particolare tenuità del fatto

Particolare tenuità del fatto: la guida Particolare tenuità del fatto: istituto che esclude la punibilità per esiguità del danno, del pericolo o per la condotta del soggetto agente

Particolare tenuità del fatto: cos’è

La “particolare tenuità del fatto” contemplata dall’articolo 131-bis del Codice Penale rappresenta una novità significativa nell’ordinamento giuridico italiano. La norma ha infatti introdotto questo concetto come causa di esclusione della punibilità in determinati casi.

Ratio dell’istituto

Questo istituto, introdotto con  dal Dlgs n. 28/2015 e modificato dal Dlgs n. 150/2022, si pone l’obiettivo di evitare che il sistema penale si sovraccarichi di procedimenti per reati di lieve entità, riservando le risorse giuridiche ai reati più gravi. Questo principio consente di applicare una giustizia più equa, adattando la risposta penale alla reale pericolosità sociale del fatto.

Inoltre, la tenuità del fatto può rappresentare una forma di risoluzione più rapida ed efficace per i casi in cui il danno causato è irrilevante, contribuendo a ridurre il carico sulle corti e a focalizzare l’attenzione su reati di maggiore allarme sociale.

Analisi dell’art. 131-bis c.p

L’articolo 131-bis del Codice Penale stabilisce che quando il fatto non è di particolare gravità, il giudice può escludere la punibilità dell’imputato. La valutazione della tenuità del fatto si basa su criteri oggettivi, come la scarsa entità del danno o del pericolo causato, e criteri soggettivi, come la personalità dell’imputato e il comportamento successivo al reato.

Valutazione della tenuità del fatto

L’articolo 131-bis indica quindi due fattori fondamentali nella valutazione della tenuità:

  • la modesta entità del danno o del pericolo derivante dal reato;
  • la personalità dellimputato, con riferimento alla sua condotta e alle circostanze in cui è avvenuto il fatto.

Questi criteri consentono al giudice di valutare se il fatto possa essere considerato di scarsa gravità, escludendo la necessità di una punizione penale, ma lasciando la strada aperta alla possibilità di applicare misure alternative come la sanzione pecuniaria o altre forme di risarcimento.

Valutazione della non tenuità del fatto

L’offesa non può essere considerata invece di particolare tenuità quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, con crudeltà, anche verso animali, oppure usando sevizie o approfittando della condizione di minorata difesa della vittima, ad esempio a causa dell’età e quando dalla condotta sono derivate, anche non volute, la morte o lesioni gravissime a una persona.

L’offesa non è di particolare tenuità anche in presenza di reati

  • puniti con una pena massima superiore a due anni e sei mesi di reclusione, se commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive;
  • commessi contro pubblici ufficiali o agenti di pubblica sicurezza e polizia giudiziaria nell’esercizio delle loro funzioni, come previsti dagli articoli 336, 337, 341-bis e 343;
  • di particolare gravità, consumati o tentati, previsti dagli articoli indicati (es. corruzione, omicidio, violenze sessuali, lesioni aggravate, stalking, rapina aggravata, riciclaggio);
  • previsti in ambiti specifici, come interruzione illegale di gravidanza (art. 19, comma 5, della legge n. 194/1978), traffico di stupefacenti (art. 73 del DPR n. 309/1990, escluse alcune ipotesi minori), reati in materia finanziaria (articoli 184 e 185 del D.Lgs. n. 58/1998);
  • legati alla violazione del diritto d’autore, salvo quelli meno gravi di cui all’ 171 della legge n. 633/1941.

Particolare tenuità del fatto: giurisprudenza Cassazione

La Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni sull’applicazione dell’articolo 131-bis, fornendo importanti chiarimenti interpretativi.

Gli Ermellini, in diverse sentenze, hanno ribadito che la tenuità del fatto deve essere valutata in modo rigoroso, tenendo conto non solo della gravità oggettiva del reato, ma anche del contesto complessivo in cui si è svolto il fatto.

In una sentenza del 2018 (Cass. Pen. n. 21060), la Corte ha sottolineato che l’applicazione dell’articolo 131-bis richiede una valutazione complessiva, che prenda in considerazione non solo l’entità del danno, ma anche la condotta successiva dellimputato, la sua sincerità e il suo atteggiamento di responsabilizzazione.

In un altro caso (Cass. Pen. n. 30247/2017), la Corte ha evidenziato che non è sufficiente un mero danno economico modesto per escludere la punibilità, ma bisogna anche considerare l’effettivo pericolo creato dall’illecito penale.

 

Leggi anche: Particolare tenuità del fatto per la prima volta in Cassazione

giurista risponde

Tasso di interesse usurario nel finanziamento tra privati Secondo quali parametri il giudice deve qualificare le operazioni di finanziamento intercorrenti tra privati ai fini della valutazione del tasso di interesse come usurario?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

Il giudice del merito deve rinvenire i profili di omogeneità tra le categorie individuate dai decreti ministeriali e il rapporto in causa, rispetto ai quali assumono rilievo soprattutto: la natura del prestito, ossia se si tratta di un negozio tra privati, non tra professionisti quali banche o intermediari non bancari, rispetto al quale dovrebbe essere chiarita l’eventuale funzione di scopo del finanziamento tale da integrare la struttura tipica del negozio, ampliandone la causa, nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali (Cass., sez. II, 5 settembre 2024, n. 23866).

 Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla qualificazione giuridica di un contratto di finanziamento al fine di valutare se gli interessi applicati allo stesso fossero o meno usurari.

In primo grado il Giudice qualificava il contratto intercorrente tra le parti come operazione di mutuo, sulla base delle categorie individuate dal Ministero del Tesoro per l’individuazione del tasso-soglia, ritenendo pertanto come usurario il tasso del 10% applicato.

Il Giudice d’appello, viceversa, riteneva valida la clausola di previsione degli interessi convenzionali contenuta all’interno della scrittura privata intercorrente tra le parti; in particolare, il rapporto dedotto in giudizio veniva qualificato come “altro finanziamento a breve, medio/lungo termine”, sulla base dell’assunto che le operazioni di finanziamento chirografario non possono essere qualificate come mutui.

Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea qualificazione della scrittura privata nella categoria “altri finanziamenti” anziché in quella dei contratti di mutuo, con conseguente applicazione di un diverso tasso di riferimento per la determinazione dell’usura.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, delinea i criteri sulla base dei quali deve essere effettuata l’operazione di qualificazione del contratto di finanziamento oggetto di causa. In particolare, in caso di dubbio circa la riconducibilità di un’operazione finanziaria all’una o all’altra delle categorie, identificate con Decreto Ministeriale cui si riferisce la rilevazione dei tassi globali medi, l’interprete deve procedere ad individuare i profili di omogeneità che l’operazione stessa presenti rispetto alle diverse tipologie ivi contemplate, attribuendo rilievo, a tal fine, ai richiamati parametri normativi individuati dall’art. 2, comma 2, L. 108/1996, apprezzando, in particolare, quelli, tra essi, che, sul piano logico, meglio giustifichino l’inclusione del prestito preso in esame in questa o in quella classe di operazioni. Pertanto, i parametri da valorizzare sono la natura del prestito nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali.

Per tali ragioni, la Corte di cassazione ha ritenuto di accogliere il motivo proposto e di rinviare il giudizio rinviato alla medesima Corte d’Appello che, in applicazione dei principi sopra riportati, provvederà alla corretta qualificazione del rapporto negoziale di cui è causa ai fini dell’individuazione del tasso-soglia di riferimento.

Contributo in tema di “Tasso di interesse usurario nelle operazioni di finanziamento tra privati”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

affidamento figli

Affidamento figli: multa per la madre che ostacola il rapporto col padre Nell'affidamento dei figli se la madre tiene una condotta finalizzata a ostacolar il rapporto padre-figlio va sanzionata

Affidamento figli: madre sanzionabile art. 709 ter c.p.c.

Nel procedimenti per l’affidamento dei figli, va sanzionata la madre che tiene una condotta ostruzionistica e ostile solo per tenere lontano il figlio dal padre.

Lo ha stabilito la Cassazione nell’ordinanza n. 29690/2024, chiarendo il contenuto e l’applicazione degli articoli art. 709 ter c.p.c (confluito dopo la riforma Cartabia nell’art.  473-bis.39) e 614 bis c.p.c.

Ripristino della responsabilità genitoriale materna

Una madre presenta ricorso contro una decisione che ha decretato la sua decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti del figlio. Il provvedimento ha anche previsto  il collocamento del minore in una casa famiglia e la sospensione temporanea dei rapporti madre-figlio. I giudici del rinvio, dopo aver ascoltato il minore e condotto una nuova consulenza psicologica d’ufficio, hanno ristabilito la responsabilità genitoriale della donna limitatamente alla gestione ordinaria. Il minore è stato quindi collocato presso l’abitazione materna, ma sotto la supervisione dei servizi sociali per monitorarne lo sviluppo psicofisico.

Garantire la bigenitorialità nell’affidamento dei minori

Per l’autorità giudiziaria competente è fondamentale rispettare il principio di bigenitorialità per assicurare al minore una vita affettiva equilibrata con entrambe le figure genitoriali. Nel caso in questione, la constatazione di una violazione del diritto paterno alla genitorialità non implica automaticamente la revoca della responsabilità genitoriale della madre. Tuttavia, non si possono ignorare i risultati delle perizie e le dichiarazioni del minore. Il ragazzo, ormai tredicenne, percepisce separatamente la madre, che lotta contro le istituzioni per proteggerlo, e il padre, vissuto come un avversario che vuole allontanarlo dalla mamma. In questa situazione, il giovane appare ostile a qualsiasi intervento istituzionale e considera il padre un persecutore. Risulta quindi utile intraprendere un percorso terapeutico per aiutare il ragazzo a elaborare il dolore accumulato negli anni piuttosto che recuperare immediatamente il rapporto con il padre. Quest’ultimo deve avere pazienza e lavorare per ricostruire una relazione con il figlio nella speranza che col tempo questi comprenda gli sforzi compiuti.

Le autorità hanno preso le misure necessarie nei confronti della madre per prevenire ulteriori possibili danni al minore. L’affidamento ai servizi sociali è motivato invece dalla condotta ostruzionistica della donna verso tutte le decisioni adottate dal Tribunale dei minorenni e dalla sua incapacità di gestire adeguatamente la propria responsabilità genitoriale. La madre è stata infatti esortata a comprendere i danni causati dalla triangolazione emotiva cui è stato sottoposto il figlio e a incoraggiarlo a intraprendere un percorso psicoterapeutico per migliorare il suo benessere psicologico.

Condotta ostruzionistica della madre: sanzioni applicabili

Il padre ha contestato la decisione in Cassazione. La Corte d’appello non si è espressa sul suo diritto di visita e ha ignorato numerose violazioni dei diritti del minore. L’uomo  critica l’uso dei risultati dell’ascolto del figlio perché avvenuto sotto costrizione psicologica e si oppone al collocamento presso la madre a causa della sua personalità deviante. Inoltre, sostiene che la Corte non abbia, tra le altre cose, adottato misure sanzionatorie nei confronti della madre secondo quanto previsto dall’articolo 709 ter c.p.c., come una multa amministrativa pecuniaria.

Affidamento minori: sanzioni ex art. 709 ter c.p.c.

Secondo la Cassazione, se i primi cinque motivi del ricorso paterno sono infondati, non si può dire lo stesso riguardo alla richiesta di sanzioni applicabili alla madre a causa del suo comportamento. La Cassazione sottolinea che il motivo sollevato dal padre riguarda l’omessa applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 709 ter del codice di procedura civile (ora sostituito dall’articolo 473-bis.39 c.p.c.) e dell’articolo 614 bis c.p.c.

La Corte ricorda che l’articolo 709 ter c.p.c. prevedeva misure punitive per i genitori che ostacolavano gravemente l’affidamento o arrecavano danno al minore, tra cui:

  • ammonizione del genitore inadempiente;
  • risarcimento dei danni a favore del minore o dell’altro genitore;
  • sanzione pecuniaria da 75 a 5.000 euro.

Con la riforma del 2022, queste disposizioni sono state trasferite all’articolo 473-bis.39 c.p.c., ampliandone l’efficacia. L’articolo 614 bis c.p.c. invece consente al giudice di stabilire somme crescenti per ogni giorno di violazione con scopo coercitivo e preventivo (astreintes).

Nel caso specifico, il padre lamenta di come gli atteggiamenti ostativi della madre abbiano impedito rapporti tra lui e suo figlio. Sebbene la Corte d’Appello abbia riconosciuto il comportamento ostile della madre non ha però applicato né le sanzioni previste dal già citato art. 709 ter né quelle coercitive indirette dell’articolo 614 bis c.p.c.

Il padre aveva infatti richiesto sia sanzioni per impedimenti già avvenuti che per prevenirne di futuri. Secondo l’articolo 709 ter c.p.c., infatti:

  • il giudice può intervenire d’ufficio modificando provvedimenti vigenti;
  • sanzionando violazioni già accadute.

Tuttavia le astreintes dell’articolo 614bis c.p.c si applicano solo su istanza di parte in specifiche situazioni, ma nel presente giudizio tale richiesta non è stata valutata data l’assenza di sufficiente contestazione nel ricorso.

 

Leggi anche: Affidamento condiviso

Allegati

correzione errore materiale

Correzione errore materiale: nessuna condanna alle spese Correzione errore materiale: la natura amministrativa del procedimento non realizza una soccombenza con relativa condanna alle spese

Correzione errore materiale e condanna spese

Non si può disporre alcuna condanna alle spese al termine di un procedimento volto alla correzione dell’errore materiale presente in una sentenza. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite civili nella sentenza n. 29432/2024. Questo procedimento ha infatti una natura amministrativa, per cui non si può parlare di “soccombenza”; nemmeno quando l’altra parte, partecipa al procedimento e si oppone alla correzione.

Correzione errore materiale: condanna per il soccombente

La vicenda ha inizio perché un soggetto si rivolge al Tribunale per chiedere la correzione di una sentenza ai sensi dell’art. 287 c.p.c. Controparte si oppone all’istanza ritenendo inesistente l’errore lamentato. Il Tribunale dichiara inammissibile l’istanza di correzione presentata dal ricorrente e lo condanna alle spese.

Per il Tribunale quanto dedotto configura un error in iudicando e non un errore materiale. L’istante viene quindi condannato a rimborsare alla controparte le spese del procedimento perché se la parte non ricorrente si costituisce e resiste all’istanza di correzione, al termine del procedimento si realizza una situazione di “soccombenza”.

Natura amministrativa correzione errore materiale

Nell’unico motivo sollevato il ricorrente sostiene la natura non giurisdizionale, ma amministrativa del procedimento di correzione, che si conclude con un provvedimento ordinatorio. La natura del procedimento rende inapplicabile la regola della condanna alle spese a carico del soccombente, situazione che si potrebbe realizzare solo in un procedimento giurisdizionale.

Natura giurisdizionale o amministrativa?

La Cassazione spiega che, secondo una visione minoritaria, pur rimanendo l’inammissibilità di una decisione sulle spese in caso di istanza congiunta o non contestata, è necessario pronunciarla nel caso sorga un contrasto riguardo all’ammissibilità o alla fondatezza dell’istanza di correzione.

A questa interpretazione fa riferimento l’ordinanza di rinvio che alle SU pone il seguente quesito giuridico:se, in tema di procedimento per la correzione di errori materiali, qualora la parte non ricorrente si costituisca e resista allistanza di correzione, contrapponendo il proprio interesse a quello della parte ricorrente, si configuri una situazione di soccombenza che obbliga il giudice a decidere sulle spese processuali ai sensi dellart. 91 cod. proc. civ.”

Secondo il Collegio rimettente né la struttura camerale né la funzione volontaria del procedimento sono incompatibili con un reale contrasto tra le parti (per cui) nel momento in cui tale contrasto si verifica tramite la costituzione della parte non ricorrente e la sua opposizione allistanza di correzione, esso deve essere risolto rispettando il principio del contraddittorio, anche in merito alla regolamentazione delle spese processuali”.

Natura amministrativa procedimento: nessuna soccombenza

Per le Sezioni Unite però le “peculiarità dello stesso (procedimento di correzione) impediscono ogni assimilazione non solo ai procedimenti contenziosi ma anche a quelli di volontaria giurisdizione”.

Il procedimento per correggere errori materiali, anche quando viene avviato da una sola parte, non comporta l’affermazione di un diritto verso l’altra parte o altre parti e non sostituisce quanto stabilito nel provvedimento corretto. La funzione di questa procedura è solo quella di ripristinare la corrispondenza tra l’espressione formale e il contenuto sostanziale del provvedimento già emesso”.

Si tratta solo di correggere errori presenti nella redazione del documento evidenti a prima vista.

In questo senso, la Corte ritiene che sia possibile concordare sulla natura essenzialmente amministrativa del provvedimento conclusivo questo procedimento.

Del resto il giudice, in sede di procedimento di correzione dell’errore materiale, non esercita potestas iudicandi. Di questa  si libera quando emette il provvedimento che risulta poi da correggere. Non occorre neppure una nuova procura perché di fatto non si apre una nuova fase processuale. Si verifica infatti solo un incidente nello stesso giudizio, pienamente compatibile col giudicato.

Per la Cassazione deve essere pertanto enunciato questo principio:Nel procedimento per correggere errori materiali ai sensi degli artt. 287-288 e 391-bis cod. proc. civ., essendo essenzialmente amministrativo e non volto a incidere in caso di conflitto tra le parti sull’assetto d’interessi regolato dal provvedimento da correggere, non si può procedere alla liquidazione delle spese perché non è configurabile alcuna situazione di soccombenza ai sensi dellart. 91 cod. proc. civ., neppure se chi non richiede opponendosi allistanza”.

Con questa sentenza le Sezioni Unite hanno unificato così l’orientamento giurisprudenziale su questa materia, superando le divergenze interpretative precedenti.

 

Leggi anche: Correzione errore materiale

Allegati

notaio non versa le tasse

Notaio non versa le tasse: rispondono anche le parti Se il notaio non versa le tasse della compravendita immobiliare perché si appropria del denaro, i contraenti restano comunque responsabili 

Pagamento tasse rogito: responsabilità contraenti

In relazione a un atto di compravendita immobiliare se il notaio non versa le tasse previste perché se ne appropria, i contraenti restano responsabili. La registrazione telematica degli atti effettuata dal notaio non lo rende soggetto unico responsabile del versamento delle imposte previste. Lo ha ribadito la Cassazione nell’ordinanza n. 26800/2024.

L’Agenzia chiede i soldi alla contraente

Una s.r.l a socio unico presenta ricorso per Cassazione contro una sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, che ha respinto l’appello della società, confermando la decisione di rigetto dell’impugnazione contro l’avviso di liquidazione emesso dall’Agenzia delle Entrate. Quest’ultima ha infatti richiesto il pagamento dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale in relazione a un atto di compravendita immobiliare. La s.r.l però sostiene di aver già versato l’intero importo al notaio incaricato, che però si è appropriato indebitamente delle somme senza trasferirle all’erario.

Notaio non versa le tasse: unico responsabile?

Nell’unico motivo di ricorso che la s.r.l presenta in Cassazione lamenta la violazione dell’art. 57 del d.P.R. n. 131 del 1986, in combinato disposto con l’art. 3-bis del d.lgs. n. 463 del 1987 e degli artt. 3 e 53 della Costituzione italiana.

Per la società  il giudice d’appello ha erroneamente attribuito una responsabilità solidale alla contribuente, nonostante il comportamento illecito del notaio, che ha trattenuto indebitamente le somme destinate al pagamento delle imposte. La società sostiene inoltre che, con l’introduzione della registrazione telematica degli atti immobiliari, il notaio diventa l’unico responsabile del versamento dell’imposta, poiché le parti contraenti forniscono la provvista necessaria al notaio stesso. La consegna delle somme al notaio dovrebbe quindi liberare il contribuente dall’obbligo tributario, ai sensi dell’art. 1188 del codice civile.

Il contribuente rischia di pagare due volte

La società evidenzia inoltre una presunta disparità di trattamento. Il contribuente, infatti, rischia di dover pagare nuovamente l’imposta in caso di appropriazione indebita da parte del notaio. Quest’ultimo invece beneficia di garanzie sia preventive (deposito delle somme prima del rogito) sia successive (privilegio speciale sugli immobili).

La stessa infine rileva come l’applicazione dell’art. 57 del d.P.R. n. 131 del 1986 rappresenterebbe una violazione dell’art. 53 della Costituzione, imponendo un onere economico al contribuente senza una sua colpevolezza manifesta e senza espressione di capacità contributiva.

Notaio solidalmente responsabile

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso della società confermando che, anche quando si utilizza la registrazione telematica dell’atto tramite il modello unico informatico (M.U.I.), il notaio rimane solidalmente responsabile per il pagamento delle imposte.

Questa modalità di registrazione non modifica però la responsabilità solidale prevista dall’art. 57 del d.P.R. n. 131 del 1986, che coinvolge le parti contraenti dell’atto.

La responsabilità del notaio è una garanzia per l’amministrazione finanziaria, ma non esclude che il presupposto impositivo riguardi le parti contraenti. Il fatto che il notaio possa appropriarsi indebitamente delle somme non altera il vincolo di solidarietà tra le parti, che resta intatto in base alla normativa vigente. Pertanto, il contribuente è comunque tenuto al pagamento, poiché il rapporto fiduciario tra le parti e il notaio non influisce sulla responsabilità fiscale solidale.

Sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla ricorrente, la Cassazione precisa infine che l’art. 57 del d.P.R. n. 131 del 1986 non viola i principi di uguaglianza (art. 3 Costituzione) e di capacità contributiva (art. 53 Costituzione). Il notaio, nel ricevere le somme, agisce in virtù di un rapporto fiduciario e non come esattore dello Stato. Eventuali illeciti del notaio non possono essere imputati alla normativa sulla solidarietà fiscale, che resta valida.

 

Leggi anche gli altri interessanti articoli dedicati alle professioni 

Allegati

giurista risponde

Dolo alternativo e delitto tentato La figura del dolo diretto nella forma di dolo alternativo è compatibile con il delitto tentato?

Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini

 

L’analisi relativa alla ricorrenza del dolo nel tentato omicidio non deve necessariamente approdare alla ricostruzione di un dolo specifico di tipo intenzionale, posto che il tentativo punibile è tale anche in presenza di dolo diretto di tipo alternativo, ferma restando la ritenuta incompatibilità tra tentativo punibile e dolo eventuale (Cass., sez. I, 5 giugno 2024, n. 34379)

Il caso portato all’attenzione della Corte di Cassazione permette di ribadire i caratteri principali dell’istituto del tentativo soffermandosi sulla compatibilità con il dolo alternativo.

Il Tribunale aveva rigettato la richiesta di riesame confermando l’ordinanza con la quale il Giudice per le Indagini Preliminari aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di uno degli imputati in relazione al reato di cui agli artt. 110, 56 e 575 c.p.

Veniva proposto ricorso per Cassazione contestando sia la ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e, dunque, l’adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere, che la qualificazione giuridica dei fatti posti in essere per insussistenza del c.d. animus necandi.

La Suprema Corte, nella decisione in esame, respingendo il ricorso, ha preliminarmente ricordato il consolidato principio espresso in tema di ordinanza “de libertate” del tribunale del riesame secondo cui «è ravvisabile il vizio di omessa motivazione quando dal provvedimento, considerato nella sua interezza, non risultino le ragioni del convincimento del giudice su punti rilevanti per il giudizio e non anche quando i motivi per il superamento delle tesi difensive su una determinata questione siano per implicito desumibili dalle argomentazioni adottate» (così Cass., sez. III, 16 aprile 2020, n. 15980).

Osserva, la Corte, che nel caso de quo la motivazione del provvedimento risulta coerente e adeguata, fondandosi su una valutazione complessiva di tutti gli elementi allo stato emersi.

Allo stesso modo, infondate sono state ritenute le censure relative alla qualificazione giuridica attribuita ai fatti realizzati dall’agente.

Il Supremo Collegio ha poi ricordato come nel delitto tentato – fattispecie caratterizzata dalla punibilità di atti che, per definizione, non hanno raggiunto lo scopo perseguito dall’agente e tipizzato dal legislatore nella norma incriminatrice di parte speciale – si pone il duplice problema di individuare sia l’idoneità e l’univocità in fatto degli atti (da valutarsi ex ante e in concreto, secondo la prospettiva dell’agente) che la reale intenzione perseguita dall’autore del fatto.

L’istituto del tentativo nei delitti richiede la sussistenza sia dell’elemento oggettivo che soggettivo, costituendo autonoma fattispecie rispetto al reato consumato (ex multis Cass., sez. II, 14 novembre 2014, n. 6337).

L’elemento soggettivo, ad eccezione del dolo eventuale pacificamente ritenuto incompatibile con il tentativo, è identico a quello previsto per il reato che il soggetto agente si propone di compiere. L’elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota intorno a tre concetti: l’idoneità degli atti, l’univocità degli atti e il mancato compimento dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento.

Il delitto tentato si colloca fra la semplice ideazione o l’accordo – non punibile – ed il delitto consumato ed è, pertanto, necessario stabilire quando un’azione, avendo superato la soglia della mera ideazione, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, deve essere ugualmente punibile.

E ciò in quanto il fondamento giuridico di tale istituto viene ravvisato nella esposizione a pericolo, o nella mancata neutralizzazione di un pericolo, per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.

Alla luce di questo inquadramento devono essere valutati gli elementi essenziali della direzione non equivoca degli atti e della loro idoneità necessari anche ad accertare l’intenzione perseguita dall’autore e, quindi, la sussistenza dell’elemento psicologico (così Cass., sez. V, 24 novembre 2015, n. 4033).

Il concetto di idoneità degli atti prescinde dalla mancata realizzazione dell’evento e attiene alla possibilità che questo aveva di realizzarsi.

In tal caso, dunque, il criterio cui fare riferimento, non è costituito dalla probabilità, più o meno concreta, che l’evento si verifichi ma dalla possibilità che ciò avvenga.

Ciò in quanto le eventuali difficoltà concrete che il soggetto agente dovesse trovare non rilevano per la sussistenza o meno del tentativo ma, anzi, ne costituiscono l’essenza, nel senso che ogni evento ha una maggiore o minore probabilità di verificarsi e che, proprio laddove non si dovesse verificare, saremo in presenza di un delitto tentato piuttosto che consumato.

Invero, solo qualora l’evento non sia accaduto e questo non aveva alcuna possibilità di accadere può ritenersi che il tentativo non sussista, a nulla rilevando se la realizzazione o meno dell’evento stesso fosse, allorché la condotta è stata posta in atto, più o meno probabile, anche solo per incapacità dell’agente o per mere difficoltà oggettive (Cass., sez. I, 17 ottobre 2019, n. 870).

Ulteriore e imprescindibile caratteristica della condotta nel delitto tentato è rappresentata dalla univocità degli atti.

L’idoneità degli atti, infatti, in sé e per sé considerata, non è da sola sufficiente ai fini della rilevanza penale della condotta, in quanto un atto, ontologicamente, può apparire ovvero essere potenzialmente idoneo a conseguire una pluralità di risultati, per cui solo la sua univoca direzione a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente si pone in linea con il principio di offensività del fatto.

Sotto tale profilo, pertanto, la direzione non equivoca non indica un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza della condotta che, non escludendo che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, impone che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura e la loro essenza, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, l’intenzione ovvero il fine perseguito dall’agente ( ex multis Cass., sez. I, 7 gennaio 2010, n. 9411).

Ai fini della rilevanza penale e della punibilità del tentativo la Corte ricorda come gli atti non possono essere in astratto distinti e classificati in atti preparatori e atti esecutivi, discrimine da ritenersi generico e superato, poiché quello che rileva è l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento dell’obiettivo delittuoso, nonché la univocità della loro destinazione, da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta.

Ciò in quanto per la configurabilità del tentativo assumono rilievo non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quelli che, pur classificabili come preparatori, siano in qualche modo tipici, siano cioè corrispondenti, anche solo in minima parte, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata e, di conseguenza, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, potendosi così affermare che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili, ed indipendenti dalla volontà del reo ( cfr. Cass., sez. V, 24 novembre 2015, n. 4033).

Il requisito dell’univocità, infatti, prescindendo da ogni classificazione degli atti, deve essere accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di identificare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo.

Passando all’elemento soggettivo, la verifica dello stesso appare particolarmente delicata, data la mancata verificazione dell’evento; pertanto, la riconoscibilità di un tentativo punibile impone la logica e coerente individuazione di ‘segni esteriori’ della condotta che, in rapporto alle circostanze del caso concreto, siano idonei, attraverso una catena inferenziale solida, di dedurre la presenza del necessario elemento psicologico.

Invero, come altresì espresso dalla Cass., Sez. Un., 24 aprile 2024, n. 38343, il dolo è un fenomeno interiore – costituito dalla rappresentazione e dalla volontà della condotta e di determinare l’evento preso di mira – che si ricostruisce necessariamente in via indiziaria, attraverso la valorizzazione di indicatori fattuali capaci di sostenere l’opzione ricostruttiva di sussistenza e di qualificazione dello stesso.

Fatta questa premessa, nel caso del tentato omicidio, non è necessario dimostrare un dolo specifico di tipo intenzionale, poiché il tentativo punibile può sussistere anche con un dolo diretto di tipo alternativo, rimanendo incompatibile solamente con il dolo eventuale.

Secondo un principio consolidato dalla giurisprudenza si possono individuare differenti gradi di intensità della volontà dolosa, con accettazione dell’evento che varia in base alla percezione della sua probabilità di accadere.

Il dolo si configura come diretto nel caso di evento ritenuto altamente probabile o certo, quando l’autore non si limita ad accettarlo come conseguenza accessoria ma di fatto lo vuole con un’intensità maggiore, mentre, viene qualificato come dolo eventuale quando l’evento è previsto come altamente probabile ma non necessario.

In questa prospettiva interpretativa, per riconoscere il dolo diretto di omicidio non è richiesta la previsione e la volontà esplicita di provocare la morte come unica e certa conseguenza, ma è sufficiente che essa sia prevista e voluta come altamente probabile nell’ambito di una dinamica lesiva che includa anche, in via cumulativa e alternativa, l’evento di lesioni (da ultimo ex multis, Cass., sez. I, 13 ottobre 2022, n. 4773; Cass., sez. I, 30 marzo 2022, n. 29611).

Il cosiddetto dolo alternativo, che contempla un secondo evento altamente probabile accanto al primo, viene considerato, dunque, come dolo diretto in quanto anche il secondo è previsto come scopo della condotta e non è per tale ragione meramente accettato come conseguenza accessoria o ulteriore (così Cass., sez. I, 30 marzo 2023, n. 33435).

Pertanto, la distinzione tra dolo diretto di tipo alternativo e dolo eventuale richiede un’analisi attenta delle manifestazioni esteriori, considerando indicatori significativi dell’intenzione dell’agente come, a titolo di esempio, nel tentato omicidio, la potenzialità dell’azione lesiva, desumibile dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata, nonché dalle modalità dello stesso atto lesivo (così Cass., sez. I, 5 aprile 2022, n. 24173).

Nel caso di specie, secondo la Corte, il Tribunale del riesame si è correttamente conformato ai criteri indicati.

Invero, il giudice del riesame ha evidenziato come il ricorrente abbia utilizzato un coltello dall’elevata potenzialità e che con questo ha attinto la vittima sul fianco, provocando una lesione tale da porre in pericolo la vita della vittima.

Con specifico riferimento alle modalità dell’azione poi, ha dato atto dell’idoneità del mezzo, dell’univocità dell’azione e della natura dell’elemento psicologico quale dolo alternativo. Quanto a quest’ultimo, il Tribunale ha correttamente fatto riferimento alla zona, l’addome, che il ricorrente ha deliberatamente e consapevolmente attinto, così rappresentandosi come altamente probabile e quindi volendo, anche in via cumulativa o alternativa, l’evento morte.

Contributo in tema di “Dolo alternativo e delitto tentato”, a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

permessi sindacali

Permessi sindacali: legittimo licenziare chi ne abusa Permessi sindacali: legittimo il licenziamento del dipendente che usa o meglio abusa di due giorni di permessi sindacali per motivi personali

Permessi sindacali: abuso e licenziamento

I permessi richiesti per prendere parte alle riunioni sindacali non possono essere usati per soddisfare motivi personali. E’ quindi legittimo il licenziamento del dipendente che usa i due giorni di permesso richiesti per partecipare a delle riunioni sindacali e poi va fuori regioni per accompagnare il figlio alle prove selettive delle Forze armate. Il lavoratore, con la sua condotta, ha inclinato irrimediabilmente il rapporto di fiducia che il datore di lavoro nutre nei suoi confronti. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 29135/2024.  

Uso non autorizzato dei permessi sindacali

L’ex impiegato di una società per azioni (S.p.A) viene licenziato per giusta causa il 20 ottobre 2016, a causa dell’uso non autorizzato di permessi sindacali nei giorni 6 e 7 ottobre dello stesso anno. In quei giorni, il lavoratore non aveva svolto infatti alcuna attività sindacale, in quanto fuori regione per motivi personali.

Reintegra e risarcimento del danno

L’ex dipendente contesta il licenziamento, ritenendolo ingiusto per diverse ragioni:

  • violazione delle norme sui permessi sindacali stabilite dagli articoli 23 e 24 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori);
  • insufficienza di giorni per giustificare un simile provvedimento;
  • mancata comunicazione delle motivazioni;
  • presunta inesattezza del rapporto investigativo che documentava i suoi movimenti.

Per il ricorrente infine le indagini condotte hanno violato la sua privacy poiché erano state avviate durante un periodo di ferie.

Licenziamento legittimo: uso improprio dei permessi

Il lavoratore si rivolge quindi al Tribunale, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento per i danni subiti. In primo grado, il Tribunale respinge il ricorso, confermando la legittimità del licenziamento. Successivamente, l’ex dipendente presenta appello, ma anche questo viene rigettato. Il Tribunale ha motivato la sua decisione affermando che non vi era stata alcuna violazione della privacy. I controlli infatti sono stati eseguiti in luoghi pubblici con l’obiettivo di  verificare l’effettiva ragione della richiesta dei permessi sindacali.

La Corte d’Appello ha confermato la sentenza del Tribunale ritenendo infondati i motivi dell’opposizione. La questione disciplinare infatti riguardava non una semplice assenza ingiustificata dal lavoro, ma l’uso improprio dei permessi sindacali. Le indagini hanno dimostrato che nei giorni in cui il dipendente aveva ottenuto i permessi questi si trovava fuori regione con suo figlio, impegnato in prove selettive per l’arruolamento nelle Forze Armate, senza svolgere alcuna attività sindacale.

Abuso se si usano per motivi personali

L’investigatore privato incaricato dall’azienda ha confermato l’accuratezza del suo rapporto che descriveva dettagliatamente gli spostamenti del dipendente nei giorni in questione. Per la Corte, se il diritto ai permessi sindacali fosse protetto dall’art. 30 della Legge n. 300/1970, in questo caso specifico si è verificato un abuso dell’istituto usandolo per scopi personali invece che per attività sindacali.

La sanzione è quindi proporzionata e del tutto legittima la decisione del licenziamento. Il comportamento del lavoratore ha infatti compromesso irrimediabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda. L’abuso dei permessi sindacali retribuiti è più grave rispetto a una semplice assenza ingiustificata.

Diritto di controllare la partecipazione alle riunioni

L’ex dipendente ricorre in Cassazione sollevando tre motivi di doglianza. Con il secondo lamenta la falsa applicazione delle norme sul diritto ai permessi sindacali. Il terzo motivo riguarda invece la presunta mancata comunicazione delle ragioni del licenziamento da parte dell’azienda.

La Cassazione però respinge il secondo perché il datore di lavoro ha tutto il diritto di controllare l’effettiva partecipazione dei sindacalisti alle riunioni per cui sono concessi i permessi, respinge invece  il terzo perché la lettera ha esposto chiaramente le motivazioni del licenziamento.

In sintesi, tutte le fasi processuali hanno confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa adottata dall’azienda a fronte dell’abuso fraudolento dei permessi sindacali da parte del dipendente.

 

Leggi anche: Abuso dei permessi sindacali: ok al licenziamento

Allegati

pensione anticipata

Pensione anticipata: nuovi scenari dopo la Cassazione Pensione anticipata: cosa cambia soprattutto per i lavoratori dopo che la Cassazione ha valorizzato i contributi figurativi

Pensione anticipata e pronuncia della Cassazione

La pensione anticipata è uno dei temi più dibattuti nel panorama previdenziale italiano, soprattutto alla luce delle recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali. Due decisioni della Corte di Cassazione (si tratta delle due sentenze “gemelle” n. 24916/2024 e n. 24952/2024) hanno recentemente cambiato l’orientamento riguardo al requisito dei 35 anni di contributi effettivi necessari per accedere a questa forma di pensionamento, stabilendo che tale requisito non è più indispensabile.

Queste decisioni potrebbero avere un impatto significativo su molti lavoratori italiani, in particolare su coloro che hanno attraversato periodi di disoccupazione, malattia o altre situazioni coperte da contribuzione figurativa.

In questo articolo, approfondiremo le implicazioni di queste pronunce, analizzando il contesto normativo, le motivazioni della Corte e le possibili conseguenze per il sistema previdenziale e i lavoratori.

Leggi anche: Pensione anticipata: i 35 anni di contributi effettivi non servono

Il contesto normativo della pensione anticipata

Per comprendere appieno la portata delle pronunce della Cassazione, è fondamentale esaminare il quadro normativo entro cui si inserisce. La pensione anticipata, introdotta con la Riforma Fornero del 2011, permette ai lavoratori di ritirarsi dal lavoro prima dell’età pensionabile di vecchiaia, a condizione di aver maturato una significativa anzianità contributiva. I requisiti tradizionali per accedere alla pensione anticipata erano:

  • Per gli uomini: almeno 42 anni e 10 mesi di contributi.
  • Per le donne: almeno 41 anni e 10 mesi di contributi.

Oltre a questi requisiti contributivi, era necessario che almeno 35 anni di contributi fossero “effettivi”, ossia derivanti da attività lavorativa reale. Questo escludeva dal conteggio i cosiddetti contributi figurativi, ovvero quelli accreditati per periodi di non lavoro coperti da specifiche tutele previdenziali, come malattia, disoccupazione indennizzata, cassa integrazione, servizio militare e maternità.

Pensione anticipata: contributi effettivi e figurativi

La distinzione tra contributi effettivi e figurativi è stata per lungo tempo un elemento cruciale nel determinare l’accesso alla pensione anticipata. I contributi effettivi sono quelli versati dal datore di lavoro o dal lavoratore autonomo durante l’effettiva attività lavorativa, rappresentando il frutto del lavoro svolto. Sono direttamente correlati alla prestazione lavorativa e alla retribuzione percepita.

I contributi figurativi, invece, sono accrediti contributivi riconosciuti in specifiche situazioni previste dalla legge, senza oneri per il lavoratore o per il datore di lavoro. Questi periodi sono coperti dall’ordinamento per garantire una continuità contributiva anche in assenza di lavoro effettivo. Rientrano tra i contributi figurativi i periodi di:

  • malattia o infortunio sul lavoro;
  • disoccupazione;
  • cassa integrazione guadagni;
  • servizio militare obbligatorio o servizio civile;
  • assistenza a familiari disabili, usufruendo dei permessi previsti dalla Legge 104/1992.

Fino alla recente sentenza, per accedere alla pensione anticipata era necessario che almeno 35 anni dei contributi fossero effettivi, escludendo dunque i periodi coperti da contribuzione figurativa dal calcolo di questa quota minima. Questa limitazione penalizzava i lavoratori che, per motivi non dipendenti dalla loro volontà, avevano interrotto l’attività lavorativa per periodi protetti dalla legge.

Contributi figurativi per la pensione anticipata

La Corte di Cassazione, con le sentenze innovative, ha stabilito che il requisito dei 35 anni di contributi effettivi non è più necessario per accedere alla pensione anticipata. Questa decisione rappresenta una svolta significativa, in quanto modifica un’interpretazione consolidata della normativa previdenziale.

Le motivazioni della Cassazione

La Corte ha fondato in sostanza la sua decisione su diversi principi giuridici e costituzionali:

  • interpretazione conforme ai principi costituzionali: le norme previdenziali devono essere interpretate in modo coerente con i principi sanciti dalla Costituzione, in particolare il principio di uguaglianza (art. 3) e il diritto alla previdenza sociale (art. 38). Escludere i contributi figurativi dal conteggio per la pensione anticipata potrebbe violare questi principi, creando disparità di trattamento tra lavoratori in situazioni analoghe;
  • valorizzazione dei contributi figurativi: i contributi figurativi sono riconosciuti dall’ordinamento come periodi di contribuzione validi a tutti gli effetti. Rappresentano periodi in cui il lavoratore, pur non svolgendo attività lavorativa, è comunque tutelato dalla legge. La loro esclusione dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per la pensione anticipata contrasterebbe con la finalità stessa della protezione previdenziale;
  • eliminazione di disparità di trattamento: la distinzione tra contributi effettivi e figurativi creava una disparità ingiustificata tra lavoratori che avevano maturato la stessa anzianità contributiva complessiva. Questa differenziazione penalizzava coloro che, per cause indipendenti dalla loro volontà, non avevano potuto accumulare 35 anni di contributi effettivi;
  • funzione sociale della previdenza: la Corte ha ribadito che il sistema previdenziale ha una funzione sociale fondamentale, volta a garantire la sicurezza economica dei lavoratori anche nei periodi di difficoltà. Riconoscere pienamente i contributi figurativi rafforza questa funzione, evitando penalizzazioni ingiuste.

Il caso che ha originato la sentenza

Le sentenze traggono origine da un caso concreto in cui i lavoratori avevano richiesto la pensione anticipata, avendo maturato l’anzianità contributiva complessiva richiesta, ma senza raggiungere i 35 anni di contributi effettivi a causa di periodi di disoccupazione indennizzata e malattia. L’INPS aveva rigettato la domanda, sostenendo che non erano stati soddisfatti tutti i requisiti previsti dalla normativa vigente.

I lavoratori hanno impugnato la decisione, sostenendo che i contributi figurativi dovessero essere considerati validi ai fini del raggiungimento dell’anzianità contributiva necessaria. La questione è giunta fino alla Corte di Cassazione, che ha accolto le argomentazioni, stabilendo un nuovo orientamento interpretativo.

Implicazioni pratiche per i lavoratori

La decisione della Corte di Cassazione può avere importanti ripercussioni per numerosi lavoratori italiani. Come ad esempio:

  • Accesso facilitato alla pensione anticipata: molti lavoratori che finora non potevano accedere alla pensione anticipata a causa della mancanza dei 35 anni di contributi effettivi potranno ora farlo, considerando nel computo anche i contributi figurativi. Questo apre nuove opportunità per coloro che hanno avuto carriere lavorative discontinue o interrotte da periodi di difficoltà.
  • Valorizzazione dei periodi di tutela: I periodi di malattia, disoccupazione, maternità e altri eventi protetti saranno pienamente riconosciuti, riflettendo una maggiore attenzione verso le situazioni di fragilità del lavoratore. Questo riconoscimento rafforza il principio di solidarietà su cui si basa il sistema previdenziale italiano.
  • Riduzione delle disparità: La sentenza elimina una distinzione che penalizzava ingiustamente alcuni lavoratori, promuovendo una maggiore equità nel sistema previdenziale. Si supera così una barriera che creava disuguaglianze tra chi aveva avuto una carriera lavorativa lineare e chi aveva affrontato periodi di interruzione.
giurista risponde

Omesso versamento ritenute in caso di difficoltà economica In materia di reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali può integrare una causa di esclusione della responsabilità penale l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta in presenza di una situazione economica di difficoltà?

Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini

 

Costituisce costante indirizzo di legittimità quello per cui, nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto (Cass. pen., sez. III, 19 agosto 2024, n. 32682). 

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo sul piano dell’effettiva rimproverabilità al ricorrente degli omessi versamenti previdenziali e assistenziali.

In primo e secondo grado era stata affermata la responsabilità penale dell’imputato in relazione al reato continuato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali per gli anni 2016 e 2017.

Avverso la sentenza l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando, per quanto qui di interesse, l’erronea individuazione dell’elemento soggettivo del reato. In particolare, la difesa ha lamentato l’omessa valutazione da parte dei giudici di merito di ogni apprezzamento in punto di esigibilità soggettiva non avendo considerato quanto dedotto nell’atto di appello in ordine alla crisi d’impresa.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha ribadito un costante indirizzo di legittimità secondo cui nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto.

Alla luce di tale principio di diritto i giudici di legittimità hanno affermato che correttamente la difesa ha lamentato la mancata valutazione delle allegazioni difensive, e della documentazione allegata, concernenti l’importante crisi preceduta dal crollo del fatturato che aveva colpito la società. In particolare, il ricorrente aveva evidenziato: che la società era stata costretta a lavorare in perdita in regime di mono-committenza per un unico cliente; l’impossibilità di accedere al credito bancario; la revoca degli affidamenti; gli elevati tassi applicati da altro istituto di credito.

Tali allegazioni sono ritenute dalla Corte potenzialmente idonee a incidere sulla complessiva valutazione della vicenda in termini di effettiva rimproverabilità al soggetto agente. Pertanto, il Collegio annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello.

 

Contributo in tema di “Omesso versamento ritenute previdenziali e assistenziali in caso di difficoltà economica”, a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

doppio della caparra

Doppio della caparra: quando se ne ha diritto Doppio della caparra: restituzione solo in caso di grave inadempimento, il mero rinvio del certificato di destinazione urbanistica non basta

Restituzione del doppio della caparra

Il superamento di un termine fissato per il rilascio del certificato di destinazione urbanistica dell’immobile non dà automaticamente diritto al compratore di ottenere la restituzione del doppio della caparra confirmatoria in materia di compravendita immobiliare. Lo afferma l’ordinanza n. 28568/2024 della Corte di Cassazione. Per ottenere questa conseguenza, è necessario dimostrare una colpa grave del venditore.

Caparra confirmatoria: effetti  legali

La caparra confirmatoria rappresenta un elemento centrale nel contratto preliminare di compravendita immobiliare. Essa viene versata dall’acquirente al venditore come segno della serietà dell’accordo e come garanzia di adempimento. Se una delle parti non rispetta infatti gli impegni contrattuali, la caparra può assumere funzioni diverse: l’acquirente, in caso di inadempimento da parte del venditore, può recedere dal contratto e chiedere la restituzione del doppio dell’importo versato. Al contrario, se è l’acquirente a essere inadempiente, il venditore può trattenere la caparra.

La Cassazione però ha chiarito che il diritto alla doppia restituzione non è automatico, occorre infatti valutare la gravità dell’inadempimento. Solo un inadempimento “grave” e non giustificabile può legittimare la richiesta di vedersi restituire il doppio della caparra.

Contratto preliminare non rispettato: doppio della caparra

La  vicenda sottoposta al vaglio della Cassazione nasce da un accordo preliminare di compravendita immobiliare stipulato tra due soggetti nel novembre 2006. In questa occasione, l’acquirente versa 40.000 euro a titolo di caparra confirmatoria, impegnandosi a concludere il contratto definitivo entro il 28 febbraio 2007. Nel contratto è previsto che il venditore debba ottenere il rilascio del certificato di destinazione urbanistica entro la stessa scadenza. Detto termine però non viene rispettato.

Termine certificato di destinazione urbanistica

Nel giugno 2007, l’acquirente decide di agire legalmente contro il venditore presso il Tribunale di Frosinone. In questa sede l’attore sostiene di aver legittimamente esercitato il diritto di recesso dal contratto a causa dell’inadempimento del venditore, chiede quindi la condanna del venditore al pagamento del doppio della caparra versata. In subordine richiede la risoluzione del contratto e la restituzione della caparra. In primo grado, il Tribunale di Frosinone respinge la domanda dell’acquirente. Il termine del 28 febbraio 2007 indicato nel preliminare non ha infatti carattere essenziale per cui il suo superamento non può considerarsi un inadempimento così grave da giustificare la richiesta del doppio della caparra. La Corte d’Appello conferma la decisione del Tribunale, sottolineando che, anche qualora il venditore avesse superato il termine fissato per il rilascio del certificato di destinazione urbanistica, tale ritardo non avrebbe costituito una violazione sufficientemente significativa da comportare l’applicazione delle conseguenze di cui all’articolo 1453 del Codice Civile. Per la Corte d’Appello linadempimento non può considerarsi grave perché non ha pregiudicato l’interesse principale dell’acquirente alla conclusione del contratto definitivo.

Doppio della caparra: serve inadempimento grave

La Corte di Cassazione conferma la decisione delle autorità giudiziarie di merito, rigettando il ricorso dell’acquirente. Per gli Ermellini il termine indicato nel preliminare non può considerarsi essenziale. Le parti non hanno infatti qualificato espressamente questa scadenza come fondamentale per l’adempimento del contratto. La Suprema corte ha evidenziato inoltre che l’acquirente non ha dimostrato la gravità dell’inadempimento, elemento imprescindibile per richiedere la risoluzione del contratto con conseguente restituzione del doppio della caparra.

 

Leggi anche: Caparra: tipologie e disciplina

 

 

 

Allegati