beneficio della non menzione

Beneficio della non menzione anche in Cassazione Il beneficio della non menzione può essere disposto dalla Cassazione senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto

Non menzione e giudizio di legittimità

Il beneficio della non menzione può essere direttamente disposto dalla Cassazione, sulla base degli elementi già valorizzati dal giudice del merito, senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto. Lo ha stabilito la seconda sezione penale nella sentenza n. 37164/2024 accogliendo sul punto il ricorso di un imputato.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Napoli confermava la condanna emessa dal tribunale nei confronti di un imputato per i reati di cui agli art. 81, 10 e 640-ter e 81, 10 e 493-ter cod. pen.

L’uomo adiva il Palazzaccio dolendosi, tra le altre cose, della carenza di motivazione in merito alla richiesta di applicazione del beneficio della non menzione.

La decisione

Per la S.C. il motivo è fondato (sebbene il ricorso sia complessivamente infondato nel resto). La Corte d’appello infatti non ha offerto una specifica risposta all’ultimo motivo di gravame, con cui si invocava il beneficio di cui all’art. 175 c.p. e tale inequivoca lacuna motivazionale impone, limitatamente a questa sola statuizione, l’annullamento della sentenza impugnata.
L’apparato argomentativo speso dalla Corte territoriale in tema di sospensione condizionale della pena, fondato sulla valutazione dei medesimi elementi ex art. 133 c.p. che vengono necessariamente in rilievo anche per la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, “consente tuttavia di colmare la denunciata carenza, senza necessità di rinvio” aggiungono gli Ermellini.

“lI beneficio in questione può, infatti, essere direttamente disposto – dalla Cassazione – sulla base degli elementi già valorizzati dal giudice del merito ex art. 164 cod. pen. nei termini sopra accennati, senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto (cfr., tra le altre, Cass. n. 14885/2021).

Per cui, la S.C. annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al mancato riconoscimento del beneficio della non menzione della condanna, che concede. E rigetta il ricorso nel resto.

Allegati

Decreto ingiuntivo: titolo inoppugnabile per ammissione al passivo Decreto ingiuntivo: inoppugnabile per l’ammissione al passivo se il giudizio si è estinto e sono decorsi i 10 giorni per il reclamo

Decreto ingiuntivo opposto e ammissione al passivo

Il decreto ingiuntivo opposto acquisisce efficacia di giudicato sostanziale e diventa titolo idoneo per l’ammissione al passivo del fallimento a condizione che il giudizio di opposizione si sia estinto e nel momento in cui viene emessa la sentenza di fallimento, il termine di 10 giorni per proporre il reclamo verso l’ordinanza di estinzione sia già decorso. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 22125/2024.

Titolo inidoneo se diventa definitivo dopo il fallimento

Una banca vorrebbe partecipare alla distribuzione della somma ricavata dalla vendita dei beni immobili che la debitrice fallita ha ceduto a un’altra società fallita. Sui beni immobili la banca aveva iscritto un’ipoteca giudiziale in virtù di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo. Il giudice del fallimento ritiene rituale la domanda avanzata dalla banca. Costui però la respinge perché l’ipoteca si fonderebbe su un decreto ingiuntivo, che è stato dichiarato esecutivo in via definitiva dopo il fallimento delle due società, quella cedente e quella cessionaria.  

Decreto ingiuntivo definitivo dopo il fallimento: ipoteca inopponibile

La banca presenta la sua opposizione al fallimento ai sensi dell’art. 98 della legge fallimentare. Il Tribunale però la respinge per due ragioni.

  • Il titolare di ipoteca non può avvalersi del procedimento di verifica del passivo nella procedura fallimentare. Occorre instaurare un contraddittorio con il debitore e far valere il suo diritto nelle modalità previste dagli articoli 602-604 c.p.c.
  • L’ipoteca giudiziale non è opponibile al fallimento perché il decreto è diventato esecutivo in via definitiva dopo il fallimento.

Titolo definitivo dopo l’estinzione dell’opposizione

La banca ricorre quindi in Cassazione per contestare le ragioni del rigetto.

Nel primo motivo precisa di aver presentato una domanda di partecipazione al riparto di quanto ricavato dalla vendita degli immobili.

Con il secondo motivo invece chiarisce che il decreto ingiuntivo è diventato esecutivo in via definitiva dopo l’estinzione del giudizio di opposizione a causa della mancata riassunzione del giudizio da parte del curatore fallimentare.

Decreto ingiuntivo, giudicato sostanziale e ammissione al passivo

La Corte, nel respingere il primo motivo di doglianza richiama la Cassazione a sezioni unite n. 8557/2023 e i principi in essa sanciti ossia che “i creditori titolari di un diritto di ipoteca o di pegno sui beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito (…) possono (…)  intervenire nel procedimento fallimentare in vista della ripartizione dell’attivo, per richiedere di partecipare alla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dei beni compresi nella procedura che sono stati ipotecati o pignorati in loro favore.” 

Nell’accogliere il secondo motivo invece la Cassazione spiega che il decreto ingiuntivo della banca ricorrente è divenuto definitivo nei confronti della debitrice principale con la sentenza con cui il tribunale ha dichiarato estinto il giudizio di opposizione, prima della dichiarazione di fallimento della società a cui la debitrice principale aveva ceduto i propri immobili a cui quindi doveva ritenersi opponibile.

Decreto ingiuntivo opposto dal debitore fallito

L’ordinanza n. 9933/2018 della Cassazione sul punto aveva precisato che: il decreto ingiuntivo che sia stato opposto dal debitore poi fallito è opponibile alla massa fallimentare, a condizione che sia stata pronunciata sentenza di rigetto dell’opposizione, ovvero ordinanza di estinzione, divenute non più impugnabili – per decorso del relativo termine – prima della dichiarazione di fallimento, restando irrilevante che con i detti provvedimenti sia stata dichiarata l’esecutorietà del decreto monitorio, ex art. 653 c.p.c., ovvero che sia stato pronunciato, prima dell’apertura del concorso tra i creditori, il decreto di esecutività di cui all’art. 654 c.p.c.” 

Alla luce di questa e di altre decisioni  ribadisci Ermellini sanciscono infine che “il decreto ingiuntivo, in caso di opposizione, acquista efficacia di giudicato sostanziale idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo, purché il relativo giudizio si sia estinto e, al momento della sentenza di fallimento, sia già decorso il termine di dieci giorni per proporre reclamo avverso l’ordinanza di estinzione.”

 

Leggi anche: Opposizione a decreto ingiuntivo: mediazione a carico del condominio

Allegati

licenziato il dipendente scortese

Licenziato il dipendente scortese con i clienti Licenziato il dipendente scortese con il cliente anziano se per la modalità della condotta non è possibile proseguire il rapporto

Licenziamento del dipendente per condotta col cliente

Licenziato il dipendente scortese con i clienti, che invece di chiedere scusa prosegue il diverbio con toni sempre più accesi. Questa la decisione della Corte di Cassazione contenuta nell’ordinanza n. 26440/2024, che nel respingere il ricorso del dipendente gli contesta di non aver sollevato critiche specifiche alla decisione della Corte di appello. L’art. 2119 c.c. che contempla il licenziamento per giusta guisa contempla la clausola generale in base alla quale “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” di lavoro.

Dipendente scortese con un cliente anziano

Una società licenzia un suo dipendente. Costui impugna il licenziamento disciplinare e il giudice di primo grado accoglie le sue richieste. In sede di appello però la Corte accoglie il reclamo della S.R.L. La datrice contesta all’addetto al banco macelleria di essersi rivolto in maniera sgarbata, scurrile e volgare a un cliente di una certa età. La condotta è grave perché il dipendente, invece di chiedere scusa, ha proseguito il diverbio con toni accessi sempre crescenti, dando vita uno spettacolo indecoroso e preoccupante.

Per la datrice il lavoratore ha violato l’art. 215 del c.c.n.l, che punisce le gravi violazioni degli obblighi previsti dall’art. 210, tra i quali è presente quello di “usare modi cortesi con pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri.” La società datrice nel licenziare il dipendente tiene conto anche di altre violazioni disciplinari, dalle quali emerge disprezzo delle regole. È evidente che una condotta simile non consente alla datrice di proseguire il rapporto.

Insussistenza dei motivi che impediscono di proseguire il rapporto

Il dipendente ricorre in Cassazione sollevando 5 motivi di doglianza. Con il primo contesta l’inattendibilità del cliente perché costui ha omesso di riportare la frase esatta che lo stesso gli ha rivolto. Nel secondo sottolinea l’età di soli 67 anni del cliente e l’atteggiamento tutt’altro che remissivo dello stesso. Nel terzo critica la rilevanza dei gesti che gli sono stati contestati, come lo spostamento della bilancia e il tentativo di colpire il cliente in pieno viso con uno schiaffo. Con il quarto dimostra il proprio disappunto sulle affermazioni della datrice relative alle precedenti condotte che avrebbe tenuto sul posto di lavoro. Con il quinto infine si oppone all’affermata violazione delle norme del c.c.n.l riportate dalla datrice. La Corte d’appello non ha preso della dovuta considerazione i profili oggettivi e soggettivi dei fatti, ossia l’intenzionalità, la condotta arrogante della controparte e l’assenza di altri clienti al momento dei fatti. Tali elementi, valutati nel loro complesso,  denotano in particolare la scarsa offensività della condotta per l’immagine della datrice.

Giusta causa di licenziamento

La Cassazione decide di trattare congiuntamente tutti i motivi del ricorso per valutare la sussistenza dei fatti, l’integrazione della giusta causa del recesso e la proporzionalità della sanzione irrogata.

La Suprema Corte, alla luce di quanto emerso nei precedenti gradi di merito, rigetta il ricorso del dipendente. Per prima cosa gli Ermellini precisano di non aver il potere di riesaminare la vicenda processuale nel merito. Essi possono solo verificare la correttezza delle argomentazioni del giudice dal punto di vista logico e giuridico. La Cassazione non rileva poi alcuna violazione delle norme sull’onere probatorio. Per quanto riguarda invece la rilevanza della condotta del dipendente dal punto di vista disciplinare la suprema corte ricorda di aver affermato in diverse occasioni che la giusta causa di licenziamento sussiste quando il fatto commesso non permette la prosecuzione del rapporto in base alla valutazione del giudice di merito, che nel compiere questa operazione deve rispettare anche clausole generali come quella contenuta nell’art. 2119 c.c, che fa riferimento alla “causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.”

Tale critica però non è sempre consentita. La Cassazione può sindacare l’attività integrazione del precetto contenuto dall’art. 2119 cc se la censura è generica, come nel caso di specie. Il ricorrente infatti non identifica nel ricorso i parametri integrativi della clausola contenuta nell’art. 2119 c.c, che la corte d’appello avrebbe violato. Lo stesso si limita solo a sollecitare una rivisitazione dei fatti e a ribadire l’inesistenza di una giusta causa di licenziamento.

 

Leggi anche: Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Allegati

giurista risponde

Concorso anomalo e progressione criminosa Nell’applicazione dell’istituto del concorso anomalo, ex art. 116 c.p., in che rapporto si deve porre l’elemento psicologico del dolo con la prevedibilità della progressione criminosa dell’azione?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 116 c.p. (concorso anomalo) è soggetta a due limiti negativi e cioè che l’evento diverso non sia voluto neppure sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale e che l’evento più grave, concretamente realizzato, non sia conseguenza di fattori eccezionali, sopravvenuti, meramente occasionali e non ricollegabili eziologicamente alla condotta criminosa di base (Cass., sez. I, 20 giugno 2024, n. 24520).

Preliminarmente il Supremo Collegio, nel rispondere al quesito oggetto della presente sentenza ha ritenuto di specificare quelli che sono i limiti applicativi dell’art. 116 c.p. sotto il profilo dell’elemento soggettivo distinguendolo dalle ipotesi di concorsi di cui all’art. 110 c.p.

Ciò posto, premettendo che è oramai consolidata una concezione unitaria del concorso di presone nel reato – contrariamente a quanto avveniva con il Codice Zanardelli –, l’attività che integra gli estremi dell’art. 110 c.p. può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune delle fasi di: ideazione, organizzazione ed esecuzione, alla realizzazione collettiva della fattispecie di reato. Tale attività, peraltro, non necessita di un previo accordo diretto alla causazione dell’evento; infatti il concorso ben potrebbe estrinsecarsi in un intervento di carattere estemporaneo, sopravvenuto a sostegno dell’azione altrui ancora in corso quand’anche iniziata all’insaputa del correo (Cass., Sez. Un., 3 maggio 2001, n. 31).

Il concorso anomalo ex art. 116 c.p. si differenzia rispetto al concorso “pieno” – sopradescritto – e sussiste alla presenza di tre requisiti: l’adesione dell’agente ad un reato voluto in concorso con altri; la commissione da parte di altro concorrente di un reato diverso – eventualmente più grave –; un nesso causale, non solo materiale ma anche psicologico tra la condotta del compartecipe rispetto al reato voluto e l’evento diverso concretamente realizzato da altri. Pertanto è necessario che il concorrente non abbia previsto e voluto, nemmeno a titolo di dolo eventuale, il reato diverso, posto in essere dall’esecutore. Invero, nel caso in cui il soggetto non soltanto si sia rappresentato l’evento, ma l’abbia voluto – sia che tale volizione si estrinsechi sotto il profilo del dolo diretto che del dolo indiretto (in tutte le sue accezioni) – si ricadrà nell’alveo applicativo dell’art. 110 c.p. e, pertanto, si applicherà la disciplina ordinaria del concorso di persone nel reato. A tali tre requisiti si aggiunge poi un ulteriore aspetto che estrinseca il terzo requisito, ovvero, la prevedibilità della progressione criminosa dell’agire.

Su quest’ultimo, cruciale, punto la Corte ribadisce come sia assolutamente preponderante la prevedibilità dell’evento reato differente. Invero, il requisito della prevedibilità dell’evento posto in progressione criminosa, anche se non espressamente previsto nella disposizione normativa, è di fondamentale importanza. Questo, lo si si evince in forza di una interpretazione sistematica e teleologica delle norme fondanti la responsabilità penale e vive ormai una condizione di assoluta stabilità dopo la pronuncia della Corte cost. 42/1965. Pertanto è imprescindibile un “nesso psicologico” in termini di prevedibilità tra la condotta dell’agente compartecipe e l’evento diverso in concreto verificatosi.

Tale aspetto, peraltro, non può dirsi integrato dalla sola sussistenza di un rapporto di causalità materiale tra la condotta dell’agente e l’evento più grave, ma è necessario che sussista un rapporto di “causalità psichica”, nel senso che il reato diverso – e più grave – commesso dal compartecipe deve essere astrattamente rappresentabile nella psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto (Cass. 11 gennaio 2006, n. 744), il tutto senza, comunque, che l’agente debba avere effettivamente previsto e accettato il rischio della sua commissione, giacché, in tal caso – come affermato in precedenza –, sarebbe configurabile il dolo eventuale e quindi il concorso pieno ex art. 110 c.p.

La responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello voluto, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso anomalo ex art. 116 nel caso in cui l’agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che la componente psichica del concorso anomalo ex art. 116 c.p. si collochi, in un’area compresa fra la mancata previsione di uno sviluppo in effetti imprevedibile (situazione nella quale la responsabilità resta esclusa) e l’intervenuta rappresentazione dell’eventualità che il diverso evento potesse verificarsi, anche in termini di mera possibilità o scarsa probabilità (situazione nella quale si realizza un’ordinaria fattispecie concorsuale su base dolosa). Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata ritenendo che il corrente avesse agito con dolo diretto e, pertanto, con il pieno intento di cooperare all’esecuzione del disegno criminoso nella sua forma più grave effettivamente verificatasi.

*Contributo in tema di “Concorso anomalo e progressione criminosa”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

referendum autonomia differenziata

Referendum autonomia differenziata Referendum autonomia differenziata: la raccolta firme, il quesito, le ragioni dell'iniziativa e i tempi della procedura

Referendum sull’autonomia differenziata

Il 20 e il 21 luglio 2024 è iniziata la campagna per la raccolta delle firme del referendum abrogativo della legge sulla autonomia differenziata n. 86/2024. Il referendum è stato promosso da un comitato referendario variegato. In esso si sono riunite diverse forse sociali, politiche e associative. Le firme necessarie per sostenete l’iniziativa erano 500.000, ma il risultato è stato raggiunto ampiamente grazie all’istituzione della piattaforma gratuita e pubblica dedicata.

Ragioni del referendum

Le ragioni della proposta di referendum contro l’autonomia differenziata dei rinvenirsi nell’approvazione della legge sulla autonomia differenziata n. 86/2024. Questa legge, proposta dal Ministro Calderoli, è considerata da molti un vero e proprio attacco ai principi della Costituzione. La previsione di livelli differenziati di autonomia tra regioni mette in pericolo l’unità e provoca danni al Nord Italia e al Sud Italia dal punto di vista economico, ambientale, sanitario, scolastico e lavorativo.

Le altre iniziative referendarie

La legge sull’autonomia differenziata è contestata anche a livello regionale. In Trentino ad esempio sono state avviate iniziative di sensibilizzazione dell’elettorato che andrà a votare. In Emilia Romagna invece sono stati votati due quesiti referendari. La regione Toscana ha invece fatto ricorso alla Corte Costituzionale per chiedere che la legge n. 86/2024 venga dichiarata incostituzionale. La regione Campania ha seguito l’esempio della Toscana, così come la Puglia.

Sulle questioni di legittimità costituzionale delle Regioni leggi “Autonomia differenziata: la Consulta ha fissato l’udienza

Legambiente dice no alla legge e promuove il referendum abrogativo. L’autonomia differenziata creerebbe divari territoriali anche in tema di accesso alle risorse naturali. Dello stesso avviso il WWF. La materia ambientale rientra infatti tra quelle che si prestano meno di altre a una frammentazione.

Il quesito referendario

Il quesito del referendum sull’autonomia differenziata è semplice e diretto: “Volete voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86, “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”?

Criticità della legge n. 86/2024

Diversi costituzionalisti hanno preso posizione sulla legge del Ministro Calderoni. L’appello è presente sul sito dedicato referendumautunomiadifferenziata.com.

Nell’appello i costituzionalisti esaminano la legge n. 86/2024 e la  confrontano con le norme della Costituzione dedicate all’autonomia regionale: articoli 116 e 117.

Effettuata la disamina i costituzionalisti giungono alla conclusione che la realizzazione dell’autonomia differenziata sacrificherebbe l’uguaglianza e l’uniformità dei diritti fondamentali dei cittadini italiani. Tutto questo si pone in contrasto con la necessità di creare  forme di autonomie più efficienti e capaci di soddisfare le esigenze reali dei cittadini.

Referendum autonomia differenziata: i tempi

La legge n. 352/1970, che disciplina i referendum previsti dalla Costituzione detta anche i tempi del procedimento.

Conclusa la raccolta delle firme è necessario procedere al deposito dei fogli che contengono le firme presso la cancelleria della Corte di Cassazione. Questo adempimento deve essere rispettato nel termine di 3 mesi, che decorrono dalla data di apposizione del timbro sui fogli stessi da parte di almeno tre dei promotori.

L’ufficio centrale della Cassazione esamina alla richiesta referendaria ed entro il 31 ottobre emette un’ordinanza. In presenza di irregolarità, l’ufficio notifica il provvedimento per consentire la presentazione di memorie o procedere alla sanatoria.

Entro il 15 dicembre l’ufficio decide in via definitiva sulla legittimità della richiesta con ordinanza. Il provvedimento è comunicato poi al Presidente della Corte Costituzionale.

Entro il 20 gennaio dell’anno successivo a quello dell’ordinanza predetta, il Presidente fissa il giorno per la deliberazione in camera di consiglio e nomina il relatore.

La Corte Costituzionale decide con sentenza, che deve essere pubblicata entro il 10 febbraio e in cui specifica quali richieste sono ammesse e quali invece sono respinte.

La sentenza viene poi comunicata “al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle due Camere, al Presidente del Consiglio dei Ministri, all’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione, nonché ai delegati o ai presentatori, entro cinque giorni dalla pubblicazione della sentenza stessa. Entro lo stesso termine il dispositivo della sentenza è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.”

A questo punto il Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, fissa la data di convocazione degli elettori in una domenica che deve essere compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno.

 

Leggi anche: “Autonomia differenziata: cosa prevede la nuova legge

sequestro preventivo

Sequestro preventivo: le modalità esecutive spettano al PM La Cassazione chiarisce che compete al PM il potere di fissazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo

Sequestro preventivo e modalità esecutive

Spetta al pubblico ministero il potere di fissazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo e i provvedimenti con cui è esercitato tale potere sono impugnabili con la procedura dell’incidente di esecuzione. Lo ha chiarito la seconda sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 37168/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli, in funzione di Tribunale del riesame, confermava integralmente il decreto del Giudice per le indagini preliminari che aveva disposto il sequestro preventivo in via diretta, fino alla capienza di euro 2.767.538,20, e, per l’importo non rinvenuto, per equivalente, nei confronti di alcuni indagati per il reato di cui agli artt. 110 e 648-ter cod. pen.
La questione approda al Palazzaccio dove viene dedotta la «manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione tale da risultare apparente», in relazione alla ribadita sussistenza del periculum in mora. “La decisione dei giudici della cautela – a dire della difesa – deriverebbe da una lettura approssimativa degli atti, che non avrebbe tenuto conto del fatto che l’intera somma in contestazione era confluita nell’operazione di completamento dell’immobile”. Inoltre, viene censurato, “il nuovo percorso argomentativo esposto dal Tribunale, che avrebbe invece dovuto annullare li provvedimento genetico, privo di adeguata motivazione sul punto”.

La decisione

Per la S.C. però il ricorso è infondato.

In materia di cautela reale, l’art. 325 cod. proc. pen., ricordano i giudici, “consente il ricorso per cassazione soltanto per violazione di legge (nel cui ambito deve includersi anche la motivazione omessa o soltanto apparente). Non sono, dunque consentiti, i profili di censura diretti a contestare la tenuta logica dell’apparato argomentativo”.

Il primo motivo, sotto l’abito dell’omessa motivazione, in primo luogo, osservano dalla Cassazione, “introduce surrettiziamente una serie di censure incentrate sulla presunta erroneità delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento dell’ordinanza impugnata, spingendosi, anzi, a una certosina disamina dei singoli passaggi argomentativi (in tema di rapporti con i e l’associazione per delinquere, di complessivo importo conferito da questi ultimi, di sussidiarietà del vincolo), sollecitandone un’alternativa rilettura rispetto a quella già offerta dal Tribunale”.
Inoltre, “le questioni che attengono alle modalità di esecuzione del sequestro preventivo – quali quelle denunciate nel caso di specie – non possono essere fatte valere con una richiesta di riesame (né con una istanza di dissequestro)”.  “Considerato che spetta al pubblico ministero il potere di fissazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo e che i provvedimenti con cui è esercitato tale potere sono impugnabili con la procedura dell’incidente di esecuzione, si tratta, dunque, di questioni – concludono dal Palazzaccio – che devono essere portate all’attenzione del giudice competente con la suddetta distinta procedura non impugnatoria” (cfr. ex multis, Cass. n. 8283/2020). Per cui, il ricorso è rigettato.

Allegati

giurista risponde

Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali Nell’applicazione dell’istituto della legittima difesa putativa, ovvero dell’eccesso colposo di legittima difesa, i timori personali possono essere di per sé stessi sufficienti ad escludere la punibilità del soggetto agente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

L’accertamento della legittima difesa, reale o putativa o dell’eccesso colposo di questa, deve essere effettuato con un giudizio “ex ante” calato all’ interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali (Cass., sez. I, 26 giugno 2024, n. 25230).

Nell’affrontare il thema decidendum, il Supremo Collegio ha operato un pregevole lavoro di ricostruzione ermeneutica in ordine ai requisiti per la sussistenza della legittima difesa, differenziando le ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. come novellato dalla L. 26 aprile 2019, n. 36, da quello più generale della legittima difesa putativa di cui al combinato disposto degli artt. 52 e 59 c.p.

Più nello specifico, l’ipotesi dell’eccesso colposo della legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. ricorre nel caso in cui il superamento del limite della necessaria proporzione che deve esserci tra la difesa del bene giuridico minacciato e l’offesa è dipeso da errore determinato da colpa (Cass. 12 ottobre 2023, n. 41552). Sotto tale profilo, infatti, lo stato di grave turbamento che funge da presupposto, in alternativa alla minorata difesa ex art. 61, comma 5 c.p., per l’applicazione della causa di non punibilità prevista dal novellato art. 55, comma 2 c.p., richiede che esso sia prodotto dalla situazione di pericolo in atto, rendendo, di conseguenza, irrilevanti stati d’animo che abbiano cause preesistenti o diverse ed è necessario un esame di tutti gli elementi della situazione per accertare se la concretezza e gravità del pericolo in atto possa avere ingenerato un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa (Cass. 3 dicembre 2020, n. 34345). Per l’effetto una condotta antecedente a quella delittuosa che fa sorgere dei meri timori personali non può essere idonea ad integrare il presupposto della norma.

Tale ipotesi differisce, peraltro, dalla legittima difesa putativa, di cui all’art. 59 c.p., perché il concetto di errore ha una portata ben più generale rispetto al turbamento. Invero, l’errore scusabile non è altro che una rappresentazione falsata della realtà che prescinde da un turbamento emotivo e potrebbe, astrattamente, ricomprenderlo se questo non integra il requisito di cui all’art. 55, comma 2 c.p.

In altri termini la rappresentazione falsata del pericolo, nel caso di cui all’art. 59 c.p. è ontologicamente incompatibile con l’ipotesi di un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa, perché nel caso di cui all’art. 55, comma 2 c.p. non è esigibile una valutazione sulla proporzione della reazione. Di converso l’errore, per dirsi scusabile, deve trovare un’adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Per cui, la capacità di razionale valutazione dell’agente è necessaria per l’applicazione dell’art. 59 c.p., mentre è in radice esclusa per l’applicazione dell’art. 55, comma 2 c.p., i quali peraltro si inseriscono in momenti della condotta che possono essere diversi.

Ciò posto la presente sentenza, prendendo le mosse (Cass. 21 marzo 2013, n. 13370), ha ritenuto di affermare che al fine di valutare l’eventuale sussistenza dell’eccesso colposo di legittima difesa devono essere valutate ex ante le specifiche e peculiari circostanze concrete dell’azione. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali.

Sul punto nonostante sia ampiamente condivisibile la ricostruzione ermeneutica testé riportata, in ordine ai c.d. “timori personali”, è d’uopo segnalare l’esistenza di un orientamento parzialmente differente, coevo alla novella normativa del 2019, il quale però a parare di chi scrive può dirsi superato. Detto orientamento, prendendo comunque le mosse dall’arcinota sentenza Cass. 21 marzo 2013, n. 13370, ha ritenuto che, a seguito della novella legislativa del 2019, “i timori personali” laddove possano essere riconducibili nella categoria del “grave turbamento” (di cui alla nuova formulazione dell’art. 55 c.p.) debbano essere necessariamente oggetto di valutazione da parte del giudice di merito ed in assenza di tale valutazione la sentenza deve essere annullata (Cass. 10 dicembre 2019, n. 49883).

Alla luce di quanto sopraesposto, nel caso di specie la Corte ritenendo di aderire al primo orientamento ha, altresì, ricordato che il riconoscimento o l’esclusione della legittima difesa, reale o putativa, e dell’eccesso colposo nella stessa – qualora gli elementi di prova siano stati puntualmente accertati e logicamente valutati dal giudice di merito – è un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità. In forza di ciò, non essendo stati riscontrati vizi procedurali nell’accertamento degli elementi di prova o motivazionali nel vaglio degli stessi, la Corte ha confermato la sentenza di condanna.

Contributo in tema di “Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia: la nozione di convivenza Maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p: tra imputato e vittima deve sussistere una relazione affettiva, l'amicizia non è sufficiente

Maltrattamenti in famiglia e convivenza

Il reato di maltrattamenti in famiglia contemplato dall’art. 572 c.p richiede per la sua configurazione il requisito della convivenza. Esso è soddisfatto in presenza della coabitazione tra soggetti legati da una relazione qualificata dalla comunanza materiale e spirituale di vita e da aspettative di solidarietà reciproca. Non è sufficiente la mera divisione degli spazi della abitazione comune ricollegabile a un mero rapporto di amicizia. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 37166/2024.

Convivenza assente: niente maltrattamenti in famiglia

La Corte ridetermina la pena inflitta a un imputato per la commissione di diversi reati, tra i quali quello di maltrattamenti verso familiari e conviventi contemplato dall’art. 572 c.p.

L’imputato ricorre in Cassazione e contesta la carenza di motivazione della sentenza in relazione al requisito della convivenza, in quanto presupposto necessario per la configurazione del reato di maltrattamenti.

No ai maltrattamenti se il rapporto è di mutuo soccorso

La Cassazione accoglie la doglianza dell’imputato con la quale contesta l’assenza del requisito della convivenza. Esso è infatti richiesto dall’art. 572 c.p, che punisce i maltrattamenti verso persone e familiari.

Nel caso di specie la Cassazione rileva l’esistenza di un mero “rapporto di mutuo soccorso” tra l’imputato e la persona offesa. La loro coabitazione era caratterizzata dall’accordo fondato sul contributo di entrambi alle spese comuni.

L’imputato ha dichiarato di “essersi preso cura di una persona fragile, incapace di determinarsi e che necessitava di essere stimolato e spronato e di essere aiutato durante la malattia: lo stesso imputato non prospetta una mera coabitazione, ma una condivisione di vita ben più ampia […] con condivisione di una comune esperienza lavorativa […], ulteriore manifestazione di condivisione di progetti futuri.”

La Corte Costituzionale in relazione al requisito della convivenza del reato di maltrattamenti ha avuto modo di precisare che si deve chiarire se tra imputato e persona offesa sussista una relazione in grado di considerare la persona offesa come parte della “famiglia” dell’imputato o se in alternativa un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nellabitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di convivenza.” 

Convivenza: coabitazione tra soggetti con comuni aspettative di vita

A questo proposito la Cassazione intende seguire l’interpretazione secondo cui: “ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., integra il requisito della convivenza soltanto la coabitazione tra individui legati da una relazione qualificata da comunanza materiale e spirituale di vita e da aspettative di reciproca solidarietà, non già la contingente condivisione di spazi abitativi, priva di connotati affettivi e solidali, dovuta a mera amicizia.”

I concetti di famiglia e convivenza devono essere interpretati in senso restrittivo. Gli stessi devono essere caratterizzati da una radicata e stabile relazione affettiva. In essa entrambe le parti devono nutrire reciproche aspettative di assistenza e mutua solidarietà. Il tutto deve essere fondato su un rapporto coniugale, di parentela o di condivisione stabile dell’abitazione comune, anche discontinua.

Nel caso di specie imputato e persona offesa erano semplici coinquilini, tra i quali non sussisteva alcun vincolo affettiva, ma fondato solo sulle necessitò comuni della vita quotidiana, che quindi non può essere qualificato come convivenza.

In difetto di questa condizione soggettiva richiesta dall’articolo 572 c.p la sentenza impugnata va annullata. Il reato di maltrattamenti infatti non si configura perché il fatto non sussiste.

 

Leggi anche: Maltrattamenti in famiglia e condotte non abituali

Allegati

separazione giudiziale

Separazione giudiziale: impugnabile l’accordo sull’immobile L’accordo raggiunto in sede di separazione giudiziale relativo a un trasferimento immobiliare è impugnabile dai terzi

Separazione giudiziale e trasferimento immobiliare

Nell’ambito di un procedimento di separazione giudiziale l’accordo tra i coniugi relativo a un trasferimento immobiliare è impugnabile anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza che lo recepisce. Questo a tutela delle parti e dei terzi. La sentenza infatti assume valore meramente dichiarativo dell’accordo e non incide sulla natura contrattuale dell’accordo privato tra le parti. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 26127/2024.

Valore dichiarativo la sentenza di separazione

Una società dichiara di essere creditrice del fideiussore di una srl. Per questa ragione conviene in giudizio lo stesso e il coniuge. Nella domanda chiede di dichiarare inefficace il verbale di separazione e l’atto con cui il fideiussore ha ceduto alla moglie il diritto di abitazione e i diritti reali nella quota del 50% di un immobile.

La Corte di Appello, superata la questione di rito relativa alla legittimazione processuale della società, nel merito ritiene ammissibile l’azione revocatoria azionata. La sentenza di separazione giudiziale si è infatti limitata a recepire l’accordo economico dei coniugi.

Il trasferimento immobiliare non è avvenuto per adempiere ad un obbligo di mantenimento nei confronti della moglie. Esso inoltre deve essere qualificato come un atto dispositivo a titolo gratuito, anche se i coniugi lo hanno voluto qualificare come a titolo oneroso. Dal ricorso e dal provvedimento presidenziale emerge inoltre la consapevolezza della moglie del danno che tale trasferimento immobiliare avrebbe arrecato ai creditori. Il marito infatti versava in difficoltà economiche.

Sentenza di separazione giudiziale irrevocabile

Il marito, soccombente in appello, appella decisione. Nel secondo motivo evidenzia come il trasferimento immobiliare non si sia realizzato per mezzo del verbale di separazione consensuale, ma con sentenza passata in giudicato. L’atto dispositivo è un atto dovuto, non revocabile art. 2901 comma 3 c.c e impugnabile solo con l’opposizione del terzo di cui all’articolo 404 comma 2 c.p.c.

Impugnabile la sentenza che recepisce un accordo economico

Per la Cassazione però questo motivo è infondato. In base ad un orientamento costante della giurisprudenza l’azione pauliana è sempre esperibile. Questo anche quando l’atto traslativo è contenuto negli accordi di separazione consensuale o di divorzio congiunto.

La Cassazione ha affermato in diverse occasioni che: laccordo di separazione costituisce un atto di natura essenzialmente negoziale (…) rispetto al quale li provvedimento di omologazione (…)  si atteggia a mera condizione sospensiva (legale) di efficacia: avendo detto provvedimento la circoscritta funzione di verificare che la convenzione sia compatibile con le norme cogenti ed i principi di ordine pubblico, nonché di controllare, in termini più pregnanti, che l’accordo relativo all’affidamento e al mantenimento dei figli non contrasti con l’interesse di questi ultimi (…).”

Gli Ermellini ricordano che sono valide le clausole contenute nell’accordo di separazione che prevedono il trasferimento immobiliare. Esse possono qualificarsi come veri e propri contratti atipici e come tali in grado di ledere gli interessi dei creditori all’integrità patrimoniale del coniuge disponente.

Le conclusioni a cui la Cassazione è giunta varie volte sugli accordi dispositivi in sede di separazione consensuale o divorzio congiunto trovano applicazione anche nel caso di specie, anche se tra le parti è intervenuta una separazione giudiziale.

Le SU nella decisione n. 21761/2021 hanno affermato in pratica che la sentenza di divorzio o di separazione ha valore meramente dichiarativo delle pattuizioni di natura economica. Corretta quindi la decisione della Corte di Appello nel punto in cui afferma che la sentenza di primo grado si è limitata a recepire l’accordo con cui si trasferiva alla moglie anche la comproprietà dell’immobile.

Sentenza di separazione: valore dichiarativo trasferimento immobiliare

La Cassazione nel rigettare il motivo del marito afferma in conclusione che: “l’accordo tra coniugi avente ad oggetto un trasferimento immobiliare, anche nell’ambito di un procedimento di separazione giudiziale, è soggetto alle ordinarie impugnative negoziali a tutela delle parti e dei terzi, anche dopo il passaggio in giudicato della

sentenza che lo ha recepito, spiegando quest’ultima efficacia meramente dichiarativa, come tale non incidente sulla natura di atto contrattuale privato del suddetto accordo.”

 

Leggi anche: Validi gli accordi via mail tra genitori separati

Allegati

ctu discordanti

CTU discordanti: il giudice può scegliere a quale aderire CTU discordanti: il giudice che decide di aderire ad una delle due deve motivare indicando le ragioni specifiche della scelta

CTU discordanti: la scelta tra le due va motivata

Se tra due CTU discordanti, che giungono cioè a conclusioni opposte sulla responsabilità medica di un’azienda ospedaliera e di alcuni dottori, se il giudice dell’appello preferisce la seconda deve motivare specificamente le ragioni per le quali l’ha scelta ai fini del decidere.

Non basta affermare che la seconda CTU ha chiarito dubbi e criticità presenti nella prima relazione. La Cassazione fornisce questi importanti chiarimenti nell’ordinanza n. 18308/2024.

Danni celebrali alla neonata: genitore chiede i danni

Il genitore di una bambina cita in giudizio un’azienda ospedaliera. L’uomo chiede il risarcimento dei danni derivanti dalle omesse o tardive diagnosi e terapie post partum. Le condotte dei medici hanno compromesso gravemente le funzioni celebrali della figlia appena nata. La struttura chiama in causa le compagnie assicurative e i sanitari coinvolti nella vicenda.

CTU discordanti: decisioni opposte in primo e secondo grado

Il Tribunale per appurare le responsabilità dispone una CTU. Conclusa l’istruttoria il giudice di primo grado accoglie le richieste del genitore. La sentenza riconosce all’attore e alla figlia un risarcimento danno superiore agli 800.000,00.

I convenuti soccombenti impugnano la decisione. In appello i giudici dispongono una nuova CTU. La decisione della Corte ribalta l’esito del giudizio di primo grado. La consulenza tecnica afferma infatti che il ritardo psicomotorio della bambina non è riconducibile a una ipossia celebrale verificatasi durante il parto, ma ad una patologia genetica.

Obbligatorio motivare perché si preferisce una delle due CTU

Il genitore della bambina impugna la decisione in sede di Cassazione sollevando 11 motivi di doglianza. Solo l’undicesimo viene accolto con conseguente rinvio alla Corte d’appello territorialmente competente in diversa composizione.

In questo motivo il ricorrente denuncia il vizio di motivazione della sentenza d’appello. La Corte di appello, pur esistendo una CTU precedente e contraria a quella che si è svolta in appello, non ha preso in considerazione le note critiche del difensore. L’esistenza di contestazioni specifiche sulla consulenza avrebbe dovuto indurre il giudice dell’appello a fornire una motivazione reale e non meramente apparente alla sua preferenza per le conclusioni della CTU successiva.

Motivazione apparente

La Cassazione accoglie questo motivo perché risulta in effetti fondato. Gli Ermellini ricordano che in una precedente pronuncia (n. 19372/2021) la stessa aveva precisato che se nel corso di un giudizio di merito vengono eseguite due consulenze tra loro difformi il giudice deve indicare le ragioni per le quale preferisce una delle due.

In particolare, quando intenda uniformarsi alla seconda consulenza, non può limitarsi ad una adesione acritica ma deve giustificare la propria preferenza indicando le ragioni per cui ritiene di disattendere le conclusioni del primo consulente, salvo che queste risultino criticamente esaminate dalla nuova relazione.” 

Nel caso di specie però la Corte ha affermato di ritenere necessaria la rinnovazione della consulenza tecnica di primo grado. La stessa però, nella motivazione, dopo l’illustrazione del contenuto della consulenza del secondo grado di giudizio e delle osservazioni alla stessa si limita ad affermare che:le risultanze della consulenza tecnica collegiale disposta nel presente grado hanno consentito di chiarire e superare quelle che, a parere di questa Corte, erano le criticità ed i dubbi del primo elaborato peritale, e dunque ritenendone di condividere le conclusioni, deve essere integralmente rivista la decisione impugnata che sulle prime aveva fondato il suo convincimento”. 

Tale motivazione è apparente, perché il giudice dell’appello non chiarisce quali erano le criticità del primo elaborato che sono state chiarite con la consulenza di secondo grado. La Corte in sostanza non chiarisce per quali ragioni ritiene di preferire la seconda consulenza rispetto alla prima. Il richiamo generico ai dubbi e alle criticità relative alla prima consulenza non riesce da solo a colmare la lacuna motivazionale.

 

Leggi anche: “Accertamento tecnico preventivo (ATP)”

Allegati