condanna alle spese

Condanna alle spese processuali: non è censurabile in Cassazione La condanna alle spese processuali da parte del giudice di merito rientra nel suo potere discrezionale e non è censurabile in Cassazione

Spese processuali

“La facoltà di disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà”. Ne segue che la pronuncia di condanna alle spese processuali, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione”. E’ quanto affermato dalla prima sezione civile della Cassazione con ordinanza n. 25940/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Ancona aveva respinto la domanda di risarcimento danni all’immagine personale e professionale del ricorrente in conseguenza dell’ingiusto protesto di un assegno. In appello, anche la corte, svolta la premessa in ordine all’attuale abbandono giurisprudenziale della tesi del danno in re ipsa, così che la semplice illegittimità del protesto, pur costituendo un indizio in ordine all’esistenza di un danno alla reputazione, non è di per sé sufficiente per la liquidazione del danno, essendo necessarie la gravità della lesione e la non futilità del danno stesso, da provarsi anche mediante presunzioni semplici, rigettava il gravame.

La questione approdava quindi innanzi alla Cassazione.

Danno alla reputazione per illegittimità del protesto

La Cassazione coglie l’occasione per ribadire che “la semplice illegittimità del protesto, pur costituendo un indizio in ordine all’esistenza di un danno alla reputazione, non è, di per sé sufficiente per la liquidazione del danno, essendo necessarie la gravità della lesione e la non
futilità del danno, da provarsi anche mediante presunzioni semplici, fermo restando inoltre l’onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l’esistenza e l’entità del pregiudizio (v., in senso conforme ai riferimenti dell’impugnata sentenza, Cass. Sez. 3n. 2226-12, Cass. Sez. 6-1 n. 21865-13, Cass. Sez. 1n. 23194-13)”. Si tratta invero, affermano gli Ermellini “di principio del tutto pacifico, peraltro sostenuto da rilievi comuni a distinte fattispecie, sia per le persone fisiche che per le persone giuridiche; principio declinato dal rilievo che ogni pregiudizio arrecato ai diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine e alla reputazione commerciale o professionale, non costituisce
un mero danno-evento, e cioè in re ipsa, ma deve essere oggetto di allegazione e prova, anche tramite presunzioni semplici (cfr. tra le più recenti Cass. Sez. 3 n. 19551-23, Cass. Sez. 3 n. 34026-22, Cass. Sez. 1 n. 11446-17; e v. pure, in altre fattispecie di danno del genere, Cass. Sez. 1 n. 479-23, Cass. Sez. 1 n. 26801-23)”.
Per cui, “l’epilogo indiscusso del percorso giurisprudenziale induce a rifiutare qualsivoglia automatismo valutativo” e l’insistere su un difforme criterio da parte del ricorrente, “senza argomenti idonei a un mutamento di indirizzo – integra la condizione di inammissibilità del mezzo ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ.”.

Condanna alle spese e decisione

Infine, in ordine al governo delle spese, la Corte non ritiene vi sia stata l’asserita violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., essendo, come sopra specificato, nella facoltà del giudice disporre o meno la compensazione tra le parti e la pronuncia di condanna alle spese non è censurabile in Cassazione (v. Cass. Sez. Un. 14989-05, cui adde, ex allis, Cass. Sez. 6-3 n. 11329-19).
Da qui l’inammissibilità del ricorso.

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giurista risponde

Azione di riduzione del prezzo L'acquirente può avvalersi dell'azione di riduzione del prezzo anche nei casi di mancanza di qualità promesse o essenziali?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

L’azione di riduzione del prezzo va considerata esperibile da parte dell’acquirente anche nelle fattispecie contemplate dall’ art. 1497 c.c., relative alla mancanza delle qualità promesse ovvero delle qualità essenziali per l’uso a cui la cosa è destinata (Cass., sez. II, 16 febbraio 2024, n. 4245).

La doglianza dalla quale prende l’avvio la pronuncia oggetto di commento riguarda il motivo di ricorso con il quale l’acquirente denuncia la violazione degli artt. 1490, 1492, 1497 c.c. nonché dell’art. 112 c.p.c. nella misura in cui l’impugnata sentenza, una volta inquadrato il caso di specie nell’ambito dell’art. 1497 c.c. poiché il bene oggetto della compravendita non era idoneo all’uso, ha statuito che l’unico rimedio fosse la risoluzione e quindi disatteso le domande di diminuzione del prezzo e di risarcimento del danno proposte in via principale. La Corte di Appello territorialmente competente, infatti, aveva argomentato nel senso che fosse da confermare la decisione del primo giudice che aveva accolto la sola domanda di risoluzione del contratto. Secondo questa, la natura dei vizi del bene era di ostacolo all’accoglimento delle domande proposte in via principale ex art. 1492 c.c., poiché entrambe presuppongono che il vincolo contrattuale permanga. In presenza di vendita di bene affetto da vizi, l’art. 1492 c.c. consente al compratore di chiedere (ove non esclusa dagli usi per determinati vizi) la risoluzione del contratto oppure la riduzione del prezzo, ma solo ove i vizi accertati risultino contenuti nei limiti di usuale tollerabilità. Ove invece, come nel caso di specie, i vizi si traducano in mancanza delle qualità essenziali, il rimedio deve essere solo la risoluzione del contratto come previsto dall’art. 1497 c.c.

La Cassazione, tuttavia, ritiene che questo orientamento sia in contrasto con la direzione in cui si stanno muovendo dottrina e giurisprudenza maggioritarie. Ad avviso della Suprema Corte, invero, i rapporti tra rimedi in caso di vizi ex art. 1490 c.c. e quelli in caso di mancanza delle qualità promesse o essenziali contenuti nell’art. 1497 c.c., risentono ancora dell’idea secondo la quale la tutela giurisdizionale vincolata a previsioni di rimedi specifici. In conseguenza di ciò, il passaggio da un rimedio all’altro determinerebbe tendenzialmente un mutamento dell’oggetto del processo. Questa lettura appare da superare in favore di una concezione moderna e “sostanzialistica” del diritto di azione che ricostruisca l’azione giudiziaria come atipica. Un diritto processuale che assume per presupposto l’affermazione della titolarità di un diritto sostanziale riconosciuto dall’ordinamento e per finalità la richiesta di un provvedimento giurisdizionale diretto nel suo contenuto a soddisfare il bisogno specifico di tutela. Ma se l’azione deve guardare alla sostanza del diritto fatto valere allora ne discende logicamente l’ammissibilità di ogni meccanismo idoneo a raggiungere tale risultato. Così acquistano cittadinanza domande complesse o gradate o che si configurino quali richieste di provvedimenti non ancora tipizzati legalmente purché rispondenti allo specifico bisogno di tutela fatto valere.

Questo il collegamento col caso concreto all’esame della Seconda sezione. Fin dall’inizio del processo l’acquirente aveva manifestato l’ordine di priorità che riteneva soddisfare il suo bisogno di tutela, ponendo al primo posto l’interesse al mantenimento della proprietà sulla cosa acquisita attraverso lo scambio contrattuale e in posizione subordinata l’interesse ad avviare una vicenda risolutiva. D’altra parte, prosegue la Corte, è proprio l’art. 1497 c.c., il quale si limita a disporre che in mancanza di qualità essenziali sono applicabili le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento, che non esclude logicamente un permanente interesse dell’attore al mantenimento in vita del rapporto contrattuale. Argomentando a contrario, ad avviso della pronuncia, si perverrebbe all’assurda conclusione per cui sarebbe il convenuto a delineare l’ordine dei rimedi.

Sono le formule letterali degli artt. 1490 e 1497 c.c. che, frutto di retaggi culturali passati, vanno calate nel dinamismo delle relazioni economiche e degli interessi ambientati nel clima moderno, liberando le direzioni del diritto sostanziale dagli eccessivi vincoli restrittivi codificati nelle disposizioni di legge. Questa lettura conferma quegli orientamenti giurisprudenziali che argomentano nel senso di ritenere la presenza di vizi e la mancanza di qualità assoggettate alla stessa disciplina.

 

(*Contributo in tema di “Azione di riduzione del prezzo”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Guida sotto effetto di stupefacenti: esame del sangue più affidabile Per provare la guida sotto effetto di stupefacenti l'esame del sangue è un metodo diagnostico più attendibile rispetto a quello delle urine

Guida sotto effetto di stupefacenti

Nella guida sotto effetto di stupefacenti, l’esame del sangue si dimostra prova più attendibile rispetto a quello delle urine. Questo quanto ribadito dalla Cassazione, nella sentenza n. 2020/2025. La decisione si fonda sulla diversa capacità diagnostica dei due metodi, con implicazioni significative per l’accertamento di reati legati alla sicurezza stradale.

La vicenda

La pronuncia della Corte di Cassazione trae origine da un caso concreto in cui un automobilista era stato condannato in appello per il reato di cui all’art. 187 comma 1 codice della strada,  per essersi messo alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti sulla base di esami delle urine ed ematici.

Il ricorso

L’imputato aveva contestato la validità della prova, sostenendo che l’esame rilevasse solo tracce residue di sostanze consumate in passato, senza dimostrare un’effettiva compromissione delle sue capacità di guida al momento del fermo. La Suprema Corte, investita della questione, ha stabilito che, per garantire un accertamento equo e scientificamente fondato, è necessario privilegiare l’esame del sangue.

Esame del sangue e affidabilità temporale

Secondo la Corte, “l’esame del sangue consente di rilevare la presenza di sostanze stupefacenti attive al momento dell’accertamento, fornendo un quadro chiaro della capacità psicofisica del conducente al tempo della guida.”

Questo metodo diagnostico si distingue per la sua precisione temporale, consentendo di verificare se le sostanze presenti abbiano effettivamente compromesso le capacità di guida.

Limiti dell’esame delle urine

Nella sentenza viene evidenziato che l’esame delle urine, “non garantisce la certezza di una correlazione diretta tra l’assunzione di stupefacenti e il momento della guida.” Tale metodo, infatti, può rilevare metaboliti che permangono nell’organismo anche molti giorni dopo il consumo, senza indicare una compromissione attuale delle facoltà del conducente.

La posizione della Cassazione

La Corte ha concluso che “l’esame del sangue deve costituire il principale strumento probatorio nei procedimenti relativi alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, in quanto offre maggiori garanzie di attendibilità rispetto agli esami delle urine.”

Rigettando anche le altre doglianze, la S.C. ha dichiarato pertanto il ricorso infondato e confermato la condanna.

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giurista risponde

Conducente in stato di ebbrezza e risarcimento del terzo passeggero Il passeggero terzo, vittima di un sinistro stradale, ha diritto ad ottenere il risarcimento dell’assicurazione se il conducente dell’auto ha bevuto alcolici?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

L’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità. La colpa non è sempre imputabile in capo a chi, dopo aver accettato di essere trasportato a bordo di un veicolo con una persona ubriaca alla guida, rimane coinvolto in un sinistro stradale di cui la responsabilità è rinvenibile a capo del conducente. È il giudice che deve valutare, caso per caso, l’esistenza e il grado della colpa del trasportato nel causare il sinistro (Cass., sez. III, 17 settembre 2024, n. 24920).

Il caso in oggetto prende le mosse dalle lesioni riportate da un soggetto trasportato a bordo di un autoveicolo. Di tale danno il terzo trasportato chiese il risarcimento al vettore ed al suo assicuratore.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello attribuirono alla vittima un concorso di colpa del 50%, in quanto il terzo trasportato aveva fornito un contributo causale all’avverarsi del da lui stesso sofferto, accettando di essere trasportato a bordo di un veicolo condotto da una persona in evidente stato di ebbrezza.

Il soggetto trasportato ricorre in Cassazione e questa dichiara improcedibile il ricorso.

Tuttavia, la Corte affronta la questione prendendo le mosse dal principio sancito dall’art. 1227 c.c. il quale prevede che, se il comportamento colpevole della vittima ha concorso a causare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. È quindi possibile escludere o ridurre il diritto al risarcimento del danno di persona trasportata su un veicolo condotto in stato di ebrezza.

In quest’ottica la Suprema Corte si occupa della questione concernente la compatibilità tra il diritto comunitario e l’art. 1227, comma 1, c.c. Sul punto, la Corte, nel richiamare la normativa comunitaria in materia, preliminarmente fa riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia 30 giugno 2005, che ha affermato due principi. Secondo il primo, il diritto comunitario, in tema di assicurazione, sarebbe “privato del suo effetto utile” in presenza d’una normativa nazionale che negasse al passeggero il diritto al risarcimento – ovvero lo limitasse in misura sproporzionata – “in base a criteri generali ed astratti”. Per il secondo, il diritto comunitario consente, invece, agli Stati membri di limitare il risarcimento dovuto al trasportato “in base ad una valutazione caso per caso” di circostanze eccezionali. Pertanto, mentre contrasterebbe con l’art. 13 Direttiva 2009/103 una norma di diritto interno che escludesse o limitasse ipso facto il diritto al risarcimento del passeggero, per il solo fatto di avere preso posto a bordo d’un veicolo condotto da persona ubriaca, non viola per contro il diritto comunitario una norma di diritto nazionale che, senza fissare decadenze o esclusioni in linea generale, consente al giudice di valutare caso per caso, secondo le regole della responsabilità civile, se la condotta della vittima possa o meno ritenersi colposamente concorrente alla produzione del danno.

Alla luce di quanto sopra premesso, la Corte enuncia dei principi fondamentali di diritto.

In primo luogo, afferma che l’art. 1227, comma 1, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale e astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente; una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, par. 3, della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitoria spettante al trasportato, qualsiasi disposizione di legge […] che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol.

Spetterà, quindi, al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore. Da ultimo l’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.

 

(*Contributo in tema di “Conducente in stato di ebbrezza e risarcimento del terzo passeggero”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

smart working

Il disabile ha diritto allo smart working Smart working: ne ha diritto l’ipo-vedente che lo ha già svolto durante la pandemia, se il datore non è impossibilitato 

Lavoratore disabile e smart working

Nella sentenza n. 605/2025 la Cassazione si è espressa su un caso di discriminazione nei confronti di un lavoratore disabile in relazione al suo diritto di svolgere il lavoro in modalità smart working. Con questa sentenza, la Corte ha affermato, nello specifico, l’obbligo per i datori di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli” per garantire la parità di trattamento ai dipendenti con disabilità.

Richiesta del disabile di lavorare in smart working

Un dipendente, assunto dal 1997 e inquadrato al quinto livello del contratto collettivo nazionale (CCNL) nel settore Customer Care, chiede di lavorare in smart working. A causa di gravi deficit visivi, raggiungere la sede lavorativa di Napoli è diventato estremamente difficile. L’azienda  però esclude i dipendenti della sua categoria (caring agents) dalle possibilità di lavoro agile, pur avendo adottato un accordo sullo smart working nel 2017.

La Corte di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, accoglie la domanda del lavoratore, ordinando all’azienda di consentirgli di svolgere le sue mansioni da remoto o dalla sede più vicina alla sua abitazione. La decisione si basa sull’obbligo legale di adottare misure ragionevoli per evitare discriminazioni, come previsto dall’articolo 3, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n. 216/2003.

La società datrice però non accetta la decisione e la impugna davanti alla Cassazione, sostenendo:

  • l’assenza di una condotta discriminatoria;
  • la necessità, per lo svolgimento del lavoro agile, di un accordo specifico tra le parti, che nel caso di specie non è stato raggiunto.

Discriminatorio negare il lavoro agile al disabile

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso motiva la sua decisione sulla base di diverse fonti normative nazionali e internazionali.

  • La Direttiva 2000/78/CE stabilisce l’obbligo per i datori di lavoro di adottare soluzioni per garantire la parità di trattamento.
  • La Carta dei Diritti Fondamentali dellUnione Europea sancisce il diritto dei disabili a misure che ne favoriscano l’autonomia
  • La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità riconosce il diritto a condizioni di lavoro eque per le persone con disabilità.

Per gli Ermellini quindi è pienamente condivisibile il ragionamento della Corte di merito. La mancata adozione di accomodamenti ragionevoli rappresenta una forma di discriminazione diretta, vietata dalla legge.

Smart working: obbligo del datore all’accomodamento

I datori di lavoro devono bilanciare gli interessi aziendali con quelli dei dipendenti disabili. È necessario infatti adottare misure che rendano compatibile l’ambiente lavorativo con le esigenze dei dipendenti, a meno che queste non comportino costi eccessivi. Nel caso specifico il lavoratore aveva già svolto le sue mansioni in smart working durante la pandemia. La richiesta del dipendente non richiedeva quindi investimenti finanziari sproporzionati. Il datore avrebbe dovuto accoglierla perché rappresentava un “accomodamento ragionevole”. In corso di causa inoltre l’azienda non aveva dimostrato l’impossibilità di adottare tali misure. La legge, come visto sopra, impone alle aziende di valutare le richieste dei lavoratori disabili e di trovare soluzioni condivise, nel rispetto delle norme antidiscriminatorie. In presenza di lavoratori disabili la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli costituisce una discriminazione diretta. Il lavoro agile non è infatti solo uno strumento di flessibilità organizzativa, ma anche una misura fondamentale per garantire l’inclusione e l’equità nel mondo del lavoro.

 

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negoziazione assistita

Negoziazione assistita: senza domanda per danni improcedibile Negoziazione assistita: obbligatoria nelle cause per il pagamento di somme fino a 50.000 euro, in assenza la domanda è improcedibile

Negoziazione assistita risarcimento danni

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 186-2025 ribadisce l’importanza della negoziazione assistita come passaggio obbligatorio in alcune controversie. Il caso analizzato riguarda una richiesta di risarcimento danni presentata da un conducente contro la Regione Marche per un incidente stradale causato da un cinghiale su una strada provinciale. Dal punto di vista procedurale la richiesta risarcitoria di somme inferiori ai 50.000 richiede il preventivo esperimento della negoziazione assistita. Nel caso si specie però la procedura stragiudiziale non è stata esperita, per questa ragione la domanda giudiziale è stata dichiarata improcedibile.

Richiesta risarcitoria danni materiali

L’iter giudiziario che ha portato la Cassazione alla predetta decisione è stato complesso. In primo grado, il Tribunale di Macerata ha accolto la domanda del danneggiato e condannato la Regione a pagare 7.014 euro. La Regione però ha fatto appello, sostenendo che la domanda fosse improcedibile a causa del mancato esperimento del procedimento di negoziazione assistita. La Corte d’Appello ha accolto questa eccezione, dichiarando quindi improcedibile la domanda originaria.

Negoziazione assistita: condizione di procedibilità

L’articolo 3 del Decreto Legge n. 132/2014 stabilisce in effetti che, per alcune controversie, è obbligatorio tentare la negoziazione assistita prima di ricorrere al giudice. Questo obbligo vale in due casi distinti:

  • per richieste di risarcimento danni da circolazione di veicoli e natanti, senza limiti di valore;
  • per domande di pagamento di somme non superiori a 50.000 euro.

La ratio della norma è di ridurre il carico di lavoro dei tribunali, favorendo soluzioni amichevoli. Il giudice o la parte convenuta, se la negoziazione non viene esperita, possono eccepire l’improcedibilità della domanda entro la prima udienza.

Nel caso specifico, la Regione Marche aveva inizialmente eccepito l’improcedibilità della domanda sostenendo che si trattasse di una richiesta di risarcimento per danni derivanti dalla circolazione di veicoli, ma il Tribunale aveva rigettato l’eccezione. In appello, invece la Regione aveva sollevato un nuovo motivo di improcedibilità, affermando che la richiesta riguardasse la richiesta di pagamento di una somma inferiore a 50.000 euro, altra fattispecie soggetta a negoziazione assistita. La Corte d’Appello aveva accolto la nuova eccezione.

Negazione assistita: rispetto termini per sollevare l’eccezione

La Corte di Cassazione invece ha stabilito che, fermo restando l’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento della negazione assistita nei casi previsti dalla legge, sollevare tale eccezione in appello deve ritenersi inammissibile. Questa eccezione rituale infatti deve essere sollevata in primo grado, ossia entro i limiti temporali previsti dalla legge. La Cassazione ha  evidenziato nella decisione che il giudice d’appello non poteva accogliere una nuova eccezione di improcedibilità sollevata in secondo grado. La sentenza impugnata è stata quindi cassata e la causa è stata rinviata alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, per un nuovo esame.

Dalla decisione emerge l’importanza della negoziazione assistita, condizione di procedibilità della domanda in giudizio nelle richieste risarcitorie e di pagamento sopra evidenziate. Chi intende agire in giudizio deve quindi verificare se il caso rientra tra quelli soggetti alla negoziazione assistita perché il mancato rispetto di questa condizione può rendere la domanda improcedibile. Importante però anche il rispetto rigoroso delle regole procedurali e in particolare dei termini entro cui sollevare l’eccezione di improcedibilità della domanda, condizione che nel caso di specie non è stata rispettata.

 

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appropriazione indebita

Appropriazione indebita trattenere i beni mobili dell’ex marito Appropriazione indebita: scatta il reato per la moglie che deve lasciare l’immobile assegnato e trattiene i beni dell’ex marito

Reato di appropriazione indebita

L’appropriazione indebita scatta nel momento in cui l’assegnatario dell’immobile, obbligato, in sede di divorzio, a lasciare l’abitazione, continua a trattenere i beni altrui. La mancata restituzione dei beni dell’ex coniuge presenti nella casa coniugale assegnata durante la separazione, non costituisce infatti automaticamente reato.

Il possesso dei beni durante la separazione può quindi essere considerato lecito, purché i beni stessi facciano parte del corredo della casa coniugale. Se però sopravviene l’obbligo legale di liberare l’immobile, la volontà di non restituire i beni configura un illecito penale. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 47057/2024.

Reato trattenere i beni mobili dell’ex coniuge

La Corte di Appello di Catania ha confermato una sentenza del Tribunale di Ragusa del 2020. La condanna riguardava un caso di appropriazione indebita da parte di una donna nei confronti dell’ex coniuge. La donna aveva trattenuto beni di pregio appartenenti all’ex marito, che facevano parte dell’arredamento della loro ex casa coniugale.

La ricorrente per opporsi alla condanna si è rivolta alla Corte di Cassazione, sostenendo due punti principali. Ha contestato la tardività della querela presentata dall’ex marito e ha invocato l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale, che esclude la punibilità per reati tra coniugi non separati legalmente. La difesa ha sostenuto anche che l’ex marito era consapevole, già dal 2009, dell’intenzione della donna di non restituire i beni. Inoltre, ha affermato che il presunto reato si sarebbe verificato quando il matrimonio era ancora in vigore, quindi prima del divorzio del 2015.

Inapplicabile l’art. 649 c.p. se la coppia è divorziata

La Corte di Cassazione però ha giudicato il ricorso inammissibile, ritenendo infondate le motivazioni della difesa per diversi motivi.

La proprietà dei beni contestati non era mai stata messa in discussione. Il possesso dei beni però era stato inizialmente attribuito alla donna, in quanto parte dell’arredamento della casa coniugale assegnata a lei durante il divorzio. Il comportamento della donna non ha quindi configurato il reato di appropriazione indebita fino all’estate del 2017.

Nel corso di questo anno però la donna ha asportato i beni dalla casa coniugale e li ha consegnati a un antiquario per la vendita. Questo comportamento è stato ritenuto il primo atto concreto di appropriazione indebita. Di questi fatti l’ex marito è venuto a conoscenza solo nell’agosto 2017, la querela, presentata il 16 agosto 2017, è stata quindi tempestiva.

La Corte ha respinto anche l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale. Il reato è stato commesso in effetti dopo il divorzio, quindi non rientra nei casi di non punibilità previsti dalla norma. Dalla sentenza emerge in conclusione che l’appropriazione indebita di beni mobili rappresenta un reato perseguibile anche tra ex coniugi, soprattutto quando il comportamento illecito avviene dopo la cessazione del vincolo matrimoniale.

 

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cessione sepolcro gentilizio

Cessione sepolcro gentilizio: indebito arricchimento per il terzo Cessione sepolcro gentilizio non consentita, l’accordo inter-vivos è nullo, azione di indebito arricchimento per il terzo

Cessione sepolcro gentilizio

In relazione ai diritti su un sepolcro gentilizio la recente sentenza n. 190/2025 della Corte Suprema di Cassazione, cassando una decisione della Corte d’Appello di Roma, sancisce l’intrasmissibilità sia a titolo oneroso che gratuito degli stessi da parte degli eredi. Ne consegue che, se il terzo, come nel caso di specie, effettua lavori di ristrutturazioni del sepolcro stesso, l’unica azione esperibile, stante la nullità del contratto di vendita, è l’azione di indebito arricchimento.

Contesa sul sepolcro familiare

La vicenda giudiziaria ha inizio quando una vedova conviene in giudizio i cognati presso il Tribunale di Cassino. Essi, dopo la morte del marito, le avevano apparentemente ceduto i diritti di proprietà e uso su un’edicola cimiteriale di famiglia, situata in un piccolo comune laziale. La cessione era stata formalizzata con una scrittura privata. Convinta della validità dell’atto, la donna aveva sostenuto spese per 25.000 euro per la ristrutturazione del sepolcro familiare. Completati i lavori però i fratelli avevano negato la validità della cessione e rivendicato la proprietà del sepolcro come eredi diretti dei genitori. Tale situazione aveva costretto la vedova a seppellire altrove il marito e ad avviare un’azione legale per ottenere il rimborso delle somme spese.

Scrittura privata nulla: indebito arricchimento terzo

Il Tribunale di Cassino, riconosciuta la nullità della scrittura privata per la cessione del sepolcro gentilizio, accoglieva la domanda dell’attrice e condannava i convenuti al pagamento pro-quota della somma richiesta, basandosi sull’azione di indebito arricchimento ai sensi dell’art. 2041 del Codice Civile. Per il Tribunale infatti, considerata la nullità della scrittura privata, l’azione di indebito arricchimento era l’unica praticabile.

Corte d’appello: esperibile l’azione art. 2043 c.c.

La Corte d’Appello di Roma però accoglieva il primo motivo del gravame dei soccombenti di primo grado e condannava la vedova al pagamento delle spese legali dei due gradi di giudizio. La vedova a questo punto ricorreva in Cassazione contestando la decisione del giudice dell’impugnazione.

Diritti sepolcro gentilizio: intrasmissibilità

La Suprema Corte nell’accogliere il ricorso, sottolinea due principi fondamentali:

  • nel caso di un sepolcro gentilizio o familiare, i diritti sullo stesso non possono essere trasmessi tramite atti inter vivos. Essi derivano iure sanguinis, cioè dal legame di sangue con il fondatore, e non iure successionis;
  • la nullità della scrittura privata determinata dalla intrasmissibilità inter vivos del sepolcro familiare elimina il titolo contrattuale, rendendo inapplicabili azioni basate su rapporti contrattuali o di comunione. L’azione di indebito arricchimento rappresenta l’unica strada percorribile.

La Corte cassa quindi la sentenza della Corte d’Appello di Roma, rinviando il caso per un nuovo esame in base ai principi stabiliti.

Dalla vicenda emerge l’importanza di rispettare i vincoli giuridici legati ai diritti sul sepolcro gentilizio. La sentenza della Cassazione rafforza il principio di intrasmissibilità di tali diritti, assicurando che essi rimangano legati alla sfera familiare come originariamente concepiti dal fondatore.

 

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giurista risponde

Amministrazione di sostegno: le valutazioni del giudice Quali parametri e presupposti devono orientare il giudice nel disporre l’apertura di un’amministrazione di sostegno?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

L’istituto dell’amministrazione di sostegno è uno strumento volto a proteggere, senza mortificarla, la persona affetta da una disabilità fisica o psichica tale da renderla inadeguata a provvedere ai suoi interessi. La misura deve essere modellata dal giudice tutelare in relazione allo stato personale e alle circostanze di vita di ciascun beneficiario e in vista del concreto e massimo sviluppo delle sue effettive abilità. Il giudice deve valutare non solo l’an della misura, ma anche il quid ed il quomodo dovendosi privilegiare il rispetto del diritto fondamentale della persona di autodeterminarsi nelle scelte di vita e personali, anche quando non approvate dal contesto familiare e sociale, purché da queste scelte non ne derivi un concreto pregiudizio per la persona stessa (Cass., sez. I, ord. 10 settembre 2024, n. 24251).

L’ordinanza in esame discende da un reclamo avverso il decreto con il quale il giudice tutelare aveva aperto un’amministrazione di sostegno in favore di un soggetto su istanza presentata dai servizi sociali territoriali.

Il ricorrente aveva espresso forte opposizione alle limitazioni conseguenti alla misura di protezione, sostenendo di essere in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi sanitari e patrimoniali, contestando i fatti allegati a sostegno del ricorso.

Il Tribunale confermava il decreto impugnato, tranne che per quanto concerne il consenso ai trattamenti sanitari, che configurava in termini di mera assistenza, sul rilievo che l’amministrato ha una menomazione fisica e psichica e percepisce un’indennità di accompagnamento; pur se è in grado di ben esprimere i suoi desideri e la sua volontà, necessita di una misura di protezione con particolare riguardo agli aspetti di “straordinaria amministrazione”, in quanto dai suoi estratti conto è emerso un frequente ricorso al credito e spese rilevanti in locali di giochi e scommesse.

Avverso il menzionato provvedimento è stato proposto ricorso per Cassazione con cui l’istante lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la erronea e falsa applicazione dell’art. 404 c.c. e dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

La decisione del Tribunale si porrebbe in violazione del principio di autodeterminazione dell’individuo, per avere confermato l’amministrazione di sostegno nonostante il convinto, fermo e deciso parere contrario del ricorrente e, per avere di fatto illegittimamente trasformato la misura di mera assistenza e sussidiarietà, prevista dal legislatore, in una misura altamente afflittiva, che prevede la quasi totale sostituzione del beneficiario.

Deduce che le limitazioni previste alla sua libertà di autodeterminazione mal si conciliano con il riconoscimento della sua piena capacità, tra le quali la gestione ordinaria del patrimonio mobiliare e immobiliare, il ricevere notifiche di atti, ritirare ogni genere di corrispondenza, la partecipazione alle assemblee di condominio, la rappresentanza in eventuali procedimenti giudiziari, la gestione ordinaria dei rapporti pensionistici, la chiusura di conti correnti, libretti e depositi postali e l’effettuare i pagamenti necessari alle esigenze del beneficiario, salvo che per le piccolissime spese della quotidianità etc.

Il giudice di merito, nonostante avesse riconosciuto la necessità dell’applicazione dell’amministrazione di sostegno per i soli aspetti di straordinaria amministrazione, ha di fatto, secondo il ricorrente, illegittimamente confermato le ingerenze e limitazioni nella gestione patrimoniale ordinaria.

La Suprema corte, in accoglimento del ricorso, ribadisce che l’istituto della amministrazione di sostegno è uno strumento volto a proteggere, senza mortificarla, la persona affetta da una disabilità fisica o psichica tale da renderla inadeguata a provvedere ai suoi interessi; la misura è caratterizzata da un alto grado di flessibilità e la legge chiama il giudice all’impegnativo compito di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, così da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile con il minor sacrificio della sua capacità di autodeterminazione. (Cass., Sez. Un., 30 luglio 2021, n. 21985; Corte cost. 10 maggio 2019, n. 114; Cass. 4 marzo 2020, n. 6079).

L’accertamento della ricorrenza dei presupposti per l’apertura di tale misura, in linea con le indicazioni contenute nell’art. 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle persone con disabilità, deve essere compiuto in maniera specifica e circostanziata sia rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario, la cui volontà contraria, ove provenga da persona lucida, non può non essere tenuta in considerazione dal giudice, sia rispetto all’incidenza della stesse sulla sua capacità di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali, verificando la possibilità, in concreto, che tali esigenze possano essere attuate anche con strumenti diversi come, ad esempio, avvalendosi, in tutto o in parte, di un sistema di deleghe o di un’adeguata rete familiare. (Cass. 11 luglio 2022, n. 21887).

Da ciò discende che il provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno, nella parte in cui estende al beneficiario limitazioni previste per l’interdetto e l’inabilitato, deve essere sorretto da una specifica motivazione che giustifichi la ragione per la quale si limita la sfera di autodeterminazione del soggetto e della misura in cui la si limita e le decisioni che non rispettano i desiderata del beneficiario devono fondarsi non solo sulla rigorosa valutazione che egli non sia capace di adeguatamente gestire i propri interessi e di assumere decisioni adeguatamente protettive, ma anche sulla preventiva valutazione della possibilità di ricorrere a strumenti alternativi di supporto e non limitativi della capacità, in modo da proteggere gli interessi della persona senza mortificarla, preservandone la dignità, e solo ove questo non sia possibile, può farsi luogo alle compressione della capacità.

In questi termini si apprezza la compatibilità della misura con il sistema costituzionale.

Deciso l’an della misura non possono conseguire automatismi e non possono adottarsi provvedimenti stereotipati ovvero usare moduli standardizzati, poiché dalla apertura dell’amministrazione non discende, quale effetto legale, che la persona debba essere assistita o sostituita in tutte le attività giuridicamente rilevanti, ma solo in quegli ambiti in cui il giudice ha rilevato specifiche criticità e deficit di competenze decisorie e gestorie che possono causare un serio pregiudizio alla persona.

Le caratteristiche dell’istituto impongono, pertanto, che siano perimetrati i poteri gestori dell’amministratore in termini direttamente proporzionati alle esigenze rilevate, alle condizioni di menomazione del beneficiario ed all’incidenza di tali condizioni sulla capacità del medesimo di provvedere ai propri interessi, di modo che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona.

Si deve, inoltre, osservare che l’art. 410 c.c. impone all’amministratore di sostegno di informare il beneficiario circa gli atti da compiere e, in caso di dissenso, il giudice tutelare, dimostra come, in ogni caso, l’opinione del beneficiario debba essere tenuta in considerazione, pur se ne venga limitata la capacità.

Limitare la capacità nella minor misura possibile significa, dunque, non soltanto selezionare specificamente gli atti che il beneficiario non può compiere o non può compiere da solo, ma altresì preservare, anche con riferimento a questi atti, il diritto del beneficiario di esprimere la propria opinione e di partecipare, nella misura in cui lo consenta la sua condizione, alla formazione delle decisioni che lo riguardano.

Nel provvedimento di apertura della amministrazione deve esistere una ragionata corrispondenza tra i deficit rilevati, le risorse della persona interessata e della sua famiglia, e i poteri attribuiti all’amministratore devono essere conferiti nell’ottica di perseguire il miglior interesse della persona, senza comprimerne inutilmente la libertà.

Dei principi esposti i giudici di merito non hanno fatto buon governo, mancando nell’ordinanza impugnata la valutazione e motivazione della proporzionalità delle limitazioni imposte al beneficiario che sono particolarmente incisive e penetranti.

Ne consegue, in accoglimento del ricorso, la cassazione del provvedimento impugnato ed il rinvio al Tribunale territoriale, in diversa composizione, per nuovo esame.

 

(*Contributo in tema di “Amministrazione di sostegno”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

pagamento contributo unificato

Pagamento contributo unificato: la Cassazione chiede lumi Con una nota la presidente Margherita Cassano chiede al ministero della Giustizia chiarimenti sul mancato o parziale pagamento del contributo unificato

La nota della Cassazione

Mancato pagamento contributo unificato: a chiedere lumi al ministero della Giustizia sulla novità introdotta dalla legge di bilancio 2025 è la stessa Cassazione, con una nota dell’8 gennaio 2025, a firma della prima presidente, Margherita Cassano.

Le modifiche della legge di bilancio 2025

Si ricorda che la legge di bilancio ha apportato importanti novità al processo civile.

In particolare, all’art. 14 del Testo Unico sulle Spese di Giustizia (DPR n. 115/2002), è stato aggiunto il comma 3.1, che stabilisce: “Fermi i casi di esenzione previsti dalla legge, nei procedimenti civili la causa non può essere iscritta a ruolo se non è versato l’importo determinato ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera a), o il minor contributo dovuto per legge”.

La circolare di via Arenula

Nella circolare del Dipartimento per gli Affari di Giustizia (DAG) di via Arenula del 30 dicembre 2024, viene stabilito che il personale di cancelleria non potrà procedere all’iscrizione a ruolo di una causa civile nei seguenti casi: a) nelle ipotesi in cui il contributo unificato dovuto sia pari o inferiore a 43 euro, non venga versato integralmente l’importo effettivamente dovuto a titolo di contributo unificato; b) nelle ipotesi in cui l’importo dovuto del contributo unificato sia superiore a 43 euro, la parte che chiede l’iscrizione della causa non versi almeno l’importo di euro 43.

Leggi in merito Contributo unificato: cosa cambia dal 2025

I dubbi della Cassazione

Alla luce della novella normativa, la Cassazione evidenzia, dunque, la necessità di ricevere chiarimenti sulle modalità applicative per quel che attiene ai servizi di cancelleria, ferma restando la competenza giurisdizionale in ordine all’interpretazione della norma in esame.

Rifiuto immediato o sospensione temporanea

In particolare, nella nota vengono formulati i seguenti quesiti: se l’enunciato ‘la causa non può essere iscritta a ruolo’ laddove non venga corrisposto il contributo unificato anche nel minor importo, stia a significare “che il riscontro del mancato pagamento consenta di mantenere sospesa l’iscrizione stessa” sino all’avvenuto pagamento “oppure comporti il rifiuto, da parte della cancelleria, dell’iscrizione della causa (nel giudizio di legittimità del ricorso)”.

Nella prima ipotesi (sospensione dell’iscrizione), se sia possibile “configurare un termine entro il quale l’avvocato debba comunque provvedere a dare riscontro del pagamento del contributo unificato, tenendo conto, per un verso, che il deposito dell’atto si ha solo in caso di accettazione dell’atto/ricorso, e, per altro verso, dei termini di legge per la produzione, in sede di legittimità, di atti e documenti di cui agli artt. 369 e 372 c.p.c.”.

Problemi tecnici nella gestione dei pagamenti

Un ulteriore chiarimento richiesto riguarda le difficoltà operative legate alla mancanza di un applicativo adeguato per verificare in tempo reale il pagamento del contributo unificato.

In particolare, chiede la Cassano, “come debba procedere la cancelleria in attuale assenza di idonea applicazione informatica che consenta di intercettare direttamente, al momento dell’accettazione del ricorso, il deposito della distinta di avvenuto pagamento del contributo unificato anche là dove non prodotta dall’avvocato sotto corretta nomenclatura identificativa”.

Nell’attesa, conclude la nota, “si confida nel consueto spirito di collaborazione nell’interesse del servizio giustizia”. 

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