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Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato Il passeggero terzo, vittima di un sinistro stradale, ha diritto ad ottenere il risarcimento dell’assicurazione se il conducente dell’auto ha bevuto alcolici?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

L’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità. La colpa non è sempre imputabile in capo a chi, dopo aver accettato di essere trasportato a bordo di un veicolo con una persona ubriaca alla guida, rimane coinvolto in un sinistro stradale di cui la responsabilità è rinvenibile a capo del conducente. È il giudice che deve valutare, caso per caso, l’esistenza e il grado della colpa del trasportato nel causare il sinistro (Cass., sez. III, 17 settembre 2024, n. 24920).

Il caso in oggetto prende le mosse dalle lesioni riportate da un soggetto trasportato a bordo di un autoveicolo. Di tale danno il terzo trasportato chiese il risarcimento al vettore ed al suo assicuratore.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello attribuirono alla vittima un concorso di colpa del 50%, in quanto il terzo trasportato aveva fornito un contributo causale all’avverarsi del da lui stesso sofferto, accettando di essere trasportato a bordo di un veicolo condotto da una persona in evidente stato di ebbrezza.

Il soggetto trasportato ricorre in Cassazione e questa dichiara improcedibile il ricorso.

Tuttavia, la Corte affronta la questione prendendo le mosse dal principio sancito dall’art. 1227 c.c. il quale prevede che, se il comportamento colpevole della vittima ha concorso a causare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. È quindi possibile escludere o ridurre il diritto al risarcimento del danno di persona trasportata su un veicolo condotto in stato di ebrezza.

In quest’ottica la Suprema Corte si occupa della questione concernente la compatibilità tra il diritto comunitario e l’art. 1227, comma 1, c.c. Sul punto, la Corte, nel richiamare la normativa comunitaria in materia, preliminarmente fa riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia 30 giugno 2005, che ha affermato due principi. Secondo il primo, il diritto comunitario, in tema di assicurazione, sarebbe “privato del suo effetto utile” in presenza d’una normativa nazionale che negasse al passeggero il diritto al risarcimento – ovvero lo limitasse in misura sproporzionata – “in base a criteri generali ed astratti”. Per il secondo, il diritto comunitario consente, invece, agli Stati membri di limitare il risarcimento dovuto al trasportato “in base ad una valutazione caso per caso” di circostanze eccezionali. Pertanto, mentre contrasterebbe con l’art. 13 Direttiva 2009/103 una norma di diritto interno che escludesse o limitasse ipso facto il diritto al risarcimento del passeggero, per il solo fatto di avere preso posto a bordo d’un veicolo condotto da persona ubriaca, non viola per contro il diritto comunitario una norma di diritto nazionale che, senza fissare decadenze o esclusioni in linea generale, consente al giudice di valutare caso per caso, secondo le regole della responsabilità civile, se la condotta della vittima possa o meno ritenersi colposamente concorrente alla produzione del danno.

Alla luce di quanto sopra premesso, la Corte enuncia dei principi fondamentali di diritto.

In primo luogo, afferma che l’art. 1227, comma 1, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale e astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente; una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, par. 3, della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitoria spettante al trasportato, qualsiasi disposizione di legge […] che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol.

Spetterà, quindi, al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore. Da ultimo l’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.

(*Contributo in tema di “Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

permessi legge 104

Permessi legge 104: non c’è una data di scadenza I permessi ex legge 104 non hanno una data di scadenza, vengono meno se non sussistono i requisiti richiesti dalla legge

Permessi legge 104: nessuna scadenza automatica

I permessi retribuiti previsti dall’articolo 33 della Legge 104/1992 non hanno una data di scadenza prefissata. Tuttavia, il diritto alla fruizione rimane subordinato alla verifica continua della sussistenza dei requisiti richiesti. Questo principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nella sentenza n. 30628/2024.

Richiesta permessi per assistere parente disabile

Il principio sancito dagli Ermellini chiude una vicenda che ha inizio quando un lavoratore chiede i permessi per assistere un congiunto con disabilità grave. L’INPS inizialmente concede l’autorizzazione, poi la limita a un periodo definito. La società datrice di lavoro chiede quindi il rimborso delle somme indebitamente erogate.  Per la società infatti il dipendente non aveva più diritto ai permessi. La Corte d’Appello accoglie le richieste dell’azienda, ma il lavoratore impugna la decisione, portando il caso davanti alla Cassazione.

I permessi della legge 104 non scadono automaticamente

La Suprema Corte chiarisce che il diritto ai permessi nasce con la presentazione della domanda amministrativa e il riconoscimento dell’ente previdenziale. Una volta accertato il diritto, questo non può essere arbitrariamente limitato nel tempo dall’INPS o dal datore di lavoro, a meno che non intervengano cambiamenti nei requisiti iniziali. I benefici previsti dalla Legge 104 non sono soggetti a “scadenza automatica”. Eventuali modifiche o revoche possono avvenire solo in caso di accertamenti successivi che dimostrino l’assenza dei presupposti di legge.

Onere del lavoratore: domanda corretta e completa

Il lavoratore ha l’onere di presentare una domanda amministrativa corretta e completa. Questa domanda è infatti un atto essenziale per accedere al beneficio. Essa permette all’INPS di verificare l’esistenza delle condizioni previste dalla normativa. Una volta approvata, la prestazione previdenziale diventa obbligatoria e permanente fino a prova contraria.

Nel caso specifico, la Cassazione, nell’accogliere  il ricorso del dipendente, evidenzia che l’INPS non aveva il diritto di circoscrivere temporalmente il beneficio, salvo verifiche capaci di dimostrare la perdita dei requisiti.

INPS o datore: devono provare il venir meno dei requisiti

Un elemento cruciale riguarda però l’onere della prova. Spetta all’INPS o al datore di lavoro dimostrare che i requisiti per i permessi siano venuti meno. Questo ribalta la prospettiva: una volta riconosciuto il diritto, il lavoratore non deve dimostrare continuamente di averne diritto. Sono le istituzioni competenti a dover provare eventuali irregolarità.

Implicazioni pratiche lavoratori e datori

La sentenza della Cassazione sancisce in conclusione che:

  • i permessi ex Legge 104 non decadono automaticamente;
  • la richiesta del lavoro relativa ai permessi deve essere chiara, completa e conforme ai requisiti di legge;
  • l’INPS può controllare la persistenza dei requisiti, ma non può imporre limiti temporali arbitrari;
  • il diritto ai permessi decade solo se emergono modifiche che rendono non applicabile la normativa.

Ne consegue che le aziende devono prestare maggiore attenzione nel gestire i permessi. Anticipare somme senza verifiche adeguate può comportare rischi finanziari. La richiesta di rimborso al lavoratore deve essere supportata da prove solide che dimostrino eventuali irregolarità nel godimento dei permessi 104.

E’ necessario inoltre che vi sia equilibrio tra il diritto del lavoratore e il controllo dei requisiti da parte dell’INPS. Il sistema previdenziale deve essere equo e il diritto al sostegno per i familiari con disabilità deve essere garantito senza ostacoli burocratici o interpretazioni restrittive.

 

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divieto di avvicinamento

Divieto di avvicinamento: requisiti della misura Divieto di avvicinamento: il giudice deve indicare i luoghi che la vittima frequenta di solito, la distanza minima e la misura di controllo

Requisiti del divieto di avvicinamento

Quando un giudice emette un divieto di avvicinamento, è tenuto a specificare nell’ordinanza i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, la distanza minima di sicurezza da mantenere, che non deve essere inferiore a 500 metri, e il sistema di controllo da adottare.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42892/2024, ha annullato un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Genova, mettendo in luce gravi carenze nell’applicazione del divieto avvicinamento nei confronti della persona offesa.

Questo provvedimento sottolinea i requisiti imprescindibili che devono essere rispettati dai giudici quando dispongono misure cautelari per proteggere le vittime, specialmente nei casi di violenza domestica o di genere.

Così facendo, la Corte riafferma l’importanza di applicare rigorosamente le norme relative al divieto di avvicinamento. I giudici devono assicurarsi che le misure cautelari non siano solo simboliche, ma strumenti efficaci per prevenire ulteriori abusi. La precisione delle prescrizioni e l’utilizzo delle tecnologie di controllo non sono facoltativi, ma requisiti essenziali per garantire la sicurezza delle vittime e l’efficacia dell’intervento giudiziario.

Lacune nell’ordinanza cautelare

L’ordinanza contestata è stata emessa il 31 luglio 2024. Con questo provvedimento, il Tribunale del Riesame aveva sostituito gli arresti domiciliari dell’imputato con il divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi da questa frequentati, assieme a un obbligo di dimora con permanenza notturna. Tuttavia, il Pubblico Ministero ha impugnato la decisione evidenziando:

  • la mancata indicazione dei luoghi solitamente frequentati dalla vittima;
  • l’assenza della distanza minima di sicurezza di 500 metri;
  • la mancata imposizione dei dispositivi elettronici di controllo come previsto dall’articolo 282-ter c.p.p., aggiornato dalla Legge 168/2023.

Previsioni legislative

Le normative attualmente vigenti richiedono che nel disporre il divieto di avvicinamento alla persona offesa il giudice debba indicare:

  • i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima con descrizioni chiare e dettagliate;
  • una distanza minima non inferiore a 500 metri;
  • l’adozione obbligatoria dei dispositivi elettronici per il controllo (come ad esempio i braccialetti elettronici), salvo accertamenti tecnici che ne dimostrino l’impossibilità.

Tali requisiti sono stati introdotti attraverso modifiche legislative mirate a rafforzare le tutele per le vittime dei reati violenti e garantire un controllo efficace sui comportamenti degli imputati. La legge stabilisce che la mancanza anche solo di uno degli elementi richiesti rende il provvedimento viziato.

Divieto di avvicinamento: criticità dell’ordinanza

La Corte di Cassazione, concordando con il Pubblico Ministero, ha ritenuto l’ordinanza emessa dal Tribunale genovese non conforme ai principi sanciti dalla normativa vigente. Essa infatti non ha specificato i luoghi frequentati dalla persona offesa, elemento cruciale per fornire certezze sia all’imputato sia alla vittima. L’omissione compromette infatti l’efficacia delle misure cautelari e la sicurezza della vittima.

Inoltre, nell’ordinanza mancava anche la prescrizione della distanza minima richiesta dalla legge. Infine, non era previsto l’utilizzo degli strumenti elettronici per il controllo come richiesto dall’articolo 282-ter; questo impone infatti che il divieto d’avvicinamento venga accompagnato da modalità tecnologiche salvo impossibilità tecnica dichiarata espressamente. Tale misura non è accessoria, ma parte integrante della tutela.

La Cassazione ribadisce inoltre che il divieto d’avvicinamento rappresenta una misura cautelare unica modulabile secondo due approcci:

  • vietando l’accesso ai luoghi frequentati dalla vittima;
  • imponendo una distanza minima rispetto alla persona offesa.

La scelta tra queste opzioni o loro combinazione deve essere motivata nel rispetto dei principi proporzionalità ed adeguatezza; inoltre prescrivere controlli tramite dispositivi tecnologici obbligatoriamente garantisce continuo monitoraggio sul rispetto delle misure imposte.

Misure protettive più stringenti

Le modifiche legislative recenti culminate nella Legge n°168/2023 hanno reso più stringente quadro normativo relativo alle misure protettive seguendo approccio tolleranza zero verso violenze domestiche/genere; in particolare eliminata discrezionalità giudice circa adozione dispositivi elettronici rendendoli obbligatori salvo impossibilità tecnica accertata.

La sentenza ha quindi annullato l’ordinanza impugnata, disponendo rinvio Tribunale Genova affinché deliberi nuovamente rispettando principi stabiliti dalle norme vigenti.

 

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addebito separazione

Addebito separazione anche per una sola violenza Addebito separazione: la Cassazione ribadisce che è sufficiente un episodio violenza, perché viola gravemente i doveri coniugali

Addebito separazione: la violenza è grave e prevale

Quando un matrimonio entra in crisi, le cause alla base della separazione possono essere le più svariate. Tra queste, la violenza, anche limitata a un singolo episodio, può essere determinante per laddebito della separazione. La recente ordinanza n. 30721/2024 della Corte di Cassazione, in linea con precedenti pronunce, ha ribadito questo principio, sottolineando che i comportamenti violenti, per la loro gravità, possono prevalere su altre circostanze di conflittualità tra i coniugi.

Violenza: violazione grave dei doveri matrimoniali

La legge italiana prevede che il matrimonio imponga doveri reciproci, tra cui il rispetto e l’assistenza morale e materiale. La violenza fisica o psicologica rappresenta una violazione grave di questi obblighi, tale da poter giustificare l’addebito della separazione. Secondo la giurisprudenza, anche un singolo episodio di violenza è sufficiente, se la sua gravità è tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza.

Addebito separazione: onere della prova

Chi richiede l’addebito della separazione per violenza deve però fornire due prove:

  • esistenza della violenza: deve dimostrare cioè che l’episodio o gli episodi contestati al coniuge siano realmente avvenuti;
  • nesso causale: deve provare che proprio la violenza abbia reso impossibile la prosecuzione del matrimonio.

La Corte di Cassazione ha chiarito che l’accertamento di un episodio di violenza, per la sua gravità, può bastare per l’addebito. Non è necessario dimostrare che l’episodio sia stato l’unico motivo della crisi matrimoniale, purché vi abbia contribuito in modo determinante.

Il caso affrontato dalla Cassazione ha riaffermato questi principi. Una donna aveva chiesto l’addebito della separazione al marito, accusandolo di violenze fisiche e psicologiche, anche durante la gravidanza. Tuttavia, sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello avevano respinto la richiesta. I giudici di merito hanno ritenuto insufficienti le prove e hanno osservato che i fatti denunciati risalivano a diversi anni prima della domanda di separazione.

Condotte violente: rilevano anche se datate

La Cassazione, investita del caso ha però accolto il ricorso della donna. Per gli Ermellini i giudici di merito hanno errato perché:

  • non hanno adeguatamente valutato l’autonoma sufficienza della violenza per l’addebito;
  • hanno escluso il nesso causale solo per il decorso del tempo tra gli episodi e la separazione, senza considerare l’impatto duraturo delle violenze.

Secondo la Cassazione, le condotte violente, anche se datate, non perdono la loro rilevanza se hanno contribuito alla crisi matrimoniale. Inoltre, l’onere probatorio per l’addebito, in caso di violenza, può essere mitigato. La gravità del comportamento violento giustifica un’attenzione particolare alla tutela della vittima. La necessità di dimostrare il nesso diretto tra la violenza e l’intollerabilità della convivenza è meno stringente.

Ammissione prove testimoniali e documentali

La Cassazione ha anche evidenziato l’importanza di ammettere prove testimoniali e documentali per accertare episodi di violenza. Nel caso analizzato, la donna aveva richiesto l’escussione di testimoni, tra cui il medico che aveva redatto un referto medico con prognosi di 20 giorni per lesioni subite. Tuttavia, tali richieste erano state rigettate dai giudici di merito, compromettendo l’accertamento dei fatti.

Con questa decisione la Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: la violenza, anche se limitata a un unico episodio, costituisce una violazione gravissima dei doveri matrimoniali. Questo comportamento può essere sufficiente per ottenere l’addebito della separazione. Occorre però dimostrare la sua gravità e il suo impatto sulla relazione coniugale.

 

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Delitto di concussione e mancanza di coercizione psicologica È configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta intimidatoria del pubblico agente non determini uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo (Cass., sez. VI, 4 ottobre 2024, n. 36951).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’applicazione del regime dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., in luogo della fattispecie di concussione ex art. 317 c.p.

La Corte d’Appello territoriale, invero, aveva confermato la condanna del ricorrente per i delitti di concussione tentata e consumata, dichiarando inammissibile l’appello proposto dalla parte civile. L’imputato, all’epoca dei fatti appuntato scelto dai Carabinieri, era stato ritenuto responsabile di detti reati in relazione alle condotte tenute al fine di ottenere il risarcimento dei danni della propria autovettura, commessi da minori non identificati. Tali condotte sono consistite nel convocare i genitori dei minori sospettati di essere tra i possibili autori del danneggiamento, presentandosi, in una occasione, in divisa, nel chiedere loro con insistenza di individuare i colpevoli o di contribuire tutti alla riparazione dell’auto, sulla base di preventivi presentati dallo stesso ricorrente, richiesta cui aderivano solo alcuni dei genitori, raccogliendo una somma di danaro che, tuttavia, veniva rifiutata dall’imputato, poiché inferiore all’importo richiesto dallo stesso nei preventivi predetti.

Avverso la sentenza della Corte territoriale, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo, in primo luogo, la mancanza della condizione di coazione psicologica delle vittime. Egli, infatti, aveva agito in qualità di privato cittadino e senza provocare nei genitori – come riferito da un teste – alcuna forma di timore riverenziale.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati il primo e il terzo motivo, cui assorbiva gli altri.

La Corte, preliminarmente, evidenziava che il delitto di concussione richiede una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, commessa con abuso dei suoi poteri o delle sue qualità, che incida in modo significativo sulla libertà di autodeterminazione del destinatario, costringendolo alla dazione o alla promessa indebita.

È fondamentale, dunque, ai fini della configurabilità del reato, che l’agente pubblico si sia avvalso della posizione di preminenza sul privato, per cercare di prevaricarne le scelte e le decisioni (Cass., sez. VI, 4 giugno 2021, n. 24560), atteso che l’avverbio “indebitamente”, utilizzato nell’art. 317 c.p., qualifica non già l’oggetto della pretesa del pubblico ufficiale, la quale può anche non essere oggettivamente illecita, quanto le modalità della sua richiesta e della sua realizzazione (Cass., sez. VI, 1° febbraio 2011, n. 27444).

Le Sezioni Unite hanno chiarito che il delitto di concussione è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius”, da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita; inoltre, si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319quater c.p., la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 12228).

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, perimetrato il confine tra le due modalità di realizzazione della condotta del pubblico agente chiarendo, in primo luogo, che l’abuso della qualità – c.d. abuso soggettivoconsiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio – così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute. In secondo luogo, le Sezioni Unite evidenziavano che tale abuso della qualità, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva (rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 319quater c.p.), deve sempre concretizzarsi in un facere” (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato che deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all’indebita richiesta. In terzo luogo, l’abuso dei poteri – c.d. abuso oggettivo – consiste invece nella strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri a lui conferiti, nel senso che questi sono esercitati in modo distorto, vale a dire per uno scopo oggettivamente diverso da quello per cui sono stati conferiti e in violazione delle regole giuridiche di legalità, imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa. Infine, tale abuso può essere realizzato in forma sia commissiva che omissiva, potendo il pubblico funzionario deliberatamente astenersi dall’esercizio dei propri poteri, ricorrendo a sistemi defatigatori di ritardo o di ostruzionismo volti a conseguire la dazione o la promessa di denaro o di altre utilità in cambio del sollecito compimento dell’atto richiesto.

Affinché possa configurarsi il delitto di concussione, occorre, dunque, che, attraverso tale abuso, dei poteri o delle qualità, il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, eserciti forme di pressione di tale intensità da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato.

Nel caso di specie, pertanto, ad avviso dei giudici di legittimità, la Corte territoriale, formulando una valutazione che esulava da tali coordinate ermeneutiche, si era limitata a porre l’accento su alcuni particolari di per sé non determinanti, quali la qualifica pubblicistica del ricorrente -indipendentemente da una sua effettiva strumentalizzazione, ma solo in quanto nota a tutti i genitori – e il fatto che lo stesso si sia presentato ad una riunione in divisa.

Invero, secondo quanto emerge dalle due sentenze di merito, l’imputato si era sostanzialmente limitato ad una generica pressione, prospettando le possibili ragioni di convenienza legate a eventuali indagini sui danneggiamenti o di carattere socio-familiare da parte dei servizi sociali, qualora non fossero stati individuati gli autori dei danneggiamenti ovvero non si fosse provveduto, in ogni caso, alla riparazione dell’auto privata del ricorrente.

Tale richiesta, sebbene posta in essere nei confronti di soggetti che ne conoscevano l’appartenenza all’Arma dei Carabinieri, non appare in alcun modo attuata con modalità tali da configurare quella indebita strumentalizzazione della qualifica o del potere idonea a coartare la volontà dei destinatari. Egli, infatti, si era limitato a chiedere loro di individuare i colpevoli o, comunque, di attivarsi al fine di risarcirlo del danno, pretesa quest’ultima che, sebbene censurabile sotto un profilo civilistico, non risulta accompagnata da alcuna prospettazione di un male ingiusto che ne giustifichi una rilevanza agli effetti penali (tale non potendosi intendere il generico riferimento alle indagini che sarebbero state svolte in caso di denuncia riguardante minorenni).

Siffatta condotta esorbita dal perimetro della “costrizione”, come sopra definita, trattandosi di una mera pressione che, oltre a non apparire correlata ad un abuso né dei poteri né della qualità del ricorrente, per le modalità con le quali è stata esercita non appare idonea ad incidere sulla libertà di autodeterminazione dei destinatari della richiesta.

Deve, dunque, ribadirsi che non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo.

 

(*Contributo in tema di “Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

pensione di inabilità

Pensione di inabilità: spese per la CTU non dovute Pensione di inabilità: il titolare del trattamento, se in condizione di disagio economico non è tenuto a pagare le spese della CTU

Pensione di inabilità e disagio economico

Il titolare della pensione inabilità, in disagio economico, se chiede prestazioni previdenziali o assistenziali non può essere obbligato a pagare le spese della consulenza tecnica dufficio (CTU), a meno che la sua pretesa sia infondata o temeraria. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 30147/2024, con cui ha annullato un decreto del Tribunale di Roma.

Pensione di inabilità: la vicenda

La vicenda nasce dalla decisione del Tribunale di Roma, che aveva rigettato la richiesta di pensione ordinaria di inabilità e di assegno ordinario di invalidità presentata da una ricorrente. Il Tribunale nel respingere le richieste aveva posto a carico della stessa le spese della CTU. Decisione incomprensibile, considerato che la stessa aveva dichiarato un reddito familiare inferiore al limite previsto per l’esonero dalle spese processuali.

La ricorrente ha impugnato quindi la decisione in Cassazione, lamentando la violazione dell’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. La norma prevede infatti che chi si trova in condizioni economiche disagiate non deve sostenere le spese del processo, inclusa la CTU, se il giudizio riguarda prestazioni previdenziali o assistenziali.

Spese della CTU non possono gravare sul richiedente

La Corte di Cassazione ha infatti accolto il ricorso, richiamando un principio consolidato. Essa ha sancito infatti che nei giudizi relativi a prestazioni previdenziali o assistenziali, le spese della CTU non possono gravare sul ricorrente che rispetta i limiti reddituali previsti, salvo che la domanda risulti palesemente infondata o temeraria.

Nella pronuncia, la Corte evidenzia che il giudice di merito non si è attenuto a questo principio. La ricorrente aveva infatti chiaramente i requisiti reddituali per l’esonero e la sua pretesa non era manifestamente infondata o avanzata in malafede. Il Tribunale, pertanto, non aveva il potere di condannarla al pagamento delle spese di CTU.

La Corte ha quindi cassato senza rinvio la parte del decreto che poneva le spese della CTU a carico della ricorrente. Ha inoltre condannato l’INPS, controparte del giudizio, al rimborso delle spese del processo di legittimità.

Art. 152 disp. att. c.p.c.: norma a tutela dei più fragili

L’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile tutela chi si trova in difficoltà economiche. Essa stabilisce infatti che non può essere condannato al pagamento di spese processuali, competenze o onorari nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali od assistenziali. In questi casi, l’esonero si applica anche alle spese per la CTU, strumento spesso necessario per accertare le condizioni di salute o di invalidità. Tuttavia, l’esonero non si applica se il ricorso è palesemente infondato o temerario, cioè se manca del tutto una base giuridica o fattuale per la richiesta.

 

 

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assegno di mantenimento

Assegno di mantenimento: rileva il dovere di assistenza materiale Assegno di mantenimento: se dovuto in caso di separazione non si può trascurare l’assistenza materiale prestata dal coniuge richiedente

Mantenimento e dovere di assistenza materiale

Nel determinare l’assegno di mantenimento occorre considerare anche il dovere di assistenza materiale. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 30119/2024, in cui sottolinea che il principio di assistenza materiale tutela il coniuge economicamente più debole e garantisce che le scelte prese durante il matrimonio, come la divisione dei ruoli e delle responsabilità, non penalizzino una parte in modo sproporzionato in caso di separazione.

Separazione e assegno di mantenimento per la moglie

Il caso, originato da una richiesta di separazione legale, vede il marito contestare l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento mensile di 300 euro stabilito in primo grado. L’uomo sottolinea l’autosufficienza economica della moglie, che ha sempre lavorato, e lamenta l’errata valutazione patrimoniale delle parti, nonché l’utilizzo di un criterio prognostico basato sulle aspettative pensionistiche future della controparte. La Corte d’Appello conferma la sentenza di primo grado, motivando la decisione con una valutazione complessiva delle condizioni economiche e reddituali delle parti e ribadendo il dovere di assistenza materiale tra coniugi.

Dovere di assistenza morale permane durante la separazione

Il ricorso del marito giunge infine in Cassazione. Gli Ermellini rigettano le istanze, sottolineando alcuni principi chiave. La Corte ribadisce in particolare che l’assegno di mantenimento conseguente alla separazione personale si basa sulla necessità di garantire al coniuge economicamente più debole un tenore di vita comparabile a quello goduto durante il matrimonio, nel rispetto del dovere di assistenza materiale, che permane anche durante la separazione.

L’art. 156 c.c disciplina l’assegno di mantenimento e stabilisce che esso non è legato alla solidarietà post-coniugale, tipica dei procedimenti di divorzio, ma a un vincolo coniugale ancora in essere. Il giudizio non può quindi prescindere dall’analisi del contributo materiale ed economico offerto da ciascun coniuge durante la vita matrimoniale.

Assistenza materiale: ruolo nella determinazione dell’assegno

L’aspetto cruciale evidenziato nel caso  di specie riguarda il ruolo dell’assistenza materiale fornita da un coniuge all’altro, sia in termini economici che di supporto concreto nella gestione familiare. La Corte chiarisce che questa assistenza è un elemento fondamentale da considerare per stabilire l’ammontare dell’assegno. Anche se entrambi i coniugi hanno capacità lavorative, la disparità patrimoniale e reddituale deve essere bilanciata per evitare ingiuste sperequazioni. Nel caso specifico, il marito ha evidenziato il basso tenore di vita mantenuto durante il matrimonio e l’assenza di contributo economico diretto della moglie al ménage familiare. La Corte però ha riconosciuto il diritto all’assegno sulla base di una disparità patrimoniale accertata e sul contributo non economico offerto dalla moglie.

 

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pensione reversibilità

Pensione reversibilità anche senza domanda La pensione di reversibilità si basa sui requisiti maturati dal de cuius, non serve la domanda  amministrativa

Pensione reversibilità: per il diritto rilevano i requisiti

La pensione di reversibilità rappresenta un diritto fondamentale che si lega al raggiungimento dei requisiti pensionistici del de cuius, ossia la persona deceduta. La sua concessione non dipende dalla presentazione, da parte del de cuius, della domanda amministrativa per ottenere il trattamento previdenziale, ma esclusivamente dalla maturazione dei requisiti richiesti. Questo principio, riaffermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 30315/2024, stabilisce che il diritto alla reversibilità non può essere negato per la semplice mancanza di una domanda formale da parte del titolare deceduto.

Domanda di reversibilità su pensione di anzianità

La questione affrontata dalla sezione Lavoro della Corte di Cassazione riguarda una donna che, in qualità di erede, aveva richiesto la reversibilità della pensione del marito deceduto. Quest’ultimo percepiva una pensione di invalidità, ma al momento del decesso aveva maturato i requisiti per accedere a un trattamento pensionistico più favorevole, quello di anzianità. Il de cuius aveva accumulato 35 anni di contributi e aveva richiesto il riscatto degli anni di laurea, completando quasi interamente l’iter necessario per il miglior trattamento. L’unica condizione non ancora soddisfatta era il pagamento dell’ultima rata per il riscatto degli anni di studio, a cui aveva provveduto la moglie dopo la morte del marito. La donna, pertanto, ha chiesto che la pensione di reversibilità venisse calcolata in base al trattamento più vantaggioso, ovvero quello di anzianità, e non su quello di invalidità percepito dal marito.

Pensione di reversibilità: contano i requisiti

La Corte di Cassazione ha confermato il diritto della moglie di ricevere la pensione di reversibilità parametrata al trattamento di anzianità, anche se il marito non aveva presentato la domanda per questo tipo di pensione prima della morte. La pronuncia si fonda su un principio chiaro: i requisiti previdenziali raggiunti sono sufficienti a far valere il diritto al miglior trattamento pensionistico. La mancanza del presupposto amministrativo della domanda da parte del de cuius non può pregiudicare il diritto dell’erede.

Il riscatto degli anni di laurea, anche se formalmente concluso post mortem, contribuisce a consolidare il diritto del de cuius al trattamento di anzianità. Questo aspetto si traduce in un beneficio economico maggiore per la pensione di reversibilità spettante all’erede.

Questa sentenza è significativa infatti non solo per la donna che ha ottenuto il riconoscimento del suo diritto, ma anche per tutti i casi analoghi futuri. Essa infatti stabilisce che:

  • il diritto alla reversibilità si basa sui requisiti previdenziali raggiunti dal de cuius;
  • la mancata presentazione della domanda non inficia il diritto degli eredi;
  • è legittimo parametrare la reversibilità al trattamento più favorevole, se i requisiti sono stati maturati.

In situazioni simili gli eredi possono quindi avanzare una richiesta per ottenere il trattamento previdenziale più favorevole, anche se il de cuius non ha presentato formalmente la domanda.

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giurista risponde

Assegno divorzile e funzione perequativa-compensativa Il sacrificio della propria carriera da parte di un coniuge al fine di dedicare il proprio tempo alla famiglia è elemento rilevante nella quantificazione dell’assegno divorzile?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

L’assegno divorzile spetta all’ex coniuge non esclusivamente in funzione assistenziale bensì anche in funzione perequativa-compensativa proprio per le scelte operate dallo stesso in costanza di matrimonio. In queste sono ricompresi non solo il contributo offerto alla comunione familiare ma anche la rinuncia concordata a occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio e l’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge (Cass., sez. II, 26 agosto 2024, n. 23083).

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte dichiara infondati i motivi di ricorso miranti all’eliminazione dell’assegno divorzile riconosciuto dai giudici di merito nei confronti dell’ex coniuge. Sia il Tribunale di prime cure che la Corte d’Appello territorialmente competente avevano infatti dichiarato lo scioglimento di un matrimonio durato venticinque anni e confermato la spettanza dell’assegno divorzile posto a carico del ricorrente. Come provato in queste sedi, il coniuge beneficiario ha rinunciato a numerose occasioni di carriera per agevolare l’attività professionale del marito fino a sacrificarla definitivamente quando questa è diventata incompatibile con la crescita della famiglia, dedicandosi completamente a soddisfare i bisogni di quest’ultima.
La cessazione del matrimonio comporta il venir meno della condizione coniugale ma il sorgere di obblighi di carattere patrimoniale fondati sulla perdurante solidarietà postconiugale. Tra gli obblighi così identificati si staglia quello di corresponsione dell’assegno divorzile contenuto nell’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898.

All’esito di un percorso interpretativo inaugurato a metà degli anni ’70, le Sezioni Unite hanno definitivamente superato gli indirizzi volti a considerare nella funzione assistenziale l’unico parametro alla luce del quale valutare la spettanza e la consistenza dell’istituto in esame. La Cassazione ha, così, ricostruito la funzione dell’assegno divorzile assegnando rilevanza centrale ai principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo. La natura composita di tale funzione, insieme assistenziale e perequativo-compensativa, rappresenta una declinazione di tale principio di solidarietà volta al raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle eventuali aspettative professionali sacrificate (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Ciò avviene all’interno di un meccanismo di “profilazione economico-patrimoniale del coniuge” che si serve dei criteri delineati dall’art. 5 cit. Le Sezioni Unite precisano, in particolare, la necessità di provare l’incidenza causale tra il sacrificio delle aspettative di carriera serie e concrete e la condizione di disequilibrio dalla quale genera la spettanza dell’assegno divorzile.

La ricostruzione in questi termini del quadro normativo ed ermeneutico di riferimento permette alla Cassazione nella sentenza in commento, di ritenere soddisfatti i criteri sopra menzionati e fornita la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescite professionale in costanza di matrimonio e dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge, così come chiarito da Cass., Sez Un., 5 novembre 2021, n. 32198.

Contributo in tema di “Assegno divorzile e la funzione perequativa-compensativa”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

clausole claims made

Clausole claims made: legittime nella responsabilità medica Le clausole claims made non sono nulle ai sensi art. 2965 c.c, non stabiliscono una decadenza che rende difficile l’esercizio del diritto

Responsabilità medica: clausole claims made legittime

La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla legittimità delle clausole “claims made” nei contratti assicurativi, riaffermando il loro inquadramento nell’ambito della responsabilità civile. Con la sentenza n. 29483 del 2024, la Terza Sezione Civile ha sancito il seguente principio di diritto: La clausola -claims made- non integra una decadenza convenzionale, nulla ex art. 2965 cod. civ. nella misura in cui fa dipendere la perdita del diritto dalla scelta di un terzo, dal momento che la richiesta del danneggiato è fattore concorrente alla identificazione del rischio assicurato, consentendo pertanto di ricondurre tale tipologia di contratto al modello di assicurazione della responsabilità civile.”

Questo principio è stato ribadito in un caso di malpractice sanitaria, con condanna della USLL coinvolta e una contestuale richiesta di manleva nei confronti degli istituti assicurativi.

Clausole claims made

Le clausole “claims made” o a “richiesta fatta” prevedono che la copertura assicurativa si attivi in relazione alle richieste risarcitorie avanzate durante la vigenza della polizza. In questo caso la compagnia non è obbligata a tenere indenne il contraente se la richiesta risarcitoria perviene alla stessa dopo la scadenza del contratto, anche se l’evento dal punto di vista temporale avviene entro questa scadenza.

Questa caratteristica distingue tali clausole da quelle “loss occurrence”, dove la copertura riguarda eventi accaduti durante la vigenza del contratto, indipendentemente da quando venga avanzata la richiesta, ossia anche dopo la scadenza dello stesso, se l’evento da cui origina la richiesta risarcitoria si è verificato entro questo termine.

La legittimità delle clausole “claims made” è spesso oggetto di dibattito giuridico, in particolare quando si tratta di bilanciare i diritti delle parti coinvolte e le limitazioni imposte all’assicurato.

Malpractice medica e legittimità clausole claims made

Il caso trattato dalla Cassazione riguarda una controversia nata da una sentenza di condanna per malpractice medica. In primo grado, il tribunale aveva rigettato la richiesta di manleva, giudicando valida la clausola “claims made”, che subordinava la copertura assicurativa alla presentazione della richiesta di risarcimento durante la validità del contratto.

La Corte d’Appello, invece, aveva parzialmente accolto il ricorso dell’azienda sanitaria, dichiarando nulla la clausola. Secondo i giudici di secondo grado, la clausola doveva ritenersi nulla perchè subordinava l’operatività della polizza alla denuncia della richiesta risarcitoria del terzo, durante il rapporto. Per il giudice dell’impugnazione trattasi di clausola vessatoria apposta in contrasto con quanto stabilito dall’art. 2965 c.c. perché rende eccessivamente difficile l’esercizio del diritto. La norma del codice civile dispone infatti che “E’ nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto.” 

Clausole claims made legittime

La Suprema Corte  però ha rigettato il ricorso principale, accogliendo invece un motivo proposto in via incidentale dalle compagnie assicurative. I giudici hanno sottolineato che la clausola “claims made” non rientra nellambito delle decadenze convenzionali previste dallart. 2965 cod. civ., poiché non incide su un diritto già insorto, ma sulla sua nascita. La richiesta del terzo danneggiato è infatti un elemento fondamentale per definire l’operatività del rischio assicurato.

La Cassazione ha fatto riferimento alla consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite (sentenze n. 9140/2016 e n. 22437/2018), che ha stabilito che queste clausole non sono vessatorie né richiedono una specifica approvazione scritta. Esse sono invece perfettamente compatibili con la struttura del contratto di assicurazione contro i danni.

La Corte ha precisato nello specifico che:

  1. La clausola “claims made” si basa su un evento futuro e imprevedibile, ossia la richiesta di risarcimento da parte di un terzo
  2. Non si configura una decadenza convenzionale, ma una condizione che determina l’insorgenza stessa del diritto
  3. Tali clausole non violano i limiti inderogabili posti dall’ 2965 cod. civ.

Con questa sentenza, la Cassazione ha ribadito che le clausole “claims made” sono legittime e in linea con il modello di assicurazione contro i danni. La loro validità è strettamente connessa alla natura stessa del contratto assicurativo, che richiede l’identificazione del rischio in base a fattori esterni e imprevedibili, come la richiesta di risarcimento da parte di un terzo.

 

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