taglio compensi avvocato

Taglio compensi avvocato del 70% per le cause ripetitive Per la Cassazione, nella vigenza del DM 55/2014, il compenso dell'avvocato può anche essere tagliato del 70%, ossia sotto i valori minimi

Taglio compensi avvocato del 70%

Il compenso dell’avvocato  può essere ridotto anche del 70%, ossia sotto i valori minimi, se le cause non sono particolarmente complicate, se sono ripetitive e se hanno esito negativo. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 19025-2024, puntando l’accento sulla discrezionalità del giudice nella determinazione del compenso del legale.

Richiesta pagamento compensi

Un avvocato con ricorso 702 bis c.p.c. chiede la condanna della società che ha assistito in giudizio e che è stata posta in amministrazione e custodia giudiziaria al pagamento dei propri compensi pari a  86.668,00 euro, detratti gli acconti, poiché lo stesso dichiara di aver patrocinato per la S.r.l ben 10 procedimenti giudiziari.

La S.r.l costituitasi in giudizio contesta il compenso richiesto, ma Tribunale accoglie in parte la domanda dell’avvocato, liquidando un importo di 8.558,95 euro a titolo di onorario, oltre accessori.

Il ricorso in Cassazione

L’avvocato insoddisfatto dell’esito del giudizio ricorre in Cassazione sollevando 5 motivi di doglianza:

  • con il primo lamenta la riduzione del compenso nella misura del 70% in relazione ai ricorsi in opposizione agli atti esecutivi, perché calcolati sulla base dee tariffe minime ridotte poi del 70%. Nel calcolare le competenze, a suo dire, sono state violate le norme del DM n. 27/2018 perché le stesse consentivano la riduzione delle tariffe medie ma in misura non superiore al 50%;
  • con il secondo contesta al Tribunale di non aver calcolato il compenso per ogni procedimento, come richiesto, ma di aver effettuato un calcolo complessivo, con conseguente obbligo a carico dell’avvocato di dover restituire gli acconti versati e mai contestati dalla controparte;
  • con il terzo disapprova la mancata valutazione delle prove prodotte in relazione al valore di determinate controversie;
  • con il quarto discute la violazione di alcune disposizioni del DM n. 55/2014 perché in relazione alle opposizioni l’autorità giudicante ha ridotto i compensi del 70% rispetto ai valori minimi, mentre il giudice avrebbe dovuto applicare i valori medi e diminuirli eventualmente del 50%;
  • con il quinto e ultimo motivo infine contesta al giudice di aver omesso di prendere in considerazione alcune circostanze, tra l’altro pacifiche e non contestate, come la corresponsione di acconti e quindi l’indicazione in parcella delle somme dovute a saldo. I Giudici avrebbero dovuto considerare l’attività svolta e già pagata con gli acconti senza indicare importi inferiori a quelli già incassati.

Corretto il taglio compensi avvocato del 70% per cause simili e con esito negativo

La S.C. accoglie il ricorso dell’avvocato in virtù della fondatezza del secondo motivo sollevato, con conseguente cassazione dell’ordinanza e rinvio al Tribunale in diversa composizione per statuire anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Tuttavia, per gli Ermellini il primo motivo di ricorso è infondato perché il giudice, nel determinare il compenso dell’avvocato, ha un potere discrezionale, se motivato ed esercitato conformemente alle tariffe professionali. Tale potere gli permette di aumentare o ridurre il compenso purché non al di sotto dei minimi tariffari senza che rilevi l’istanza del professionista. Il professionista non può lamentare la violazione del principio della domanda solo perchè i giudici hanno ridotto gli importi al di sotto di quanto richiesto dalla società convenuta.

Fondato invece il secondo motivo perché i giudici hanno violato il principio secondo cui la liquidazione dei compensi, nel rispetto del DM 55/2014, deve avvenire per ogni fase del giudizio. Essi hanno inoltre travalicato i limiti della domanda, visto che l’avvocato aveva richiesto solo la liquidazione delle spettanze relative alla fase decisionale.

In parte inammissibile e in parte infondato è il terzo motivo del ricorso perché se è possibile adeguare gli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, il giudice deve anche verificare l’attività svolta nel caso specifico, per stabilire se in effetti il valore della domanda è un parametro di riferimento idoneo o se, al contrario, lo stesso  risulta del tutto inadeguato. Nel caso di specie l’avvocato ricorrente non ha precisato i termini esatti della controversia ossia i fatti posti a fondamento della domanda e il diritto reale a cui si riferiva l’esercizio del possesso, per verificare la correttezza o meno della scaglione di riferimento per cui nulla può lamentare.

Valori minimi compensi

Infondato invece il quarto motivo perché nel caso di specie non si può applicare la sbarramento previsto dal DM n. 55/2014 modificato dal DM n. 37/2018, che vieta al giudice di scendere sotto i valori minimi e inderogabili.

Nel caso di specie trova applicazione il DM n. 55/2014 nella versione precedente alla riforma del 2018, che consentiva al giudice di diminuire i valori medi fino al 70% per la fase istruttoria, evitando tuttavia di ridurre  fino al punto di riconoscere all’avvocato compensi puramente simbolici e comunque motivando la propria decisione. I giudici di merito hanno infatti calcolato il compenso in base al valore dello scaglione minimo e lo hanno ridotto del 70% perché

  • tutte le opposizioni si riferivano a contestazioni del credito molto simili tra loro;
  • le stesse hanno avuto un esito negativo;
  • la società era soggetta a custodia giudiziaria;
  • le cause non presentavano questioni di fatto o di diritto particolarmente complesse.

La riduzione del 70% del compenso quindi non viola la legge anche perchè la decisione è stata adeguatamente  motivata.

Infondato infine anche il quinto motivo perché l’omesso esame di elementi istruttori non integra l’omesso esame di un fatto storico e perché le questioni indicate dal ricorrente nella censura non sono “fatti storici”. Il Tribunale ha considerato tutti gli elementi utili, comprese le prestazioni eseguite e gli acconti versati, al fine di determinare la somma corretta da erogare, per cui il motivo sollevato è del tutto infondato.

Allegati

revisione assegno divorzio convivenza

Assegno di divorzio all’ex moglie “indigente” anche se convive Per la Cassazione, qualora sia instaurata una stabile convivenza tra un terzo e l’ex coniuge indigente, se quest’ultimo è privo dei mezzi adeguati, conserva il diritto all'assegno divorzile

Revisione delle condizioni di divorzio

Il caso in esame attiene al tema della revisione delle condizioni di divorzio in relazione al quale la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso di specie, con ordinanza n. 13739/2024, ha accolto il ricorso proposto dall’ex moglie e ha cassato il decreto impugnato, rinviando la causa alla Corte d’appello.

Nella specie, la Corte ha anzitutto ripercorso la giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione alle condizioni necessarie affinché si possa procedere alla revisione dell’assegno divorzile.

Ciò posto, il Giudice di legittimità ha avuto modo di affermare che la Corte d’appello, nella precedente fase di giudizio, aveva sminuito, nell’ambito della propria decisione, l’elemento costitutivo della convivenza della beneficiaria dell’assegno.

La giurisprudenza in materia di convivenza

In particolare, ha precisato la Corte, la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di revisione dell’assegno divorzile, afferma costantemente che “In tema di divorzio, ove sia richiesta la revoca dell’assegno in favore dell’ex coniuge a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza “more uxorio”, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto (…) non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge, e gli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza”.

Componente compensativa dell’assegno di divorzio

Proseguendo l’esame in ordine alla possibile revoca dell’assegno divorzile nel caso di specie, la Corte ha ricordato che “qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa”.

Sulla scorta del percorso argomentativo offerto dalla Corte, la stessa ha dunque concluso il proprio esame affermando che “la revisione dell’assegno richiede la presenza di ‘giustificati motivi’ e impone la verifica sopravvenuta, effettiva e significativa modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi sulla base di una valutazione comparativa delle rispettive situazioni reddituali e patrimoniali”.

La decisione

Per le ragioni sopra brevemente rappresentate, la Corte ha dunque accolto il ricorso proposto dall’ex moglie avverso il provvedimento adottato dal Giudice di prime cure con cui veniva rigettato il reclamo, proposto dalla beneficiaria, in relazione alla riduzione dell’assegno divorzile in suo favore.

Allegati

tappi attaccati bottiglie

Tappi attaccati alle bottiglie: al via l’obbligo Dal 3 luglio 2024 in base alla Direttiva UE SUP i tappi "solidali" dovranno restare attaccati ai contenitori di plastica per ridurre la dispersione e favorire il riciclo

Tappi “solidali: dal 3 luglio in vigore l’obbligo della Direttiva UE

Dal 3 luglio 2024 tutte le aziende che producono bevande contenute nelle bottiglie di plastica devono rispettare l’obbligo del “tappo solidale”. Lo ha stabilito la Direttiva UE 2019/904 sulla plastica monouso finalizzata a ridurre l’incidenza dei prodotti di plastica sull’ambiente.

L’articolo 17 della Direttiva, dedicato al recepimento, prevede che gli Stati debbano applicare le disposizioni necessarie per conformarsi all’obbligo previsto dall’articolo 6, relativo ai tappi “solidali” a partire dal 3 luglio 2024.

Quest’obbligo è solo una delle tante misure adottate dalla Direttiva SUP (Single Use Plastics Direttive) per contrastare l’inquinamento delle acque da parte delle bottiglie di plastica, troppo spesso gettate ovunque, soprattutto in mare e sulla spiaggia, con conseguenze estremamente dannose sulla vegetazione e sugli animali.

Divieto plastica monouso

La Direttiva, lo ricordiamo, ha già posto il divieto di vendita dei prodotti di plastica monouso come i piatti, le posate, le cannucce e i cotton-fioc, a partire dal 2021.

Il 2024 invece è l’anno di entrata in vigore dei tappi “solidali, vediamo cosa dice la normativa europea al riguardo.

Lotta alla dispersione dei tappi di plastica

Nel considerando n. 17 la Direttiva fa presente come i tappi e i coperchi di plastica dei contenitori delle bevande siano tra gli oggetti di plastica maggiormente rinvenuti sulle spiagge dell’Unione Europea.

I contenitori delle bevande di plastica monouso dovrebbero quindi essere immessi sul mercato solo se sono in grado di soddisfare certi requisiti di progettazione in grado di ridurre significativamente la dispersione nell’ambiente dei tappi di plastica.

Nell’articolo 6 invece, dedicato ai requisiti dei prodotti in plastica, la Direttiva stabilisce specificamente che gli Stati membri devono provvedere a che i prodotti in plastica monouso indicati nella parte C dell’allegato, con i relativi tappi plastica “possano essere immessi sul mercato solo se i tappi e i coperchi restano attaccati ai contenitori per la durata delluso previsto del prodotto”. 

L’allegato C specifica infatti quali sono i prodotti di plastica monouso indicati nell’articolo 6, che devono presentare i requisiti sopra descritti, ossia i contenitori per bevande con una capacità massima di 3 litri, ossia i recipienti che contengono liquidi, come bottiglie per bevande con i relativi tappi, nonché gli imballaggi compositi di bevande con i relativi tappi e coperchi.

Tappi attaccati alle bottiglie: quali vantaggi?

L’obbligo di produrre contenitori di plastica con i tappi di chiusura progettati in modo tale da restare attaccati alle bottiglie mirano a realizzare due obiettivi fondamentali della Direttiva:

  • ridurre la dispersione dei piccoli pezzi di plastica. I tappi di plastica dei contenitori, infatti sono molto piccoli e leggeri, per cui possono essere trasportati facilmente dal vento e, aspetto ancora più pericoloso, possono essere ingeriti dagli animali;
  • facilitare la fase del riciclo: se il tappo resta ben attaccato al suo contenitore questi due componenti possono essere riciclati insieme. In questo modo la quantità di plastica riciclata aumenta e il procedimento di riciclo risulta senza dubbio più efficiente.

Le altre misure della Direttiva SUP per ridurre la plastica

Come anticipato, la misura che riguarda i tappi di plastica è solo una delle iniziative intraprese a livello europeo per ridurre la quantità di plastica immessa nell’ambiente.

La Direttiva SUP prevede infatti interventi finalizzati a ridurre il consumo dei prodotti di plastica monouso, dispone restrizioni all’immissione sul mercato di certi prodotti in plastica, stabilisce, come appena visto per i tappi, determinanti requisiti di costruzione dei prodotti in plastica, introduce precisi requisiti di marcatura dei prodotti, estende la responsabilità del produttore, impone agli Stati di adottare le misure necessarie per attuare in modo efficace la raccolta differenziata e stabilisce che gli Stati debbano adottare anche misure di sensibilizzazione per informare i consumatori e incentivare condotte più responsabili per la tutela dell’ambiante e la salute.

Allegati

stop obbligo vaccinale minori

Stop all’obbligo vaccinale Un emendamento al decreto liste d'attesa elimina l'obbligo vaccinale per i minori d'età fino a 16 anni per determinate malattie

Decreto liste d’attesa: l’emendamento sull’obbligo vaccinale

Durante la fase di conversione del decreto legge del 7 giugno 2024 n. 73, finalizzato a ridurre la durata delle liste di attesa, dall’ordine del giorno del 3 luglio 2024 della decima Commissione permanente che si occupa anche della materia sanitaria, a pag. 58, emerge un emendamento sulla abolizione dell’obbligo vaccinale presentato dal senatore legista Claudio Borghi.

Leggi anche Liste d’attesa: il piano del governo

L’obbligo vaccinale viola l’art. 32 della Costituzione

Con l’emendamento 3.0.7 il senatore modifica l’articolo 1 e sopprime il comma 3 dell’articolo 3 e il comma 5 dell’articolo 3 bis del decreto legge n. 73 del 7 giugno 2017, convertito con modifiche dalla legge n. 119/2017.

La proposta di modifica tiene conto della situazione attuale degli obblighi vaccinali come regolamentata nel nostro paese rispetto al panorama normativo nazionale e internazionale.

L’obbligo vaccinale contemplato dal nostro ordinamento si porrebbe in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione per quanto riguarda il tema dei trattamenti sanitari obbligatori.

L’emendamento proposto vuole bilanciare i vari interessi in gioco e meritevoli di tutela che emergono dalla legge sui vaccini come il diritto allo studio, all’inclusione sociale, alla salute e all’uguaglianza.

Come cambia il decreto n. 73/2017 sulla prevenzione vaccinale

In base alla proposta di emendamento il nuovo comma 1 bis dell’articolo 1del decreto legge n. 73/2017, che al primo comma elenca gli obblighi vaccinali obbligatori e gratuiti previsti in base agli obblighi assunti in sede europea e internazionale potrebbe assumere il seguente tenore letterale:

“Agli stessi fini di cui al comma 1, per i minori di età compresa tra zero e sedici anni e per tutti i minori stranieri non accompagnati sono altresì  gratuite e raccomandate (e non più obbligatorie), in base alle specifiche indicazioni del Calendario vaccinale nazionale relativo a ciascuna coorte di nascita, le vaccinazioni di seguito indicate:

  1. anti-morbillo;
  2. anti-rosolia;
  3. anti-parotite;
  4. anti-varicella.”

Il secondo periodo del comma 2 invece potrebbe prevedere che:“Conseguentemente il soggetto immunizzato adempie all’obbligo vaccinale di cui al presente articolo, (soppressa la frase: “di norma e comunque nei limiti delle disponibilità del Servizio sanitario nazionale”), con vaccini in formulazione monocomponente o combinata in cui sia assente l’antigene per la malattia infettiva per la quale sussiste immunizzazione.” 

Al comma 3 al termine “pediatra di libera scelta” verrebbe aggiunto il termine “o dal medico specialista”: “Salvo quanto disposto dal comma 2, le vaccinazioni di cui al comma 1 (e al comma 1-bis) possono essere omesse o differite solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale o dal pediatra di libera scelta o dal medico specialista.

Gli obblighi soppressi

Sarebbero infine soppressi:

  • il comma 3 dall’articolo 3 che così recita: “Per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, ivi incluse quelle private non paritarie, la presentazione della documentazione di cui al comma 1 costituisce requisito di accesso. Per gli altri gradi di istruzione (e per i centri di formazione professionale regionale), la presentazione della documentazione di cui al comma 1 non costituisce requisito di accesso alla scuola o ( al centro ovvero agli esami);
  • Il comma 5 dall’articolo 3 bis che dispone: Per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, ivi incluse quelle private non paritarie, la mancata presentazione della documentazione di cui al comma 3 nei termini previsti comporta la decadenza dall’iscrizione. Per gli altri gradi di istruzione e per i centri di formazione professionale regionale, la mancata presentazione della documentazione dì cui al comma 3 nei termini previsti non determina la decadenza dall’iscrizione né impedisce la partecipazione agli esami.”

In pratica la mancata presentazione della documentazione comprovante l’adempimento degli obblighi vaccinali:

  • non sarebbe più requisito di accesso alle scuole ai servizi e alle scuole dell’infanzia;
  • non comporterebbe più la decadenza dall’iscrizione per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, incluse quelle private non paritarie.
limitatori velocità auto

Limitatori di velocità obbligatori Dal 7 luglio 2024 scatta l’obbligo per le case automobilistiche di installare sulle autovetture di nuova immatricolazione i limitatori di velocità

Limitatori velocità: dal 7 luglio scatta l’obbligo di installazione

Dal 7 luglio 2024 tutte le case autonomistiche avranno l’obbligo di installare sulle automobili di nuova immatricolazione specifiche apparecchiature finalizzate al controllo della velocità come previsto dal Regolamento Europeo 2019/2144.

Adattatori intelligenti

L’Intelligent Speed Assistance (adattamento intelligente della velocità) è un sistema che aiuta il conducente a mantenere la velocità più adeguata all’ambiente stradale, fornendo un segnale apposito.Tali adattatori o limitatori di velocità, così come gli altri strumenti per la sicurezza stradale previsti dallo stesso regolamento, perseguono lo scopo di ridurre gli incidenti stradali mortali dovuti al superamento dei limiti di velocità.

Limitatori di velocità: come funzionano

I limitatori di velocità sono capaci di rilevare il superamento del limite di velocità previsto sullo specifico tratto stradale di percorrenza, incrociando i dati del GPS con quelli registrati dalle telecamere presenti sulla vettura e in grado di leggere la segnalazione stradale, compresa quella, ovviamente, che stabilisce i limiti di velocità.

I limitatore di velocità non sarà in grado di rallentare automaticamente il veicolo. Questo strumento è piuttosto un allarme, che può essere emanato attraverso segnali sonori, vibrazioni o altre forme di stimolazione sensoriale, per consentire al conducente di tenere sempre le mani sul volante, senza inutili distrazioni.

Possibilità di disattivazione e requisiti minimi

I limitatori di velocità potranno comunque essere disattivati anche se, installati di default sul veicolo e attivati dall’accensione dello stesso, in base a quanto sancito dal considerando numero 11 del regolamento, il quale prevede che Dovrebbe essere possibile disattivare ladattamento intelligente della velocità, per esempio, quando il conducente riceve falsi avvisi o risposte inadeguate a causa di condizioni metereologiche inclementi, segnaletica orizzontale temporanea contraddittoria in zone di lavori o segnali stradali fuorvianti, difettosi o mancanti. Tale possibilità di disattivazione dovrebbe essere sotto il controllo del conducente. Dovrebbe consentire che ladattamento intelligente della velocità sia disattivato per il tempo necessario e che sia riattivato con facilità dal conducente. Quando il sistema disattivato, possono essere forniti informazioni su limite di velocità. Il sistema dovrebbe essere sempre attiva al momento dellaccensione del veicolo del conducente dovrebbe sempre sapere se il sistema è attivato o disattivato.” 

A questa caratteristica si sommano i requisiti minimi degli adattatori di velocità richiesti dall’articolo 6 del Regolamento:

  • deve essere possibile informare il conducente tramite il comando dell’acceleratore o altro segnale che limite di velocità è stato superato;
  • il segnale dedicato si basa su informazioni relative a limiti di velocità tramite l’osservazione della segnaletica stradale, dei segnali provenienti dall’infrastruttura stradale o dai dati di cartografia digitale o entrambi, disponibili sul veicolo;
  • i sistemi non devono pregiudicare la possibilità per i conducenti di superare la velocità del veicolo suggerita al sistema;
  • gli obiettivi in termini di prestazione devono essere stabiliti al fine di evitare o minimizzare il tasso di errore, conformemente alle condizioni reali di guida.

Obblighi di omologazione

Il Regolamento impone ai costruttori di omologare i veicoli ma anche i sistemi di sicurezza in modo conforme a quanto previsto dallo stesso e dagli atti delegati di esecuzione.

I costruttori inoltre devono garantire che i veicoli e i sistemi di sicurezza siano conformi a quanto stabilito dall’allegato 2 del regolamento e alle procedure di prova stabilite dagli atti delegati così come alle procedure uniformi e alle specifiche tecniche sancite negli atti di esecuzione del Regolamento.

Allegati

avvocati reato diffamazione

Avvocati: non è reato dare del pezzente alla controparte Per la Cassazione non c'è reato di diffamazione, in quanto il vocabolo non incide sulla reputazione del destinatario

Reato di diffamazione

Non c’è diffamazione se durante l’udienza un avvocato definisce “pezzente” la controparte. Il vocabolo, peraltro usato in una reazione di stizza percepita solo dai legali, non è idoneo ad incidere sulla reputazione del destinatario. Così la quinta sezione penale, con sentenza n. 25026-2024 accogliendo senza rinvio il ricorso dell’imputato perchè il fatto non costituisce reato.

La vicenda

Nella vicenda, un avvocato ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Gela, che ne ha confermato l’affermazione di responsabilità, statuita in primo grado dal giudice di pace, in ordine al reato di diffamazione, per aver proferito nel corso di un’udienza di un processo civile, in presenza di più persone, in danno della parte civile costituita nel processo penale, la parola “pezzente”.

Secondo il legale, la parola “”pezzente” non avrebbe valenza diffamatoria e il fatto non integrerebbe il reato contestato, anche alla luce dei precedenti giurisprudenziali che avrebbero escluso la sua sussistenza in presenza di espressioni di contenuto più triviale. Difetterebbe comunque la prova del dolo generico del reato di diffamazione perchè l’intento dell’imputato sarebbe stato solo quello di esprimere una critica consentita e contestualizzata.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato e va pronunciata sentenza di annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste. La doglianza circa “l’inosservanza della legge penale con riferimento alla portata intrinsecamente offensiva dell’espressione utilizzata e sotto questo profilo, anche nell’ambito dell’esercizio del potere officioso attribuito al giudice dall’art. 129 comma 1cod. proc. pen. – ritiene il collegio – che colga nel segno”.

Nel caso di specie, per la S.C., difettano gli elementi essenziali del reato di diffamazione, che attiene alla “tutela del bene giuridico della reputazione, intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile”.

La giurisprudenza di legittimità che si è formata in tema di diffamazione richiede, invero, che “la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento (sez. 5, n. 5654 del 19/10/2012)”.
Nella specie, invece, la parola “pezzente” è stata pronunciata dall’imputato isolatamente, in modo improvviso ed occasionale, al di fuori di un più ampio ed articolato contesto dialogico, in occasione di un non meglio precisato
riferimento, emerso nel corso di un’udienza di una controversia civile, ad una denuncia per truffa che la parte civile costituita nel processo penale, avrebbe presentato nei suoi confronti. La parola è stata udita dai due patrocinatori della parte civile, che, dopo aver chiesto ed ottenuto di apprendere a chi fosse rivolta, l’hanno comunicato a quest’ultimo, che ha formalizzato querela. La sentenza impugnata si è limitata, assertivamente, a chiosare che il termine usato possederebbe indiscussa pregnanza offensiva.

Nessun effetto lesivo

Per i giudici di piazza Cavour, invece, “non è possibile cogliere l’effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita di relazione della persona offesa e sul riconoscimento alla sua dignità nella realtà socio-culturale circostante. In altre parole, al di là dell’avvenuta percezione, da parte dei due avvocati, dell’esternazione verbale, non è ravvisabile, alla lettura delle proposizioni delle decisioni di merito, indicatore alcuno e soprattutto appagante della idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, ad incidere sulla reputazione del destinatario di essa, intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera”.

Da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.

Allegati

Cybersicurezza e reati informatici: legge in vigore dal 17 luglio La nuova legge sulla Cybersicurezza inasprisce le pene per i reati informatici e obbliga le pubbliche amministrazioni a segnalare gli attacchi entro 24 ore

Legge cybersicurezza in vigore dal 17 luglio

E’ stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 2 luglio, la legge n. 90/2024 sulla cybersicurezza e reati informatici, approvata in via definitiva dal Senato il 19 giugno scorso, in vigore dal 17 luglio. Il testo di legge, composto da 24 articoli, introduce anche modifiche al codice penale e al codice di procedura penale.

Il capo I contiene disposizioni per il rafforzamento della Cybersicurezza nazionale della pubblica amministrazione e del settore finanziario, disciplina le funzioni dell’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale e regolamenta i contratti pubblici di beni e servizi informatici.

Il capo II invece contiene disposizioni specifiche per la prevenzione e la lotta ai reati informatici, prevede misure di contrasto in caso di attacchi a sistemi informatici o telematici, detta regole specifiche per la sicurezza delle banche dati degli edifici giudiziari.

Vediamo le novità più importanti della nuova legge.

Obbligo di notifica degli incidenti informatici

Le pubbliche amministrazioni, gli enti territoriali, le società di trasporto pubblico urbano ed extraurbano e le aziende sanitarie locali hanno l’obbligo di segnalare e notificare gli incidenti informatici in grado di impattare sulle reti sui sistemi informativi e sui servizi informatici.

Sono soggetti all’obbligo di segnalazione anche le società in house che forniscono servizi informatici, di trasporto, di raccolta, smaltimento e trattamento di acque reflue urbane domestiche industriali e che si occupano della gestione dei rifiuti.

Questi soggetti hanno l’obbligo di segnalare lincidente entro il termine massimo di 24 ore dal momento in cui ne hanno acquisito conoscenza. La segnalazione e la notifica devono essere effettuate con apposite procedure tramite il sito istituzionale dell’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale. La reiterata inosservanza dell’obbligo di notifica da parte dei soggetti obbligati comporta l’avvio di ispezioni da parte dell’Agenzia nonché l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie fino a 125.000 euro.

L’Agenzi indica anche ai soggetti obbligati l’adozione di interventi risolutivi per contrastare la vulnerabilità informatica a cui sono esposti. La mancata adozione di detti interventi è punita con sanzione amministrativa.

Rafforzamento della resilienza delle PP.AA.

Le pubbliche amministrazioni, al fine di contrastare gli attacchi informatici, individuano una struttura che ha il compito di sviluppare politiche e procedure di sicurezza dell’informazione, di produrre e a aggiornare sistemi di analisi preventiva e i piani per gestire il rischio informatico, di redigere e aggiornare un documento che indichi i ruoli e l’organizzazione del sistema per la sicurezza delle informazioni, di predisporre e aggiornare un piano programmatico per la sicurezza dei dati, di pianificare e attuare attività di potenziamento per la gestione dei rischi informatici, di programmare  e attuare le misure previste dalle linee guida per la Cybersicurezza emanate dall’agenzia nazionale, di monitorare e valutare le minacce alla sicurezza per un pronto aggiornamento delle misure di sicurezza.

Presso la struttura individuata le pubbliche amministrazioni possono conferire l’incarico di referente per la Cybersicurezza a un dipendente, previa autorizzazione della pubblica amministrazione di appartenenza. Tale referente rappresenta un punto di contatto tra l’amministrazione e l’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale, a cui pertanto deve essere comunicato il nominativo.

Crittografia per rafforzare le misure di sicurezza

Le strutture delle pubbliche amministrazioni con il compito di contrastare il rischio informatico sono tenute a verificare che i programmi e le applicazioni informatiche in uso siano dotate di soluzioni crittografiche e rispettino le linee guida sulla crittografia e sulla conservazione delle password adottate dall’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale e dal Garante per la protezione dei dati personali. L’articolo 10 del testo prevede il riconoscimento all’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale di una serie di funzioni in materia di crittografia, finalizzata a promuoverne l’utilizzo a vantaggio della tecnologia blockchain.

Pene più severe per i reati informatici

La legge  introduce e definisce nuovi reati informatici, come l’accesso abusivo a sistemi informatici o telematici e l’installazione di software dannosi per danneggiare o interrompere sistemi informatici.

Vengono introdotte aggravanti per la truffa cyber, con previsione della confisca obbligatoria di beni e strumenti informatici utilizzati per il reato, oltre al profitto derivante dallo stesso.

Il reato di estorsione mediante reati informatici viene punito in modo specifico, mentre la pena per il danneggiamento di sistemi informatici o telematici di pubblica utilità è aumentata da 2 a 6 anni di reclusione. Introdotte anche attenuanti per chi collabora con la giustizia.

parcheggio vicino auto

È reato parcheggiare troppo vicino a un’altra auto Parcheggiare troppo vicino a un’altra auto comporta il rischio di essere multati fino a 173 euro e di andare in carcere fino a 4 anni

Parcheggio troppo vicino a un’altra auto: quali regole?

Capita a tutti di parcheggiare la propria auto e di fare la brutta esperienza di trovare un altro veicolo parcheggiato così attaccato al proprio da impedire addirittura l’apertura della portiera e risalire sul proprio mezzo. In questi casi come ci si deve comportare? La legge prevede delle tutele per questi comportamenti incivili? Per rispondere al quesito occorre analizzare prima di tutto l’articolo 157 del Codice della Strada.

Distanze per sosta e fermata: art. 157 Codice della Strada

Dall’analisi letterale della norma, in materia di distanze da rispettare da parte del veicolo parcheggiato, emerge che lo stesso, in presenza di un marciapiede, deve essere collocato il più possibile vicino al margine destro della carreggiata e, in assenza di marciapiede rialzato, rispettare la distanza di un metro. Fuori dai centri abitati, se non è possibile parcheggiare fuori dalla carreggiata, il parcheggio deve avvenire il più vicino possibile al margine destro della carreggiata. Nelle strade urbane a senso unico è possibile parcheggiare lungo il margine sinistro della carreggiata, ma è necessario lasciar uno spazio sufficiente a consentire il passaggio di una fila di veicoli e comunque lo spazio non può essere inferiore a tre metri.

Il comma 7 infine vieta a chiunque di aprire le porte di un veicolo, di discendere dallo stesso, nonché di lasciare aperte le porte, senza essersi assicurato che ciò non costituisca pericolo o intralcio per gli altri utenti della strada.”

La norma nulla dice di specifico sulla distanza minima che deve essere rispettata tra due veicoli parcheggiati. Vero però che sempre l’articolo 157 impone di parcheggiare nel rispetto della segnaletica presente, questo significa che se lo spazio di parcheggio è delimitato dalle strisce bianche, azzurre o gialle il veicolo non può invadere lo spazio di un altro parcheggio. Inoltre, come abbiamo visto, non si possono lasciare le portiere aperte o aprirle se la condotta rappresenta un intralcio o un pericolo per gli altri utenti della strada.

Per chi viola le regole dettate dall’articolo 157 CdS la multa varia da 42 euro a  173 euro.

Reato di violenza privata

La sanzione amministrativa non è però l’unica conseguenza per un comportamento incivile come quello di parcheggiare appiccicati a un’altra auto.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 53878/2017 ha chiarito che questa condotta integra il reato di violenza privata, previsto e disciplinato dall’articolo 610 del Codice penale, che punisce “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri affari, tollerare o omettere qualcosa”.

Condizionata la libertà di autodeterminazione

Nel caso di cui si sono occupati gli Ermellini, l’imputato aveva posizionato la propria vettura a pochi centimetri dallo sportello, lato autista, del veicolo della persona offesa la quale, considerata anche la presenza di autovetture parcheggiate davanti e dietro al suo mezzo, non poteva spostarsi in nessun modo. L’imputato ha pertanto costretto la parte offesa a scendere dalla propria auto per affrontarlo in una discussione al fine di ottenere lo spostamento del mezzo. L’imputato ha cioè condizionato severamente sia la libertà di autodeterminazione, che la libertà di movimento della persona offesa.

Da qui la condanna per il reato di violenza privata, per il quale l’articolo 610 del codice penale contempla la pena della reclusione fino a quattro anni.

figli separazione trasferimento padre

I figli dei separati non possono essere trasferiti La Cassazione ha affermato che il trasferimento della madre in località molto distante da quella del padre “potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità”

La richiesta di trasferimento dei figli minori

Il caso che ci occupa trae origine da un giudizio in materia di scioglimento del matrimonio, nell’ambito del quale la moglie aveva chiesto di essere autorizzata trasferirsi, unitamente ai figli minori, presso una località distante molti chilometri da quella di residenza del padre.

Il Tribunale di Napoli aveva accolto tale richiesta e la Corte territoriale aveva confermato tale decisione.

Avverso il provvedimento emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, il marito aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Il trasferimento ostacola la frequentazione con il padre

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 12282-2024, ha accolto, in merito alla contestazione sul trasferimento avanzata dal marito, il ricorso dallo stesso proposto e ha cassato il provvedimento impugnato rinviando la causa alla Corte d’appello di Napoli.

In particolare, la Corte ha affermato che “il trasferimento dei tre figli in località distante di parecchi chilometri da quella di residenza del padre non potrà non essere di ostacolo alla frequentazione del genitore coi figli” anche se al padre sia stata riconosciuta la possibilità di vedere i figli e di tenerli con sé.

Notevole distanza dal padre

La fondatezza della doglianza lamentata dal padre, ha spiegato la Corte dipende, nel caso di specie, dalla notevole distanza tra le due città “che non consente frequentazioni giornaliere”, ma al contrario solo visite di più giorni, data la notevole durata del viaggio. Inoltre, ha proseguito il Giudice di legittimità, i figli sono occupati con i vari impegni scolastici, sportivi ecc., rendendo ancora più difficoltose e sporadiche le frequentazioni con il padre.

Violazione diritto alla bigenitorialità

In questo senso, la Corte ha concluso il proprio esame sul punto ritenendo che “il trasferimento potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità”.

Allegati

avvocati compensi parti aumento

Avvocato: difesa di più parti, spese aumentate per legge Nel caso di difesa di più assistiti nel medesimo giudizio, il compenso spettante all’avvocato equivale allo stesso che gli sarebbe spettato se avesse difeso una sola parte, con l’applicazione di una maggiorazione

Unica attività difensiva per più assistiti

Nel caso in esame, e per quanto qui rileva, i ricorrenti hanno fatto valere dianzi alla Corte di Cassazione la ritenuta violazione dell’art. 4 del d.m. 10 marzo 2014 n. 55.

Nella specie, i ricorrenti hanno rilevato che, nel corso del giudizio di appello, le due società controparti si erano costituite ed erano state difese dal medesimo avvocato, il quale aveva depositato due comparse di costituzione e risposta di identico contenuto e di pari estensione. A tal riguardo i ricorrenti hanno precisato altresì che “il deposito di tali identiche comparse aveva costituito l’unica attività difensiva svolta nel secondo grado di giudizio da difensore delle due parti appellate, che non aveva depositato scritti conclusionali”.

Alla luce di tali circostanze, i ricorrenti hanno contestato la decisione della Corte d’appello che li aveva condannati al rimborso integrale delle spese sostenute da ciascuna delle due società, con conseguente pagamento di “due distinti compensi al medesimo difensore”.

La doglianza poggia sul rilievo secondo cui il Giudice di merito avrebbe dovuto valutare che, nella sostanza, il difensore aveva redatto un unico scritto difensivo, dovendosi pertanto escludere di addossare alle parti soccombenti di quel giudizio “spese eccessive e superflue, in conformità al disposto dell’art. 92, primo comma, cod. proc. civ.”.

Non ammessa la ripetizione di spese eccessive e superflue

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15946-2024, ha accolto il suddetto motivo d’impugnazione e ha dichiarato inammissibili gli altri.

In particolare, la Corte ha affermato che “in ragione dell’esigenza di evitare la ripetizione di spese eccessive o superflue (…), la fattispecie va assimilata, ai fini della disciplina delle spese, a quella di deposito di un unico atto per le diverse parti difese”.

A tal riguardo, la Corte ha altresì precisato che le variazioni in aumento o in diminuzione, nell’ipotesi di assistenza di più soggetti da parte del medesimo avvocato, sono stabilite dall’art. 4, commi 2 e 4, del d.m. 10 marzo 2014 n. 55.

Compenso unico ma maggiorato

Dal combinato disposto delle suddette norme emerge che all’avvocato, in siffatti casi, debba essere corrisposto un “compenso unico”, come se lo stesso avesse difeso una sola parte; a tale importo dovrà poi essere applicata una maggiorazione in misura percentuale per ciascuna parte, nonché in proporzione al numero delle parti assistite.

Resta comunque fermo che, nel caso in cui la difesa di più assistiti non abbia comportato “l’esame di specifiche e distinte questioni di fatto e di diritto”, la maggiorazione proporzionata al numero delle parti debba essere ridotta fino al 30%.

In tal senso, ha spiegato la Corte, per parti aventi la stessa posizione processuale si intendono “coloro che siano accomunati dalla posizione di attore, di convenuto o di intervenuto”.

La decisione della Cassazione

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Cassazione ha concluso il proprio esame sul punto rilevando che “La circostanza che la ‘regola’ fosse quella dell’aumento, e l’eccezione quella della misura standard, induce a ritenere che, mentre il giudice, il quale avesse applicato l’aumento, non avrebbe avuto alcun obbligo di motivare la propria decisione, la scelta di non applicare l’aumento imponeva al giudice l’obbligo di indicare le ragioni per cui aveva inteso derogare alla regola generale”.

In questo senso, la Corte d’appello avrebbe dovuto individuare la misura del compenso standard liquidabile per una sola parte e poi applicare la maggiorazione prevista dalla sopracitata normativa di riferimento.

Allegati