procura liti processo tributario

Procura alle liti: sanabile nel processo tributario La Cassazione ha precisato che una mera insufficienza o genericità della procura alle liti può essere sanata con assegnazione di un termine per la regolarizzazione della costituzione

Nullità della procura

Nel caso di specie e per quanto qui rileva, il Giudice tributario di prime cure aveva condiviso le doglianze formulate dall’Agenzia delle entrate e per l’effetto aveva accertato la nullità della procura alle liti rilasciata dal contribuente al difensore, ritenendo altresì che la produzione di valida procura nel successivo grado di giudizio non fosse idonea a sanare l’originario vizio della stessa.

Avverso tale decisione il contribuente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Nel giudizio tributario si può sanare la procura

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 12831/2024, ha cassato la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte tributaria di secondo grado.

Per quanto in particolare attiene al contestato vizio della procura alle liti, il Giudice di legittimità ha ripercorso la giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo cui l’art. 83, comma 3, c.p.c. “non può essere interpretato in modo formalistico, avendo riguardo al dovere del giudice (…) di segnalare alle parti i vizi della procura affinchè possano porvi rimedio”.

Inoltre, la Corte ha ricordato che, quando il giudice “rileva un vizio che determina la nullità della procura al difensore, assegna alle parti un termine perentorio per il rilascio della stessa o per la sua rinnovazione”.

La decisione

Nel caso di specie, ha evidenziato il Giudice di legittimità, la cd riforma Cartabia, che non consente di “sanare” l’inesistenza o la mancanza in atti della procura alle liti, “non ha inciso sulla materia tributaria che (…) prevede delle norme speciali in materia di invalidità e sanatoria della procura”.

La Corte, sulla scorta di quanto sopra riferito, ha concluso il proprio esame enunciando il seguente principio di diritto “il giudice tributario, ove la procura alle liti, le modalità di conferimento della quale seguono le regole generali dettate dall’art. 83 cod. proc. civ., manchi o sia invalida, prima di dichiarare l’inammissibilità del ricorso (…) deve invitare la parte a regolarizzare la situazione e, solo in caso di inottemperanza, pronunciare la relativa inammissibilità”.

spoil system pa

Spoil system solo per i dirigenti apicali La Cassazione ha precisato che ai fini dell’applicazione del c.d. spoil system, la natura apicale dell’incarico conferito al dirigente va valutata tenendo conto del dato formale di tale incarico, nonché dei poteri attribuiti al detto dirigente in concreto

L’incarico di dirigente nella p.a.

Il caso in esame riguarda l’incarico assunto da un dirigente presso la Regione Calabria della durata di tre anni. A seguito dell’elezione della nuova Giunta regionale quest’ultima aveva dichiarato decaduto tutti gli incarichi dirigenziali.

Il dirigente aveva pertanto adito il Tribunale di Catanzaro ed il giudizio di merito si era concluso con la decisione della Corte d’appello territoriale che aveva, per quanto qui rileva, accolto le doglianze del lavoratore, la quale aveva ritenuto illegittima la scelta di revocare l’incarico in questione.

Il dirigente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, a seguito del precedente riesame effettuato dalla Corte stessa, su sollecitazione della Regione Calabria.

I dirigenti apicali preposti ai dipartimenti

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 15971/2024, ha accolto, per quanto qui rileva, il ricorso proposto dal dirigente.

In particolare, la Corte ha affermato, ripercorrendo la giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, che per valutare la legittimità della revoca dell’incarico del dirigente, in ragione del cambio della maggioranza politica (cd spoil system), occorre avere riguardo, oltre che al dato formale, anche alla posizione occupata dal dirigente, vale a dire se lo stesso sia o meno alla guida di un ufficio apicale. Tale ultimo requisito si intende integrato se il capo dipartimento ricopre una funzione organizzativa consistente nel “coordinare e dirigere l’ufficio secondo le direttive generali degli organi di direzione politica che assiste, svolge un incarico rispetto al quale opera il c.d. spoil system, rientrando esso negli incarichi dirigenziali apicali che non attengono ad una semplice attività di gestione, ed essendo invece rapportabile alla direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali”.

Per quanto attiene al caso concreto assume inoltre particolare rilievo la disposizione di cui all’art. 22, comma 2 della legge regionale Calabria n. 7 del 1996 ove è stabilito che “I Dirigenti preposti ai Dipartimenti svolgono le funzioni di Dirigente Generale ed assumono tale denominazione”. Inoltre, la Corte ha precisato che il fatto che il contratto individuale del dirigente richiamasse l’articolo 16, comma 1, Dlgs n. 165 del 2001, che individua le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali statali, “non è dirimente in quanto il presupposto dell’applicazione dello spoil system è il carattere apicale del dirigente interessato” mentre nel caso di specie il dirigente era “sempre formalmente, sottoposta al competente dirigente di dipartimento”.

Il Giudice di legittimità ha pertanto riferito che la Corte territoriale, nell’ambito del giudizio di merito, avrebbe dovuto verificare “non tanto se la dirigente avesse in concreto i poteri propri dell’apicale, ma, soprattutto, se essa fosse stata posta a capo di una struttura che, da un punto di vista organizzativo, avesse le stesse caratteristiche di un Dipartimento, in modo da distinguersi, per la sua totale autonomia, dai Dipartimenti ufficialmente esistenti e da aggiungersi ad essi. Solo a queste condizioni i poteri eventualmente assegnati alla ricorrente avrebbero potuto condurre ad una sua equiparazione a un dirigente apicale”.

La decisione

In definitiva, sulla scorta di quanto sopra riferito, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto “Ai fini dell’applicazione della normativa sul c.d. spoil system, la natura apicale dell’incarico conferito con contratto a un dirigente va valutata tenendo conto, in linea di principio, della qualificazione formale di tale incarico contenuta nel contratto medesimo, senza che rilevi di per sé il semplice richiamo dell’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, il quale individua le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali statali, pur se in astratto incompatibile con la menzionata qualificazione. Per superare il dato formale, dal quale, comunque, occorre partire, è necessario verificare non tanto i poteri attribuiti al detto dirigente in concreto, ma se egli sia stato posto a capo di una struttura che, da un punto di vista organizzativo, abbia le stesse caratteristiche di un ufficio apicale, in modo da distinguersi e aggiungersi, per la sua totale autonomia, a quelli già esistenti”.

obbligo formativo avvocati

Avvocati: l’obbligo formativo non è ritagliato sui propri interessi Il sistema di formazione continua per l’avvocato è cogente e non può essere ritagliato sui desiderata o sulle valutazioni dei singoli iscritti

Procedimento disciplinare per violazione obbligo di formazione

Nel caso sottoposto all’esame del Consiglio Nazionale Forense (CNF), un avvocato era stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona per la violazione dell’obbligo di formazione continua di cui agli articoli 15 e 70 comma sesto del codice deontologico forense e degli articoli 6 e 12 del regolamento del CNF numero 6/2014.

Formazione ritagliata sulle proprie materie

In particolare, gli è stato contestato di non avere conseguito alcun credito formativo obbligatorio, per il triennio di riferimento e pertanto gli era stata applicata la sanzione della censura.

Avverso tale decisione, l’avvocato interessato aveva contestato che il professionista “è libero di scegliere gli strumenti di formazione e le relative attività ai sensi dell’articolo 7 del regolamento CNF numero 6 del 2014”; inoltre “la formazione dell’avvocato va riferita alle materie di cui egli prevalentemente si occupa, altrimenti a suo dire si tratterebbe (testualmente) di una mera raccolta di punti”.

La formazione continua è obbligatoria

Il Consiglio Nazionale forense, con sentenza n. 91/2024, ha respinto il ricorso proposto.

In particolare e per quanto qui rileva, il CNF ha affermato che “Il sistema di formazione continua previsto per l’Avvocato da un lato è cogente (art. 35) e non può essere ritagliato sui desiderata o sulle valutazioni dei singoli iscritti, dall’altro – oltre ad includere obbligatoriamente la deontologia forense (…) – riguarda «non solo l’approfondimento delle conoscenze e competenze professionali già acquisite, ma anche il loro costante accrescimento ed aggiornamento”.

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alcoltest guida stato ebbrezza

Valido l’alcoltest anche con l’esofagite La Cassazione ha ritenuto che l’acalasia esofagea, patologia che determina il ristagno di liquidi nell’esofago, non ha alterato il risultato dell’alcoltest

Guida in stato di ebrezza

Nel caso di specie, la Corte di appello di Firenze aveva condannato l’imputato poiché ritenuto responsabile del reato di cui all’art.186, comma 2, del Dlgs 285/1992, per aver condotto l’auto in stato di ebbrezza a seguito dell’assunzione di bevande alcoliche.

Avverso tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, contestando, tra i vari motivi d’impugnazione che, il Giudice di merito lo aveva ritenuto responsabile per la suddetta fattispecie delittuosa, pur essendo egli affetto da “acalasia esofagea”, e cioè una patologia che, determinando il ristagno di liquidi, tra cui le sostanze alcoliche, nell’esofago, avrebbe alterato il risultato dell’alcoltest.

Irrilevanza della patologia

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24096-2024, ha, per quanto specificamente attiene al suddetto motivo d’impugnazione, rigettato il ricorso proposto dall’imputato.

In particolare, la Corte ha condiviso gli esiti argomentativi cui era giunto il Giudice di merito nel ritenere irrilevante la patologia sofferta dall’imputato rispetto al risultato dell’alcoltest, il quale, a tal proposito, aveva fornito una motivazione congrua e lineare, nonché priva di contraddizioni palesi.

Stato di ebbrezza alcolica

Inoltre, ha proseguito la Corte lo stato di ebbrezza alcolica era stato comprovato anche da altri elementi, quali, ad esempio l’equilibrio precario, il linguaggio sconnesso, le pupille dilatate, gli occhi lucidi e un comportamento di sfida nei confronti degli operatori. Tali ultimi aspetti, ha spiegato la Corte, sono del tutto indipendenti dalla acalasia esofagea.

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accesso atti cliente avvocato

Il cliente può accedere agli atti che riguardano l’avvocato L’accesso “difensivo” costituisce una fattispecie ostensiva connotata dall’onere di dimostrare la necessità della conoscenza dell’atto rispetto alla tutela della propria posizione

Rigetto istanza di accesso agli atti

Nel caso in esame, il Coniglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma aveva dichiarato inammissibile l’istanza di accesso agli atti avanzata da una cliente, nell’ambito del procedimento disciplinare a carico del proprio avvocato. In particolare. l’accesso era stato chiesto poiché il cliente aveva dei dubbi sulla legittimità dei compensi professionali richiesti.

La richiesta di accesso agli atti veniva nella specie respinta in quanto la stessa era stata ritenuta esplorativa, non essendo specificato il rapporto tra i documenti oggetto di accesso agli atti e le ragioni di difensive, ponendosi pertanto in contrasto con il diritto alla tutela della riservatezza di soggetti terzi.

La cliente aveva impugnato la decisione del CdO di Roma, chiedendo l’annullamento del rigetto.

L’interesse conoscitivo di carattere “difensivo”

Il Tar Lazio, con sentenza n. 9314/2024, ha ritenuto che, nel caso di specie, venisse in rilievo un’ipotesi di accesso difensivo, come tale ammissibile.

In particolare, il Tar, ripercorrendo la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto, ha affermato che “l’accesso “difensivo” costituisce una fattispecie ostensiva idonea a superare le ordinarie preclusioni che si frappongono alla conoscenza degli atti amministrativi, ma al contempo è connotata dall’onere stringente di dovere dimostrare la ‘necessità’ della conoscenza dell’atto o la sua ‘stretta indispensabilità’, nei casi in cui l’accesso riguarda dati sensibili o giudiziari”.

Inoltre “la necessità (…) della conoscenza del documento determina il nesso di strumentalità tra il diritto all’accesso e la situazione giuridica ‘finale’, nel senso che l’ostensione del documento amministrativo deve essere valutata, sulla base di un giudizio prognostico ex ante, come il tramite per acquisire gli elementi di prova in ordine ai fatti integranti la fattispecie costitutiva della situazione giuridica ‘finale’ controversa e delle correlative pretese astrattamente azionabili in giudizio”.

Valutazione ammissibilità

In relazione a quanto sopra, il Tar ha altresì specificato che la Pubblica Amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto in sede d’impugnazione non devono svolgere ex ante alcuna valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto, poiché un simile apprezzamento compete solo all’autorità giudiziaria investita della questione, salvo il caso di un’evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990. Resta in ogni caso fermo l’obbligo di puntuale motivazione a carico del richiedente, anche al fine di dimostrare il suddetto nesso cauale.

Applicando i suddetti principi giurisprudenziali al caso di specie, il Tar ha ritenuto che la richiesta di accesso agli atti formulata dalla cliente e volta ad ottenere copia di tutti gli atti, le delibere e i verbali relativi ai procedimenti disciplinari a carico dell’avvocato doveva essere (parzialmente) accolta.

Interesse diretto e concreto

Rispetto a tali documenti, ha proseguito il Tar, “la ricorrente ha rappresentato di avere un interesse diretto, concreto e attuale alla loro ostensione, connesso alla controversia (…) in merito alla debenza di taluni compensi professionali, sfociata in due procedimenti contenziosi allo stato pendenti”; per tali documenti sussiste dunque un nesso di strumentalità con la situazione finale che l’istante intende tutelare.

Per quanto infine attiene alla tutela della riservatezza dell’avvocato, deve ritenersi che, nel bilanciamento di interessi contrapposti, prevalga nel caso di specie il diritto dell’istante all’ostensione dei documenti richiesti per la tutela della propria posizione giuridica.

danno ambientale inquinamento

Danno ambientale: l’ignoranza non salva L’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario

Interventi di messa in sicurezza

Il caso in esame prende avvio dalla richiesta avanzata al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio con cui il ricorrente aveva domandato l’annullamento di un decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, con cui venivano prescritti alcuni interventi di messa in sicurezza di un sito di interesse nazionale. In particolare, il Ministero aveva intimato la realizzazione di alcuni interventi di messa in sicurezza delle acque di falda contaminata, oltre che la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti che erano presenti in precedenza sul piazzale oggetto dell’intervento di impermeabilizzazione.

Il TAR aveva concluso il proprio esame dichiarando il ricorso ed i motivi aggiunti improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse.

Il privato interessato aveva impugnato tale decisione dinanzi al Consiglio di Stato.

Il principio “chi inquina paga”

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4298/2024, ha accolto l’appello proposto e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., ha accertato l’illegittimità degli atti gravati con il ricorso di primo grado ed i motivi aggiunti.

Il Giudice amministrativo si è anzitutto soffermato sull’asserita insussistenza, affermata dal privato, dell’obbligo della società a partecipare alla bonifica dell’area da lei acquistata.

Rispetto a tale contestazione, il Consiglio di Stato ha ricordato il principio generale, di derivazione europea, in tema di responsabilità per danno ambientale, secondo cui “chi inquina paga”.

Nella specie, il Consiglio ha descritto gli elementi sulla base dei quali è possibile, a livello europeo, attribuire una responsabilità per danno ambientale al proprietario dell’area inquinata.

La giurisprudenza a tutela dell’ambiente

A tal proposito il Consiglio di Stato ha ricordato la giurisprudenza amministrativa che, in applicazione del diritto europeo, si è formata sul punto e ha incentrato la tutela dell’ambiente “intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione. La responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (..) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto”.

Ad ogni modo, ha spiegato il Giudice amministrativo, la responsabilità è ascrivibile al proprietario secondo i canoni, di derivazione nazionale, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole.

L’ignoranza non esclude la responsabilità

Nella medesima ottica di ricostruzione della responsabilità per danno ambientale, il Consiglio di Stato ha altresì rilevato che “l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario”.

In particolare, per quanto qui rileva, il Giudice amministrativo ha spiegato che la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore non dei rifiuti inquinanti ma del bene immobile inquinato.

Per le finalità perseguite dal diritto comunitario, quindi, è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica senza necessità di indagare sulla natura del titolo giuridico sottostante. Per la disciplina comunitaria, infatti, i costi “della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti”.

deposito telematico querela

Quando si ha deposito telematico della querela La Cassazione chiarisce che la presentazione con modalità telematica della querela è esclusivamente riferita alle ipotesi in cui essa debba essere presentata dalla Procura della Repubblica

Inosservanza della norma processuale

Nel caso che ci occupa, il ricorrente ha presentato ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione rilevando che la querela nei suoi confronti non era stata presentata dalla parte personalmente, bensì dal difensore.

Rispetto a tale circostanza, il ricorrente ha rilevato che, nel caso di specie, la querela non era stata presentata tramite il Portale del Processo, ma mediante formato cartaceo presso la questura, mentre, l’unica modalità consentita per il deposito della querela, qualora a tale incombenza non provveda la parte personalmente, ma il suo difensore, è tramite il suddetto portale.

Deposito telematico della querela

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20754-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In particolare, la Corte, dopo aver esposto i fatti di causa ed il quadro normativo di riferimento, ha affermato che l’art 87, comma 6-bis del d.lgs n. 150/2022 è chiaro nel prevedere che “la presentazione con modalità telematica della querela è esplicitamente ed esclusivamente riferita alle ipotesi in cui essa debba essere presentata nella Procura della repubblica (quando non presentata direttamente dal querelante personalmente, ma dal suo difensore), così che non vi è alcun appiglio normativo utile a supportare l’assunto difensivo secondo il quale il deposito attraverso il processo portale telematico abbia una portata generalizzata e debba avvenire anche quando la querela sia depositata presso uffici diversi dalla Procura della Repubblica”.

Portale processo telematico

Invero, ha proseguito la Corte a sostegno delle proprie argomentazioni, il portale del processo penale telematico rappresenta uno strumento posto a sussidio della ricezione degli atti processuali presso gli uffici giudiziari “mentre non è adibito per la ricezione degli atti da parte delle Forze dell’Ordine, così con la contraria interpretazione proposta dalla difesa si mostra incoerente con i fini per cui esso è stato espressamente istituito”.

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Responsabilità avvocato: vale la regola del più probabile che non In tema di responsabilità dell’avvocato, la regola probatoria del “più probabile che non”, si applica non solo al nesso causale tra la condotta e l’evento, ma anche al nesso tra quest’ultimo e i danni prodotti

Risarcimento danni per negligente adempimento avvocato

Nel caso di specie, il cliente aveva adito il Giudice di merito per ottenere il risarcimento dei danni dallo stesso lamentati in conseguenza del negligente adempimento da parte dell’avvocato delle obbligazioni professionali dallo stesso assunte e derivanti da un incarico di patrocinio nell’ambito di una causa penale.

Il Giudizio di merito si era concluso con la decisione della Corte d’appello di Brescia che, confermando gli esiti cui era giunto il giudice di primo grado, aveva rigettato la richiesta risarcitoria formulata dal cliente.

Avvero tale decisione il cliente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, contestando, in particolare e per quanto qui rileva, che nel corso del giudizio di merito, nonostante fosse stata raggiunta la prova circa la negligenza professionale del proprio difensore, tale condotta non era stata ritenuta dal Giudice di secondo grado idonea a dimostrare il nesso causale tra quest’ultima ed il danno subito dal cliente.

Responsabilità avvocato: regola del più probabile che non

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15719-2024, ha rigettato il ricorso proposto dal cliente ed ha condannato quest’ultimo al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Per quanto in particolare attiene al motivo d’impugnazione sopra indicato, la Corte ha ripercorso la giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo cui “in tema di responsabilità professionale dell’avvocato per omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo (…) e le conseguenze dannose risarcibili”, attraverso un giudizio di tipo prognostico, ovvero valutando quale sarebbe potuto essere l’esito dell’attività professionale se questa non fosse stata (colposamente) omessa.

Negligenza professionale e danno al cliente

Ciò posto, il Giudice di legittimità, riferendo quanto accertato dalla Corte d’appello, ha precisato che, nel caso di specie, non fosse possibile ritenere che la negligenza professionale dell’avvocato abbia prodotto il danno dedotto dal cliente, poiché sarebbe mancata la prova “che, se anche la prestazione professionale (…) fosse stata regolarmente adempiuta dal convenuto, l’esito finale del relativo processo sarebbe stato più favorevole” al cliente in base ad una valutazione prognostica basata sul criterio del “più probabile che non”, confermando di conseguenza gli esiti processuali raggiunti al termine del giudizio di merito.

 

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figli separazione trasferimento padre

I figli dei separati non possono essere trasferiti La Cassazione ha affermato che il trasferimento della madre in località molto distante da quella del padre “potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità”

La richiesta di trasferimento dei figli minori

Il caso che ci occupa trae origine da un giudizio in materia di scioglimento del matrimonio, nell’ambito del quale la moglie aveva chiesto di essere autorizzata trasferirsi, unitamente ai figli minori, presso una località distante molti chilometri da quella di residenza del padre.

Il Tribunale di Napoli aveva accolto tale richiesta e la Corte territoriale aveva confermato tale decisione.

Avverso il provvedimento emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, il marito aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Il trasferimento ostacola la frequentazione con il padre

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 12282-2024, ha accolto, in merito alla contestazione sul trasferimento avanzata dal marito, il ricorso dallo stesso proposto e ha cassato il provvedimento impugnato rinviando la causa alla Corte d’appello di Napoli.

In particolare, la Corte ha affermato che “il trasferimento dei tre figli in località distante di parecchi chilometri da quella di residenza del padre non potrà non essere di ostacolo alla frequentazione del genitore coi figli” anche se al padre sia stata riconosciuta la possibilità di vedere i figli e di tenerli con sé.

Notevole distanza dal padre

La fondatezza della doglianza lamentata dal padre, ha spiegato la Corte dipende, nel caso di specie, dalla notevole distanza tra le due città “che non consente frequentazioni giornaliere”, ma al contrario solo visite di più giorni, data la notevole durata del viaggio. Inoltre, ha proseguito il Giudice di legittimità, i figli sono occupati con i vari impegni scolastici, sportivi ecc., rendendo ancora più difficoltose e sporadiche le frequentazioni con il padre.

Violazione diritto alla bigenitorialità

In questo senso, la Corte ha concluso il proprio esame sul punto ritenendo che “il trasferimento potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità”.

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corteggiamento insistente stalking

Stalking in caso di corteggiamento insistente La Cassazione ha affermato che la natura minatoria delle comunicazioni ripetutamente inviate dal colpevole portano legittimamente a qualificare i fatti avvenuti nel più grave ambito delineato dalla figura delittuosa degli atti persecutori

Minacce e molestie ripetute

La vicenda in esame prende avvio dalla decisione con cui la Corte d’appello di Milano aveva ritenuto l’imputato colpevole dei reati di cui all’art. 81 cpv e 609-bis c.p., poiché lo stesso aveva “con azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso (…) usato violenza sessuale” nei confronti della vittima “toccandole in più occasioni le cosce e la schiena” e per avere “minacciato e molestato la predetta, inviandole con insistenza messaggi telefonici, minacciando altresì il fidanzato della medesima”.

La donna vittima di tali comportamenti aveva subito uno stato d’ansia e di paura per la propria incolumità tanto che la stessa si era dimessa dal posto di lavoro in precedenza occupato alle dipendenze dell’imputato.

Avverso tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Corteggiamento ossessivo ed insistente

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22292/2024, ha rigettato il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa nonché i motivi d’impugnazione e la struttura dei reati contestati al ricorrente, si è soffermata, per quanto qui rileva, sull’elemento oggettivo della fattispecie delittuosa attribuita all’imputato.

Sul punto, la Corte ha rilevato che, posta la sussistenza, nel caso di specie, della pluralità di condotte illecite, sebbene elevate a “sistema di vita”, “la natura minatoria delle comunicazioni ripetutamente inviate (dall’imputato) portano legittimamente a qualificare i fatti avvenuti nel più grave ambito delineato dalla figura delittuosa degli atti persecutori”.

Corteggiamento idoneo ad integrare lo stalking?

Quanto appena affermato, ha evidenziato la Corte, prescinde dalla discussione in ordine alla possibilità che un “corteggiamento”, sebbene ossessivo ed insistente, sia idoneo o meno ad integrare la fattispecie delittuosa contestata, posto che, le modalità di estrinsecazione della condotta dell’imputato, hanno condotto la il Giudice di legittimità a confermare gli esiti cui era giunto il Giudice di merito, poiché ritenuto integrato l’elemento oggettivo descritto dalla fattispecie delittuoso di atti persecutori.