giurista risponde

Ius superveniens e legittimo affidamento Quale rapporto intercorre tra lo ius superveniens e il legittimo affidamento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 5 agosto 2022, nn. 9 e 10.

La vicenda esaminata attiene a due diverse discipline che corrispondono al momento di entrata in vigore della nuova norma, per cui lo stesso rapporto è regolato, per il tempo della sua durata, in modi differenti.

Quel che rileva è che la nuova disciplina – prevista al comma 458 dell’art. 1 della legge di stabilità del 2014 – incide negativamente sui diritti in godimento del dipendente pubblico.

Essa ridefinisce il trattamento dei professori universitari, per il rientro nei medesimi ruoli, dopo aver svolto incarchi diversi.

È rilevante, dunque, accertare l’eventuale contrasto con il principio del legittimo affidamento del dipendente pubblico.

Il principio del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche costituisce un limite alla scelta del legislatore ordinario di introdurre discipline che modificano rapporti giuridici in corso di svolgimento.

Tale principio, dunque, tutela l’aspettativa della parte privata a poter conservare, per tutto il periodo di spettanza e nell’originaria entità, l’utilità legittimamente acquisita.

La disposizione va, dunque, sottoposta a scrutinio di ragionevolezza, verificando il corretto bilanciamento tra le opposte esigenze.

Pur ritenendo legittimamente maturata l’aspettativa dei consiglieri c.d. laici alla conservazione del favorevole trattamento economico in godimento all’entrata vigore dei commi 458 e 459 dell’art. 1 della L. 147/2013, le nuove regole rispondono ad interessi generali – che, dunque, hanno causa normativa adeguata – ciò rende ragionevole la decisione in punto di loro applicazione.

La nuova disciplina risponde ad un’esigenza di contenimento della spesa pubblica, poiché sopprime l’assegno ad personam, non correlato all’attività svolta, ma percepito per il solo fatto del pregresso svolgimento dell’incarico.

Sulla base di tali premesse, l’Adunanza Plenaria, in definitiva ha enunciato i seguenti principi di diritto: “L’appellato, proprio in quanto privato di un surplus di retribuzione riferita ad un incarico ormai passato, non sopporta alcun onere individuale eccessivo, di modo che si può ben dire raggiunto il giusto bilanciamento (fair balance) tra interesse generale e diritti fondamentali della persona”.

Inoltre, con riferimento alle nuove disposizioni: “Si applicano ai ratei da corrispondersi a partire dal 1° febbraio 2014 anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. laico del C.S.M. sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della L. 147/2003 e senza che ciò comporti lesione del legittimo affidamento maturato dal consigliere”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 108/2019; Corte Cost. 16/2017; Corte Cost. 203/2016;
Corte Cost. 34/2015; Corte Cost. 92/2013; Corte Cost. 302/2010;
Corte Cost. 236/2009
giurista risponde

Criteri di calcolo appello sentenza Tar Quali criteri di calcolo utilizzare in seguito alla proposizione di un appello avverso una sentenza del TAR pubblicata prima del periodo di sospensione feriale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 3 settembre 2022, n. 11 e 12 settembre 2022, n. 12. 

La Plenaria è stata chiamata a pronunciarsi sulle modalità di calcolo del termine lungo di impugnazione delle sentenze e sull’incidenza, ai fini di detto calcolo, del periodo di sospensione feriale (introdotta dall’art. 14 del D.L. 132/2014, convertito dalla L. 162/2014).

Secondo un orientamento della Suprema Corte, il termine lungo di impugnazione deve essere calcolato includendo fittiziamente anche il periodo di sospensione feriale e, successivamente, sommando ad esso ulteriori 31 giorni.

Secondo, invece, altra parte della giurisprudenza, anche della Cassazione e del Consiglio di Stato, il decorso del termine di impugnazione ha inizio durante il periodo di sospensione feriale, tale inizio è differito alla fine di detto periodo (art. 1 della L. 742/1969).

Tale secondo orientamento risulta, secondo i giudici amministrativi, preferibile in quanto consentirebbe di evitare incongruenze e disparità di trattamento derivanti dalla decorrenza del dies a quo per l’impugnazione che, nella fattispecie, seguirebbe regole diverse a seconda dell’inizio della decorrenza stessa, prima del periodo di sospensione feriale o durante lo stesso.

Come è noto, nell’ambito dei termini processuali, i termini di impugnazione delle sentenze (artt. 326 c.p.c. e 92 c.p.a.) sono termini perentori fissati dalla legge, la cui decorrenza dà luogo automaticamente alla decadenza del potere di compiere l’atto, termini che non possono essere abbreviati o prorogati.

Invero, i termini processuali sono soggetti a ipotesi particolati di sospensione, tra cui la sospensione dei termini feriali che costituisce un’ipotesi di sospensione generale a tutela del diritto di difesa.

L’art. 1 della l. n. 742/1969 dispone la sospensione di diritto dei termini processuali dall’1 al 31 agosto di ciascun anno, fa espresso riferimento ai termini relativi alla giurisdizione ordinaria e amministrativa.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato accogliendo l’orientamento tradizionale, ha enunciato il principio di diritto secondo cui: Qualora il termine lungo di impugnazione abbia iniziato a decorrere prima del periodo feriale, al termine di impugnazione, calcolato a mesi, ai sensi degli artt. 155, comma 2, c.p.c. e 2963, comma 4, c.c. (per cui il decorso del tempo si ha, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale coincidente con la data di pubblicazione della sentenza), va alla fine aggiunto, realizzandosi un prolungamento di tale termine nella misura corrispondente, il periodo di 31 giorni di sospensione previsto dalla L. 742/1969, come ribadito dall’art. 54, comma 2, c.p.a., computo ex numeratione dierum ai sensi dell’art. 155, comma 1 c.p.c..

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. II, n. 1248 del 2022; Cass. civ., sez. III, 4426/2022; Id., 6592/2019; Cons. Stato, sez. VI, 1145/2011; Cons. Stato, Ad. plen., 5/1978
giurista risponde

Intepretazione art. 10 comma 5 D.Lgs. n. 373/2003 L’art. 10, comma 5, del D.Lgs. 373/2003 deve essere interpretato come riferito ai soli conflitti di competenza (positivi o negativi) attuali o anche a quelli virtuali, determinati dalla contemporanea pendenza dell’appello sulla competenza davanti al CGA Siciliana e al Consiglio di Stato?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

L’art. 10, comma 5, del D.Lgs. 373/2003 va interpretato come riferito ai conflitti di competenza positivi o negativi, reali o virtuali. Tuttavia la mera pendenza di due procedimenti identici, in assenza di provvedimenti giudiziari che costituiscano invasione della sfera di competenza riservata, non costituisce un’ipotesi di conflitto. Qualora il TAR per la Sicilia abbia declinato la propria competenza, indicando la competenza di un altro TAR, il relativo regolamento di competenza va proposto dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana. – Cons. Stato, Ad. plen., 13 settembre 2022, n. 13.

Con l’ord. 98/2022, il Consiglio di giustizia amministrativa aveva sottoposto all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato i seguenti quesiti: “1) se l’art. 10, comma 5, del D.Lgs. 373/2003 debba essere interpretato come riferito ai soli conflitti di competenza (positivi o negativi) attuali, o anche a quelli virtuali che sono determinati dalla contemporanea pendenza dell’appello sulla competenza davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana e al Consiglio di Stato; 2) se, nell’ipotesi in cui il Tar per la Sicilia abbia declinato la propria competenza indicando la competenza di un altro Tar, il relativo regolamento di competenza debba essere proposto dinanzi al Consiglio di Stato o al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana”.

Con riguardo alla prima questione, l’Adunanza Plenaria richiama l’art. 10, comma 5, D.Lgs. 373/2013, il quale stabilisce che: “All’Adunanza plenaria, composta ai sensi del comma 4” (cioè integrata da due magistrati del Consiglio di giustizia) è altresì devoluta la cognizione dei conflitti di competenza, in sede giurisdizionale, tra il Consiglio di giustizia amministrativa ed il Consiglio di Stato”.

Si evidenzia che “in tal modo viene assicurato che i conflitti di competenza che coinvolgano il Consiglio di giustizia amministrativa, le cui prerogative sono garantite dallo Statuto della Regione siciliana, trovino tutela nella composizione allargata dell’Adunanza Plenaria che vede la presenza dei membri della Sezione giurisdizionale del massimo consesso siciliano”.

Si ribadisce che “analoga esigenza non si riscontra invece nei conflitti di competenza che vedano coinvolto il TAR Sicilia, che pertanto, stante anche il chiaro e inequivoco tenore letterale del citato art. 10, comma 5, del D.Lgs. 373/2003, sono sottoposti alla disciplina del regolamento di competenza ordinariamente stabilita dal codice del processo amministrativo”.

In particolare, si afferma che:L’art. 10, comma 5, si è dunque riferito, quale presupposto per adire necessariamente l’Adunanza Plenaria, ad una situazione di “conflitto”, senza null’altro specificare”.

Si richiama, nello specifico, quanto affermato dall’Adunanza Plenaria con l’ord. 9 marzo 2011, n. 6, secondo cui: “Si tratta di una disposizione speciale, contenuta in una fonte tra l’altro di rango sub costituzionale, e non trasfusa nel codice del processo amministrativo, ragion per cui non rileva, per la sua corretta interpretazione, il rinvio esterno alle disposizioni del codice di procedura civile, effettuato dall’art. 39 del c.p.a.; la fattispecie non può essere assimilata al conflitto di competenza disciplinato dall’articolo 45 del codice di procedura civile (riguardante il solo conflitto negativo virtuale, a prevenzione del conflitto reale); la formulazione dell’art. 10, comma 5, è di tale ampiezza da ricomprendere sia il conflitto positivo che quello negativo, sia il conflitto reale che quello virtuale. In conclusione, ad avviso della Adunanza Plenaria, tali considerazioni vanno di per sé ribadite, con la precisazione che l’art. 10, comma 5, presuppone per la sua applicazione che vi sia un conflitto, sia pure virtuale: non è invece sufficiente il ‘mero rischio di conflitto virtuale’, per la pendenza di due procedimenti analoghi, in assenza di un provvedimento che possa considerarsi quale esplicita o implicita invasione della sfera di competenza dell’altro ufficio giudiziario”.

Con riguardo alla seconda questione, ovvero “se, nell’ipotesi in cui il Tar per la Sicilia abbia declinato la propria competenza indicando la competenza di un altro Tar, il relativo regolamento di competenza debba essere proposto dinanzi al Consiglio di Stato o al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana”, l’Adunanza Plenaria richiama l’art. 4, comma 3, del D.Lgs. 373/2003, il quale dispone testualmente che in sede giurisdizionale il Consiglio di giustizia amministrativa esercita le funzioni di giudice di appello contro le pronunce del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia.

Si ritiene, quindi, che la formulazione della norma, nella sua ampiezza, riguardando tutte le funzioni del giudice di appello (cioè del Consiglio di Stato) da esercitare ratione loci, e non già il solo mezzo dell’appello, ben si presta a ricomprendere anche il regolamento di competenza che il codice del processo attribuisce, per l’appunto, in via generale al giudice di appello.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, Ad. plen., 22 aprile 2014, n. 11; Id., ord. 9 marzo 2011, n. 6
giurista risponde

Impugnazione sentenza penale e avvio procedimento disciplinare Da quando decorre il termine per l’avvio del procedimento disciplinare in caso di impugnazione parziale di una sentenza penale? Occorre fare riferimento ai giudicati parziali ovvero all’ultimo giudicato?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il procedimento disciplinare deve essere instaurato o ripreso a decorrere dalla data di intervenuta conoscenza della sentenza che conclude definitivamente e complessivamente il processo penale, non assumendo alcun rilievo, ai fini della determinazione del dies a quo, il passaggio in giudicato di precedenti sentenze con riferimento a singoli capi di imputazione. – Cons. Stato, Ad. plen., 13 settembre 2022, n. 14.

Richiamando l’art. 55ter del D.Lgs. 165/2001, i Giudici ricordano che per il personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (e, nel caso di specie, con riguardo ai militari imputati di fatti penalmente rilevanti, per i quali in modo non dissimile da quanto previsto per il cd. personale contrattualizzato dispongono gli artt. 1392 e 1393, D.Lgs. 66/2010) resta fermo il principio generale di “autonomia temperata” del procedimento disciplinare rispetto a quello penale.

L’avvio del procedimento disciplinare, anche in pendenza di procedimento penale, costituisce, dunque, la regola nell’impiego pubblico, mentre la sospensione rappresenta l’eccezione, dipendente dalla sussistenza di due distinti presupposti: i) la natura particolarmente grave della sanzione astrattamente irrogabile all’esito del procedimento; ii) la particolare “complessità” dell’istruttoria, ovvero la indisponibilità di “elementi conoscitivi sufficienti”, che solo le indagini penali e il successivo dibattimento possono fornire.

La sospensione, quindi, ove ne ricorrano le condizioni, risponde all’esigenza di acquisire tutti gli elementi emergenti dal processo penale per una migliore valutazione, a tutela dell’interesse pubblico e di quello del dipendente.

Ciò che le norme intendono tutelare, per il tramite dell’attesa della definizione del giudizio penale, è la correttezza e completezza della valutazione in sede disciplinare di tutti i fatti che hanno formato oggetto di giudizio penale, sia nell’interesse pubblico che nell’interesse del dipendente.

Sulla base di tali considerazioni, i Giudici ritengono preferibile la soluzione ermeneutica che individua la decorrenza del termine per avviare o riaprire il procedimento disciplinare solo dalla conclusione dell’intero processo penale (senza quindi considerare le eventuali sentenze parziali coperte da giudicato).

L’Adunanza Plenaria ha, dunque, concluso che: “Il procedimento disciplinare nei confronti del personale militare deve essere instaurato o ripreso, ai sensi dell’art. 1392, comma 3, e dell’art. 1393, comma 4, D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, a decorrere dalla data di intervenuta conoscenza della sentenza che conclude definitivamente e complessivamente il processo penale, non assumendo alcun rilievo, ai fini della determinazione del dies a quo, il passaggio in giudicato di precedenti sentenze con riferimento a singoli capi di imputazione. La conoscenza della sentenza conclusiva del processo penale deve essere integrale, non essendo sufficiente la mera conoscenza del dispositivo o di estratti della stessa, e legalmente certa, dovendo la stessa irrevocabilità risultare formalmente, secondo le modalità previste dalla legge”.

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Sindacabilità atto ministero giustizia richieste art. 723 c.p.p. È sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale (art. 723 c.p.p.)?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 6 dicembre 2022, n. 15.

Il Consiglio di Stato enuncia che è sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale.

Si tratta, infatti, di un provvedimento amministrativo discrezionale che sotto il profilo del difetto di motivazione può essere sottoposto al vaglio del giudice amministrativo.

Con riguardo alla vicenda in esame, il collegio si è direttamente pronunciato nel merito degli appelli, accogliendoli, in specie annullando gli atti del Ministero per carenza di motivazione, con particolare riferimento alla possibile violazione del principio del ne bis in idem.

Nel caso di specie, la questione è partita da sei richieste dell’India di notificazione delle citazioni a giudizio ai vertici di una società per rispondere dei reati di corruzione e riciclaggio in pubbliche forniture al Governo straniero. I vertici della società, per i medesimi fatti, erano stati già processati in Italia e assolti in via definitiva. Il Consiglio di Stato ha annullato gli atti del Ministero di accoglimento delle richieste del Governo indiano, affermando che il Ministero non aveva motivato in ordine alle ragioni per cui non aveva esercitato il proprio potere di “blocco”.

L’Adunanza Plenaria evidenziava che, il Ministero esercita un potere discrezionale, in forza del quale è tenuto a valutare tutti i profili presi in considerazione dall’art. 723 c.p.p.”. Pertanto, la motivazione deve essere contenuta nell’atto di accoglimento della richiesta formulata dallo Stato estero o va desunta per relationem da un precedente atto infra-procedimentale.

Nel caso specifico, invece, non si è preso in considerazione il precedente “giudicato assolutorio” con il rischio concreto che “le medesime persone, già assolte, verrebbero nuovamente sottoposte ad un giudizio per i medesimi fatti, davanti all’autorità giudiziaria penale estera”, così ponendo in discussione la sovranità statale.

Nella medesima direzione va anche la possibile violazione della necessità della “doppia incriminazione”, con riguardo all’imputazione di riciclaggio formulata dall’autorità indiana, perché rivolta ai concorrenti nel reato di corruzione presupposta, in violazione dell’incompatibilità sancita invece da diritto penale interno (art. 648bis c.p.).

Tutte questioni sulle quali non si riscontra nei provvedimenti impugnati alcuna presa di posizione sul piano motivazionale.

Ciò premesso, per i Giudici va affermato che: “Il difetto di motivazione esplicita degli atti con cui è stato dato seguito alle richieste di assistenza giudiziaria internazionale è sindacabile, sotto il profilo del difetto di motivazione, poiché come nel caso di specie, si è in presenza di un provvedimento discrezionale, che va adeguatamente motivato”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 1° giugno 2022, n. 4487;
Cons. Stato, sez. VII, 16 marzo 2022, n. 1889;
Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2021, n. 5727;
Cons. Stato, sez. IV, 21 febbraio 2020, n. 1341;
Cons. Stato, sez. V, 14 febbraio 2020, n. 1180
giurista risponde

Corretta valutazione offerte tecniche nelle gare Qual è la corretta modalità di valutazione delle offerte tecniche da parte dei commissari nelle gare in cui è previsto l’utilizzo del metodo del confronto a coppie?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 14 dicembre 2022, n. 16.

I Giudici di Palazzo Spada hanno ammesso che, sia nel caso in cui il disciplinare di gara preveda l’utilizzo del metodo del confronto a coppie sia nel caso in cui la stazione appaltante abbia deciso di adottare il metodo dell’attribuzione discrezionale di un coefficiente variabile tra zero e uno, con valutazione discrezionale della singola offerta rispetto ai contenuti della lex specialis, per entrambi i metodi di valutazione tra i commissari può esserci un preventivo confronto sui contenuti delle offerte tecniche.

In tale confronto ciascun componente dell’organo collegiale potrà apporvi un personale contributo rispetto alle proprie competenze specifiche.

Nello specifico, i due metodi di valutazione si differenziano:

  • nel caso in cui il disciplinare abbia previsto l’attribuzione discrezionale di un coefficiente, “all’esito di una valutazione collegiale i singoli commissari ben possono ritenere, unanimemente, di assegnare il medesimo coefficiente ad ogni singola offerta, via via che essa viene esaminata”, in quanto ogni offerta è valutata singolarmente rispetto a standard ideali e non in confronto alle altre offerte;
  • nel confronto a coppie, invece, non può considerarsi legittimo un giudizio comparativo sempre identico tra i singoli commissari, “in quanto a differenza di un giudizio assoluto di volta in volta espresso rispetto alla singola offerta, quello comparativo a coppie, in quanto relativo, deve riflettere una individualità del singolo giudizio nella preferenza nettamente distinguibile da quella degli altri”.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato i seguenti principi di diritto: “a) Nel diritto dei contratti pubblici, i commissari di gara cui è demandato il compito di esprimere una preferenza o un coefficiente numerico, quando procedono alla valutazione degli elementi qualitativi dell’offerta tecnica, possono confrontarsi tra loro in ordine a tali elementi prima di attribuire individualmente il punteggio alle offerte, purché tale confronto non si presti ad una surrettizia introduzione del principio di collegialità, con la formulazione di punteggi precostituiti ex ante, laddove tali valutazioni debbano essere, alla luce del vigente quadro regolatorio, anzitutto di natura esclusivamente individuale; b) con riferimento al metodo del confronto a coppie, in particolare, l’assegnazione di punteggi tutti o in larga parte identici e non differenziati da parte di tutti i commissari annulla l’individualità della valutazione che, anche a seguito della valutazione collegiale, in una prima fase deve necessariamente mantenere una distinguibile autonomia preferenziale nel confronto tra la singola offerta e le altre in modo da garantire l’assegnazione di coefficienti non meramente ripetitivi e il funzionamento stesso del confronto a coppie; c) le valutazioni espresse dai singoli commissari, nella forma del coefficiente numerico non comparativo, possano ritenersi assorbite nella decisione collegiale finale”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 15 settembre 2021, n. 6296; Id., 14 febbraio 2018, n. 952;
Cons. Stato, sez. III, 13 ottobre 2017, n. 4772; Cons. Stato, sez. V, 11 agosto 2017, n. 3994;

Id., 8 settembre 2015, n. 4209; Id., 24 marzo 2014, n. 1428;
Cons. Stato, sez. IV, 16 febbraio 2012, n. 810

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Periodi di riposo padre lavoratore dipendente Sono riconosciuti i periodi di riposo, ai sensi degli artt. 39 e 40 del D.Lgs. 151/2001, al padre lavoratore dipendente (del minore di anni uno) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 28 dicembre 2022, n. 17. 

I Giudici ricordano che: “I periodi di riposo di cui all’art. 39 del D.Lgs. 151/2001 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionale tutelato dalla funzione genitoriale, cui si riconnettono:

 

–   sia le responsabilità di entrambi i genitori nei confronti del figlio (naturale o adottivo), e dunque il diritto dei medesimi ad ottenere dall’ordinamento il riconoscimento delle migliori condizioni possibili onde assolvere ad una funzione non solo individuale, ma anche socialmente fondamentale;

–   sia, specularmente, il diritto del figlio ad ottenere, per il tramite dell’assistenza dei genitori, ottimali condizioni di crescita e di sviluppo della sua età evolutiva”.

Ed invero, l’esercizio della funzione genitoriale tende sia alla piena realizzazione dei diritti del bambino ad ottenere la migliore assistenza da parte dei genitori sia a costituire espressione del diritto “proprio” di ciascuno dei genitori, quale espressione della loro personalità, ad accompagnare la crescita del figlio.

Occorre, dunque, prendere le mosse dell’art. 40 del D.Lgs. 151/2001, che prevede la fruizione dei riposi orari del padre lavoratore nei casi: a) in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in cui la madre lavoratrice non se ne avvalga; c) in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) di morte o di grave infermità della madre.

La giurisprudenza si è interrogata se il diritto ai riposi orari spettasse anche nel caso in cui la madre fosse una casalinga; dunque, se potesse rientrare nel novero di “madre non lavoratrice dipendente”.

Sul punto vi sono stati diversi indirizzi interpretativi.

Secondo un primo indirizzo positivo, con “madre lavoratrice dipendente” si ricomprendono tutte le ipotesi in cui non esiste un rapporto di lavoro dipendente, dunque sia il caso della lavoratrice autonoma sia il caso della donna che non svolga alcun lavoro nonché il caso della donna che svolga un’attività non retribuita (come appunto la casalinga).

Orbene, la ratio della disposizione si individuava nel principio della paritetica partecipazione di entrambi i genitori alla cura e all’educazione della prole, così come enunciato nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.

Per quanto attiene all’orientamento negativo, il principio di alternatività nella cura del minore andrebbe escluso in termini assoluti e non sarebbe possibile ricondurre la casalinga alla condizione di non lavoratrice dipendente. Interpretazione che si fonda sulla ricerca del necessario equilibrio tra il diritto-dovere di entrambi i coniugi di assistere i figli e le specifiche esigenze del datore di lavoro.

Si è poi affermato un indirizzo intermedio, secondo il quale il padre ha diritto ai permessi solo nel caso in cui dimostri che la moglie casalinga è impossibilitata ad assicurare le necessarie cure al bambino.

Tale contrasto interpretativo induceva la Seconda Sezione del Consiglio di Stato a deferire la questione all’Adunanza Plenaria, che osservava come: “i periodi di riposo di cui all’articolo 39 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionalmente tutelato della funzione genitoriale”.

Escludere il diritto del padre alla fruizione dei riposi in caso di presenza nel nucleo familiare della madre casalinga, comporterebbe un’irragionevole privazione del diritto del padre lavoratore dipendente, non giustificata dal testo della norma che nella sua chiarezza non consente interpretazioni riduttive.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio di diritto secondo cui: “L’art. 40, comma 1, lett. c), D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente art. 39 sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti; e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., sez. lav., 28 novembre 2019, n. 31137;
Cons. Stato, sez. III, 10 settembre 2014, n. 4618;
Cass. civ., sez. III, 20 luglio 2010, n. 16896; Id., 24 agosto 2007, n. 17977;
Id., 20 ottobre 2005, n. 20324
Difformi:      Cons. Stato, sez. II, 4 marzo 2021, n. 1851; Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2017, n. 499; Cons. Stato, sez. I, 22 ottobre 2009, n. 2732
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Qualifiche professionali estere e accesso in Italia È possibile riconoscere ai fini dell’accesso nel territorio italiano ad attività professionali qualifiche conseguite all’estero?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 28 dicembre 2022, n. 18.

Preliminarmente è opportuno evidenziare che la direttiva 2005/36/CE, in vista dell’obiettivo d’attuazione delle libertà economiche fondamentali dei Trattati europei, si propone di facilitare il riconoscimento reciproco dei diplomi, dei certificati ed altri titoli; stabilendo regole e criteri che comportino il riconoscimento automatico degli stessi.

In conformità con quanto statuito dalla Corte di giustizia (sent. 8 luglio 2021, C-166/20) il Ministero dell’istruzione è tenuto: “Ad esaminare l’insieme dei diplomi, dei certificati e altri titoli, posseduti da ciascun interessato; a procedere quindi ad un confronto tra, da un lato, le competenze attestate da tali titoli e da tale esperienza e, dall’altro, le conoscenze e le qualifiche richieste dalla legislazione nazionale, onde accertare se gli interessati abbiano o meno i requisiti per accedere alla professione regolamentata di insegnante, eventualmente previa imposizione delle misure compensative”.

In conclusione, l’Adunanza Plenaria ha affermato, richiamando giurisprudenza comunitaria, che: “Anche in mancanza del titolo di formazione ottenuto presso lo Stato d’origine, l’autorità del Paese ospitante è tenuta ad accertare le competenze professionali, comunque, risultanti dalla documentazione presentata dall’interessato e a compararla con quelle previste dalla legislazione interna per l’accesso alla professione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VII, 14 luglio 2022, n. 5983; Id., 16 marzo 2022, n. 1850;
Cons. Stato, sez. VI, 3 novembre 2021, n. 7343; Id., 17 febbraio 2020 n. 1198
giurista risponde

Diplomi esteri e riconoscimento in Italia È possibile riconoscere nel territorio italiano diplomi e qualifiche estere?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 29 dicembre 2022, nn. 19, 20, 21 e 22.

Il Consiglio di Stato ha enunciato il seguente principio di diritto: “Spetta al Ministero competente verificare se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato da altro Stato o la qualifica attestata da questo, nonché l’esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni per accedere all’insegnamento in Italia, salva l’adozione di opportune e proporzionate misure compensative ai sensi dell’art. 14 della Direttiva 2005/36/CE.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VII, 14 luglio 2022, n. 5983; Id., 16 marzo 2022, n. 1850;
Cons. Stato, sez. VI, 3 novembre 2021, n. 7343; Id., 17 febbraio 2020 n. 1198
giurista risponde

Correzione errore materiale Qual è l'ambito applicativo della procedura di correzione dell’errore materiale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 3 gennaio 2023, n. 1.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio di diritto secondo cui: La procedura di correzione di un errore materiale può essere attivata anche d’ufficio, senza istanza di parte, trattandosi di un procedimento privo di connotati giurisdizionali e di natura sostanzialmente amministrativa, ed in ogni tempo (ex art. 391bis, comma 1, del c.p.c., applicabile anche nei giudizi innanzi al Consiglio di Stato).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 7 febbraio 2017, n. 533; Cons. Stato, sez. IV, 2358/2004