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AI Act: la legge europea sull’intelligenza artificiale In vigore dal 1° agosto 2024 la legge sull'intelligenza artificiale che mira a garantire i diritti fondamentali dei cittadini europei e al contempo detta misure specifiche sull'IA nella giustizia

AI Act in vigore

Il Consiglio Ue ha approvato in via definitiva, il 21 maggio 2024, il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio (AI Act) che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale. Le nuove disposizioni sono applicabili a due anni dall’entrata in vigore del Regolamento, con alcune eccezioni, tra cui i divieti e le disposizioni generali, operativi già dopo sei mesi e gli obblighi, applicabili dopo 36 mesi, ai sistemi considerati ad alto rischio.

Il Regolamento UE 1689/2024, che introduce regole, obblighi e divieti sull’intelligenza artificiale, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 12 luglio 2024 ed è entrato in vigore il 1° agosto 2024.

La rilevanza del rischio

L’intervento normativo in esame è fondato su un sistema di misurazione del rischio definito in modo chiaro; ciò significa che maggiore è il rischio di causare danni, più severe saranno le norme volte a disciplinare la materia dell’intelligenza artificiale.

Tale approccio si tradurrà nell’introduzione di obblighi di trasparenza meno gravosi per gli ambiti interessati dall’intelligenza artificiale che presentano un rischio limitato, mentre, al contrario, i sistemi di AI considerati ad alto rischio saranno sottoposti a limiti e obblighi più stringenti per poter essere utilizzati all’interno dell’Unione Europea.

Categorie di intelligenza artificiale

In generale, è possibile distinguere le seguenti categorie di intelligenza artificiale, individuate in base alla diversa valutazione del rischio che le caratterizza:

  • sistemi di AI vietati perché implicano un rischio inaccettabile, quali, a mero titolo esemplificativo, l’AI che sfrutta la manipolazione comportamentale cognitiva e il riconoscimento delle emozioni in determinati ambiti;
  • sistemi di AI ad alto rischio ma consentiti nel rispetto di stringenti condizione e requisiti;
  • sistemi di AI a rischio basso o minimo.

Obblighi di trasparenza

Il Regolamento spiega che per trasparenza “si intende che i sistemi di IA sono sviluppati e utilizzati in modo da consentire un’adeguata tracciabilità e spiegabilità, rendendo gli esseri umani consapevoli del fatto di comunicare o interagire con un sistema di IA”.

I sistemi di IA ad alto rischio dovrebbero essere progettati in modo da consentire ai fornitori di comprendere il funzionamento del sistema di IA, valutarne la funzionalità e comprenderne i punti di forza e i limiti. I sistemi di IA ad alto rischio dovrebbero essere accompagnati da informazioni adeguate sotto forma di istruzioni per l’uso.

Intelligenza artificiale nella giustizia

Nel provvedimento normativo si legge che “Alcuni sistemi di IA destinati all’amministrazione della giustizia e ai processi democratici dovrebbero essere classificati come sistemi ad alto rischio, in considerazione del loro impatto potenzialmente significativo sulla democrazia, sullo Stato di diritto, sulle libertà individuali e sul diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”.

L’utilizzo di strumenti di IA, precisa il provvedimento, può fornire “sostegno al potere decisionale dei giudici o all’indipendenza del potere giudiziario, ma non dovrebbe sostituirlo: il processo decisionale finale deve rimanere un’attività a guida umana. Non è tuttavia opportuno estendere la classificazione dei sistemi di IA come ad alto rischio ai sistemi di IA destinati ad attività amministrative puramente accessorie, che non incidono sull’effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi”.

Punteggio sociale

La legge si occupa anche di indicare i sistemi di intelligenza artificiali che, consentendo di attribuire un punteggio sociale alle persone fisiche, possono portare “a risultati discriminatori e all’esclusione di determinati gruppi. Possono inoltre ledere il diritto alla dignità e alla non discriminazione e i valori di uguaglianza e giustizia. Tali sistemi di IA valutano o classificano le persone fisiche o i gruppi di persone fisiche sulla base di vari punti di dati riguardanti il loro comportamento sociale in molteplici contesti o di caratteristiche personali o della personalità”.

In considerazione dei rischi sopra indicati, il testo stabilisce che tali sistemi dovrebbero pertanto essere vietati, senza, tuttavia, che vengano pregiudicate le “pratiche lecite di valutazione delle persone fisiche effettuate per uno scopo specifico in conformità del diritto dell’Unione e nazionale”.

Istituzione di organi di governo

Nell’ambito dell’intervento normativo in esame è stato istituito:

  • l’ufficio per l’IA per mano della Commissione europea, con “la missione di sviluppare competenze e capacità dell’Unione nel settore dell’IA e di contribuire all’attuazione del diritto dell’Unione in materia di IA”;
  • il gruppo di esperti scientifici indipendenti avente la finalità di “integrare i sistemi di governance per i modelli di IA per finalità generali” e “sostenere le attività di monitoraggio dell’ufficio per l’IA”, anche fornendo “segnalazioni qualificate all’ufficio per l’IA che avviano attività di follow-up quali indagini”;
  • il comitato europeo, composto da rappresentanti degli Stati membri, per l’intelligenza artificiale che “dovrebbe sostenere la Commissione al fine di promuovere gli strumenti di alfabetizzazione in materia di IA, la sensibilizzazione del pubblico e la comprensione dei benefici, dei rischi, delle garanzie, dei diritti e degli obblighi in relazione all’uso dei sistemi di IA”;
  • il forum consultivo, cui è affidato il compito di “raccogliere il contributo dei portatori di interessi all’attuazione del presente regolamento, a livello dell’Unione e nazionale”.

Sistema sanzionatorio

Il testo stabilisce che la violazione di quanto previsto dall’art. 5 del Regolamento in tema di “Pratiche di IA vietate” è “soggetta a sanzioni amministrative pecuniarie fino a 35 000 000 EUR o, se l’autore del reato è un’impresa, fino al 7 % del fatturato mondiale totale annuo dell’esercizio precedente, se superiore”.

Il DDL italiano sull’AI

Per completezza, si ricorda che il 24 aprile scorso, il Governo italiano ha approvato un disegno di legge in materia di intelligenza artificiale.

In particolare, l’intervento normativo italiano si propone di introdurre criteri regolatori volti a equilibrare “il rapporto tra le opportunità che offrono le nuove tecnologie e i rischi legati al loro uso improprio, al loro sottoutilizzo o al loro impiego dannoso”.

Il disegno di legge in questione non verrà superato dalla nuova normativa europea, al contrario, i due impianti normativi sono destinati ad integrarsi e ad armonizzarsi tra di loro.

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Allegati

avvocato assente udienza

Avvocato sanzionato se si assenta dall’udienza anche senza danni al cliente Il CNF ha ribadito che il difensore che non partecipi all’udienza, pone in essere un comportamento illecito ex art. 26 c.d.f., a nulla rilevando l’assenza di concrete conseguenze negative per il proprio assistito

Assenza dell’avvocato all’udienza penale

Nel caso in esame, l’avvocato era stato sottoposto ad un procedimento disciplinare dinanzi al Consiglio Distrettuale di Disciplina di Milano, per avere, per quanto qui rileva, violato gli artt. 26 comma III, 53 comma I, 63 comma II CDF perché, quale difensore di fiducia del proprio cliente, nell’ambito di un procedimento penale, non era comparso a diverse udienze, nonostante avesse ricevuto rituale notifica delle udienze in questione, né aveva provveduto a farsi sostituire, né in ogni caso aveva comunicato formalmente di aver rinunciato al mandato.

All’esito del dibattimento il Consiglio di Disciplina aveva applicava a carico del difensore la sanzione della sospensione per sei mesi dall’esercizio della professione.

Avverso tale decisione l’avvocato incolpata aveva proposto ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense (CNF).

Responsabilità avvocato che non partecipa alle udienze

Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 52-2024, ha rigettato il ricorso proposto.

Il CNF ha anzitutto evidenziato gli argomenti proposti a difesa dall’avvocato, ovvero che dalla sua assenza in udienza non sarebbero derivati pregiudizi ai suoi assistiti, i quali “anzi avrebbero confermato la loro fiducia all’incolpata, e nell’assenza di dolo o negligenza da parte della stessa”.

Sul punto il Consiglio ha ricordato il consolidato orientamento dello stesso secondo cui “in difetto di una strategia difensiva concordata con il cliente, con relativo onere a carico di chi intenda addurla, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante ex art. 26 c.d.f. (…) il difensore di fiducia o d’ufficio che non partecipi all’udienza, a nulla rilevando, peraltro, l’eventuale assenza di concrete conseguenze negative per il proprio assistito giacché ciò non varrebbe a privare di disvalore il comportamento negligente del professionista”. Rispetto a tale elemento il Consiglio ha osservato che, nel caso in esame, l’avvocato non ha nemmeno provato a dimostrare che la sua assenza fosse parte di una “strategia difensiva concordata con i clienti”.

Dolo o negligenza

Passando all’eccepita assenza, da parte del difensore, di “dolo o negligenza” in relazione alla mancata partecipazione alle udienze, il CNF ha fatto riferimento all’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità del Consiglio secondo cui “per integrare un illecito disciplinare sotto il profilo soggettivo, è sufficiente la cd. suitas ovvero la volontà consapevole dell’atto che si compie, non risultando necessaria, ai fini dell’imputabilità dell’infrazione disciplinare, la consapevolezza dell’illegittimità della condotta (dolo o colpa) ed essendo sufficiente la volontarietà dell’azione che ha dato luogo al compimento di un atto deontologicamente scorretto”.

Anche la difesa formulata dall’avvocato che aveva giustificato la propria assenza alle udienze a causa dello stato di salute della madre, non è stata ritenuta valida dal CNF per motivi sia formali che sostanziali.

Allegati

gratuito patrocinio spese stato

Gratuito patrocinio: le spese processuali spettano allo Stato La Cassazione ha precisato che le spese poste a favore della parte vittoriosa, devono essere liquidate allo Stato quando la parte risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato

Separazione e affidamento dei figli

Il caso in esame prende avvio da un giudizio avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio e la decisione sulle contrapposte pretese inerenti all’assegno, il diritto di abitazione e l’affidamento con le visite dei figli.

All’esito del giudizio di secondo grado, che aveva parzialmente riformato le risultanze del Giudice di prime cure, la Corte d’appello di Venezia aveva, per quanto qui rileva, compensato per 1/6 le spese del primo e del secondo grado di giudizio e per la restante parte, pari a 5/6, posto le spese processuali a carico dell’ex marito ed in favore dell’ex moglie.

Avverso la suddetta decisione di secondo grado l’ex marito avevo proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Spese di lite in favore dello Stato

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14691/2024, ha accolto il motivo d’impugnazione formulato dal ricorrente ai sensi dell’art. 360, commi 1 e 3, c.p.c. in relazione all’art. 133 e all’art. 75 del DPR n. 115/2002.

In particolare, il ricorrente aveva contestato il fatto che, con la sentenza emessa dalla Corte d’appello, egli fosse stato condannato al pagamento delle spese di lite in favore dell’ex moglie anziché in favore dello Stato e ciò nonostante fosse stata dichiarata e documentata l’ammissione dell’ex moglie al patrocinio a spese dello Stato.

Patrocinio a spese dello Stato: la decisione

La Corte, dopo essersi occupata degli altri motivi di ricorso, ha affermato che, quanto alla suddetta doglianza, dovessero essere accolte le ragioni dell’ex marito “in quanto le spese poste a favore della parte vittoriosa, debbono essere liquidate in favore dello Stato in quanto la parte personalmente risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato”.

Posto quanto sopra, il Giudice di legittimità ha pertanto disposto che la condanna alle spese del ricorrente, formulata in sede di appello, dovesse essere posta direttamente a favore dello Stato e non dell’ex moglie.

revisione assegno divorzio convivenza

Assegno di divorzio all’ex moglie “indigente” anche se convive Per la Cassazione, qualora sia instaurata una stabile convivenza tra un terzo e l’ex coniuge indigente, se quest’ultimo è privo dei mezzi adeguati, conserva il diritto all'assegno divorzile

Revisione delle condizioni di divorzio

Il caso in esame attiene al tema della revisione delle condizioni di divorzio in relazione al quale la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso di specie, con ordinanza n. 13739/2024, ha accolto il ricorso proposto dall’ex moglie e ha cassato il decreto impugnato, rinviando la causa alla Corte d’appello.

Nella specie, la Corte ha anzitutto ripercorso la giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione alle condizioni necessarie affinché si possa procedere alla revisione dell’assegno divorzile.

Ciò posto, il Giudice di legittimità ha avuto modo di affermare che la Corte d’appello, nella precedente fase di giudizio, aveva sminuito, nell’ambito della propria decisione, l’elemento costitutivo della convivenza della beneficiaria dell’assegno.

La giurisprudenza in materia di convivenza

In particolare, ha precisato la Corte, la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di revisione dell’assegno divorzile, afferma costantemente che “In tema di divorzio, ove sia richiesta la revoca dell’assegno in favore dell’ex coniuge a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza “more uxorio”, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto (…) non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge, e gli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza”.

Componente compensativa dell’assegno di divorzio

Proseguendo l’esame in ordine alla possibile revoca dell’assegno divorzile nel caso di specie, la Corte ha ricordato che “qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa”.

Sulla scorta del percorso argomentativo offerto dalla Corte, la stessa ha dunque concluso il proprio esame affermando che “la revisione dell’assegno richiede la presenza di ‘giustificati motivi’ e impone la verifica sopravvenuta, effettiva e significativa modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi sulla base di una valutazione comparativa delle rispettive situazioni reddituali e patrimoniali”.

La decisione

Per le ragioni sopra brevemente rappresentate, la Corte ha dunque accolto il ricorso proposto dall’ex moglie avverso il provvedimento adottato dal Giudice di prime cure con cui veniva rigettato il reclamo, proposto dalla beneficiaria, in relazione alla riduzione dell’assegno divorzile in suo favore.

Allegati

procura liti processo tributario

Procura alle liti: sanabile nel processo tributario La Cassazione ha precisato che una mera insufficienza o genericità della procura alle liti può essere sanata con assegnazione di un termine per la regolarizzazione della costituzione

Nullità della procura

Nel caso di specie e per quanto qui rileva, il Giudice tributario di prime cure aveva condiviso le doglianze formulate dall’Agenzia delle entrate e per l’effetto aveva accertato la nullità della procura alle liti rilasciata dal contribuente al difensore, ritenendo altresì che la produzione di valida procura nel successivo grado di giudizio non fosse idonea a sanare l’originario vizio della stessa.

Avverso tale decisione il contribuente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Nel giudizio tributario si può sanare la procura

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 12831/2024, ha cassato la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte tributaria di secondo grado.

Per quanto in particolare attiene al contestato vizio della procura alle liti, il Giudice di legittimità ha ripercorso la giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo cui l’art. 83, comma 3, c.p.c. “non può essere interpretato in modo formalistico, avendo riguardo al dovere del giudice (…) di segnalare alle parti i vizi della procura affinchè possano porvi rimedio”.

Inoltre, la Corte ha ricordato che, quando il giudice “rileva un vizio che determina la nullità della procura al difensore, assegna alle parti un termine perentorio per il rilascio della stessa o per la sua rinnovazione”.

La decisione

Nel caso di specie, ha evidenziato il Giudice di legittimità, la cd riforma Cartabia, che non consente di “sanare” l’inesistenza o la mancanza in atti della procura alle liti, “non ha inciso sulla materia tributaria che (…) prevede delle norme speciali in materia di invalidità e sanatoria della procura”.

La Corte, sulla scorta di quanto sopra riferito, ha concluso il proprio esame enunciando il seguente principio di diritto “il giudice tributario, ove la procura alle liti, le modalità di conferimento della quale seguono le regole generali dettate dall’art. 83 cod. proc. civ., manchi o sia invalida, prima di dichiarare l’inammissibilità del ricorso (…) deve invitare la parte a regolarizzare la situazione e, solo in caso di inottemperanza, pronunciare la relativa inammissibilità”.

spoil system pa

Spoil system solo per i dirigenti apicali La Cassazione ha precisato che ai fini dell’applicazione del c.d. spoil system, la natura apicale dell’incarico conferito al dirigente va valutata tenendo conto del dato formale di tale incarico, nonché dei poteri attribuiti al detto dirigente in concreto

L’incarico di dirigente nella p.a.

Il caso in esame riguarda l’incarico assunto da un dirigente presso la Regione Calabria della durata di tre anni. A seguito dell’elezione della nuova Giunta regionale quest’ultima aveva dichiarato decaduto tutti gli incarichi dirigenziali.

Il dirigente aveva pertanto adito il Tribunale di Catanzaro ed il giudizio di merito si era concluso con la decisione della Corte d’appello territoriale che aveva, per quanto qui rileva, accolto le doglianze del lavoratore, la quale aveva ritenuto illegittima la scelta di revocare l’incarico in questione.

Il dirigente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, a seguito del precedente riesame effettuato dalla Corte stessa, su sollecitazione della Regione Calabria.

I dirigenti apicali preposti ai dipartimenti

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 15971/2024, ha accolto, per quanto qui rileva, il ricorso proposto dal dirigente.

In particolare, la Corte ha affermato, ripercorrendo la giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, che per valutare la legittimità della revoca dell’incarico del dirigente, in ragione del cambio della maggioranza politica (cd spoil system), occorre avere riguardo, oltre che al dato formale, anche alla posizione occupata dal dirigente, vale a dire se lo stesso sia o meno alla guida di un ufficio apicale. Tale ultimo requisito si intende integrato se il capo dipartimento ricopre una funzione organizzativa consistente nel “coordinare e dirigere l’ufficio secondo le direttive generali degli organi di direzione politica che assiste, svolge un incarico rispetto al quale opera il c.d. spoil system, rientrando esso negli incarichi dirigenziali apicali che non attengono ad una semplice attività di gestione, ed essendo invece rapportabile alla direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali”.

Per quanto attiene al caso concreto assume inoltre particolare rilievo la disposizione di cui all’art. 22, comma 2 della legge regionale Calabria n. 7 del 1996 ove è stabilito che “I Dirigenti preposti ai Dipartimenti svolgono le funzioni di Dirigente Generale ed assumono tale denominazione”. Inoltre, la Corte ha precisato che il fatto che il contratto individuale del dirigente richiamasse l’articolo 16, comma 1, Dlgs n. 165 del 2001, che individua le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali statali, “non è dirimente in quanto il presupposto dell’applicazione dello spoil system è il carattere apicale del dirigente interessato” mentre nel caso di specie il dirigente era “sempre formalmente, sottoposta al competente dirigente di dipartimento”.

Il Giudice di legittimità ha pertanto riferito che la Corte territoriale, nell’ambito del giudizio di merito, avrebbe dovuto verificare “non tanto se la dirigente avesse in concreto i poteri propri dell’apicale, ma, soprattutto, se essa fosse stata posta a capo di una struttura che, da un punto di vista organizzativo, avesse le stesse caratteristiche di un Dipartimento, in modo da distinguersi, per la sua totale autonomia, dai Dipartimenti ufficialmente esistenti e da aggiungersi ad essi. Solo a queste condizioni i poteri eventualmente assegnati alla ricorrente avrebbero potuto condurre ad una sua equiparazione a un dirigente apicale”.

La decisione

In definitiva, sulla scorta di quanto sopra riferito, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto “Ai fini dell’applicazione della normativa sul c.d. spoil system, la natura apicale dell’incarico conferito con contratto a un dirigente va valutata tenendo conto, in linea di principio, della qualificazione formale di tale incarico contenuta nel contratto medesimo, senza che rilevi di per sé il semplice richiamo dell’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, il quale individua le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali statali, pur se in astratto incompatibile con la menzionata qualificazione. Per superare il dato formale, dal quale, comunque, occorre partire, è necessario verificare non tanto i poteri attribuiti al detto dirigente in concreto, ma se egli sia stato posto a capo di una struttura che, da un punto di vista organizzativo, abbia le stesse caratteristiche di un ufficio apicale, in modo da distinguersi e aggiungersi, per la sua totale autonomia, a quelli già esistenti”.

obbligo formativo avvocati

Avvocati: l’obbligo formativo non è ritagliato sui propri interessi Il sistema di formazione continua per l’avvocato è cogente e non può essere ritagliato sui desiderata o sulle valutazioni dei singoli iscritti

Procedimento disciplinare per violazione obbligo di formazione

Nel caso sottoposto all’esame del Consiglio Nazionale Forense (CNF), un avvocato era stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona per la violazione dell’obbligo di formazione continua di cui agli articoli 15 e 70 comma sesto del codice deontologico forense e degli articoli 6 e 12 del regolamento del CNF numero 6/2014.

Formazione ritagliata sulle proprie materie

In particolare, gli è stato contestato di non avere conseguito alcun credito formativo obbligatorio, per il triennio di riferimento e pertanto gli era stata applicata la sanzione della censura.

Avverso tale decisione, l’avvocato interessato aveva contestato che il professionista “è libero di scegliere gli strumenti di formazione e le relative attività ai sensi dell’articolo 7 del regolamento CNF numero 6 del 2014”; inoltre “la formazione dell’avvocato va riferita alle materie di cui egli prevalentemente si occupa, altrimenti a suo dire si tratterebbe (testualmente) di una mera raccolta di punti”.

La formazione continua è obbligatoria

Il Consiglio Nazionale forense, con sentenza n. 91/2024, ha respinto il ricorso proposto.

In particolare e per quanto qui rileva, il CNF ha affermato che “Il sistema di formazione continua previsto per l’Avvocato da un lato è cogente (art. 35) e non può essere ritagliato sui desiderata o sulle valutazioni dei singoli iscritti, dall’altro – oltre ad includere obbligatoriamente la deontologia forense (…) – riguarda «non solo l’approfondimento delle conoscenze e competenze professionali già acquisite, ma anche il loro costante accrescimento ed aggiornamento”.

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alcoltest guida stato ebbrezza

Valido l’alcoltest anche con l’esofagite La Cassazione ha ritenuto che l’acalasia esofagea, patologia che determina il ristagno di liquidi nell’esofago, non ha alterato il risultato dell’alcoltest

Guida in stato di ebrezza

Nel caso di specie, la Corte di appello di Firenze aveva condannato l’imputato poiché ritenuto responsabile del reato di cui all’art.186, comma 2, del Dlgs 285/1992, per aver condotto l’auto in stato di ebbrezza a seguito dell’assunzione di bevande alcoliche.

Avverso tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, contestando, tra i vari motivi d’impugnazione che, il Giudice di merito lo aveva ritenuto responsabile per la suddetta fattispecie delittuosa, pur essendo egli affetto da “acalasia esofagea”, e cioè una patologia che, determinando il ristagno di liquidi, tra cui le sostanze alcoliche, nell’esofago, avrebbe alterato il risultato dell’alcoltest.

Irrilevanza della patologia

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24096-2024, ha, per quanto specificamente attiene al suddetto motivo d’impugnazione, rigettato il ricorso proposto dall’imputato.

In particolare, la Corte ha condiviso gli esiti argomentativi cui era giunto il Giudice di merito nel ritenere irrilevante la patologia sofferta dall’imputato rispetto al risultato dell’alcoltest, il quale, a tal proposito, aveva fornito una motivazione congrua e lineare, nonché priva di contraddizioni palesi.

Stato di ebbrezza alcolica

Inoltre, ha proseguito la Corte lo stato di ebbrezza alcolica era stato comprovato anche da altri elementi, quali, ad esempio l’equilibrio precario, il linguaggio sconnesso, le pupille dilatate, gli occhi lucidi e un comportamento di sfida nei confronti degli operatori. Tali ultimi aspetti, ha spiegato la Corte, sono del tutto indipendenti dalla acalasia esofagea.

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accesso atti cliente avvocato

Il cliente può accedere agli atti che riguardano l’avvocato L’accesso “difensivo” costituisce una fattispecie ostensiva connotata dall’onere di dimostrare la necessità della conoscenza dell’atto rispetto alla tutela della propria posizione

Rigetto istanza di accesso agli atti

Nel caso in esame, il Coniglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma aveva dichiarato inammissibile l’istanza di accesso agli atti avanzata da una cliente, nell’ambito del procedimento disciplinare a carico del proprio avvocato. In particolare. l’accesso era stato chiesto poiché il cliente aveva dei dubbi sulla legittimità dei compensi professionali richiesti.

La richiesta di accesso agli atti veniva nella specie respinta in quanto la stessa era stata ritenuta esplorativa, non essendo specificato il rapporto tra i documenti oggetto di accesso agli atti e le ragioni di difensive, ponendosi pertanto in contrasto con il diritto alla tutela della riservatezza di soggetti terzi.

La cliente aveva impugnato la decisione del CdO di Roma, chiedendo l’annullamento del rigetto.

L’interesse conoscitivo di carattere “difensivo”

Il Tar Lazio, con sentenza n. 9314/2024, ha ritenuto che, nel caso di specie, venisse in rilievo un’ipotesi di accesso difensivo, come tale ammissibile.

In particolare, il Tar, ripercorrendo la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto, ha affermato che “l’accesso “difensivo” costituisce una fattispecie ostensiva idonea a superare le ordinarie preclusioni che si frappongono alla conoscenza degli atti amministrativi, ma al contempo è connotata dall’onere stringente di dovere dimostrare la ‘necessità’ della conoscenza dell’atto o la sua ‘stretta indispensabilità’, nei casi in cui l’accesso riguarda dati sensibili o giudiziari”.

Inoltre “la necessità (…) della conoscenza del documento determina il nesso di strumentalità tra il diritto all’accesso e la situazione giuridica ‘finale’, nel senso che l’ostensione del documento amministrativo deve essere valutata, sulla base di un giudizio prognostico ex ante, come il tramite per acquisire gli elementi di prova in ordine ai fatti integranti la fattispecie costitutiva della situazione giuridica ‘finale’ controversa e delle correlative pretese astrattamente azionabili in giudizio”.

Valutazione ammissibilità

In relazione a quanto sopra, il Tar ha altresì specificato che la Pubblica Amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto in sede d’impugnazione non devono svolgere ex ante alcuna valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto, poiché un simile apprezzamento compete solo all’autorità giudiziaria investita della questione, salvo il caso di un’evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990. Resta in ogni caso fermo l’obbligo di puntuale motivazione a carico del richiedente, anche al fine di dimostrare il suddetto nesso cauale.

Applicando i suddetti principi giurisprudenziali al caso di specie, il Tar ha ritenuto che la richiesta di accesso agli atti formulata dalla cliente e volta ad ottenere copia di tutti gli atti, le delibere e i verbali relativi ai procedimenti disciplinari a carico dell’avvocato doveva essere (parzialmente) accolta.

Interesse diretto e concreto

Rispetto a tali documenti, ha proseguito il Tar, “la ricorrente ha rappresentato di avere un interesse diretto, concreto e attuale alla loro ostensione, connesso alla controversia (…) in merito alla debenza di taluni compensi professionali, sfociata in due procedimenti contenziosi allo stato pendenti”; per tali documenti sussiste dunque un nesso di strumentalità con la situazione finale che l’istante intende tutelare.

Per quanto infine attiene alla tutela della riservatezza dell’avvocato, deve ritenersi che, nel bilanciamento di interessi contrapposti, prevalga nel caso di specie il diritto dell’istante all’ostensione dei documenti richiesti per la tutela della propria posizione giuridica.

danno ambientale inquinamento

Danno ambientale: l’ignoranza non salva L’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario

Interventi di messa in sicurezza

Il caso in esame prende avvio dalla richiesta avanzata al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio con cui il ricorrente aveva domandato l’annullamento di un decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, con cui venivano prescritti alcuni interventi di messa in sicurezza di un sito di interesse nazionale. In particolare, il Ministero aveva intimato la realizzazione di alcuni interventi di messa in sicurezza delle acque di falda contaminata, oltre che la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti che erano presenti in precedenza sul piazzale oggetto dell’intervento di impermeabilizzazione.

Il TAR aveva concluso il proprio esame dichiarando il ricorso ed i motivi aggiunti improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse.

Il privato interessato aveva impugnato tale decisione dinanzi al Consiglio di Stato.

Il principio “chi inquina paga”

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4298/2024, ha accolto l’appello proposto e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., ha accertato l’illegittimità degli atti gravati con il ricorso di primo grado ed i motivi aggiunti.

Il Giudice amministrativo si è anzitutto soffermato sull’asserita insussistenza, affermata dal privato, dell’obbligo della società a partecipare alla bonifica dell’area da lei acquistata.

Rispetto a tale contestazione, il Consiglio di Stato ha ricordato il principio generale, di derivazione europea, in tema di responsabilità per danno ambientale, secondo cui “chi inquina paga”.

Nella specie, il Consiglio ha descritto gli elementi sulla base dei quali è possibile, a livello europeo, attribuire una responsabilità per danno ambientale al proprietario dell’area inquinata.

La giurisprudenza a tutela dell’ambiente

A tal proposito il Consiglio di Stato ha ricordato la giurisprudenza amministrativa che, in applicazione del diritto europeo, si è formata sul punto e ha incentrato la tutela dell’ambiente “intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione. La responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (..) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto”.

Ad ogni modo, ha spiegato il Giudice amministrativo, la responsabilità è ascrivibile al proprietario secondo i canoni, di derivazione nazionale, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole.

L’ignoranza non esclude la responsabilità

Nella medesima ottica di ricostruzione della responsabilità per danno ambientale, il Consiglio di Stato ha altresì rilevato che “l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario”.

In particolare, per quanto qui rileva, il Giudice amministrativo ha spiegato che la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore non dei rifiuti inquinanti ma del bene immobile inquinato.

Per le finalità perseguite dal diritto comunitario, quindi, è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica senza necessità di indagare sulla natura del titolo giuridico sottostante. Per la disciplina comunitaria, infatti, i costi “della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti”.