furto in abitazione

Furto in abitazione: no alla tenuità del fatto Per la Cassazione, il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto

Furto in abitazione

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10410/2025, ha stabilito che il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis c.p.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Caltagirone ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di un uomo in ordine al reato di furto ni abitazione di un paio di scarpe Nike, nuove, del valore di euro 100,00.
Contro tale sentenza, ricorreva in Cassazione il procuratore generale presso la Corte di appello di Catania, deducendo mancare le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della citata disposizione normativa con riferimento ai limiti di pena che ne consentono la specifica forma di proscioglimento.

Art. 131-bis c.p.: ambito applicativo

Per gli Ermellini, l’impugnazione è fondata.
“La sentenza impugnata nel dichiarare non doversi procedere nei confronti dell’imputato in applicazione della disposizione di cui all’art.131 bis, c.p., per il reato di cui all’art.624 bis c.p. – osservano infatti – ha interpretato erroneamente la citata disposizione normativa in relazione ai limiti di pena che individuano il novero dei reati per i quali è consentita la specifica forma di proscioglimento”.
Il nuovo istituto, introdotto dal D.Lgs. 28/2015, “configura un’ipotesi in cui sussiste un fatto tipico costituente reato, ma questo per scelta legislativa non è ritenuto punibile in presenza di determinati requisiti e al fine di soddisfare i principi di proporzione ed economia processuale”.

L’art. 131-bis c.p.

L’art. 131 bis c.p. comma 1 dispone che: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.
L’ambito applicativo dell’istituto è, dunque, individuato, osservano ancora dal Palazzaccio, “utilizzando una tecnica già ampiamente collaudata dal legislatore, quella di individuare dei limiti edittali di pena e, nello specifico, vengono indicati i reati per i quali il legislatore ha previsto inizialmente il limite massimo di pena detentiva non superiore ad anni cinque e successivamente il limite della pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”.

La decisione

Nel caso di specie, trattandosi di reato di furto in abitazione, lo stesso, previsto dall’art.624 bis cod. pen., “fuoriesce dall’ambito dei limiti edittali previsti dall’art. 131 bis cod. pen., in quanto il limite massimo di pena detentiva (sei anni) non poteva superare i cinque anni e, successivamente, secondo la nuova formulazione, il limite minimo di pena detentiva (tre anni), non poteva superare i due anni, previsti dalla citata disposizione normativa”.
Ne consegue, decidono i giudici, l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art.131 bis cod. pen, per violazione di legge sia nella nuova che nella vecchia formulazione della norma.

Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catania.

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licenziamento legittimo

Licenziamento legittimo per il dipendente che discrimina la collega Licenziamento legittimo quello irrogato al dipendente che offende ripetutamente e discrimina la collega per il suo orientamento sessuale

Licenziamento legittimo condotta discriminatoria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6345 del 10 marzo 2025, conferma il licenziamento legittimo del  dipendente disposto per motivi disciplinari, perché ritenuto responsabile di aver offeso reiteratamente l’orientamento sessuale di una collega.

Offese reiterate di contenuto sessista rivolte alla collega

Un dipendente si rivolge a una collega con frasi disonorevoli e immorali, lesive della sua dignità. Il comportamento, reiterato e aggravato dalla presenza di altri colleghi, ha portato all’espulsione del lavoratore dall’azienda. Il dipendente però ha impugnato il provvedimento davanti all’autorità giudiziaria.

In primo grado, il Tribunale respinge l’impugnazione del lavoratore. La Corte d’Appello invece dichiara illegittimo il licenziamento, ritenendolo una misura sproporzionata, ma risolve comunque  il rapporto di lavoro, condannando l’azienda a pagare 20 mensilità di retribuzione. La società presenta ricorso incidentale in Cassazione, la quale accoglie il primo motivo, rinviando il caso alla Corte d’Appello per riesaminare la sussistenza della giusta causa di licenziamento. In sede di riassunzione, la Corte d’Appello rigetta il reclamo del lavoratore, confermando la legittimità della sanzione disciplinare.

Moleste le offese discriminatorie

I comportamenti offensivi e discriminatori legati all’orientamento sessuale di un collega integrano infatti una forma di molestia. La valutazione si basa sul contenuto oggettivo della condotta e sulla percezione soggettiva della vittima. Non occorre dimostrare lintenzione di arrecare danno da parte dell’autore. In questo caso, il lavoratore ha violato l’articolo 45, punto 6, del DPR 148/1931, che sancisce l’obbligo di mantenere una condotta rispettosa e decorosa nei confronti dei colleghi. Le frasi pronunciate sono state considerate disonorevoli, immorali e discriminatorie, immeritevoli di pubblica stima.

La Cassazione non può rivalutare il merito

La Cassazione respinge quindi i motivi sollevati dal lavoratore nei confronti della sentenza della Corte d’Appello, pronunciatasi in sede di rinvio. I giudici hanno ritenuto inammissibili tali argomentazioni,  perché finalizzate a ottenere una diversa valutazione dei fatti. La Suprema Corte  conferma quindi l’importanza del rispetto della dignità dei colleghi e della tutela contro le discriminazioni sessuali, elemento fondamentale dell’ordinamento giuridico italiano.

 

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pensione di reversibilità

Pensione di reversibilità: va valutato anche l’assegno di divorzio Pensione di reversibilità: l’assegno di divorzio è un elemento di valutazione e deve rispondere alla sua finalità solidaristica

Pensione di reversibilità e assegno di divorzio

La Cassazione nell’ordinanza n. 5839/2025 precisa che la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato non è vincolata all’importo dell’assegno divorzile. Quest’ultimo però deve essere considerato tra gli elementi di valutazione, senza automatismi, per garantire la finalità solidaristica della pensione.

Concorso tra ex coniuge e seconda moglie

Una vedova, titolare di una pensione di 500 euro mensili, agisce in giudizio per ottenere il riconoscimento della reversibilità nella misura dell’80% del trattamento pensionistico spettante all’ex marito defunto. Il matrimonio, contratto nel maggio del 1975 è cessato nell’ottobre del 2014. Alla stessa spetterebbe quindi un importo superiore a quello riconosciuto alla seconda moglie, il cui matrimonio è durato solo 5 anni. La donna ritiene inoltre che la reversibilità a lei spettante debba coincidere almeno con la misura dell’assegno di divorzio pari a 315,00 euro mensili.

Importo pensione di reversibilità

L’INPS nel costituirsi in giudizio precisa che l’importo della pensione di reversibilità, pari al 60% dell’importo della pensione del defunto, è di 1.905,79 euro e che dopo la morte del marito la pensione di reversibilità è stata erogata solo alla vedova superstite.

La seconda moglie in giudizio chiede invece il riconoscimento della pensione di reversibilità nella misura non inferiore all’80% di quello spettante al marito defunto.

Il giudice di primo grado però riconosce il 70% della pensione del de cuius alla ex moglie e il restante 30% alla seconda moglie. Quest’ultima ricorre in appello, ma la Corte respinge il ricorso, la donna decide così di ricorrere in Cassazione.

Nell’unico motivo la stessa lamenta di non avere ricevuto una quota di pensione di reversibilità sufficiente a soddisfare le esigenze di vita più elementari mentre la ex moglie, al contrario, ha ricevuto una quota di pensione del tutto sproporzionata rispetto all’assegno di divorzio. A fronte infatti di un assegno divorzile di 357,00 euro mensili alla ex moglie è stata riconosciuta una pensione di 1200 euro mensili.

L’assegno di divorzio incide sul calcolo

La Cassazione accoglie il ricorso nei limiti indicati nella motivazione nella quale enuncia il principio giuridico da applicare quando si deve riconoscere all’ex coniuge la pensione di reversibilità.

Per la Cassazione nel determinare la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato ai sensi dell’articolo 9, comma 3, della legge numero 898 del 1970, è importante sottolineare che tale quota non deve necessariamente coincidere con l’importo dell’assegno divorzile, né quest’ultimo rappresenta un limite massimo invalicabile. Tuttavia, in linea con un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’entità dell’assegno divorzile deve essere considerata tra gli elementi di valutazione, senza che ciò implichi un automatismo. L’obiettivo è garantire che l’attribuzione della quota di pensione risponda alla finalità solidaristica dell’istituto, che si traduce nel sostenere economicamente coloro che hanno subito la perdita del supporto finanziario fornito in vita dal lavoratore defunto.

 

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guida in stato di ebbrezza

Guida in stato di ebbrezza per l’incidente nel viale del condominio Aggravante incidente stradale guida in stato di ebbrezza: applicabile anche se il teatro del sinistro è un vialetto condominiale

Guida in stato di ebbrezza:  aggravante confermata

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10000/2025 ha riconosciuto l’aggravante di aver cagionato un incidente stradale anche il fatto si è verificato in  un’area privata. Tale aggravante, relativa al reato di guida in stato di ebbrezza è stata riconosciuta quindi anche se il sinistro è avvenuto in un vialetto condominiale. La decisione conferma in questo modo l’applicabilità del Codice della Strada anche in aree private destinate all’uso pubblico, al fine di tutelare la sicurezza della circolazione e la salute dei cittadini.

Sinistro nel vialetto condominiale

Un giovane risulta positivo all’etilometro, dopo aver perso il controllo del veicolo mentre imboccava un vialetto pedonale in un parcheggio condominiale. Lo stesso ha urtato un’auto in sosta, un lampione e poi le mura esterne di un edificio condominiale. L’imputato ha quindi contestato l’aggravante, sostenendo che l’incidente era avvenuto in un’area privata e delimitata, non accessibile al pubblico.

Aggravante incidente stradale: rileva l’uso pubblico

La Cassazione però respinge la tesi della difesa, affermando che l’area condominiale era liberamente accessibile, come accertato dai verbali di polizia. Ha ribadito inoltre che le norme del Codice della Strada si applicano in qualsiasi contesto di uso pubblico della viabilità, compresi i vialetti condominiali aperti al transito di veicoli motorizzati. La Corte ha quindi stabilito che l’aggravante per incidente stradale si applica anche in aree private, purché destinate alla circolazione di un numero indeterminato di veicoli e persone. Non è necessario che siano coinvolti terzi o altri veicoli, ma è sufficiente che l’evento interrompa la normale circolazione e crei pericolo per la collettività.

Aggravante incidente stradale e danneggiamenti

La Cassazione del resto rileva come i giudici di merito abbiano confermato l’illecita condotta di guida in stato di ebbrezza, riscontrata visivamente dagli agenti di polizia e confermata dall’etilometro, che ha rilevato un tasso alcolemico elevato (2,16-2,04 g/l). L’imputato, proprio perché in tali condizioni, ha danneggiato due auto in sosta, un lampione e un muro condominiale.

Il ricorso pertanto è inammissibile e l’imputato deve essere condannato  al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di 3.000 euro a favore della cassa delle ammende.

 

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danno parentale

Danno parentale: il vincolo di sangue non è imprescindibile Danno parentale: per il riconoscimento non rileva il legame di sangue ma la dedizione e l'assistenza morale e materiale

Danno parentale al padre vicario

Per il riconoscimento del danno parentale previsto per la perdita del congiunto il legame di sangue non è un elemento imprescindibile di valutazione. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza. n. 5984/2025, riconoscendo il danno parentale da perdita al compagno di una madre che ha perso la figlia di 4 anni in un incidente stradale. L’uomo merita di essere risarcito perché ha svolto il ruolo di padre vicario nei confronti della bambina, provvedendo a tutte le sue necessità nella sua breve vita.

Danno parentale da perdita del congiunto al compagno

Una donna e il compagno fanno causa ai responsabili della morte della figlia della sola donna conseguente a un sinistro stradale. Nella domanda chiedono la condanna in solido di tutti i responsabili al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.

In giudizio uno dei convenuti rende noto l’avvenuto pagamento in favore della madre della somma di 270.000,00 euro. La CTU medico legale riconosce però alla madre il massimo risarcimento previsto dalle tabelle di Roma per il danno parentale. Il Giudice di primo grado rigetta la richiesta risarcitoria avanzata dal compagno della donna finalizzata a ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale. La Corte d’Appello tuttavia ribalta la decisione e dispone in suo favore il risarcimento. L’uomo ha svolto infatti il ruolo di padre sostituto del padre biologico, eclissatosi completamente dalla vita, seppur breve, della figlia. La sentenza viene impugnata in Cassazione e nel terzo motivo si contesta “la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale disposta in favore del compagno della madre, per la morte della figlia di quest’ultima, in assenza di convivenza e della prova della effettiva assunzione, da parte dell’istante, del “ruolo morale e materiale di genitore”.

Cassazione: rilevano dedizione e assistenza

Per la Cassazione però il motivo è inammissibile perché si basa su una critica all’idoneità e alla sufficienza delle prove acquisite, cercando una rivalutazione del materiale probatorio. Compito questo che non spetta al giudice di legittimità. L’obiettivo del motivo consiste nell’ottenere una nuova valutazione delle prove. La Corte d’Appello ha fornito una motivazione ragionevole e coerente dal punto di vista giuridico. La stessa ha infatti accertato, sulla base delle prove raccolte, che il ricorrente aveva assunto un ruolo di “padre vicario” nei confronti della vittima, una bambina deceduta in un incidente. Il padre biologico era assente dalla vita della bambina, e il ricorrente ha fornito dedizione e assistenza morale e materiale per oltre tre anni, su un totale di quattro anni di vita della minore. Il ricorrente pertanto ha subito, senza alcun dubbio, un danno da perdita del rapporto parentale.

La decisione della Corte si basa sul principio giurisprudenziale secondo cui la convivenza non è sufficiente a dimostrare il danno parentale. È necessario provare piuttosto la dedizione e l’assistenza morale e materiale fornite, come nel caso in esame. Il vincolo di sangue quindi non è essenziale per il riconoscimento del danno parentale; ciò che conta è l’esistenza di una relazione affettiva stabile e duratura, indipendentemente dalla consanguineità.

 

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getto pericoloso di cose

Il getto pericoloso di cose Il  getto pericoloso di cose: analisi del reato 674 c.p., elementi, pena, procedibilità e giurisprudenza di rilievo

Cos’è il reato di getto pericoloso di cose?

Il getto pericoloso di cose previsto e punito dall’art. 674 c.p. è un reato che si verifica quando una persona getta oggetti, materiali o altre cose in un luogo pubblico o in una situazione in cui essi potrebbero provocare danni a cose o persone. In altre parole, il soggetto compie un atto in grado di creare un pericolo concreto per la sicurezza delle persone, senza la necessità di un danno effettivo. L’elemento fondamentale di questo reato è la pericolosità dell’atto compiuto.

L’art. 674 c.p.

Secondo l’art. 674 del Codice Penale, il reato si configura quando: “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro 206.” 

L’elemento oggettivo del reato

L’elemento oggettivo del reato consiste nell’atto materiale di gettare o versare cose in luoghi pubblici, come strade, piazze o luoghi frequentati da pubblico. La pericolosità dell’atto si riferisce alla possibilità che l’oggetto gettato possa provocare un danno o un pericolo, anche senza che si verifichi un danno concreto o immediato.

Il codice penale non specifica esattamente che tipo di oggetto debba essere gettato, ma il concetto di “cose” è ampio e include qualsiasi tipo di materiale che possa rappresentare un pericolo. Gli oggetti potrebbero essere materiali contundenti, rottami, attrezzi, o anche rifiuti che possano scivolare o creare ostacoli per chi transita in quel luogo.

Inoltre, l’atto deve avvenire in un luogo di pubblico transito. Questo implica che l’atto sia posto in essere in un contesto che coinvolge il pubblico, come una strada, una piazza o un altro luogo frequentato da persone.

L’elemento soggettivo del reato

L’elemento soggettivo si riferisce all’intenzione del soggetto nel compiere il reato. In questo caso, non è necessario che l’autore dell’atto abbia l’intenzione di causare un danno diretto o che voglia fare del male a qualcuno. L’intento che interessa è quello di creare una situazione di pericolo, anche se non necessariamente il danno si concretizzerà.

La colpa (ossia la negligenza o imprudenza) è un elemento che può entrare in gioco nel reato di getto pericoloso di cose. Infatti, il soggetto potrebbe non avere l’intenzione di danneggiare direttamente qualcuno ma, a causa della sua condotta, mette comunque in pericolo la sicurezza altrui.

Le pena per il reato di getto pericoloso di cose

L’art. 674 del codice penale prevede una pena di reclusione da tre mesi a un anno per chi compie l’atto di getto pericoloso di cose. La pena prevista l’arresto fino a un mese e l’ammenda fino a 206,00 euro.

È importante notare che la pena può essere aumentata nei casi in cui il pericolo si concretizzi in un danno effettivo, ma la legge punisce comunque la condotta pericolosa, anche se non c’è danno. Questo aspetto tutela l’incolumità pubblica e scoraggia comportamenti che possano generare pericoli per i cittadini.

La procedibilità del reato

Il reato di getto pericoloso di cose è procedibile d’ufficio, il che significa che non è necessario che la vittima presenti una denuncia per avviare un’azione legale. Le autorità competenti (forze dell’ordine o la pubblica accusa) possono avviare il procedimento penale anche senza una denuncia da parte di chi ha subito il pericolo.

Questa caratteristica è rilevante perché l’ordinamento penale vuole tutelare la sicurezza pubblica senza dover aspettare che un danno si verifichi. Di fatto, la legge punisce già l’atto pericoloso, non l’eventuale danno che ne deriva.

Giurisprudenza sul getto pericoloso di cose

La giurisprudenza italiana ha trattato numerosi casi riguardanti il reato di getto pericoloso di cose.

Cassazione n. 19605/2024: la contravvenzione prevista dall’art. 674 c.p. non si applica se l’azione causa esclusivamente danni o disturbo a oggetti, senza coinvolgere direttamente le persone.

Cassazione n. 44458/2015: va condannato all’ammenda il condomino del piano superiore per aver ripetutamente gettato dal proprio balcone bottiglie di plastica e altri rifiuti, sporcando il cortile condominiale al piano terra. Secondo la terza sezione penale, tale condotta, oltre a essere incivile, integra il reato di getto pericoloso di cose previsto dall’art. 674 c.p., poiché idonea a imbrattare e arrecare disturbo agli altri condomini.

Cassazione n. 15956/2014: chi, innaffiando i propri fiori, fa cadere acqua (specialmente se mista a terriccio) sul balcone o il davanzale sottostante può essere multato ai sensi dell’art. 674 del Codice Penale per getto pericoloso di cose. Questa norma punisce chiunque getti o versi, in un luogo di pubblico transito o in un’area privata altrui, cose atte a imbrattare o molestare persone.

 

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giurista risponde

Furto lieve per stato di necessità L’ipotesi di furto lieve per bisogno può essere riconosciuta in presenza di una situazione di grave indigenza, anche se il valore della merce sottratta supera quello comunemente considerato “tenue”?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

La Corte di Cassazione ha precisato che il delitto di furto lieve, motivato da esigenze di necessità, può essere riconosciuto nei casi in cui l’oggetto sottratto abbia un valore modesto e sia destinato a soddisfare una necessità grave e urgente. Tale principio stabilisce che, per qualificare l’imputazione come furto lieve anziché come furto comune, non è sufficiente un generico stato di bisogno o di miseria da parte del colpevole; è, invece, necessaria una condizione di urgenza, per la quale non vi siano alternative praticabili se non la sottrazione dell’oggetto stesso (Cass. sez. V, 19 maggio 2014, n. 32937). (Cass., sez. IV, 6 novembre 2024, n. 40685).

Nel caso in esame, la Corte d’Appello aveva confermato la condanna per tentato furto di generi alimentari e prodotti per la cura personale, ritenendo non sussistente lo stato di necessità invocato dalla ricorrente. Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, sottolineando che la Corte d’Appello non aveva adeguatamente valutato le circostanze oggettive che attestavano un grave stato di malnutrizione e indigenza della ricorrente, la quale era stata descritta come una persona senza fissa dimora e in condizioni di estrema vulnerabilità.

La Corte ha evidenziato che la semplice valutazione del valore dei beni sottratti, superando i cento euro, non è sufficiente per escludere l’ipotesi di furto lieve per necessità, in quanto la merce era destinata a soddisfare un’urgenza alimentare. Pertanto, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, rinviando il caso alla Corte d’Appello affinché riesamini la situazione in conformità ai principi giuridici esposti. La Corte ha ribadito che l’analisi del comportamento dell’imputato deve tener conto delle specifiche circostanze di vita e delle necessità in cui si trova.

In conclusione, la decisione della Cassazione evidenzia l’importanza di un’analisi approfondita delle condizioni di fatto che possono giustificare una condotta di furto lieve per bisogno, richiamando l’attenzione sulla differenza tra lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p. e l’ipotesi di furto lieve per bisogno di cui all’art. 626 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

mutuo solutorio

Mutuo solutorio valido: lo dice la Cassazione Sezioni Unite: valido il mutuo solutorio, è presente la disponibilità delle somme in favore del mutuatario

Mutuo solutorio valido: presente la datio rei giudica

Il mutuo solutorio, contratto per estinguere un debito precedente con la banca è legittimo e produce la “datio rei giuridica” che caratterizza il mutuo, anche se le somme accreditate sul conto vengono immediatamente e automaticamente impiegate dall’istituto di credito per estinguere gli obblighi precedenti. Lo hanno chiarito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 5841/2025.

Decreto ingiuntivo pagamento mutui: opposizione

Un istituto di credito ottiene un decreto ingiuntivo perché ha concesso diversi mutui ai medesimi soggetti e gli stessi non sono ancora rientrati nel pagamento. I clienti però si oppongono al decreto ingiuntivo, contestando la richiesta di pagamento. Per gli opponenti la condotta della banca deve ritenersi illegittima perché la stessa ha solo “apparentemente” erogato le somme concesse a titolo di mutuo. Le somme infatti non sono mai uscite dalle casse dell’istituto poiché utilizzate per estinguere i mutui e le aperture di credito concesse in precedenza.

Il Giudice di primo grado accoglie in parte l’opposizione e limita l’efficacia del titolo esecutivo a un determinato importo. La Corte d’Appello invece rigetta l’appello sollevato dai clienti della banca.

Nella sentenza il giudice di secondo grado precisa infatti che: il fatto che l’importo erogato fosse stato utilizzato per estinguere i precedenti debiti ipotecari era legittimo e non privava il mutuo della sua causa in concreto.”

Le parti soccombenti però non desistono e ricorrono in Cassazione precisando che nel caso di specie non si è verificata la tradito della somma con conseguente disponibilità delle stesse sul conto. La banca si sarebbe infatti riappropriata delle somme e dall’estratto conto si evince chiaramente un mero giroconto bancario e non l’erogazione di un mutuo.

Dubbi interpretativi sul mutuo solutorio

La seconda sezione della Cassazione nell’ordinanza interlocutoria rileva che i primi due motivi del ricorso sollevano questioni decisive sul mutuo solutorio, sul quale la giurisprudenza della stessa Corte non risulta uniforme.

Nel caso di specie ci si chiede se il ripianamento delle passività pregresse, effettuato dalla banca in modo autonomo e immediato mediante operazione di giroconto, come contestato dai ricorrenti, possa soddisfare il requisito della disponibilità giuridica della somma in favore del mutuatario. In particolare, ci si domanda se tale ripianamento possa configurare una modalità di utilizzo dell’importo mutuato, effettivamente entrato nella disponibilità del mutuatario.

Le Su dovrebbero quindi rispondere ai seguenti quesiti:

  • il mutuo solutorio è valido?
  • in caso di risposta positiva al primo quesito il contratto costituisce titolo esecutivo?
  • in caso di risposta affermativa ai due quesiti precedenti infine è valido anche il ripianamento delle passività di mutuo eseguito con un mero giroconto “autonomo e immediato” ossia senza il consenso del mutuatario?

Mutuo solutorio: tesi contrapposte

La Corte di Cassazione a SU prima di decidere ricorda le affermazioni dei due opposti orientamenti.

  • Per il primo orientamento il mutuo solutorio è valido, l’accredito delle somme sul conto integra la datio rei del mutuo, l’effettività della tradito è dimostrata dall’utilizzo del denaro per estinguere il debito esistente, per cui il patrimonio del debitore viene purgato da una posta negativa. Il ripianamento delle passività rappresenta infatti uno dei modi con i quali la somma erogata a mutuo può essere impiegata e tale utilizzo non è illecito. Il mutuo solutorio quindi consiste in una mera dilazione del termine di pagamento del debito preesistente o un pactum de non petendo.
  • Per l’orientamento opposto invece per il perfezionamento del mutuo è necessario che si verifichi il passaggio effettivo delle somme dal mutuante al mutuatario perché in questo modo si verifica l’effettiva acquisizione delle somme. Tale ipotesi non può verificarsi infatti se la banca impiega subito le somme per ripianare il mutuo precedente. In sostanza senza un trasferimento effettivo della proprietà delle somme non c’è acquisizione delle stesse e quindi non c’è l’obbligo di restituirle.

La soluzione delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite pongono fine al contrasto affermando che il contratto di mutuo si perfeziona e l’obbligo di restituzione sorge in capo al mutuatario nel momento in cui la somma mutuata, pur non essendo materialmente consegnata, è resa giuridicamente disponibile al mutuatario tramite accredito sul conto corrente. Non è rilevante che tali somme siano immediatamente utilizzate per saldare debiti pregressi con la banca mutuante, poiché tale destinazione è il risultato di atti dispositivi distinti e separati dal contratto stesso. Anche in caso di tale utilizzo, il contratto di mutuo, noto come mutuo solutorio, costituisce un valido titolo esecutivo se rispetta i requisiti dell’articolo 474 del codice di procedura civile.

 

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rapporto nonni-nipoti

Rapporto nonni-nipoti: un genitore può chiedere di regolarlo Rapporto nonni-nipoti: se nel corso della separazione giudiziale un genitore si oppone l’altro può chiedere che venga regolato

Regolamentato il rapporto nonni-nipoti

La Cassazione, con l’ordinanza n. 3539/2025, ha chiarito che in un giudizio di separazione, un genitore può chiedere al giudice di regolamentare il rapporto nonni -nipoti, se l’altro genitore li impedisce. Questo diritto esiste nonostante l’articolo 317-bis del Codice civile, che riconosce ai nonni il diritto di vedere i nipoti e di rivolgersi direttamente al Tribunale per i Minorenni. Per la Cassazione i genitori, responsabili legali dei figli, possono agire per tutelare l’interesse dei minori a mantenere rapporti con i nonni, anche durante una separazione.

Inammissibile la richiesta sul rapporto con i nonni

Una separazione giudiziale si conclude in primo grado con l’affido congiunto dei minori con domicilio prevalente presso la madre e con la regolamentazione del diritto di visita del padre. Il giudice obbliga inoltre il padre a versare l’importo mensile di 650 euro per il contributo al mantenimento dei figli e della moglie.

L’uomo ricorre la decisione in sede di appello dolendosi delle decisioni e della mancata pronuncia sulla domanda relativa alla conservazione dei rapporti dei minori con i parenti e nonni della linea paterna. La Corte d’appello dichiarata inammissibile questa richiesta poiché solo i parenti pretermessi possono formulare detta richiesta.

Ricorso per regolazione rapporti nonni-nipoti

Il padre e marito ricorre la decisione in Cassazione e con il quarto motivo contesta le conclusioni a cui è giunta la Corte d’Appello nel punto in cui gli ha negato la possibilità di chiedere la regolamentazione dei rapporti dei figli con i nonni e i parenti della linea paterna.

Diritto al rapporto dei minori con gli ascendenti

Per la Cassazione questo motivo di ricorso è fondato. Gli Ermellini ricordano a tale fine che l’articolo 317 bis del codice civile riconosce agli ascendenti il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. Se tale diritto viene impedito, l’ascendente può rivolgersi al giudice, ricordando che, in ogni caso, la legge pone l’interesse del minore al di sopra di ogni altro diritto.

Questa norma quindi non si applica nei giudizi di separazione o divorzio, dove i genitori rappresentano esclusivamente i figli. Sono gli ascendenti a dover avviare un procedimento separato se vogliono conservare la relazione con i minori.

La Cassazione ricorda di aver già chiarito che il diritto dei nipoti a mantenere rapporti con gli ascendenti non modifica i giudizi di separazione o divorzio. I nonni non possono infatti intervenire in queste  cause per sostenere le ragioni dell’uno o dell’altro genitore. Solo i genitori possono agire per questioni relative alla responsabilità genitoriale.

Tutela rapporto con i minori

Se poi la questione di tutelare il rapporto con i minori sorge, come nel caso di specie, nel corso della procedura di separazione esche l’altro genitore ostacola questa relazione, allora l’altro genitore può richiedere la regolamentazione dei rapporti tra nipoti e ascendenti.

La Cassazione ricorda che la Corte Costituzionale ha stabilito che le controversie relative all’articolo 317 bis del codice civile, che riguardano il diritto degli ascendenti a conservare rapporti significativi con i nipoti minorenni, sono di competenza del Tribunale per i Minorenni e che pertanto non è possibile unire tali controversie ai giudizi di separazione o divorzio.

Le parti e gli interessi in gioco sono diversi e unendoli si rischierebbe di aumentare la conflittualità tra i coniugi e di complicare l’ascolto dei minori.

In conclusione, nei giudizi di separazione, il genitore può chiedere la regolamentazione dei rapporti tra nipoti e ascendenti se l’altro genitore lo ostacola.

 

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Manleva: breve guida La manleva: definizione, applicazione, differenze rispetto al contratto di fideiussione e di assicurazione e giurisprudenza

Cos’è la manleva

La manleva è un accordo con cui una parte (manlevante) si impegna a tenere indenne un’altra parte (manlevato) dalle conseguenze pregiudizievoli di un determinato evento. Questo istituto giuridico trova ampia applicazione nei contratti, nei rapporti di lavoro e nelle transazioni commerciali, garantendo la tutela patrimoniale del soggetto manlevato.

Differenza tra manleva e fideiussione

Sebbene entrambe le figure mirino a proteggere un soggetto da obblighi economici, la fideiussione e la manleva presentano differenze sostanziali:

  • Natura dell’obbligo: la fideiussione è un contratto accessorio che garantisce un’obbligazione principale, mentre la manleva non è necessariamente legata a un’obbligazione preesistente.
  • Coinvolgimento delle parti: il fideiussore si obbliga nei confronti del creditore del debitore principale, mentre il manlevante assume direttamente su di sé le conseguenze patrimoniali dell’evento oggetto di manleva.
  • Ambito di applicazione: la fideiussione è regolata espressamente dal Codice Civile (art. 1936 c.c.), mentre la manleva trova fondamento nella libera contrattazione tra le parti.

Differenza tra manleva e assicurazione

La manleva ha finalità simili con l’assicurazione, ma anche rispetto a questo istituto presenta differenze importanti.

  • Rapporto giuridico: l’assicurazione è un contratto regolato dal Codice Civile (art. 1882 c.c.), mentre la manleva è un accordo tra privati che non necessita di una forma specifica.
  • Premio e rischio: nel contratto assicurativo, l’assicurato paga un premio in cambio della copertura di un rischio. Il manlevante invece assume un obbligo senza la previsione di un corrispettivo automatico.
  • Intervento di terzi: l’assicurazione prevede la partecipazione di una compagnia assicurativa, la manleva invece è un accordo diretto tra due parti.

Quando e come si applica

La manleva si applica in diversi ambiti.

  • Contratti commerciali: un’azienda può manlevare un fornitore da eventuali richieste di risarcimento.
  • Rapporti di lavoro: un datore di lavoro può essere manlevato da responsabilità per atti compiuti dai dipendenti.
  • Procedure legali: una parte può essere manlevata dagli oneri derivanti da una causa legale.

L’applicazione dell’istituto avviene mediante un accordo scritto, in cui si specificano:

  • le parti coinvolte (manlevante e manlevato);
  • il tipo di rischio o responsabilità coperta;
  • l’ambito temporale e territoriale di validità.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha consolidato diversi principi, chiarendo il valore legale e l’applicabilità dell’istituto:

  • Cassazione n. 37709/2021: l’accordo concluso tra le parti configura un c.d. patto di manleva, contratto atipico, dal quale scaturisce l’obbligo del mallevadore di tenere indenne il manlevato dalle conseguenze patrimoniali dannose di eventi o di atti il cui verificarsi sia del tutto eventuale.
  • Cassazione n. 29416/2024: la formulazione di una domanda di garanzia (per manleva o regresso) nei confronti di un terzo di cui si richieda la chiamata in causa esula, per consolidato indirizzo di nomofilachia, dal novero delle ipotesi di litisconsorzio necessario, sicché resta connotato da discrezionalità il provvedimento del giudice che detta istanza di evocazione del terzo, pur tempestivamente formulata, accolga o rigetti la richiesta.
  • Cassazione n. 20152/2017: la clausola di manleva è una disposizione contrattuale utilizzata per trasferire a un terzo le conseguenze risarcitorie derivanti dall’inadempimento di un’obbligazione contrattuale. Tale soggetto assume l’onere di manlevare e tenere indenne il creditore da eventuali danni o pretese risarcitorie. Nel caso di clausole di questo tipo inserite nei contratti di assicurazione, è necessaria un’esplicita approvazione nel rispetto dell’articolo 1341 del Codice Civile.

 

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