congedo parentale

Congedo parentale: la guida Congedo parentale: cos'è, normativa, a chi spetta, durata, indennità, come si chiede, a ore, autonomi e gestione separata, contributi

Cos’è il congedo parentale

Il congedo parentale, conosciuto anche come “astensione facoltativa“, in base alle definizione contenuta dall’articolo 2 del Dlgs n. 151/2001 è un diritto riconosciuto a lavoratrici e lavoratori dipendenti, che permette di prendersi cura dei figli nei primi anni di vita. Si tratta di un istituto centrale nella tutela della genitorialità e nella promozione dell’equilibrio tra la vita privata e quella lavorativa.

Il congedo parentale è un periodo di astensione dal lavoro che i genitori possono richiedere nei primi dodici anni di vita del figlio (oppure entro dodici anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento). A differenza del congedo di maternità e paternità obbligatori, il congedo parentale è un diritto facoltativo che può essere fruito in modo frazionato o continuativo, su richiesta.

A chi spetta

Il congedo parentale spetta a entrambi i genitori, naturali o adottivi, che siano lavoratori:

  • dipendenti del settore pubblico o privato, a tempo determinato o indeterminato;
  • iscritti alla gestione separata INPS, con requisiti specifici, tra i quali la non titolarità di pensione e la non iscrizione ad altre forme di previdenza obbligatorie;
  • autonomi con precise limitazioni.

Durata del congedo parentale

Secondo l’articolo 32 D.lgs. n. 151/2001, che disciplina nello specifico il congedo parentale “Per ogni bambino, nei primi suoi dodici anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo. I relativi congedi parentali dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi, fatto salvo il disposto del comma 2 del presente articolo.”

Entro i limiti stabiliti, il diritto di astenersi dal lavoro per congedo parentale spetta a:

  • Madri lavoratrici: possono richiedere un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, dopo aver terminato il periodo di congedo di maternità;
  • Padri lavoratori: possono richiedere un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, a partire dalla nascita del figlio. Questo periodo può essere esteso a sette mesi nel caso specificato al comma 2, ossia nel caso in cui il lavoratore eserciti il diritto di astensione dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato per un periodo non inferiore a 3 mesi. In questo caso il limite complessivo dei congedi parentali è di 11 mesi.
  • Genitori singoli o con affidamento esclusivo: nel caso in cui vi sia un solo genitore, oppure un genitore al quale sia stato affidato il figlio in via esclusiva ai sensi dell’articolo 337-quater del Codice Civile, il congedo può durare per un periodo continuativo o frazionato non superiore a undici mesi. In quest’ultimo caso, l’altro genitore perde il diritto al congedo non ancora utilizzato. A tal fine, una copia del provvedimento di affidamento viene trasmessa all’INPS dal pubblico ministero.

Indennità e pagamento del congedo parentale

La retribuzione durante il congedo parentale è regolata dall’art. 34 del D.lgs. 151/2001 e varia in base all’età del figlio e alla durata della fruizione.

La norma stabilisce che, per i periodi di congedo parentale e fino al dodicesimo anno di vita del figlio a ogni genitore spetta:

  • per tre mesi, non trasferibili, un’indennità del 30% della retribuzione, che può essere elevata, in alternativa tra i genitori, per due mesi complessivi fino al sesto anno di vita del bambino nella misura dell’80% della retribuzione;
  • e per la durata massima di un altro mese fino al sesto anno di vita del bambino, all’80% della retribuzione.
  • In alternativa tra loro i genitori hanno diritto anche a un periodo ulteriore di congedo di 3 mesi al massimo. Per questi mesi l’indennità è del 30% della retribuzione.
  • Se il genitore è uno solo lo stesso ha diritto a un’indennità del 30% della retribuzione per un periodo massimo di nove mesi.
  • In caso di affidamento esclusivo a un solo genitore a questo spetta in via esclusiva l’indennità che spetterebbe alla coppia.

Come richiedere il congedo parentale

La richiesta deve essere presentata:

  1. al datore di lavoro con un preavviso di almeno 5 giorni (salvo casi di urgenza);
  2. all’INPS tramite i seguenti canali:
    • portale INPS con SPID, CIE o CNS;
    • contact center INPS;
    • patronato o intermediario abilitato.

Congedo parentale a ore

È possibile, previo accordo con il datore di lavoro, usufruire del congedo anche in forma orizzontale (ad ore). Questo permette una maggiore flessibilità per conciliare il lavoro con la genitorialità.

Lavoratori autonomi e iscritti alla gestione separata

Anche i lavoratori autonomi e gli iscritti alla gestione separata INPS possono fruire del congedo parentale, ma a condizioni più limitate.

I genitori che siano lavoratori autonomi hanno diritto a un congedo parentale massimo di tre mesi per ogni figlio, che possono utilizzare nel primo anno di vita del figlio o entro un anno dall’ingresso del minore adottato o in affido. Il congedo spetta però se il lavoratore autonomo abbia provveduto a versare i contributi relativi al mese che precede il congedo e a condizione che lo stesso si astenga effettivamente dal lavoro.

I lavoratori iscritti alla gestione separata hanno diritto al congedo parentale, a determinate condizioni, entro i primi dodici mesi di vita del bambino (dalla nascita o dall’ingresso del minore adottato o in affidamento). Ogni genitore ha diritto a 3 mesi di congedo indennizzato, che non può trasferire all’altro genitore. I genitori hanno diritto inoltre a altri tre mesi di congedo indennizzati in alternativa per un periodo complessivo di 9 mesi.

Congedo parentale e contribuzione figurativa

I periodi di congedo parentale sono coperti da contribuzione figurativa, ai fini pensionistici, solo per i periodi indennizzati. I periodi non retribuiti non generano contribuzione utile alla pensione, salvo il riscatto volontario.

 

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delibera condominiale

Delibera condominiale non impugnabile per danni irrisori Secondo il Tribunale di Firenze, non è ammissibile l’impugnazione di una delibera condominiale per un danno economico minimo. Serve un interesse concreto e patrimoniale rilevante

Impugnazione delibera condominiale

Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 1619/2025, ha stabilito che non può essere impugnata una delibera condominiale quando il danno economico lamentato è di entità trascurabile e privo di rilevanza patrimoniale apprezzabile.

La causa nasceva dalla contestazione di un rendiconto condominiale che addebitava ad un condomino una quota di spese legali superiore di circa trenta euro rispetto alla sua reale competenza. L’interessato aveva chiesto l’annullamento della delibera assembleare che approvava quel rendiconto, ritenendo la differenza indebita. Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto la domanda inammissibile per difetto di interesse ad agire.

Richiamando l’art. 100 c.p.c. e la giurisprudenza di legittimità (tra cui Cass. n. 6128/2017), il giudice ha sottolineato che non è sufficiente una divergenza di principio o un pregiudizio di entità minima per fondare un’azione giudiziaria. È necessario, invece, che l’interesse ad agire sia personale, concreto, attuale e patrimonialmente rilevante. Il giudizio civile, infatti, non può essere strumentalizzato per mere rivendicazioni simboliche o per contenziosi di scarsa consistenza economica.

La pronuncia si inserisce nel solco della giurisprudenza che tutela l’effettività della funzione giurisdizionale e disincentiva l’uso improprio del processo per finalità non sostanziali.

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nuda proprietà

Nuda proprietà Nuda proprietà: cos’è, il legame con l’usufrutto, riferimenti normativi, vantaggi, svantaggi, aspetti fiscali e consolidazione

Cos’è la nuda proprietà

La nuda proprietà si distingue dalla piena proprietà, perché si realizza quando su un bene immobile gravano diritti di godimento a favore di altri soggetti. Chi possiede la nuda proprietà detiene la “scatola” dell’immobile, ma non può utilizzarlo o percepirne i frutti finché un altro soggetto, l’usufruttuario, ne ha il diritto.

Nuda proprietà e usufrutto

Per cogliere appieno la nuda proprietà, è quindi essenziale capire l’usufrutto. L’usufrutto è un diritto reale di godimento su cosa altrui. L’usufruttuario può godere del bene, usarlo e trarne i frutti (naturali e civili), con il vincolo di rispettarne la destinazione economica, senza possibilità di cambiarla.

L’usufrutto può essere costituito per legge (usufrutto legale), per volontà delle parti (contratto o testamento) o per usucapione. La sua durata è limitata: esso si estingue con la morte dell’usufruttuario (se persona fisica) o decorso il periodo massimo di trent’anni (se a favore di persona giuridica). Questo significa che l’usufrutto non può essere trasmesso agli eredi dell’usufruttuario e, se ceduto a terzi, si estingue comunque con la morte del cedente originario.

L’usufruttuario, pur non essendo proprietario, può agire come tale agli occhi di terzi, possedendo il bene e potendolo affittare. Tuttavia, non può vendere l’immobile, ma solo il suo diritto di usufrutto.

Riferimenti normativi

La disciplina della nuda proprietà, poiché legata al diritto di usufrutto, è contenuta nell’articolo 978 e seguenti del Codice Civile, che regolamentano questo diritto reale.

Le norme di natura fiscale invece sono contenute nelle leggi fiscali e nei regolamenti degli enti locali competenti.

Acquisto della nuda proprietà

La nuda proprietà di un immobile si acquista comprando, ereditando o ricevendo in donazione un bene la cui piena titolarità è priva del diritto di utilizzo e di godimento fino alla morte dell’usufruttuario. Questa forma di acquisizione può essere vantaggiosa per diverse ragioni. Il suo valore economico, ad esempio, è inferiore a quello della piena proprietà, ma si ricompone una volta cessato l’usufrutto. In particolare, il valore della nuda proprietà vitalizia dipende dall’età dell’usufruttuario: più è anziano, maggiore è il valore della nuda proprietà al momento dell’acquisto, poiché la durata prevista dell’usufrutto è minore. Questo rende la nuda proprietà un investimento interessante, perché il suo valore può aumentare nel tempo, mano a mano che l’usufruttuario invecchia.

Vantaggi  

Acquistare la nuda proprietà offre quindi diversi vantaggi:

  • l’immobile viene acquisito a un prezzo inferiore rispetto alla piena proprietà;
  • il valore dell’immobile tende a crescere nel tempo con l’invecchiamento dell’usufruttuario e l’aumento del valore di mercato:
  • il nudo proprietario non deve sostenere le spese di manutenzione ordinaria, quelle di amministrazione e custodia, né il carico fiscale ordinario, che sono a carico dell’usufruttuario;
  • per chi vende, è un modo per ottenere liquidità mantenendo il diritto di abitare l’immobile;
  • per chi compra, può essere un investimento a lungo termine per i figli.

Svantaggi  

Nonostante i vantaggi, l’istituto presenta anche degli svantaggi:

  • il nudo proprietario deve attendere la cessazione dell’usufrutto per poter godere pienamente dell’immobile;
  • le spese di manutenzione straordinaria sono a carico del nudo proprietario;
  • chi vende la nuda proprietà conservando l’usufrutto non può vendere il bene e deve conservarlo in buono stato.

Nuda proprietà e imposte

Il nudo proprietario non è gravato dai carichi fiscali sull’immobile, poiché questi sono a carico dell’usufruttuario. L’usufruttuario è tenuto infatti a pagare imposte come IMU, TASI e IRPEF. Al nudo proprietario spettano solo le imposte indirette, su una base imponibile ridotta del valore dell’usufrutto. All’inizio e alla fine dell’usufrutto, i carichi fiscali si ripartiscono proporzionalmente.

Estinzione usufrutto e acquisizione proprietà

Il nudo proprietario ottiene la piena titolarità dell’immobile alla cessazione dell’usufrutto grazie all’istituto della “consolidazione”, che si realizza quando i poteri di godimento e utilizzo si riuniscono.

L’usufrutto può estinguersi per diverse ragioni:

  • morte dell’usufruttuario (sia per usufrutto vitalizio che temporaneo);
  • scadenza del termine (per usufrutto temporaneo);
  • cessione del diritto dall’usufruttuario al nudo proprietario:
  • prescrizione, che si verifica e l’usufruttuario non esercita i suoi poteri per almeno vent’anni.
  • distruzione totale del bene causata dall’usufruttuario;
  • rinuncia dell’usufruttuario;
  • abusi o inadempimenti gravi dell’usufruttuario che causano un danno rilevante all’immobile, portando all’estinzione giudiziale dell’usufrutto e a un possibile risarcimento.

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bossing

Il bossing Bossing: cos’è, differenze con il mobbing, cosa dice la legge, le tutele per il lavoratore e e sentenze della Cassazione

Cos’è il bossing

Il bossing è una forma specifica di abuso sul luogo di lavoro, in cui le condotte vessatorie provengono direttamente da un superiore gerarchico. Si tratta di un fenomeno sempre più riconosciuto, spesso assimilato al mobbing, ma con caratteristiche e dinamiche proprie che lo rendono particolarmente insidioso e complesso da affrontare.

Il termine bossing deriva dall’inglese “boss” (capo) e si riferisce nello specifico a comportamenti ostili, sistematici e ripetuti nel tempo, messi in atto da parte di un datore di lavoro o superiore gerarchico nei confronti di un lavoratore subordinato.

Le finalità del bossing possono includere:

  • l’allontanamento del dipendente dall’ambiente lavorativo;
  • l’induzione alle dimissioni volontarie;
  • la svalutazione della persona o delle sue competenze;
  • l’esclusione sistematica dalle attività lavorative.

Differenze tra bossing e mobbing

Il mobbing è un comportamento persecutorio sul luogo di lavoro che può essere esercitato da colleghi, superiori o anche da subordinati. Il bossing, invece, è una sottospecie del mobbing, caratterizzata dall’origine verticale dell’azione, ossia dalla posizione di potere di chi la esercita.

Mobbing → può essere orizzontale, ascendente o discendente.
Bossing → è solo discendente e coinvolge sempre un superiore.

Esempi di bossing:

  • assegnazione di compiti dequalificanti o umilianti;
  • isolamento intenzionale del dipendente;
  • richieste impossibili o fuori orario;
  • continue critiche ingiustificate o umiliazioni pubbliche.

Cosa dice la legge sul bossing

L’ordinamento giuridico italiano non prevede un reato autonomo di “bossing”, così come non lo prevede per il mobbing. Tuttavia, le condotte riconducibili a tale fenomeno possono integrare illeciti civili e penali, tra cui:

  • violazione dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore;
  • molestie morali sul luogo di lavoro, che possono essere riconosciute in sede giudiziaria;
  • reati come l’abuso d’ufficio, lesioni personali (art. 582 c.p.), maltrattamenti (art. 572 c.p.) e stalking (art. 612-bis c.p.), a seconda della topologia dei comportamenti.

Le tutele per il lavoratore vittima di bossing

Il lavoratore che subisce bossing ha diritto a una serie di strumenti giuridici di tutela:

1. Tutela in sede civile

Può agire per:

  • il risarcimento dei danni patrimoniali (perdita di reddito, cure mediche) e non patrimoniali (danno morale, biologico);
  • Ottenere la declaratoria di responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’art. 2087 c.c.

2. Tutela in sede penale

Se i comportamenti costituiscono reato, è possibile presentare querela nei termini previsti. L’autorità giudiziaria , in questo modo, potrà avviare un procedimento penale contro il superiore.

3. Denuncia all’Ispettorato del lavoro

Il lavoratore può rivolgersi all’Ispettorato territoriale del lavoro, che ha competenza in materia di salute, sicurezza e benessere nei luoghi di lavoro.

4. Intervento sindacale

I sindacati possono fornire assistenza nella documentazione delle molestie e nell’attivazione di procedure conciliative.

Come difendersi dal bossing

Se si decide di denunciare la condotta del superiore o di agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno è fondamentale raccogliere prove documentali e testimoniali delle condotte vessatorie:

  • email, messaggi, ordini di servizio anomali;
  • testimonianze di colleghi;
  • referti medici o relazioni psicologiche;
  • segnalazioni al medico competente o al RLS (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza).

Per impostare una difesa e tutelare la propria posizione può essere utile rivolgersi invece a :

  • un avvocato giuslavorista esperto nei diritti dei lavoratori;
  • uno psicologo del lavoro o un medico del Servizio Sanitario;
  • un’associazione per la tutela dei lavoratori.

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 35061/2021: confermata la condanna per bossing del datore di lavoro e del capufficio di una dipendente, anche se quest’ultima era stata vittima di vessazioni unicamente da parte del suo superiore gerarchico. La Suprema Corte ha ritenuto responsabile il datore di lavoro per la sua colpevole inerzia di fronte alle condotte persecutorie, evidenziando come le testimonianze avessero accertato una lesione che coinvolgeva sia gli obblighi contrattuali che i diritti fondamentali della lavoratrice, quali la salute e la dignità sul posto di lavoro, tutelati dalla Costituzione. Di conseguenza, l’ammontare del risarcimento per il danno biologico è stato raddoppiato per compensare la sofferenza morale derivante dalla lesione della dignità della dipendente nell’ambiente lavorativo.

Cassazione n. 2012/2017: non si può parlare di “bossing” e, di conseguenza, non sussiste alcun diritto al risarcimento, quando il comportamento del responsabile, pur manifestandosi in modi burberi, bruschi e rozzi, non sia specificamente diretto a un singolo lavoratore “preso di mira”, ma si estenda indistintamente a tutto il personale. In tali circostanze, tali modalità espressive rivelano unicamente un tratto caratteriale del soggetto, per quanto criticabile, senza alcuna intenzione di accanirsi contro un individuo in particolare.

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scale condominiali

Scale condominiali Scale condominiali: bene comune, normativa civilistica di riferimento e regole per la ripartizione delle spese

Cosa si intende per scale condominiali

Le scale condominiali rappresentano uno degli elementi architettonici essenziali negli edifici condominiali. Oltre alla loro funzione pratica, costituiscono un tipico bene comune e sono disciplinate in modo puntuale dalla normativa civilistica.

Bene comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Ai sensi dell’art. 1117 del codice civile, le scale rientrano tra le parti comuni dell’edificio, in quanto strumentali all’uso comune. In particolare, l’articolo elenca tra i beni comuni: “… le scale, i vestiboli, gli anditi, i portici e i cortili, nonché i locali per il servizio comune.” Di conseguenza, tutti i condomini – anche quelli che non le utilizzano direttamente – sono comproprietari delle scale, salvo diversa indicazione nel titolo (es. regolamento contrattuale).

Normativa di riferimento: art. 1124 del codice civile

L’art. 1124 c.c. disciplina nello specifico la ripartizione delle spese per la manutenzione e il rifacimento delle scale e degli ascensori, introducendo un criterio misto:

  • 50% delle spese va ripartito in base al valore millesimale dell’unità immobiliare (ex art. 68 disp. att. c.c.);
  • 50% va ripartito in proporzione all’altezza del piano, cioè all’utilizzo potenziale delle scale da parte dei vari condomini.

Questo criterio mira a bilanciare l’interesse patrimoniale (valore dell’unità) con l’utilizzo effettivo del bene comune.

Ripartizione spese scale condominiali

Facciamo un esempio pratico:

  • un condominio ha 5 piani fuori terra;
  • le spese di rifacimento scale ammontano a 10.000 euro.
  • il 50% (5.000 euro) viene ripartito secondo i millesimi di proprietà;
  • il restante 50% (5.000 euro) viene suddiviso in proporzione all’altezza del piano: il piano terra pagherà meno rispetto all’ultimo piano.

Questa formula tiene conto del maggior uso delle scale da parte dei condomini dei piani superiori, che ne fruiscono quotidianamente per accedere alla propria abitazione.

Eccezioni e chiarimenti giurisprudenziali

La Corte di Cassazione ha chiarito più volte che:

  • il diritto di comproprietà delle scale sussiste anche per i proprietari di unità con accesso indipendente (Cassazione n. 4664/2016) salvo diversa previsione nel titolo o nell’atto di acquisto;
  • le modifiche strutturali alle scale richiedono delibera assembleare con maggioranza qualificata (art. 1136 c.c.);
  • l’inserimento di scale interne private da parte di singoli condomini (es. collegamento tra due appartamenti) necessita della Scia (Cassazione n. 41598/2019).

Manutenzione ordinaria e straordinaria delle scale condominiali

Queste le regole da rispettare quando si procede alla manutenzione delle scale condominiali:

  • la manutenzione ordinaria, che consiste nella pulizia, nelle riparazioni minori, e nella illuminazione rientra tra le spese correnti annuali, approvabili con maggioranza semplice;
  • la manutenzione straordinaria, rappresentata invece dal rifacimento dei gradini, dalla sostituzione ringhiere e dalla messa a norma richiede una delibera assembleare con maggioranze ex art. 1136 c.c.

In entrambi i casi si applicano comunque i criteri di  ripartizione previste dall’art. 1124 c.c., salvo accordi differenti.

Regolamento condominiale e deroghe alla legge

Il regolamento di condominio, se di tipo contrattuale (cioè approvato all’unanimità o allegato all’atto di compravendita), può prevedere criteri di ripartizione diversi da quelli previsti dal codice civile. In caso contrario, ossia in presenza dio regole stabilite dal regolamento assembleare, prevale la disciplina legale.

Scale e condominio parziale

In alcune ipotesi, l’edificio può prevedere più vani scala, ciascuno utilizzato da una porzione limitata di condomini. In tal caso:

  • si applica la teoria del condominio parziale (art. 1123, comma 3 c.c.);
  • le spese sono a carico solo dei condomini che traggono utilità dalla scala.

La giurisprudenza conferma che in tali casi è legittima la ripartizione parziale delle spese, senza necessità di costituire un condominio separato.

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Cassonetti sotto la finestra? Delibera condominiale annullabile Cassonetti sotto la finestra? Il tribunale annulla la delibera condominiale se lede il diritto di proprietà e ignora soluzioni alternative praticabili

Cassonetti sotto la finestra e delibera

Cassonetti sotto la finestra e annullabilità della delibera: posizionare i contenitori dei rifiuti condominiali in prossimità di una finestra privata può portare all’annullamento della delibera assembleare, se ciò comporta un pregiudizio diretto al diritto di proprietà e non risulta giustificato da esigenze oggettive del condominio. Lo ha stabilito il Tribunale di Latina con sentenza n. 1025/2025, richiamando i principi di buon uso delle parti comuni e proporzionalità delle scelte collettive.

Cassonetti sotto la finestra e odori molesti

La causa prende avvio da una decisione dell’assemblea condominiale che aveva stabilito il collocamento dei cassonetti per la raccolta differenziata a pochi metri dalla finestra di un appartamento. La condomina interessata ha impugnato la delibera, lamentando un’interferenza ingiustificata con il proprio diritto di godimento dell’unità immobiliare, a causa delle esalazioni provenienti dai rifiuti.

Il giudice ha accolto la domanda, ritenendo che la scelta dell’assemblea configuri un uso anomalo delle parti comuni e un sacrificio sproporzionato degli interessi individuali, soprattutto in presenza di alternative praticabili.

Odori e distanze: i criteri di valutazione del tribunale

Il Tribunale ha fondato il proprio giudizio su presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., richiamando massime di esperienza secondo cui la vicinanza di rifiuti organici alle finestre può comportare odori sgradevoli e limitazioni al pieno utilizzo dell’abitazione, specialmente nei mesi estivi.

Rilevata una distanza inferiore ai 4 metri tra i cassonetti e la finestra, il giudice ha fatto riferimento, in via analogica, all’articolo 889 c.c. in materia di distanze tra costruzioni, trattandosi di una lacuna normativa in ambito condominiale e igienico-sanitario. In mancanza di norme locali specifiche, ha considerato quella distanza non idonea a garantire condizioni igieniche accettabili.

Le fotografie allegate dall’attrice, ritenute non contestate, hanno rafforzato la prova del disagio, contribuendo alla valutazione complessiva dell’illegittimità della delibera.

Eccesso di potere e alternative ignorate

Il provvedimento impugnato è stato ritenuto viziato da eccesso di potere, poiché ha sacrificato il diritto individuale senza che vi fosse una reale esigenza collettiva. La motivazione addotta dall’assemblea – ovvero la mancanza di spazi alternativi – è stata smentita dalla consulenza tecnica d’ufficio, che ha invece individuato il locale autoclave come area idonea, previa minima modifica.

Secondo il giudice, l’attività deliberativa del condominio deve rispettare il principio di equilibrio tra interesse collettivo e diritti dei singoli, evitando soluzioni irragionevoli o sproporzionate. La mancata considerazione dell’alternativa concretamente realizzabile ha reso la motivazione della delibera meramente apparente e quindi invalida.

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casa familiare

La casa familiare Casa familiare: cos’è, cosa accade in caso di separazione e come funziona l’assegnazione

Cosa si intende per casa familiare

La casa familiare, spesso detta anche casa coniugale, è l’immobile in cui si è svolta la vita quotidiana della famiglia e dove sono stati costruiti gli affetti, le abitudini e la routine domestica. Quando una coppia si separa, la sorte di questo bene diventa spesso oggetto di conflitto, poiché incide direttamente sulla tutela dei figli minori o economicamente non autosufficienti.

L’ordinamento italiano, in un’ottica di protezione della prole, prevede regole specifiche in merito all’assegnazione della casa familiare, disciplinata dall’art. 337-sexies del codice civile.

Occorre inoltre precisare che la casa familiare non è semplicemente un bene immobile: giuridicamente, è l’abitazione destinata alla vita della famiglia, indipendentemente dal regime patrimoniale scelto dai coniugi (comunione o separazione dei beni) o dall’intestazione del bene. L’assegnazione, quindi, non riguarda il diritto di proprietà, ma la destinazione d’uso dell’immobile in funzione dell’interesse superiore dei figli.

Normativa di riferimento: art. 337-sexies c.c.

L’art. 337-sexies c.c. stabilisce che:

“Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.”

Questo principio si applica nei procedimenti di:

  • separazione personale dei coniugi;
  • divorzio;
  • cessazione della convivenza more uxorio (anche per coppie non sposate con figli).

Il giudice può assegnare la casa familiare al genitore collocatario dei figli, anche se non è proprietario o intestatario dell’immobile, purché ciò sia ritenuto nell’interesse prevalente della prole.

Chi ha diritto alla casa familiare dopo la separazione

In caso di separazione o divorzio:

  • se ci sono figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti, la casa viene assegnata al genitore con cui i figli convivono stabilmente. Se la casa, ad esempio, è di proprietà esclusiva del padre, ma i figli vivono con la madre, la casa viene in genere assegnata alla madre per garantire la stabilità abitativa dei minori;
  • se non ci sono figli, l’assegnazione della casa segue i principi della proprietà, dell’uso o del possesso, salvo diversi accordi tra le parti.

Effetti dell’assegnazione della casa coniugale

L’assegnazione della casa non trasferisce la proprietà, ma comporta:

  • il diritto di abitazione gratuito per l’assegnatario;
  • la possibilità di registrare l’assegnazione nei pubblici registri immobiliari (art. 2643 c.c.);
  • il divieto per il proprietario di vendere o locare l’immobile in modo da pregiudicare il diritto dell’assegnatario.

Quando l’assegnazione può essere revocata

Il diritto all’uso della casa familiare non è eterno: può cessare quando:

  • I figli diventano economicamente autosufficienti o lasciano la casa;
  • cambiano le condizioni di affidamento (es. affidamento esclusivo all’altro genitore);
  • il genitore assegnatario convive con un nuovo partner in modo stabile, come riconosciuto dalla giurisprudenza di Cassazione.

La casa familiare nei rapporti patrimoniali

Per quanto riguarda il regime di ripartizione delle spese:

  • le spese di manutenzione ordinaria spettano al genitore assegnatario;
  • le spese straordinarie e le imposte gravano invece sul proprietario;
  • se la casa è in comproprietà, il coniuge non assegnatario può chiedere lo scioglimento della comunione, dopo la cessazione del diritto di abitazione.

Giurisprudenza di legittimità

La Cassazione è intervenuta più volte a sciogliere le questioni più controverse relative alla casa familiare.

Cassazione n. 308/2008: la casa familiare non è solo un luogo fisico, ma un vero e proprio centro di vita dove si coltivano affetti, interessi e abitudini quotidiane. Questo ambiente è fondamentale per la crescita e lo sviluppo della personalità dei figli. Di conseguenza, l’abitazione serve a proteggere i minori e a garantire il loro diritto di continuare a vivere nel proprio ambiente domestico, come stabilito dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione.

Cassazione n. 18603 del 2021: l’assegnazione della casa familiare si discosta dalle logiche patrimoniali o di mantenimento del coniuge in caso di separazione o divorzio. Il suo scopo principale è esclusivamente la tutela degli interessi dei figli.

Cassazione n. 8764/2023: per decide se un ex coniuge ha diritto all’assegno di divorzio, occorre considerare il termine “patrimonio” in un senso molto ampio. Questo significa che è necessario valutare ogni fattore che possa aumentare le risorse economiche della famiglia o anche solo dell’ex coniuge. Tra questi fattori rientra anche l’assegnazione della casa familiare.

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associazioni riconosciute

Associazioni riconosciute Associazioni riconosciute: cosa sono, quali sono e come si distinguono da quelle non riconosciute

Associazioni riconosciute: cosa sono

Le associazioni riconosciute si costituiscono per perseguire finalità comuni non economiche (culturali, religiose, sportive, benefiche, ecc.), dotandosi della personalità giuridica mediante un iter specifico di riconoscimento. A differenza delle associazioni non riconosciute, queste godono di un’autonomia patrimoniale perfetta, ossia il loro patrimonio è distinto da quello degli associati e degli amministratori.

Normativa di riferimento: artt. 14–35 c.c.

Le associazioni, in generale, sono regolate dal titolo II del libro I del codice civile (artt. 14–35 c.c.). Quelle riconosciute si distinguono in quanto acquisiscono personalità giuridica attraverso un atto formale di riconoscimento da parte dello Stato, sulla base di una valutazione dell’adeguatezza patrimoniale e della conformità dell’atto costitutivo e dello statuto alle norme vigenti.

Il riconoscimento avviene oggi ai sensi del D.P.R. 361/2000 per le persone giuridiche private non appartenenti al Terzo Settore, o tramite il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS) per gli enti iscritti.

Associazioni riconosciute: definizione e requisiti

Una associazione riconosciuta è un ente senza scopo di lucro che:

  • persegue una finalità lecita e di pubblica utilità (ad esempio culturale, educativa, sportiva, religiosa);
  • è dotata di atto costitutivo e statuto conformi alle disposizioni di legge;
  • è riconosciuta dallo Stato o da un ente pubblico competente, tramite l’iscrizione in appositi registri;
  • è in possesso di un patrimonio adeguato al perseguimento delle proprie finalità.

Differenza tra associazioni riconosciute e non riconosciute

Aspetto

Associazione riconosciuta

Associazione non riconosciuta

Personalità giuridica

No

Responsabilità patrimoniale

Limitata al patrimonio

Anche personale (degli amministratori)

Requisiti di costituzione

Atto pubblico + riconoscimento

Atto costitutivo anche privato

Controlli pubblici

Sì, anche su bilanci e statuti

Minori obblighi formali

Capacità giuridica piena

Sì, agisce in nome proprio

Agisce per il tramite di rappresentanti

La differenza principale tra queste due figure consiste nella responsabilità: nelle associazioni non riconosciute, in caso di debiti, possono essere chiamati a rispondere personalmente gli amministratori (art. 38 c.c.), mentre le associazioni riconosciute rispondono solo con il proprio patrimonio.

Come si costituisce un’associazione riconosciuta

Per ottenere il riconoscimento giuridico, è necessario:

  1. redigere un atto costitutivo e uno statuto, in forma pubblica;
  2. presentare richiesta all’autorità competente (Prefettura, Regione, RUNTS);
  3. dimostrare di possedere un patrimonio iniziale adeguato, normalmente non inferiore a 15.000 euro (variabile);
  4. attendere il provvedimento formale di riconoscimento e l’iscrizione nei registri previsti.

Nel caso di associazioni del Terzo Settore, l’iscrizione nel Registro Unico Nazionale (RUNTS) comporta il riconoscimento automatico della personalità giuridica, come stabilito dal D.lgs. n. 117/2017 (Codice del Terzo Settore).

Esempi di associazioni riconosciute

  • Associazioni culturali riconosciute (es. accademie, fondazioni artistiche);
  • Associazioni sportive dilettantistiche;
  • Associazioni di volontariato o promozione sociale;
  • Associazioni dei consumatori;
  • Associazioni per la protezione ambientale.

Giurisprudenza

La giurisprudenza civile ha spesso ribadito la distinzione tra soggettività giuridica e responsabilità patrimoniale, sottolineando come la concessione della personalità giuridica non dipenda dalla sola volontà delle parti, ma da un provvedimento amministrativo formale. Inoltre, è frequente l’intervento della Cassazione nei casi in cui si discute della responsabilità personale degli amministratori di associazioni non riconosciute, specie in caso di obbligazioni contratte in nome dell’ente.

 

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consiglio di supercondominio

Il consiglio di supercondominio Consiglio di supercondominio: definizione, funzioni, normativa, maggioranze decisionali e giurisprudenza rilevante

Cos’è il consiglio di supercondominio?

Il consiglio di supercondominio è un organo che facilita la gestione di un supercondominio, ossia un complesso formato da più edifici con parti comuni (come vialetti, impianti, parcheggi o giardini). Il consiglio non è obbligatorio per legge. Lo stesso però può essere istituito per agevolare il processo decisionale, coordinare le esigenze delle singole palazzine e rappresentare i condomini in assemblea. Il consiglio di supercondominio è un organo consultivo e di rappresentanza ed è composto dai delegati delle singole unità condominiali che fanno parte del supercondominio. Non ha poteri decisionali vincolanti, ma svolge un ruolo di raccordo tra le varie realtà condominiali. In questo modo facilita la gestione delle parti comuni.

Funzioni principali del consiglio di supercondominio

Da quanto accennato emerge quindi che il consiglio diu supercondomonio svolge principalmente le seguenti funzioni:

– Consulenza: supporta l’amministratore del supercondominio nella gestione delle parti comuni.
Rappresentanza: fa da tramite tra i singoli condomini e l’assemblea del supercondominio.
Coordinamento: agevola la comunicazione e la risoluzione dei problemi tra i diversi edifici.
Verifica delle spese: monitora l’uso delle risorse comuni per evitare sprechi.

Non è un organo obbligatorio, ma può essere previsto nel regolamento condominiale o deciso dall’assemblea del supercondominio.

Normativa di riferimento

Il supercondominio è regolato dagli articoli 1117-bis e 67 delle disposizioni di attuazione del codice civile, che disciplinano la gestione di beni comuni in strutture condominiali complesse. Tuttavia, il consiglio di supercondominio non è espressamente previsto dalla legge, ma può essere istituito in base alle seguenti norme:

Art. 67 disp. att. c.c.: stabilisce che, nei supercondomini con più di 60 partecipanti, i condomini devono nominare un rappresentante per ciascun edificio, che li rappresenti nelle assemblee del supercondominio.

Art. 1136 c.c.: disciplina le maggioranze necessarie per le delibere condominiali, applicabili anche al supercondominio.

Art. 1105 c.c.: regola l’amministrazione delle parti comuni in caso di comunione, applicabile in via analogica al supercondominio.

Il consiglio di supercondominio può essere previsto nel regolamento condominiale o istituito con una delibera assembleare a maggioranza.

Maggioranze necessarie per le decisioni

Le decisioni del consiglio di supercondominio non sono vincolanti, ma servono come supporto all’assemblea del supercondominio. Tuttavia, se il regolamento prevede che il consiglio abbia compiti specifici (ad esempio, la selezione di preventivi per lavori comuni), le sue decisioni devono essere ratificate dall’assemblea con le seguenti maggioranze:

Spese ordinarie (es. manutenzione del giardino condominiale): maggioranza semplice (50%+1 dei presenti).
Spese straordinarie (es. rifacimento del tetto di un edificio comune): maggioranza qualificata (almeno ⅔ dei millesimi).
Nomina di un rappresentante di palazzina: maggioranza semplice dei condomini della singola palazzina.

Se un edificio del supercondominio non partecipa alle spese per un determinato bene o servizio, i suoi rappresentanti non hanno diritto di voto sulle decisioni relative a quel bene.

Giurisprudenza sul consiglio di supercondominio

La giurisprudenza ha chiarito diversi aspetti del consiglio di supercondominio. Vediamo in che modo.

Cassazione n. 33057/2018: l’assemblea condominiale può legittimamente nominare una “commissione di condòmini” con il compito di esaminare preventivi e spese per lavori. Tuttavia, questa commissione non può sostituirsi all’assemblea nelle sue funzioni.

Ciò significa che le decisioni prese dalla commissione, come la scelta del contraente (ad esempio, un’impresa edile) e la ripartizione dei costi, sono vincolanti per tutti i condòmini (inclusi i dissenzienti) solo se approvate dall’assemblea con le maggioranze previste dalla legge. Di conseguenza, se l’amministratore stipula un contratto d’appalto per lavori di manutenzione straordinaria (non urgenti) basandosi sulle scelte della commissione, ma senza una delibera assembleare di approvazione, tale contratto non è legalmente opponibile ai condòmini. In altre parole, i condòmini non sarebbero vincolati da un contratto non approvato dall’assemblea.

Corte di Appello Torino n. 1667/2017: una delibera del Consiglio di Condominio è invalida se non ha un contenuto meramente consultivo, ma prende una vera e propria decisione, specialmente se non convocata dall’Amministratore. Questo perché il Consiglio di Condominio, secondo la Riforma del 2013, ha solo funzioni consultive e di controllo sull’operato dell’Amministratore (amministrativo, tecnico e contabile). Ad esempio, se un’Assemblea del Consiglio di Condominio decidesse sull’assegnazione di lavori di rifacimento di un terrazzo, eccederebbe chiaramente le sue prerogative, rendendo la delibera illegittima.

 

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moglie tradita

Risarcimento di 10.000 euro per la moglie tradita Moglie tradita: spetta il risarcimento del danno non patrimoniale di 10.000 euro per le umiliazioni e le mortificazioni

Risarcimento del danno per la moglie tradita

Alla moglie tradita, umiliata e mortificata a causa del tradimento del marito con una allieva della scuola di danza, che gestivano insieme, spetta un risarcimento del danno di 10.000 euro, quantificato in via equitativa. Lo ha deciso il Tribunale di Treviso nella sentenza n. 201/2025.

Moglie tradita: domanda di separazione con addebito

Una donna agisce in giudizio, vantando una richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti del suo ex marito. La coppia, sposatasi il 25 agosto 2007, dopo anni di frequentazione, condivideva una passione comune per la danza che li ha portati a fondare insieme una società sportiva di successo. Nel periodo tra settembre e novembre 2011 però, la donna scopre, visionando il cellulare del marito, che questi intratteneva una relazione extraconiugale con un’allieva della loro scuola di ballo. Circostanza ammessa dal marito nel momento in cui la moglie rinviene un biglietto inequivocabile scritto dall’amante. Nonostante le rassicurazioni del marito e il tentativo di salvare il matrimonio, la relazione extraconiugale prosegue anche nei primi mesi del 2012. A questo punto la moglie decide di abbandonare la casa coniugale nell’ottobre 2012 e avviare un giudizio di separazione con addebito.

Richiesta risarcitoria della moglie tradita

La sentenza di separazione, pubblicata il 19 febbraio 2019, riconosce la colpa in capo al marito, ma dichiara inammissibile la domanda risarcitoria in quella sede. La donna si rivolge quindi al Tribunale per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito, proponendo una liquidazione basata sulle tabelle milanesi in tema di danno da perdita del vincolo parentale o di diffamazione, da applicare per analogia.

Nessun risarcimento in assenza di danno

Il marito, costituitosi in causa, contesta la domanda risarcitoria. Per l’uomo la violazione del dovere di fedeltà non è sufficiente a giustificare un risarcimento del danno aquiliano. Occorre piuttosto che la lesione riguardi un diritto costituzionalmente garantito e che l’afflizione superi la soglia della normale tollerabilità. Tali presupposti però non sono ravvisabili nel caso di specie. Le parti hanno infatti alternato periodi di separazione di fatto. La moglie inoltre, già nel 2013, ha instaurato una relazione e una convivenza con un socio finanziatore della sua nuova attività imprenditoriale nel settore della danza. Circostanza questa che escluderebbe la violazione di un diritto alla salute. La moglie ha infatti dimostrato di saper riorganizzare sia la propria vita sentimentale che lavorativa. L’uomo nega inoltre che la sua condotta possa aver violato i diritti soggettivi della moglie come l’onore e la dignità personale, perché la relazione non è stata condotta in modo pubblico o ostentato. Per quanto riguarda il quantum del risarcimento infine, l’uomo ritiene del tutto sproporzionati i parametri scelti dall’attrice e non applicabili per analogia al loro caso.

Risarcimento danni non patrimoniali

Il Tribunale, istruita la causa, si pronuncia in favore della moglie sul diritto al risarcimento.

Il Giudice richiama a tale fine l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità per la quale la violazione del dovere di fedeltà coniugale può dar luogo a risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 c.c. Occorre però che l’afflizione superi la soglia della tollerabilità e si traduca nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto (salute, onore, dignità personale).

Nel caso specifico, il Tribunale ritiene integrati tali presupposti. Il tradimento, peraltro reiterato anche dopo le rassicurazioni dell’uomo di voler interrompere la relazione, si è verificato in un momento in cui la coppia aveva consolidato una solida progettualità, non solo attraverso la società di danza, ma anche con il comune desiderio di avere un figlio, come emerso dalla sentenza separativa.

Moglie tradita, umiliata e mortificata

Il Tribunale evidenzia come le modalità del tradimento abbiano provocato umiliazione e mortificazione alla donna. La relazione extraconiugale è infatti maturata nell’ambiente lavorativo della scuola di danza, con un’allieva verso cui l’uomo mostrava attenzioni particolari, notate dagli altri allievi e che hanno favorito il “vociferare nel corridoio” e il “malevolo pettegolezzo”. Le voci sulla relazione hanno circolato inoltre, non solo tra gli allievi, ma anche tra insegnanti di altre scuole. Un episodio significativo si è poi verificato durante una competizione all’estero. In questa occasione l’uomo è stato sorpreso in atteggiamenti intimi con l’allieva in presenza di altri allievi. Fatto questo che ha alimentato ulteriormente il chiacchiericcio.

Queste condotte, ritenute dal Tribunale superiori alla normale tollerabilità, hanno generato “strepitus”, curiosità e maldicenza di terzi. Questi fatti hanno ferito indubbiamente l’onore, il decoro, la stima professionale, la riservatezza e la privacy della donna, che ha vissuto momenti di depressione, tristezza e umiliazione, con innegabile pregiudizio morale.

Risarcimento del danno di 10.000 euro

Il Tribunale respinge però i parametri risarcitori proposti dall’attrice. Va infatti esclusa l’equiparazione del tradimento alla lesione del vincolo parentale o alla diffamazione a mezzo stampa, data la diversità dei presupposti costitutivi.

Il criterio risarcitorio da adottare è quello equitativo, ai sensi dell’articolo 1226 c.c, tenuto conto che:

  • il discredito subito dalla donna va circoscritto all’ambito lavorativo;
  • la lesione dei diritti soggettivi non le ha impedito di instaurare una nuova relazione sentimentale e di fondare una nuova scuola di danza con il compagno finanziatore;
  • il patimento e la tristezza sono durati circa due mesi.

Alla luce di tutti questi aspetti il Tribunale quantifica in € 10.000,00 il risarcimento dovuto alla moglie tradita.

 

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