incapacità di testare

Incapacità di testare Incapacità di testare: cos’è, in quali casi è presente, effetti e cosa prevede l’art. 591 del codice civile

Cos’è l’incapacità di testare?

L’incapacità di testare è una condizione giuridica che impedisce a una persona di disporre del proprio patrimonio tramite testamento. Il Codice Civile, all’articolo 591, disciplina i casi in cui un soggetto non può redigere un testamento valido, garantendo la tutela degli interessi degli eredi e della volontà testamentaria.

L’incapacità di testare si verifica quando un soggetto non è in grado, per legge o per condizioni personali, di esprimere una volontà testamentaria valida. Il testamento redatto da un soggetto incapace può essere pertanto impugnato da chiunque vi abbia interesse, nel termine di prescrizione di 5 anni che dicono dal momento in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.

Casi di incapacità di testare previsti dall’art. 591 c.c.

L’art. 591 c.c individua tre categorie principali di soggetti incapaci di testare:

1. Minori di età

I minori di 18 anni non possono fare testamento, anche se emancipati. La ratio della norma è che i minori non abbiano la maturità sufficiente per disporre consapevolmente del proprio patrimonio.

2. Interdetti per infermità di mente

Le persone dichiarate interdette giudizialmente a causa di una grave patologia mentale non possono testare. L’interdizione viene pronunciata dal tribunale e comporta la totale incapacità legale di agire.

3. Incapaci di intendere e di volere al momento del testamento

Anche se una persona non è formalmente interdetta, il testamento può essere impugnato se il testatore, al momento della redazione, si trovava in uno stato di incapacità di intendere e di volere dovuto, ad esempio, a:

  • malattie psichiatriche;
  • intossicazione da farmaci o sostanze stupefacenti;
  • grave infermità fisica che comprometta la lucidità mentale.

Effetti della dichiarazione di incapacità di testare

Se viene accertata l’incapacità del testatore, il testamento può essere dichiarato nullo su richiesta di chiunque vi abbia interesse (eredi legittimi o altri aventi diritto). La nullità comporta:

  • l’invalidità delle disposizioni testamentarie;
  • il ritorno all’eredità secondo le regole della successione legittima;
  • l’esclusione degli eredi nominati nel testamento invalido.

Giurisprudenza sull’incapacità di testare

Cassazione n. 9534/2025: Il fatto che una persona si esprima a monosillabi o con gesti del capo non invalida il testamento, a patto che queste siano le uniche modalità di comunicazione possibili a causa di un deficit motorio che non compromette la sua capacità di intendere e di volere, né la possibilità di esprimere in modo comprensibile le sue intenzioni. Non si può negare la validità di un consenso manifestato in questo modo, né contestare l’autenticità e la completezza dell’espressione di volontà, soprattutto se il giudice ha riscontrato queste condizioni in concreto e la sua motivazione è priva di vizi.

Corte Appello Milano n. 2731/2024: Anche senza una documentazione medica chiara e lineare che attesti le condizioni mentali del testatore, per annullare un testamento ai sensi dell’articolo 591, comma 3, del codice civile, l’incapacità del defunto può essere desunta dal contenuto del testamento stesso e, in particolare, dalle modalità con cui è stato redatto

Cassazione n. 42124/2021: Quando si tratta di dimostrare l’incapacità di un testatore al momento della stesura del testamento, l’articolo 591, comma 2, n. 3, del codice civile stabilisce che tale incapacità deve essere provata proprio in quel momento specifico. Tuttavia, questa norma non significa che le prove debbano limitarsi esclusivamente a quel frangente. Al contrario, il giudice può considerare le condizioni mentali del testatore sia prima che dopo la redazione del testamento, utilizzando queste informazioni come base per una presunzione. In definitiva, l’incapacità può essere dimostrata attraverso qualsiasi mezzo di prova disponibile.

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auto abbandonata

Auto abbandonata in condominio? È rifiuto speciale da rimuovere Il Tribunale di Chieti conferma: un’auto in stato di abbandono nel parcheggio condominiale è un rifiuto speciale. Il proprietario va obbligato alla rimozione e allo smaltimento

Auto abbandonata in condominio

Con la sentenza n. 46/2025, il Tribunale di Chieti – sezione distaccata di Ortona ha stabilito che un’auto abbandonata in un’area condominiale, priva di targa e assicurazione, costituisce un rifiuto speciale ai sensi della normativa ambientale. Tale situazione configura un uso illecito del bene comune, lesivo del diritto degli altri condòmini alla pari fruizione dello spazio.

Il giudice ha quindi condannato il proprietario alla rimozione del mezzo a proprie spese, autorizzando il condominio ad agire in via sostitutiva in caso di inadempimento.

Il caso concreto

Il procedimento è stato avviato da un condominio che lamentava la presenza pluriennale di un’auto inutilizzata nel parcheggio comune, in evidente stato di degrado, senza targa né copertura assicurativa.

La vettura non era mai stata rimossa nonostante i ripetuti solleciti, privando gli altri condòmini del legittimo utilizzo dello spazio. Da qui la richiesta giudiziale di accertamento della natura di “veicolo fuori uso” e l’obbligo di rimozione.

Profili ambientali: il veicolo come rifiuto speciale

Il tribunale ha applicato la disciplina prevista dal Dlgs 209/2003 sui veicoli fuori uso e dal Dlgs 152/2006, Testo Unico Ambientale. Queste norme qualificano come rifiuto speciale un’auto che:

  • sia in stato di abbandono;

  • sia priva di elementi identificativi (come la targa);

  • non sia più utilizzabile e non presenti segni di manutenzione o utilizzo.

Secondo la giurisprudenza citata (tra cui Cass. pen. n. 11030/2015), un veicolo può essere considerato fuori uso anche in area privata, se si dimostra la volontà del proprietario di disfarsene.

Violazione del diritto d’uso comune

Il giudice ha inquadrato la condotta della proprietaria dell’auto anche dal punto di vista civilistico, richiamando l’articolo 1102 c.c., che disciplina l’uso delle parti comuni.

La sosta illimitata ed esclusiva del veicolo è stata interpretata come occupazione abusiva dello spazio comune, lesiva del principio di uso paritario tra condòmini. La sentenza ribadisce che nessun condomino può arrogarsi un diritto esclusivo su una parte comune a danno degli altri.

Le prove e la condanna

La decisione si è fondata su documentazione fotografica, visure PRA e dati assicurativi, che hanno dimostrato l’effettivo stato di abbandono del mezzo.

Il tribunale ha condannato la proprietaria:

  • a rimuovere il veicolo a proprie cure e spese;

  • a smaltirlo secondo le norme sui rifiuti speciali;

  • in caso di inerzia, ha autorizzato il condominio a procedere direttamente, con diritto di rivalsa sulle spese sostenute.

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pegno

Pegno: cos’è, come funziona e differenze con l’ipoteca Pegno: cos’è, come si costituisce, tipologie, effetti giuridici, differenze con l’ipoteca e giurisprudenza recente della Cassazione

Che cos’è il pegno

Il pegno è un diritto reale di garanzia che si costituisce su un bene mobile, su un’ universalità di beni mobili, su diritti aventi ad oggetto beni mobili e su crediti, a garanzia dell’adempimento di un’obbligazione. La funzione principale di questo diritto di garanzia è di attribuire al creditore la possibilità di soddisfarsi sul bene che ne costituisce l’oggetto in caso di inadempimento del debitore, con prelazione rispetto agli altri creditori.

Normativa di riferimento

La disciplina di questo diritto di garanzia si trova principalmente nel Codice Civile, agli articoli 2784-2807 c.c. Tali norme ne definiscono la modalità di costituzione, i diritti e gli obblighi delle parti, l’estinzione della garanzia e gli effetti nei confronti di terzi.

Come si costituisce il pegno

Il pegno si perfeziona mediante:

  • un contratto scritto, che individua il credito garantito e il bene oggetto di garanzia;
  • la consegna materiale della cosa al creditore o a un terzo designato (cosiddetto depositario), oppure notifica al debitore ceduto in caso di pegno su crediti.

La mancanza di consegna impedisce la costituzione del diritto.

Caratteristiche principali

I principali tratti distintivi di questo istituto sono:

  • è una garanzia reale, cioè grava direttamente sul bene;
  • ha carattere accessorio rispetto al credito garantito (se viene meno il credito, si estingue anche il pegno);
  • conferisce al creditore la priorità di soddisfazione sul bene in caso di esecuzione;
  • il creditore ha il diritto di ritenzione, in quanto può trattenere il bene fino al pagamento.

Tipologie di pegno

Questo diritto di garanzia può riguardare:

  • beni mobili materiali (es. gioielli, merci, titoli al portatore);
  • diritti che hanno ad oggetto beni mobili;
  • crediti (es. somme di denaro che un terzo deve al debitore);
  • universalità di mobili, come un insieme di cose determinate (ad esempio le scorte di magazzino).

Effetti del pegno

Gli effetti principali di questa garanzia per il creditore sono i seguenti:

  • ha il diritto di espropriare il bene oggetto di pegno in caso di inadempimento, seguendo le procedure di vendita previste dalla legge;
  • può percepire eventuali frutti, imputandoli in conto interessi o capitale;
  • ha diritto di essere soddisfatto prima di eventuali altri creditori.

Estinzione del pegno

Questo diritto di garanzia si estingue nei casi previsti dalla legge, tra i quali figurano i seguenti:

  • pagamento del debito garantito;
  • rinuncia del creditore;
  • restituzione volontaria del bene;
  • perimento del bene oggetto di garanzia.

In caso di estinzione, il creditore deve restituire immediatamente il bene al debitore.

Differenze con l’ipoteca

Il pegno si distingue dall’ipoteca per diversi aspetti:

Pegno Ipoteca
Grava su beni mobili o crediti Grava su beni immobili o mobili registrati
Richiede consegna del bene Non richiede consegna
Si costituisce con contratto e traditio Si costituisce con iscrizione nei registri
Immediata apprensione del bene Il bene resta nel possesso del debitore

Giurisprudenza sul pegno

Di seguito massime recenti della Cassazione sul pegno:

Cassazione n. 9811/2025

Quando il pegno è costituito su beni fungibili come il denaro, si configura come pegno irregolare solo se alla banca è stata espressamente data la facoltà di disporre della somma.Se, invece, questa facoltà non è stata conferita alla banca (come accertato dalla corte d’appello nel caso specifico), si ricade nella disciplina del pegno regolare. In questo scenario, la banca garantita non acquisisce la proprietà della somma e, di conseguenza, non ha l’obbligo di restituire al debitore la stessa quantità di denaro (il tantundem).

Cassazione n. 27501/2023

Il pegno rotativo è una forma di pegno che si sviluppa progressivamente, permettendo la sostituzione dei beni dati in garanzia. Tuttavia, questa natura “progressiva” non elimina la necessità di rispettare le formalità richieste per la sostituzione dei titoli. È fondamentale che ogni sostituzione sia accompagnata dalla specifica indicazione dei beni sostituiti e da un riferimento all’accordo originario (come richiamato dalla Cassazione n. 25796 del 2015). L’unica eccezione a questa regola si verifica quando è la stessa clausola di rotatività a predeterminare in modo esplicito le modalità con cui dovranno avvenire le sostituzioni, rendendo superflua la necessità di ulteriori specificazioni ad ogni singola operazione.

 

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interdizione

Interdizione: la guida Interdizione: cos'è, normativa, chi può essere interdetto e chi può chiedere l'interdizione, effetti e differenze con l'inabilitazione

Cos’è l’interdizione

L’interdizione è un istituto giuridico previsto dal Codice Civile che tutela le persone affette da gravi patologie psichiche, impedendo loro di compiere atti giuridicamente rilevanti. L’interdetto, infatti, viene privato della capacità di agire e sottoposto alla tutela di un tutore legale, che ne gestisce gli interessi.

Normativa di riferimento

L’istituto è disciplinato dagli articoli 414 e seguenti del Codice Civile, che stabiliscono:

  • chi può essere interdetto;
  • la procedura per ottenere l’interdizione;
  • gli effetti giuridici che ne derivano.

Chi può essere interdetto?

Possono essere dichiarate interdette le persone che:

  • sono affette da grave infermità mentale;
  • non sono in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi;
  • possono arrecare danni a sé stessi o al proprio patrimonio.

Soggetti legittimati a richiedere l’interdizione

La richiesta di interdizione può essere presentata:

  • dal coniuge o dal convivente;
  • dai parenti entro il quarto grado;
  • dagli affini entro il secondo grado
  • dal Pubblico Ministero, quando la situazione lo richieda;
  • dal tutore o dal curatore in caso di necessità.

Procedura di interdizione

L’istituto segue una procedura giudiziaria ben definita.

  1. Presentazione del ricorso

    • il soggetto legittimato presenta il ricorso al Tribunale del luogo di residenza o domicilio della persona da interdire;
    • al ricorso è necessario allegare la documentazione medica che attesti la patologia del soggetto.
  1. Ascolto dell’interdicendo e valutazione delle condizioni

    • il giudice tutelare valuta lo stato mentale dell’interdicendo con l’intervento del Pubblico Ministero e se lo ritiene opportuno può nominare un consulente tecnico;
    • l’interessato viene quindi ascoltato per accertare le sue condizioni;
    • dopo l’esame il giudice può nominare un tutore provvisorio.
  1. Sentenza di interdizione

    • se il Tribunale accoglie la richiesta, dichiara l’interdizione con una sentenza, nominando un tutore legale;
    • la sentenza viene quindi annotata nei registri dello stato civile.

Cosa comporta l’interdizione?

L’interdizione ha effetti significativi sulla capacità giuridica del soggetto:

  • perdita della capacità di agire: l’interdetto non può compiere atti giuridici, come firmare contratti o amministrare il proprio patrimonio;
  • nomina di un tutore: il Tribunale assegna un tutore, che prende decisioni in nome e per conto dell’interdetto;
  • possibilità di revoca: se le condizioni dell’interdetto migliorano, è possibile chiedere la revoca dell’interdizione tramite apposito procedimento giudiziario.

Differenze tra interdizione e inabilitazione

Caratteristica Interdizione Inabilitazione
Requisito Grave infermità mentale Incapacità parziale di gestire i propri affari
Capacità di agire Completamente revocata Limitata agli atti di ordinaria amministrazione
Nomina di un tutore No, nomina di un curatore
Atti che può compiere Nessuno senza il tutore Può compiere atti quotidiani senza autorizzazione

Giurisprudenza

Cassazione n. 27691/2023: data la marcata differenza tra l’amministrazione di sostegno, che mira a rafforzare le capacità residue del soggetto vulnerabile, e l’interdizione, che invece limita l’autonomia per tutelare il patrimonio familiare, il divieto di sposarsi previsto dall’articolo 85 del codice civile per l’interdetto non si applica generalmente al beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Tuttavia, il giudice tutelare può imporre tale divieto solo in casi di eccezionale gravità e se ciò è nell’esclusivo interesse del beneficiario.

Cassazione n. 34216/2022: il decreto con cui il giudice istruttore nomina un tutore o curatore provvisorio nell’ambito di un procedimento di interdizione o inabilitazione non è equiparabile a una sentenza. Questo perché si tratta di un provvedimento interinale e provvisorio, che può essere revocato dallo stesso giudice e perde la sua efficacia una volta che viene emessa la sentenza definitiva. Di conseguenza, non è possibile presentare ricorso per cassazione contro tale decreto ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione.

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regolamento condominiale

Regolamento condominiale: la guida Regolamento condominiale: cos'è, normativa di riferimento, quando è obbligatorio, tipologie, contenuto e giurisprudenza

Cos’è il regolamento di condominiale

Il regolamento condominiale è l’insieme di norme che disciplinano la convivenza tra i condomini all’interno di un edificio. Esso ha lo scopo di garantire l’uso corretto delle parti comuni, regolare i diritti e i doveri dei condomini e assicurare l’ordine nella gestione del fabbricato. La sua adozione è prevista dall’art. 1138 del Codice civile.

Normativa di riferimento

La disciplina sul regolamento condominiale si trova principalmente:

  • nel Codice civile, artt. 1100 ss. e 1138;
  • nelle disposizioni di attuazione al c.c., artt. 61 ss.;
  • nelle sentenze della giurisprudenza di legittimità, che ha chiarito i limiti e gli effetti della trascrizione.

Regolamento obbligatorio o facoltativo?

Secondo la legge, il regolamento condominiale è obbligatorio quando il numero dei condomini supera il numero di dieci. In tal caso, deve essere approvato dall’assemblea con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore millesimale dell’edificio (art. 1136 c.c.).

Tuttavia, anche nei condomìni con meno di undici proprietari, è sempre possibile adottarlo su base volontaria per regolare gli aspetti pratici della gestione.

Tipi di regolamento condominiale

Esistono due tipologie principali di regolamento:

  • contrattuale: è quello che viene predisposto dall’originario costruttore o da tutti i condomini per accordo unanime. Può limitare anche l’uso delle proprietà esclusive (es. divieto di destinare un appartamento a uso professionale);
  • assembleare: viene approvato a maggioranza dai condomini, regola solo l’uso delle parti comuni, senza incidere sui diritti individuali.

Solo il regolamento contrattuale può contenere clausole limitative delle proprietà private.

Cosa deve contenere il regolamento condominiale

Il contenuto minimo del regolamento, ai sensi dell’art. 1138 c.c., deve includere:

  • regole sull’uso delle parti comuni (scale, cortili, ascensore, ecc.);
  • criteri di ripartizione delle spese condominiali;
  • modalità di convocazione e funzionamento dell’assemblea;
  • attribuzioni e obblighi dell’amministratore;
  • eventuali sanzioni disciplinari per violazioni (fino a 200 euro, elevabili a 800 per recidiva).

Può essere integrato con norme personalizzate, purché non contrarie alla legge o ai diritti inviolabili dei condomini.

Come si applica e cosa accade in caso di violazione

Il regolamento è vincolante per tutti i condomini, presenti e futuri, se:

  • è stato approvato regolarmente;
  • è conosciuto al momento dell’acquisto;
  • per quello contrattuale, se è espressamente accettato.

La violazione delle norme può comportare sanzioni pecuniarie, l’intervento dell’amministratore, o l’azione giudiziaria da parte degli altri condomini. Le clausole che limitano l’uso della proprietà individuale, se non hanno contrattuale, non sono opponibili ai nuovi acquirenti.

Giurisprudenza di legittimità sul regolamento condominiale

Cassazione n. 23582/2023: le clausole dei regolamenti condominiali possono avere natura contrattuale o regolamentare. Hanno natura contrattuale solo se limitano i diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni, o se attribuiscono a certi condomini diritti maggiori rispetto ad altri. Queste clausole contrattuali, essendo parte integrante dei contratti di acquisto o formate con consenso unanime, possono essere modificate solo con l’unanimità di tutti i condomini.

Al contrario, le clausole che si limitano a disciplinare l’uso dei beni comuni hanno natura regolamentare. Per queste ultime è sufficiente una deliberazione assembleare adottata con la maggioranza prevista dall’articolo 1136, comma 2, del Codice Civile per la loro modifica.

Cassazione n. 21478/2021: il regolamento di condominio ha valore contrattuale per il proprietario se richiamato nell’atto di acquisto dell’immobile, anche se non trascritto. Tuttavia, le clausole che limitano le facoltà o i diritti sulla proprietà esclusiva o condominiale devono essere esplicitamente indicate nell’atto di compravendita, altrimenti saranno considerate invalide.

Sezioni Unite Cassazione n. 943/1999: Un regolamento di condominio deve essere necessariamente redatto in forma scritta, poiché senza un documento di riferimento sarebbe impossibile applicarne le disposizioni, spesso di difficile interpretazione, e impugnarlo. La tesi che la forma scritta sia richiesta solo “ad probationem” (per fini probatori) non è accettabile. Una volta stabilito che il regolamento deve essere contenuto in un documento, la scrittura diventa un elemento essenziale per la sua validità, a meno che non vi sia una disposizione specifica che ne preveda una rilevanza meramente probatoria, ma tale eccezione non esiste in questo caso. Infine, per i regolamenti di natura contrattuale, la forma scritta è indiscutibilmente necessaria, dato che le loro clausole influenzano i diritti dei condomini sia sulle proprietà esclusive che su quelle comuni.

 

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congedo parentale

Congedo parentale: la guida Congedo parentale: cos'è, normativa, a chi spetta, durata, indennità, come si chiede, a ore, autonomi e gestione separata, contributi

Cos’è il congedo parentale

Il congedo parentale, conosciuto anche come “astensione facoltativa“, in base alle definizione contenuta dall’articolo 2 del Dlgs n. 151/2001 è un diritto riconosciuto a lavoratrici e lavoratori dipendenti, che permette di prendersi cura dei figli nei primi anni di vita. Si tratta di un istituto centrale nella tutela della genitorialità e nella promozione dell’equilibrio tra la vita privata e quella lavorativa.

Il congedo parentale è un periodo di astensione dal lavoro che i genitori possono richiedere nei primi dodici anni di vita del figlio (oppure entro dodici anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento). A differenza del congedo di maternità e paternità obbligatori, il congedo parentale è un diritto facoltativo che può essere fruito in modo frazionato o continuativo, su richiesta.

A chi spetta

Il congedo parentale spetta a entrambi i genitori, naturali o adottivi, che siano lavoratori:

  • dipendenti del settore pubblico o privato, a tempo determinato o indeterminato;
  • iscritti alla gestione separata INPS, con requisiti specifici, tra i quali la non titolarità di pensione e la non iscrizione ad altre forme di previdenza obbligatorie;
  • autonomi con precise limitazioni.

Durata del congedo parentale

Secondo l’articolo 32 D.lgs. n. 151/2001, che disciplina nello specifico il congedo parentale “Per ogni bambino, nei primi suoi dodici anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo. I relativi congedi parentali dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi, fatto salvo il disposto del comma 2 del presente articolo.”

Entro i limiti stabiliti, il diritto di astenersi dal lavoro per congedo parentale spetta a:

  • Madri lavoratrici: possono richiedere un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, dopo aver terminato il periodo di congedo di maternità;
  • Padri lavoratori: possono richiedere un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, a partire dalla nascita del figlio. Questo periodo può essere esteso a sette mesi nel caso specificato al comma 2, ossia nel caso in cui il lavoratore eserciti il diritto di astensione dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato per un periodo non inferiore a 3 mesi. In questo caso il limite complessivo dei congedi parentali è di 11 mesi.
  • Genitori singoli o con affidamento esclusivo: nel caso in cui vi sia un solo genitore, oppure un genitore al quale sia stato affidato il figlio in via esclusiva ai sensi dell’articolo 337-quater del Codice Civile, il congedo può durare per un periodo continuativo o frazionato non superiore a undici mesi. In quest’ultimo caso, l’altro genitore perde il diritto al congedo non ancora utilizzato. A tal fine, una copia del provvedimento di affidamento viene trasmessa all’INPS dal pubblico ministero.

Indennità e pagamento del congedo parentale

La retribuzione durante il congedo parentale è regolata dall’art. 34 del D.lgs. 151/2001 e varia in base all’età del figlio e alla durata della fruizione.

La norma stabilisce che, per i periodi di congedo parentale e fino al dodicesimo anno di vita del figlio a ogni genitore spetta:

  • per tre mesi, non trasferibili, un’indennità del 30% della retribuzione, che può essere elevata, in alternativa tra i genitori, per due mesi complessivi fino al sesto anno di vita del bambino nella misura dell’80% della retribuzione;
  • e per la durata massima di un altro mese fino al sesto anno di vita del bambino, all’80% della retribuzione.
  • In alternativa tra loro i genitori hanno diritto anche a un periodo ulteriore di congedo di 3 mesi al massimo. Per questi mesi l’indennità è del 30% della retribuzione.
  • Se il genitore è uno solo lo stesso ha diritto a un’indennità del 30% della retribuzione per un periodo massimo di nove mesi.
  • In caso di affidamento esclusivo a un solo genitore a questo spetta in via esclusiva l’indennità che spetterebbe alla coppia.

Come richiedere il congedo parentale

La richiesta deve essere presentata:

  1. al datore di lavoro con un preavviso di almeno 5 giorni (salvo casi di urgenza);
  2. all’INPS tramite i seguenti canali:
    • portale INPS con SPID, CIE o CNS;
    • contact center INPS;
    • patronato o intermediario abilitato.

Congedo parentale a ore

È possibile, previo accordo con il datore di lavoro, usufruire del congedo anche in forma orizzontale (ad ore). Questo permette una maggiore flessibilità per conciliare il lavoro con la genitorialità.

Lavoratori autonomi e iscritti alla gestione separata

Anche i lavoratori autonomi e gli iscritti alla gestione separata INPS possono fruire del congedo parentale, ma a condizioni più limitate.

I genitori che siano lavoratori autonomi hanno diritto a un congedo parentale massimo di tre mesi per ogni figlio, che possono utilizzare nel primo anno di vita del figlio o entro un anno dall’ingresso del minore adottato o in affido. Il congedo spetta però se il lavoratore autonomo abbia provveduto a versare i contributi relativi al mese che precede il congedo e a condizione che lo stesso si astenga effettivamente dal lavoro.

I lavoratori iscritti alla gestione separata hanno diritto al congedo parentale, a determinate condizioni, entro i primi dodici mesi di vita del bambino (dalla nascita o dall’ingresso del minore adottato o in affidamento). Ogni genitore ha diritto a 3 mesi di congedo indennizzato, che non può trasferire all’altro genitore. I genitori hanno diritto inoltre a altri tre mesi di congedo indennizzati in alternativa per un periodo complessivo di 9 mesi.

Congedo parentale e contribuzione figurativa

I periodi di congedo parentale sono coperti da contribuzione figurativa, ai fini pensionistici, solo per i periodi indennizzati. I periodi non retribuiti non generano contribuzione utile alla pensione, salvo il riscatto volontario.

 

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delibera condominiale

Delibera condominiale non impugnabile per danni irrisori Secondo il Tribunale di Firenze, non è ammissibile l’impugnazione di una delibera condominiale per un danno economico minimo. Serve un interesse concreto e patrimoniale rilevante

Impugnazione delibera condominiale

Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 1619/2025, ha stabilito che non può essere impugnata una delibera condominiale quando il danno economico lamentato è di entità trascurabile e privo di rilevanza patrimoniale apprezzabile.

La causa nasceva dalla contestazione di un rendiconto condominiale che addebitava ad un condomino una quota di spese legali superiore di circa trenta euro rispetto alla sua reale competenza. L’interessato aveva chiesto l’annullamento della delibera assembleare che approvava quel rendiconto, ritenendo la differenza indebita. Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto la domanda inammissibile per difetto di interesse ad agire.

Richiamando l’art. 100 c.p.c. e la giurisprudenza di legittimità (tra cui Cass. n. 6128/2017), il giudice ha sottolineato che non è sufficiente una divergenza di principio o un pregiudizio di entità minima per fondare un’azione giudiziaria. È necessario, invece, che l’interesse ad agire sia personale, concreto, attuale e patrimonialmente rilevante. Il giudizio civile, infatti, non può essere strumentalizzato per mere rivendicazioni simboliche o per contenziosi di scarsa consistenza economica.

La pronuncia si inserisce nel solco della giurisprudenza che tutela l’effettività della funzione giurisdizionale e disincentiva l’uso improprio del processo per finalità non sostanziali.

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nuda proprietà

Nuda proprietà Nuda proprietà: cos’è, il legame con l’usufrutto, riferimenti normativi, vantaggi, svantaggi, aspetti fiscali e consolidazione

Cos’è la nuda proprietà

La nuda proprietà si distingue dalla piena proprietà, perché si realizza quando su un bene immobile gravano diritti di godimento a favore di altri soggetti. Chi possiede la nuda proprietà detiene la “scatola” dell’immobile, ma non può utilizzarlo o percepirne i frutti finché un altro soggetto, l’usufruttuario, ne ha il diritto.

Nuda proprietà e usufrutto

Per cogliere appieno la nuda proprietà, è quindi essenziale capire l’usufrutto. L’usufrutto è un diritto reale di godimento su cosa altrui. L’usufruttuario può godere del bene, usarlo e trarne i frutti (naturali e civili), con il vincolo di rispettarne la destinazione economica, senza possibilità di cambiarla.

L’usufrutto può essere costituito per legge (usufrutto legale), per volontà delle parti (contratto o testamento) o per usucapione. La sua durata è limitata: esso si estingue con la morte dell’usufruttuario (se persona fisica) o decorso il periodo massimo di trent’anni (se a favore di persona giuridica). Questo significa che l’usufrutto non può essere trasmesso agli eredi dell’usufruttuario e, se ceduto a terzi, si estingue comunque con la morte del cedente originario.

L’usufruttuario, pur non essendo proprietario, può agire come tale agli occhi di terzi, possedendo il bene e potendolo affittare. Tuttavia, non può vendere l’immobile, ma solo il suo diritto di usufrutto.

Riferimenti normativi

La disciplina della nuda proprietà, poiché legata al diritto di usufrutto, è contenuta nell’articolo 978 e seguenti del Codice Civile, che regolamentano questo diritto reale.

Le norme di natura fiscale invece sono contenute nelle leggi fiscali e nei regolamenti degli enti locali competenti.

Acquisto della nuda proprietà

La nuda proprietà di un immobile si acquista comprando, ereditando o ricevendo in donazione un bene la cui piena titolarità è priva del diritto di utilizzo e di godimento fino alla morte dell’usufruttuario. Questa forma di acquisizione può essere vantaggiosa per diverse ragioni. Il suo valore economico, ad esempio, è inferiore a quello della piena proprietà, ma si ricompone una volta cessato l’usufrutto. In particolare, il valore della nuda proprietà vitalizia dipende dall’età dell’usufruttuario: più è anziano, maggiore è il valore della nuda proprietà al momento dell’acquisto, poiché la durata prevista dell’usufrutto è minore. Questo rende la nuda proprietà un investimento interessante, perché il suo valore può aumentare nel tempo, mano a mano che l’usufruttuario invecchia.

Vantaggi  

Acquistare la nuda proprietà offre quindi diversi vantaggi:

  • l’immobile viene acquisito a un prezzo inferiore rispetto alla piena proprietà;
  • il valore dell’immobile tende a crescere nel tempo con l’invecchiamento dell’usufruttuario e l’aumento del valore di mercato:
  • il nudo proprietario non deve sostenere le spese di manutenzione ordinaria, quelle di amministrazione e custodia, né il carico fiscale ordinario, che sono a carico dell’usufruttuario;
  • per chi vende, è un modo per ottenere liquidità mantenendo il diritto di abitare l’immobile;
  • per chi compra, può essere un investimento a lungo termine per i figli.

Svantaggi  

Nonostante i vantaggi, l’istituto presenta anche degli svantaggi:

  • il nudo proprietario deve attendere la cessazione dell’usufrutto per poter godere pienamente dell’immobile;
  • le spese di manutenzione straordinaria sono a carico del nudo proprietario;
  • chi vende la nuda proprietà conservando l’usufrutto non può vendere il bene e deve conservarlo in buono stato.

Nuda proprietà e imposte

Il nudo proprietario non è gravato dai carichi fiscali sull’immobile, poiché questi sono a carico dell’usufruttuario. L’usufruttuario è tenuto infatti a pagare imposte come IMU, TASI e IRPEF. Al nudo proprietario spettano solo le imposte indirette, su una base imponibile ridotta del valore dell’usufrutto. All’inizio e alla fine dell’usufrutto, i carichi fiscali si ripartiscono proporzionalmente.

Estinzione usufrutto e acquisizione proprietà

Il nudo proprietario ottiene la piena titolarità dell’immobile alla cessazione dell’usufrutto grazie all’istituto della “consolidazione”, che si realizza quando i poteri di godimento e utilizzo si riuniscono.

L’usufrutto può estinguersi per diverse ragioni:

  • morte dell’usufruttuario (sia per usufrutto vitalizio che temporaneo);
  • scadenza del termine (per usufrutto temporaneo);
  • cessione del diritto dall’usufruttuario al nudo proprietario:
  • prescrizione, che si verifica e l’usufruttuario non esercita i suoi poteri per almeno vent’anni.
  • distruzione totale del bene causata dall’usufruttuario;
  • rinuncia dell’usufruttuario;
  • abusi o inadempimenti gravi dell’usufruttuario che causano un danno rilevante all’immobile, portando all’estinzione giudiziale dell’usufrutto e a un possibile risarcimento.

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bossing

Il bossing Bossing: cos’è, differenze con il mobbing, cosa dice la legge, le tutele per il lavoratore e e sentenze della Cassazione

Cos’è il bossing

Il bossing è una forma specifica di abuso sul luogo di lavoro, in cui le condotte vessatorie provengono direttamente da un superiore gerarchico. Si tratta di un fenomeno sempre più riconosciuto, spesso assimilato al mobbing, ma con caratteristiche e dinamiche proprie che lo rendono particolarmente insidioso e complesso da affrontare.

Il termine bossing deriva dall’inglese “boss” (capo) e si riferisce nello specifico a comportamenti ostili, sistematici e ripetuti nel tempo, messi in atto da parte di un datore di lavoro o superiore gerarchico nei confronti di un lavoratore subordinato.

Le finalità del bossing possono includere:

  • l’allontanamento del dipendente dall’ambiente lavorativo;
  • l’induzione alle dimissioni volontarie;
  • la svalutazione della persona o delle sue competenze;
  • l’esclusione sistematica dalle attività lavorative.

Differenze tra bossing e mobbing

Il mobbing è un comportamento persecutorio sul luogo di lavoro che può essere esercitato da colleghi, superiori o anche da subordinati. Il bossing, invece, è una sottospecie del mobbing, caratterizzata dall’origine verticale dell’azione, ossia dalla posizione di potere di chi la esercita.

Mobbing → può essere orizzontale, ascendente o discendente.
Bossing → è solo discendente e coinvolge sempre un superiore.

Esempi di bossing:

  • assegnazione di compiti dequalificanti o umilianti;
  • isolamento intenzionale del dipendente;
  • richieste impossibili o fuori orario;
  • continue critiche ingiustificate o umiliazioni pubbliche.

Cosa dice la legge sul bossing

L’ordinamento giuridico italiano non prevede un reato autonomo di “bossing”, così come non lo prevede per il mobbing. Tuttavia, le condotte riconducibili a tale fenomeno possono integrare illeciti civili e penali, tra cui:

  • violazione dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore;
  • molestie morali sul luogo di lavoro, che possono essere riconosciute in sede giudiziaria;
  • reati come l’abuso d’ufficio, lesioni personali (art. 582 c.p.), maltrattamenti (art. 572 c.p.) e stalking (art. 612-bis c.p.), a seconda della topologia dei comportamenti.

Le tutele per il lavoratore vittima di bossing

Il lavoratore che subisce bossing ha diritto a una serie di strumenti giuridici di tutela:

1. Tutela in sede civile

Può agire per:

  • il risarcimento dei danni patrimoniali (perdita di reddito, cure mediche) e non patrimoniali (danno morale, biologico);
  • Ottenere la declaratoria di responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’art. 2087 c.c.

2. Tutela in sede penale

Se i comportamenti costituiscono reato, è possibile presentare querela nei termini previsti. L’autorità giudiziaria , in questo modo, potrà avviare un procedimento penale contro il superiore.

3. Denuncia all’Ispettorato del lavoro

Il lavoratore può rivolgersi all’Ispettorato territoriale del lavoro, che ha competenza in materia di salute, sicurezza e benessere nei luoghi di lavoro.

4. Intervento sindacale

I sindacati possono fornire assistenza nella documentazione delle molestie e nell’attivazione di procedure conciliative.

Come difendersi dal bossing

Se si decide di denunciare la condotta del superiore o di agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno è fondamentale raccogliere prove documentali e testimoniali delle condotte vessatorie:

  • email, messaggi, ordini di servizio anomali;
  • testimonianze di colleghi;
  • referti medici o relazioni psicologiche;
  • segnalazioni al medico competente o al RLS (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza).

Per impostare una difesa e tutelare la propria posizione può essere utile rivolgersi invece a :

  • un avvocato giuslavorista esperto nei diritti dei lavoratori;
  • uno psicologo del lavoro o un medico del Servizio Sanitario;
  • un’associazione per la tutela dei lavoratori.

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 35061/2021: confermata la condanna per bossing del datore di lavoro e del capufficio di una dipendente, anche se quest’ultima era stata vittima di vessazioni unicamente da parte del suo superiore gerarchico. La Suprema Corte ha ritenuto responsabile il datore di lavoro per la sua colpevole inerzia di fronte alle condotte persecutorie, evidenziando come le testimonianze avessero accertato una lesione che coinvolgeva sia gli obblighi contrattuali che i diritti fondamentali della lavoratrice, quali la salute e la dignità sul posto di lavoro, tutelati dalla Costituzione. Di conseguenza, l’ammontare del risarcimento per il danno biologico è stato raddoppiato per compensare la sofferenza morale derivante dalla lesione della dignità della dipendente nell’ambiente lavorativo.

Cassazione n. 2012/2017: non si può parlare di “bossing” e, di conseguenza, non sussiste alcun diritto al risarcimento, quando il comportamento del responsabile, pur manifestandosi in modi burberi, bruschi e rozzi, non sia specificamente diretto a un singolo lavoratore “preso di mira”, ma si estenda indistintamente a tutto il personale. In tali circostanze, tali modalità espressive rivelano unicamente un tratto caratteriale del soggetto, per quanto criticabile, senza alcuna intenzione di accanirsi contro un individuo in particolare.

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scale condominiali

Scale condominiali Scale condominiali: bene comune, normativa civilistica di riferimento e regole per la ripartizione delle spese

Cosa si intende per scale condominiali

Le scale condominiali rappresentano uno degli elementi architettonici essenziali negli edifici condominiali. Oltre alla loro funzione pratica, costituiscono un tipico bene comune e sono disciplinate in modo puntuale dalla normativa civilistica.

Bene comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Ai sensi dell’art. 1117 del codice civile, le scale rientrano tra le parti comuni dell’edificio, in quanto strumentali all’uso comune. In particolare, l’articolo elenca tra i beni comuni: “… le scale, i vestiboli, gli anditi, i portici e i cortili, nonché i locali per il servizio comune.” Di conseguenza, tutti i condomini – anche quelli che non le utilizzano direttamente – sono comproprietari delle scale, salvo diversa indicazione nel titolo (es. regolamento contrattuale).

Normativa di riferimento: art. 1124 del codice civile

L’art. 1124 c.c. disciplina nello specifico la ripartizione delle spese per la manutenzione e il rifacimento delle scale e degli ascensori, introducendo un criterio misto:

  • 50% delle spese va ripartito in base al valore millesimale dell’unità immobiliare (ex art. 68 disp. att. c.c.);
  • 50% va ripartito in proporzione all’altezza del piano, cioè all’utilizzo potenziale delle scale da parte dei vari condomini.

Questo criterio mira a bilanciare l’interesse patrimoniale (valore dell’unità) con l’utilizzo effettivo del bene comune.

Ripartizione spese scale condominiali

Facciamo un esempio pratico:

  • un condominio ha 5 piani fuori terra;
  • le spese di rifacimento scale ammontano a 10.000 euro.
  • il 50% (5.000 euro) viene ripartito secondo i millesimi di proprietà;
  • il restante 50% (5.000 euro) viene suddiviso in proporzione all’altezza del piano: il piano terra pagherà meno rispetto all’ultimo piano.

Questa formula tiene conto del maggior uso delle scale da parte dei condomini dei piani superiori, che ne fruiscono quotidianamente per accedere alla propria abitazione.

Eccezioni e chiarimenti giurisprudenziali

La Corte di Cassazione ha chiarito più volte che:

  • il diritto di comproprietà delle scale sussiste anche per i proprietari di unità con accesso indipendente (Cassazione n. 4664/2016) salvo diversa previsione nel titolo o nell’atto di acquisto;
  • le modifiche strutturali alle scale richiedono delibera assembleare con maggioranza qualificata (art. 1136 c.c.);
  • l’inserimento di scale interne private da parte di singoli condomini (es. collegamento tra due appartamenti) necessita della Scia (Cassazione n. 41598/2019).

Manutenzione ordinaria e straordinaria delle scale condominiali

Queste le regole da rispettare quando si procede alla manutenzione delle scale condominiali:

  • la manutenzione ordinaria, che consiste nella pulizia, nelle riparazioni minori, e nella illuminazione rientra tra le spese correnti annuali, approvabili con maggioranza semplice;
  • la manutenzione straordinaria, rappresentata invece dal rifacimento dei gradini, dalla sostituzione ringhiere e dalla messa a norma richiede una delibera assembleare con maggioranze ex art. 1136 c.c.

In entrambi i casi si applicano comunque i criteri di  ripartizione previste dall’art. 1124 c.c., salvo accordi differenti.

Regolamento condominiale e deroghe alla legge

Il regolamento di condominio, se di tipo contrattuale (cioè approvato all’unanimità o allegato all’atto di compravendita), può prevedere criteri di ripartizione diversi da quelli previsti dal codice civile. In caso contrario, ossia in presenza dio regole stabilite dal regolamento assembleare, prevale la disciplina legale.

Scale e condominio parziale

In alcune ipotesi, l’edificio può prevedere più vani scala, ciascuno utilizzato da una porzione limitata di condomini. In tal caso:

  • si applica la teoria del condominio parziale (art. 1123, comma 3 c.c.);
  • le spese sono a carico solo dei condomini che traggono utilità dalla scala.

La giurisprudenza conferma che in tali casi è legittima la ripartizione parziale delle spese, senza necessità di costituire un condominio separato.

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