essenziale per poter chiedere il risarcimento. Per ottenere un risarcimento, il danneggiato deve fornire prove adeguate del periodo di fermo, della causa che ha provocato l’immobilizzazione del bene e della perdita economica derivante da tale fermo.

Documenti utili per dimostrare il danno

  • Certificato di inidoneità (nel caso di incidenti stradali): serve a documentare il danno subito dal veicolo o dal macchinario.
  • Preventivo o fattura di riparazione: serve per provare i costi necessari per riparare il danno e far tornare il bene operativo.
  • Testimonianze: nel caso di incidenti o guasti, può essere utile avere testimonianze di persone che hanno assistito all’incidente o che possono confermare il periodo di fermo del bene.
  • Documentazione commerciale: come contratti, ordini e fatture che provano la perdita economica derivante dal fermo tecnico, ad esempio la mancata esecuzione di un servizio.
  • Contratti di noleggio: in caso di sostituzione del veicolo danneggiato con uno a noleggio, i contratti di noleggio possono dimostrare il periodo di immobilizzazione e i costi sostenuti.

Giurisprudenza sul fermo tecnico

La giurisprudenza italiana ha trattato diversi casi relativi al fermo tecnico e al risarcimento dei danni derivanti da tale immobilizzazione. Di seguito alcune sentenze significative:

Cassazione n. 15262/2023: il danno da “fermo tecnico” di un veicolo incidentato non può considerarsi automaticamente sussistente (“in re ipsa”). Esso richiede un’adeguata prova. A tal fine, è sufficiente dimostrare l’effettiva spesa sostenuta per il noleggio di un mezzo sostitutivo, la cui riconducibilità causale all’illecito può essere desunta attraverso un ragionamento presuntivo.

Cassazione n. 7358/2023: il danno da fermo tecnico di un veicolo incidentato deve essere adeguatamente allegato e dimostrato. Non è sufficiente la sola prova della sua indisponibilità. Spetta al danneggiato fornire evidenza della spesa sostenuta per il noleggio di un veicolo sostitutivo o del mancato guadagno derivante dall’impossibilità di utilizzare l’auto. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto erronea la decisione del giudice di merito che aveva richiesto anche la prova della necessità della spesa, nonostante fosse già stata dimostrata l’effettiva erogazione dell’importo

Cassazione n. 27343/2024: nel caso di illegittimo fermo amministrativo, il danno non patrimoniale, anche se invocato per la presunta violazione di diritti di rango costituzionale, non è risarcibile quando si limita a incidere sulla quotidianità con disagi, fastidi, frustrazioni, ansie o altre forme di insoddisfazione di lieve entità. Tali conseguenze, non configurandosi come gravi, restano prive di rilevanza risarcitoria in quanto di natura bagatellare e non suscettibili di una quantificazione economica.

 

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impresa individuale

Impresa individuale Cos’è l’impresa individuale, qual è la normativa di riferimento e le caratteristiche, come aprirla e con quali costi

Cos’è l’impresa individuale

L’impresa individuale è una forma giuridica in cui un singolo individuo esercita un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. In questo contesto, il titolare dell’impresa assume personalmente tutte le decisioni e le responsabilità connesse all’attività.

Caratteristiche dell’impresa individuale

  • Semplicità di costituzione: l’avvio è relativamente semplice e non richiede un capitale minimo iniziale;
  • Gestione autonoma: il titolare ha il pieno controllo sulle decisioni aziendali e può avvalersi di collaboratori o dipendenti per lo svolgimento dell’attività;
  • Responsabilità illimitata: il titolare risponde con tutto il suo patrimonio personale per le obbligazioni assunte dall’impresa.

Normativa di riferimento

In Italia, questo istituto è regolato dal Codice Civile, in particolare dagli articoli 2082 e seguenti, che definiscono l’imprenditore e le modalità di esercizio dell’attività d’impresa.

Differenza tra ditta e impresa individuale

I termini “ditta individuale” e “impresa individuale” sono spesso utilizzati erroneamente come sinonimi. La “ditta” però è uno dei segni distintivi di un’impresa, è infatti il nome che l’impresa utilizza per identificarsi sul mercato. L’impresa individuale invece caratterizza l’attività svolta dall’imprenditore in modo organizzato, economico e professionale.

Vantaggi e svantaggi dell’impresa individuale

Vantaggi

  • Costi di avvio ridotti: non è necessario un capitale sociale minimo e le procedure burocratiche sono meno complesse rispetto ad altre forme giuridiche.
  • Gestione semplificata: il titolare ha il controllo diretto su tutte le operazioni e decisioni aziendali.

Svantaggi

  • Responsabilità personale illimitata: il titolare risponde con il proprio patrimonio personale per i debiti dell’impresa.
  • Capacità finanziaria limitata: essendo basata su un’unica persona, l’impresa potrebbe avere accesso limitato a risorse finanziarie rispetto a società con più soci.

Come aprire un’impresa individuale

Per avviare un’impresa individuale, è necessario seguire questi passaggi:

  1. Apertura della Partita IVA: richiedere l’attribuzione del numero di Partita IVA presso l’Agenzia delle Entrate.
  2. Iscrizione al Registro delle Imprese: registrare l’impresa presso la Camera di Commercio competente territorialmente.
  3. Comunicazione di inizio attività: presentare la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) al Comune dove ha sede l’impresa.
  4. Iscrizione agli enti previdenziali: Registrarsi presso l’INPS e, se previsto, all’INAIL per le coperture assicurative obbligatorie.

Numero di dipendenti

Non esiste un limite specifico al numero di dipendenti che un’impresa individuale può assumere. Il titolare può decidere liberamente in base alle esigenze operative e alle capacità finanziarie dell’impresa.

Responsabilità per i debiti

Il titolare è personalmente responsabile per tutti i debiti e le obbligazioni dell’impresa. Ciò significa che, in caso di insolvenza, i creditori possono rivalersi sia sul patrimonio aziendale che su quello personale dell’imprenditore.

Costi di avvio

I costi per avviarla possono variare, ma generalmente includono:

  • Imposta di bollo e diritti di segreteria: circa 120€ – 400€, a seconda della Camera di Commercio locale;
  • Diritto annuale camerale: importo variabile in base al tipo di attività e alla provincia;
  • Spese per consulenze professionali: eventuali costi per commercialisti o consulenti per l’assistenza nelle pratiche burocratiche;

È consigliabile consultare gli enti locali o professionisti del settore per ottenere informazioni aggiornate sui costi specifici.

 

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diritti e doveri dei coniugi

Diritti e doveri dei coniugi Diritti e doveri dei coniugi: quali sono, le norme di riferimento, le conseguenze previste dalla legge in caso di violazione

Diritti e doveri derivanti dal matrimonio

Il matrimonio in Italia comporta una serie di diritti e doveri dei coniugi, così come sanciti dall’articolo 143 del Codice Civile. Tali obblighi hanno lo scopo di garantire la stabilità e la collaborazione all’interno del rapporto coniugale, regolando gli aspetti fondamentali della vita matrimoniale.

L’articolo 143 del Codice Civile stabilisce che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”. In particolare, i coniugi sono tenuti a rispettare i seguenti obblighi:

1. Obbligo di fedeltà

  • I coniugi devono mantenere reciproca fedeltà, evitando comportamenti che possano compromettere la fiducia e l’integrità del rapporto matrimoniale.

2. Obbligo di assistenza morale e materiale

  • I coniugi devono sostenersi reciprocamente, sia dal punto di vista morale che economico. Ciò implica un dovere di cura e supporto nei momenti di difficoltà.

3. Obbligo di collaborazione nell’interesse della famiglia

  • I coniugi devono contribuire al benessere familiare, sia attraverso il lavoro domestico che mediante attività lavorative esterne.

4. Obbligo di coabitazione

  • La convivenza è un elemento essenziale del matrimonio, salvo giustificati motivi che ne impediscano l’attuazione (ad esempio, esigenze lavorative o motivi di salute).

5. Obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia

I coniugi devono infine contribuire ai bisogni della famiglia, ciascuno in base alle proprie sostanze e alle rispettive capacità professionali o di lavoro casalingo.

Normativa diritti e doveri dei coniugi

Oltre all’articolo 143 del Codice Civile, ci sono altre norme che regolano i diritti e doveri dei coniugi:

  • Articolo 144 c.c.: disciplina l’accordo tra i coniugi sull’indirizzo della vita familiare e sulla residenza della famiglia in base alle esigenze di entrambi e della stessa.
  • Articolo 145 c.c.: regola l’intervento del giudice in caso di disaccordo sulla convivenza o su altri affari essenziali della famiglia.
  • Articolo 146 c.c.: prevede l’esonero dall’assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge che si allontana senza giusta causa dalla residenza familiare.
  • Articolo 147 c.c.: sancisce i doveri dei coniugi verso i figli.

Violazione doveri coniugali 

La violazione dei doveri matrimoniali può comportare diverse conseguenze di natura giuridica:

1. Separazione per colpa

Se uno dei coniugi viene meno ai propri doveri matrimoniali in maniera grave, l’altro coniuge può richiedere la separazione con addebito. Questo significa che il coniuge responsabile perderà alcuni diritti, come l’eventuale assegno di mantenimento.

2. Domanda di divorzio

In caso di rottura irreversibile del rapporto coniugale, il mancato rispetto dei doveri coniugali può essere una delle cause scatenanti il divorzio.

3. Riflessi economici

La violazione degli obblighi di assistenza materiale può portare a richieste di risarcimento danni o all’obbligo di versare un assegno di mantenimento in favore del coniuge economicamente più debole.

 

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quietanza di pagamento

La quietanza di pagamento Quietanza di pagamento: cos'è, quale forma deve avere, quali dati deve contenere, giurisprudenza e fac-simile

Cos’è la quietanza di pagamento e a cosa serve

La quietanza di pagamento è un documento con cui il creditore attesta di aver ricevuto un pagamento da parte del debitore, liberandolo dall’obbligazione. Questo strumento ha una funzione probatoria, dimostrando l’avvenuto saldo di un debito e prevenendo eventuali contestazioni future.

La quietanza può riguardare qualsiasi tipologia di pagamento, come il saldo di fatture, la chiusura di un prestito o il pagamento di un contratto di locazione. La sua importanza è fondamentale sia in ambito commerciale che civile, poiché certifica in modo inequivocabile l’adempimento di un’obbligazione.

La quietanza nel codice civile

La norma di riferimento per questo istituto è l’articolo 1199 del codice civile, che disciplina il diritto del debitore alla quietanza. La norma dispone infatti che il creditore che riceve il pagamento dal debitore, su richiesta di questo soggetto, deve a spese del richiedente, rilasciare quietanza e annotarlo sul titolo, se questo non viene restituito al debitore.

Forma e contenuto del documento

La quietanza di pagamento deve essere rilasciata in forma scritta.  Questa forma è preferibile per garantire certezza giuridica e maggiore tutela in caso di contestazioni.

Contenuto essenziale della quietanza di pagamento

Affinché la quietanza sia valida, deve contenere i seguenti elementi:

  • dati delle parti: nome e cognome del creditore e del debitore (o ragione sociale in caso di aziende);
  • importo pagato: cifra esatta corrisposta in numeri e in lettere;
  • causale del pagamento: specificazione dell’obbligazione adempiuta (es. pagamento fattura n. XXXX, saldo prestito, affitto mensile);
  • data e luogo del pagamento;
  • modalità di pagamento: contanti, bonifico bancario, assegno, ecc.;
  • firma del creditore: elemento essenziale per la validità della quietanza.

Giurisprudenza

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito il valore probatorio della quietanza di pagamento, stabilendo alcuni principi fondamentali.

Cassazione n. 19034/2024: la quietanza non è soggetta a particolari requisiti formali previsti dalla legge e può essere contenuta in qualsiasi documento che attesti in modo inequivoco l’avvenuto pagamento, specificandone l’importo e la causale. Tuttavia, affinché abbia valore di confessione stragiudiziale con piena efficacia probatoria, deve essere rilasciata e sottoscritta dal creditore, poiché solo la firma conferisce al documento la validità probatoria tipica della scrittura privata, come stabilito dall’art. 2702 c.c.

Cassazione n. 5945/2023: Il creditore che, rilasciando una quietanza al debitore, riconosce di aver ricevuto il pagamento, effettua una confessione stragiudiziale opponibile alla controparte, con pieno valore probatorio ai sensi degli articoli 2733 e 2735 del codice civile. Pertanto, egli non può contestare tale dichiarazione se non dimostrando, conformemente a quanto previsto dall’articolo 2732 c.c., che essa è stata resa per errore di fatto o sotto costrizione, non essendo sufficiente provare la falsità della dichiarazione stessa.

Cassazione n. 23875/2021: La quietanza rilasciata al debitore costituisce prova piena dell’avvenuto pagamento. Se prodotta in giudizio, il creditore non può dimostrare tramite testimoni l’inesistenza del pagamento, ma solo provare che la dichiarazione è stata resa per errore di fatto o sotto violenza. Inoltre, affinché l’errore possa determinare l’annullamento, deve presentare i requisiti di essenzialità e riconoscibilità previsti dall’art. 1428 c.c.

Fac-simile di quietanza

Ecco un modello di quietanza di pagamento che può essere utilizzato per attestare l’avvenuta corresponsione di una somma dovuta:

QUIETANZA DI PAGAMENTO

Io sottoscritto/a [Nome e Cognome del creditore], nato/a il [data di nascita], residente in [indirizzo], codice fiscale [codice fiscale], in qualità di creditore, dichiaro di aver ricevuto da [Nome e Cognome del debitore], nato/a il [data di nascita], residente in [indirizzo], codice fiscale [codice fiscale], la somma di € [importo] ([importo in lettere]), a saldo dell’obbligazione relativa a [causale del pagamento, es. fattura n. XXXX, contratto di locazione, ecc.].

Il pagamento è avvenuto in data [data del pagamento] mediante [modalità di pagamento: bonifico bancario, contanti, assegno, ecc.].

Con la presente quietanza, dichiaro integralmente soddisfatta l’obbligazione di cui sopra e libero il debitore da ogni ulteriore pretesa relativa al pagamento in oggetto.

Luogo e data: ________________

Firma del creditore: ________________

 

 

 

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vespaio

Il vespaio: regime condominiale Il vespaio in condominio: cos’è e a cosa serve, disciplina, qual’è la sua natura giuridica e come vengono ripartite le spese di manutenzione

Cos’è il vespaio e a cosa serve?

Il vespaio è una struttura edilizia situata tra il suolo e il pavimento del piano terra di un edificio, composta generalmente da uno spazio vuoto o da un sistema di elementi modulari in plastica o calcestruzzo. La sua funzione principale è migliorare l’isolamento termico e impedire l’umidità di risalita, oltre a garantire una maggiore protezione contro infiltrazioni d’acqua e la presenza di gas nocivi come il radon.

Il vespaio è un bene comune? 

Uno dei principali quesiti in ambito condominiale riguarda la qualificazione del vespaio come bene comune o pertinenza esclusiva di alcuni condomini.

Ai sensi dell’art. 1117 c.c., rientrano tra le parti comuni dell’edificio le strutture essenziali alla stabilità, sicurezza e funzionalità dell’immobile. La giurisprudenza ha più volte chiarito che, salvo diversa indicazione nel titolo di proprietà o nel regolamento condominiale, il vespaio deve considerarsi una parte comune, in quanto necessario alla stabilità e all’isolamento dell’edificio.

Tuttavia, se il vespaio è stato realizzato successivamente da un singolo condomino per migliorare il comfort del proprio appartamento senza incidere sulla struttura portante dell’edificio, potrebbe essere considerato una pertinenza esclusiva.

Ripartizione delle spese del vespaio

Poiché il vespaio ha la funzione di preservare l’integrità strutturale dell’edificio e migliorare l’abitabilità degli ambienti, le spese per la sua manutenzione e riparazione sono generalmente a carico di tutti i condomini, in proporzione ai millesimi di proprietà (art. 1123 c.c.).

Tuttavia, si possono verificare delle eccezioni:

  • se il vespaio serve esclusivamente un’unità immobiliare, il costo della manutenzione spetterà al relativo proprietario;
  • se il titolo di proprietà o il regolamento di condominio dispone diversamente, le spese possono essere ripartite in modo differente;
  • se l’intervento sul vespaio è legato a un abuso edilizio o a una modifica non autorizzata da parte di un condomino, le spese saranno interamente a suo carico.

Giurisprudenza sul vespaio condominiale

La giurisprudenza ha fornito diverse indicazioni in merito alla natura condominiale del vespaio.

Cassazione n. 8252/2025

Secondo l’interpretazione giuridica, il vespaio sottostante il pavimento del piano terra, se realizzato con uno strato di materiale inerte e avente la sola funzione di isolamento e separazione tra la superficie di sedime e la soletta inferiore, non è considerato parte del suolo comune ai sensi dell’articolo 1117 del Codice Civile. Questo perché tale manufatto è specificamente destinato a migliorare le condizioni abitative dell’unità immobiliare al piano terra, pur poggiando sul suolo comune. In altre parole, la sua funzione è strettamente legata alla singola unità abitativa e non al condominio nel suo insieme.

Cassazione n. 18216/2017

L’intercapedine tra le fondamenta e il piano terra, utilizzata per l’aerazione e la coibentazione dell’edificio, è considerata parte comune del condominio, a meno che i titoli di acquisto non stabiliscano diversamente. Pertanto, la Corte d’Appello ha commesso un errore nel considerare il vespaio sottostante l’unità immobiliare al piano terra come proprietà esclusiva del proprietario di tale piano e nell’escludere che i danni causati dal suo cattivo stato debbano essere interamente a carico del condominio.

Cassazione n. 23304/2014

Secondo la giurisprudenza della Cassazione, il vespaio, ovvero l’intercapedine tra le fondamenta e la prima soletta del piano interrato di un edificio condominiale, è generalmente considerato di proprietà comune. Questa interpretazione deriva dalla funzione del vespaio, che è quella di garantire l’aerazione e la coibentazione dell’edificio. Tuttavia, questa regola generale può essere derogata se i titoli d’acquisto, come il regolamento contrattuale o il rogito, specificano diversamente. In assenza di tali specificazioni, le spese relative alla costruzione e alla manutenzione del vespaio devono essere ripartite tra tutti i condomini, in proporzione ai rispettivi millesimi di proprietà.

 

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comunione dei beni

La comunione dei beni Comunione dei beni: regime patrimoniale legale della famiglia: come funziona e differenza con la separazione dei beni

Cos’è la comunione dei beni

La comunione dei beni è il regime patrimoniale legale previsto dall’ordinamento italiano per le coppie sposate, disciplinato dagli articoli 159 e seguenti del Codice Civile. In assenza di una diversa scelta espressa dai coniugi, questo regime si applica automaticamente al matrimonio, determinando la condivisione dei beni acquisiti durante la vita coniugale.

Cos’è il regime patrimoniale della famiglia?

Il regime patrimoniale della famiglia stabilisce le norme che regolano la proprietà e la gestione dei beni dei coniugi durante il matrimonio. In Italia, i principali regimi patrimoniali sono la comunione dei beni e la separazione dei beni. La scelta del regime influisce significativamente sulla titolarità e sull’amministrazione del patrimonio familiare.

Come funziona

In virtù di questo regime i beni acquistati dai coniugi durante il matrimonio, sia congiuntamente che separatamente, diventano automaticamente di proprietà comune. Questo implica che entrambi i coniugi possiedono una quota indivisa del 50% su tali beni, indipendentemente dal contributo economico effettivamente apportato da ciascuno.

Beni rientranti nella comunione

Secondo l’articolo 177 del Codice Civile, rientrano nella comunione legale:

  • i beni acquistati dai coniugi durante il matrimonio, ad eccezione di quelli personali;
  • gli utili e gli incrementi delle aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio;
  • i frutti dei beni propri di ciascun coniuge, se percepiti e non consumati al momento dello scioglimento della comunione.

Beni esclusi dalla comunione

Sono esclusi dalla comunione e considerati beni personali:

  • i beni posseduti prima del matrimonio dal singolo coniuge;
  • i beni acquisiti durante il matrimonio per donazione o successione, salvo diversa volontà del donante o del testatore di destinarli alla comunione.
  • i beni di uso strettamente personale e quelli necessari all’esercizio della professione di ciascun coniuge.
  • i beni ottenuti a titolo di risarcimento per danni e pensioni attinenti alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa.

Vantaggi e svantaggi della comunione dei beni

L’istituto della comunione applicata ai coniugi presenta vantaggi e svantaggi. Vediamoli più in dettaglio.

Vantaggi

  • parità patrimoniale: entrambi i coniugi beneficiano equamente dei beni acquisiti durante il matrimonio;
  • tutela del coniuge economicamente più debole: garantisce una protezione patrimoniale a chi ha contribuito meno finanziariamente.

Svantaggi

  • responsabilità condivisa: i debiti contratti per esigenze familiari ricadono su entrambi i coniugi;
  • limitazioni nella gestione autonoma: per atti di straordinaria amministrazione è necessario il consenso di entrambi.

Differenze con la separazione dei beni

Nel regime di separazione dei beni, ciascun coniuge mantiene la proprietà esclusiva dei beni acquisiti sia prima che durante il matrimonio. Questo comporta una netta distinzione patrimoniale, offrendo maggiore autonomia nella gestione dei propri beni. Tuttavia, in caso di scioglimento del matrimonio, il coniuge che ha contribuito meno economicamente potrebbe trovarsi in una posizione svantaggiata.

Principali differenze

  • Proprietà dei beni: nella comunione, i beni acquisiti durante il matrimonio sono condivisi; nella separazione, ogni coniuge è proprietario esclusivo dei beni acquistati a proprio nome.
  • Gestione patrimoniale: nella comunione, per atti di straordinaria amministrazione è richiesto il consenso di entrambi; nella separazione, ciascun coniuge gestisce autonomamente i propri beni.
  • Responsabilità sui debiti: i debiti contratti per esigenze familiari gravano su entrambi; nella separazione, ciascun coniuge risponde dei propri debiti, salvo quelli contratti per necessità familiari.

 

 

Leggi anche l’articolo dedicato all’altro tipo di comunione art. 1100 c.c seguenti previsto dal nostro ordinamento in materia di condominio

legato remuneratorio

Il legato remuneratorio Il legato remuneratorio: definizione, l’articolo 632 c.c., gli effetti, differenze con la donazione rimuneratoria e giurisprudenza

Cos’è il legato remuneratorio

Il legato remuneratorio è una disposizione testamentaria con cui il testatore attribuisce un bene o un diritto a un soggetto per ricompensarlo di servizi o benefici ricevuti in vita, senza che vi sia un obbligo giuridico di corrispettivo. Si distingue dalla donazione remuneratoria, poiché opera mortis causa.

Normativa di riferimento: articolo 632 c.c.

Il comma 2 dell’articolo 632 del Codice Civile disciplina il legato remuneratorio, stabilendo che “Sono validi i legati fatti a titolo di rimunerazione per i servizi prestati al testatore, anche se non ne sia indicato l’oggetto o la quantità.”

Per comprendere il significato del legato rimuneratorio occorre menzionare però anche il comma 1 della norma, ai sensi del quale: “È nulla la disposizione che lascia al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo di determinare l’oggetto o la quantità del legato.”

In sostanza il legislatore ammette il legato per riconoscenza, a condizione che la volontà testamentaria venga rispettata e non sia rimesso a un terzo o al beneficiario del legato compreso, la determinazione arbitraria dell’oggetto o della quantità del legato stesso.

Effetti del legato remuneratorio

  1. Acquisto automatico: come ogni legato, si acquista di diritto alla morte del testatore, senza necessità di accettazione espressa, salvo rinuncia;
  2. Irriducibilità totale o parziale: se il valore del legato eccede la quota disponibile, può essere ridotto a tutela dei legittimari;
  3. Diritto di prelazione: in alcuni casi, il legatario può vantare un diritto di prelazione sul bene rispetto agli eredi;
  4. Esonero dai debiti ereditari: il legatario non risponde delle passività ereditarie oltre il valore del legato ricevuto.

Differenze con la donazione remuneratoria

A differenza della donazione remuneratoria (disciplinata dall’art. 770 c.c.), che è un atto inter vivos, il legato remuneratorio produce effetti solo alla morte del testatore e non richiede accettazione espressa.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire alcuni aspetti applicativi dell’articolo 632 c.c

Cassazione n. 191/1970: l’art. 632, comma 1, c.c., prevede la nullità della disposizione testamentaria quando l’oggetto o la quantità del legato sono rimessi al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo. Tuttavia, tale norma non si estende alla scelta della data di esecuzione della prestazione, anche se questa può influire sull’ammontare del legato.

 

Leggi anche: Testamento: no all’interpretazione troppo “tecnica”

usucapione breve

Usucapione breve Usucapione breve: cos'è, tipologie, caratteristiche distintive ed elementi comuni all’usucapione breve sugli immobili

Usucapione breve: definizione generale

L’usucapione breve è una forma accelerata di acquisto della proprietà o di altri diritti reali di godimento su un bene immobile che si realizza con il possesso continuato nel tempo. Rispetto all’usucapione ordinaria, che richiede un possesso ventennale, quella abbreviata riduce i tempi a 10 e a 5 anni, a seconda dei casi.

Tipologie  

1. Usucapione abbreviata decennale (art. 1159 c.c.)

  • riguarda gli immobili e i diritti reali di godimento sugli immobili;
  • l’acquisto deve avvenire in buona fede e da chi non è proprietario dell’immobile;
  • il possesso deve essere in buona fede e derivare da un titolo idoneo a trasferire la proprietà (es. atto di compravendita nullo per vizi formali);
  • il titolo deve essere trascritto nei registri immobiliari;
  • dopo 10 anni di possesso continuato, il possessore può ottenere la proprietà del bene in presenza di tutti i requisiti sopra indicati.

2. Usucapione speciale per la piccola proprietà rurale (art. 1159 bis c.c)

  • riguarda i fondi rustici con fabbricati annessi situati nei comuni montani, così come definiti dalla legge;
  • l’acquisto deve avvenire da chi non è proprietario dell’immobile;
  • il possesso deve  avvenire in buona fede in forza di un titolo idoneo a trasferire la proprietà;
  • il titolo deve essere trascritto nei registri immobiliari;
  • dopo 5 anni dalla data di trascrizione, si compie l’usucapione.

Questa seconda tipologia di usucapione è regolata, dal punto di vista procedurale, da leggi speciali. Essa si realizza anche su fondi rustici con fabbricati annessi presenti in comuni non montani, ma in questi casi il reddito dell’immobile non deve superare certi limiti.

Elementi chiave 

Gli elementi che caratterizzano questo tipo particolare di usucapione possono essere così sintetizzati:

  • il possesso pacifico e ininterrotto: il possesso deve essere esercitato in modo continuativo, senza interruzioni e senza contestazioni;
  • la buona fede: il possessore deve essere convinto, in modo ragionevole, di essere il legittimo proprietario del bene;
  • il titolo idoneo: deve trattarsi di un contratto valido che, se non fosse nullo o inefficace,  potrebbe trasferire la proprietà;
  • trascrizione nei registri pubblici: questo elemento è essenziale per l’usucapione abbreviata sugli immobili e sulle piccole proprietà rurali.

Leggi anche:  “Usucapione: la guida