cambio destinazione d'uso

Cambio destinazione d’uso: serve parere Consiglio comunale Per la Consulta, è incostituzionale la norma del Lazio che consente trasformazioni edilizie con cambio di destinazione d'uso senza il parere del Consiglio comunale

Cambio destinazione d’uso

Cambio destinazione d’uso senza il preventivo parere del Consiglio comunale: con la sentenza n. 51/2025, la Consulta ha annullato per illegittimità costituzionale l’articolo 4, comma 4, della legge della Regione Lazio n. 7/2017.

La disposizione impugnata consentiva, in via transitoria, l’esecuzione di interventi edilizi con cambio della destinazione d’uso anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali, senza il coinvolgimento del Consiglio comunale, organo titolare delle scelte di pianificazione territoriale.

Violazione competenze urbanistiche comunali

Secondo la Corte, tale previsione comprime ingiustificatamente la potestà pianificatoria dei Comuni, poiché consente modifiche rilevanti del territorio senza l’approvazione dell’organo rappresentativo locale. Ciò risulta in contrasto con i principi costituzionali che regolano l’autonomia amministrativa e normativa degli enti locali (articoli 5 e 114 della Costituzione).

In particolare, l’esclusione del Consiglio comunale da scelte che incidono su:

  • la destinazione funzionale delle aree urbane,

  • il carico urbanistico complessivo,

  • la distribuzione degli insediamenti abitativi e produttivi,

può determinare effetti negativi sull’equilibrio urbanistico del territorio, soprattutto quando vengono compromesse aree a destinazione pubblica o sociale.

Rigenerazione urbana richiede visione integrata

La Consulta ha evidenziato come l’obiettivo di rigenerazione urbana debba essere interpretato in chiave integrata, tenendo conto non solo degli aspetti edilizi, ma anche dei risvolti sociali, economici e ambientali. Interventi trasformativi che alterano profondamente l’assetto urbano non possono prescindere dalla deliberazione consiliare, che costituisce espressione della sovranità territoriale dell’ente locale.

lealtà e correttezza

Lealtà e correttezza: canoni generali dell’agire dell’avvocato Il Consiglio Nazionale Forense ha rammentato l'importanza di lealtà e correttezza quali canoni generali dell'agire dell'avvocato

Lealtà e correttezza dell’avvocato

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 370/2024 pubblicata il 10 aprile 2025 sul sito del Codice deontologico, ha ribadito l’importanza del dovere di lealtà e correttezza che ogni avvocato deve osservare. Non solo nei confronti del proprio assistito, ma anche verso la controparte e i terzi. Questo principio mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività.

Il caso esaminato

La vicenda trae origine da un procedimento disciplinare avviato nei confronti di un avvocato del foro di Catania. Il legale era accusato di aver introdotto un giudizio utilizzando un mandato alle liti con firma apocrifa del cliente, deceduto anni prima, e di non aver adempiuto al dovere di informazione prima dell’iniziativa giudiziale.

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina di Catania aveva comminato la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per un anno.

L’avvocato aveva impugnato la decisione, ma il CNF ha confermato la sanzione, evidenziando la gravità delle violazioni commesse.

Il principio affermato dal CNF

La sentenza sottolinea che l’avvocato deve svolgere la propria attività con lealtà e correttezza non solo nei confronti della parte assistita, ma anche verso i terzi e la controparte. Il dovere di lealtà e correttezza nell’esercizio della professione è un canone generale dell’agire di ogni avvocato, volto a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato stesso quale professionista leale e corretto, appunto, in ogni ambito della propria attività. Evitando “comportamenti che compromettano gravemente l’immagine che la classe forense deve mantenere nei confronti della collettività al fine di assicurare responsabilmente la funzione sociale che l’ordinamento le attribuisce”.

adozione del maggiorenne

Adozione del maggiorenne: il cognome non si cambia La Corte costituzionale conferma la legittimità del divieto di sostituire il cognome dell’adottato maggiorenne con quello dell’adottante, tutelando il diritto all’identità personale e garantendo coerenza con il sistema normativo

Adozione del maggiorenne e cambio cognome

Adozione del maggiorenne: il cognome dell’adottato non può essere sostituito con quello dell’adottante. Con la sentenza n. 53 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate in merito all’articolo 299, primo comma, del codice civile, che disciplina gli effetti dell’adozione nei confronti dei soggetti maggiorenni. Secondo la Consulta, non viola gli articoli 2 e 3 della Costituzione la norma che consente l’aggiunta o l’anteposizione, ma non la sostituzione del cognome dell’adottato con quello dell’adottante, anche qualora vi sia il consenso di entrambi.

Cognome e identità personale

La Corte ha richiamato la propria precedente pronuncia, sentenza n. 135/2023, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità della norma nella parte in cui non permetteva di aggiungere (anziché soltanto anteporre) il cognome dell’adottante a quello del maggiorenne adottato, qualora entrambi avessero espresso consenso in tal senso. Tale modifica era finalizzata a tutelare il diritto all’identità personale, che si sviluppa anche attraverso la continuità del cognome originario.

Di contro, una sostituzione integrale del cognome rappresenterebbe un’eliminazione di un elemento identitario consolidato, che ha accompagnato l’individuo per almeno diciotto anni. Una tale possibilità, secondo la Corte, potrebbe inoltre esporre l’adottato a condizionamenti indebiti, soprattutto in considerazione dei vantaggi patrimoniali che derivano dall’adozione in età adulta, in particolare in ambito successorio.

Nessuna disparità irragionevole con l’adozione

La Consulta ha escluso che vi sia una disparità di trattamento tra l’adozione del maggiorenne e l’adozione legittimante del minore. Le due ipotesi, pur potendo presentare analogie in casi specifici (ad esempio quando l’adottante è stato in passato affidatario), rimangono ontologicamente distinte nella ratio e nella struttura normativa.

Cambio del cognome: già previsti strumenti adeguati

La Corte ha infine evidenziato che, in presenza di specifiche ragioni personali, l’adottato maggiorenne può comunque ricorrere alla procedura di cambiamento del cognome prevista dall’art. 89, comma 1, del d.P.R. n. 396/2000. Tale norma consente a chiunque vi abbia interesse di presentare apposita istanza al prefetto, illustrando i motivi alla base della richiesta, anche laddove il cognome sia ritenuto lesivo della propria identità o rivelatore dell’origine naturale.

compensi avvocato

Compensi avvocato: fase istruttoria inclusa nella trattazione Secondo la Cassazione, non è previsto un compenso autonomo per la fase istruttoria, che rientra in quella di trattazione ai sensi del d.m. n. 55/2014

Compensi avvocato

Compensi avvocato: la sezione III della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7343/2025, ha fornito chiarimenti sulla liquidazione al difensore per la fase istruttoria e di trattazione in appello.

La vicenda

Nella vicenda, con atto di opposizione ex art. 617 c.p.c. una srl, quale terzo pignorato, conveniva in giudizio un’altra srl al fine di sentire accertare la nullità dell’ordinanza di assegnazione delle somme emessa nell’ambito del procedimento esecutivo presso terzi, atteso l’intervenuto fallimento della debitrice.

La srl si costituiva chiedendo il rigetto della domanda avversaria e la conferma della ordinanza impugnata. Il Tribunale, in accoglimento dell’opposizione, revocava l’ordinanza di assegnazione. Veniva quindi proposto appello, dichiarato inammissibile e la questione approdava in Cassazione.

Innanzi al Palazzaccio, si denunciava tra l’altro la violazione e/o falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, perché il giudice del secondo grado, pur nella totale assenza di una fase istruttoria e/o di trattazione, aveva liquidato le spese di lite, ponendole a carico della parte soccombente, comprendendo nella liquidazione – eseguita secondo i parametri medi del D.M. n. 55 del 2014 – anche il compenso previsto per l’espletamento della “fase istruttoria e/o di trattazione”.

Il principio applicato e i richiami giurisprudenziali

La Suprema Corte ritiene il motivo fondato. Ritenendo di dare continuità al principio di diritto (già affermato da Cass. n. 10206/2021 e di recente ribadito da Cass. n. 19 29077/2024) la S.C. afferma che “In tema di liquidazione delle spese processuali in base al D.M. n. 55 del 2014, l’effettuazione di singoli atti istruttori e, segnatamente, la produzione di documenti, in altre fasi processuali (come quella introduttiva e/o quella decisionale) non equivale allo svolgimento della fase istruttoria e/o di trattazione che, per quanto riguarda il giudizio di appello, può dare luogo al riconoscimento della relativa voce di tariffa unicamente qualora sia effettivamente posta in essere, nel corso della prima udienza di trattazione, una o più delle specifiche attività previste dall’art. 350 c.p.c. ovvero sia fissata un’udienza a tal fine o, comunque, allo scopo di svolgere altre attività istruttorie e/o di trattazione, ma non nel caso in cui alla prima udienza di trattazione sia esclusivamente e direttamente fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni, senza il compimento di nessuna ulteriore attività, e questo anche ove siano prodotti nuovi documenti in allegato all’atto di appello ovvero, successivamente, con gli scritti conclusionali”.

In definitiva, la sentenza impugnata è cassata, sia pure esclusivamente con riferimento alla liquidazione delle spese di lite poste a carico della parte soccombente. Per cui, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, la S.C. decide nel merito, con rideterminazione dell’importo delle spese liquidate in favore dell’appellata per il secondo grado, con esclusione dei compensi per la fase istruttoria e/o di trattazione.

Allegati

reato di incendio

Il reato di incendio Reato di incendio (art. 423 c.p.): disciplina, fattispecie, profili sanzionatori e giurisprudenza

Reato di incendio art. 423 c.p. 

Il reato di incendio è disciplinato dall’articolo 423 del Codice penale, collocato all’interno del Titolo VI, Capo I, dedicato ai delitti contro la pubblica incolumità. La norma punisce con la pena della reclusione da tre a 7 anni chiunque cagioni un incendio e anche quando l’incendio riguardi una cosa propria del soggetto agente, se dal fatto deriva un pericolo per la pubblica incolumità

L’incendio presuppone un fuoco di ampie dimensioni, che tende a diffondersi e che sia difficile da spegnere,

Differenza tra incendio doloso e colposo

L’incendio doloso richiede il dolo, ossia la volontà dell’agente di causare l’incendio e di accettarne le conseguenze.  In tal caso, il soggetto è punibile ai sensi dell’art. 423 c.p. (dolo generico); 423 bis comma 1 (incendio boschivo doloso);.

L’incendio colposo è disciplinato da diverse norme:

art. 423 bis c.p comma 2: incendio boschivo colposo;

dall’art. 449 c.p., che prevede pene meno gravi. La condotta infatti è punita con la reclusione da uno a cinque  anniAnche in questa forma colposa il reato si configura solo se l’incendio è tale da costituire pericolo per l’incolumità pubblica.

Normativa di riferimento

  • Art. 423 c.p.: incendio;
  • Art 424 bis c.p. incendio boschivo;
  • Art. 424 c.p.: danneggiamento seguito da incendio;
  • Art. 449 c.p.: delitti colposi di danni tra cui figura l’incendio.

Elementi costitutivi del reato di incendio

Per la configurazione del reato ex art. 423 c.p. occorrono:

  • Condotta attiva: accensione del fuoco su cose proprie o altrui;
  • Pericolo concreato o astratto;
  • Nesso causale tra condotta e pericolo;
  • Elemento soggettivo: dolo generico;
  • Pericolo per la pubblica incolumità: anche potenziale.

Pena prevista

Il delitto di incendio, ai sensi dell’art. 423 c.p., è punito con:

  • la reclusione da tre a sette anni.

Se dall’incendio deriva un danno grave a  edifici pubblici, navi, edifici abitati, monumenti, cimiteri, navi, cantieri, ecc. trovano applicazione le aggravanti dell’art. 425 c.p., che comportano un aumento di pena.

Aspetti procedurali

  • Procedibilità d’ufficio.
  • Competenza del tribunale in composizione monocratica.

Giurisprudenza sul reato di incendio

La giurisprudenza ha è intervenuta in diverse occasioni per specificar gli aspetti più importanti del reato di incendio.

Cassazione n. 8598/2024: la sentenza distingue tra la definizione comune di incendio e la definizione giuridica del reato di incendio boschivo (art. 423-bis c.p.).

  • L’incendio comune si verifica solo quando il fuoco divampa in modo incontrollabile e su vasta scala, con fiamme distruttive che si propagano e mettono in pericolo un numero indeterminato di persone.
  • L’incendio boschivo (art. 423-bis c.p.): è un reato di pericolo presunto. Non è necessario che l’incendio si sviluppi completamente con le caratteristiche descritte sopra. È sufficiente che il fuoco appiccato abbia la potenzialità di diventare un incendio, manifestando la tendenza a diffondersi, la difficoltà di essere spento e la possibilità di creare pericolo per la pubblica incolumità.

Cassazione n. 5527/2024: ciò che distingue il reato di incendio doloso (art. 423 c.p.) dal reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) è l’elemento psicologico dell’autore.

  • L’incendio doloso (art. 423 c.p.) richiede il dolo generico, ovvero la volontà di causare un evento con fiamme che, per la loro natura e intensità, sono inclini a propagarsi incontrollabilmente, generando un reale pericolo per la sicurezza pubblica. L’obiettivo primario dell’agente è provocare un incendio con queste caratteristiche.
  • Il danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.): è caratterizzato dal dolo specifico di danneggiare una cosa altrui. L’intenzione principale dell’agente è quella di deteriorare o distruggere un bene appartenente ad altri, l’incendio è un risultato secondario, seppur prevedibile.

Rilevanza pratica e considerazioni conclusive

Il reato di incendio è di particolare rilevanza nei contesti urbani e rurali, soprattutto nei periodi di emergenza ambientale o in presenza di fenomeni di vandalismo. La sua disciplina mira a tutelare la sicurezza collettiva e a prevenire disastri con effetti potenzialmente estesi e incontrollabili.

In ambito processuale e difensivo, è fondamentale valutare con attenzione:

  • la natura del fuoco (incendio o semplice combustione),
  • l’intenzionalità della condotta,
  • l’esistenza del pericolo concreto per la collettività,
  • eventuali fattori di rischio connessi (uso di sostanze acceleranti, contesto di luogo e tempo).

 

Leggi anche: Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio

giurista risponde

Il dolo nel reato di incendio Quali sono i criteri per accertare il dolo nel reato di incendio, distinguendo tra dolo generico e dolo specifico, e quale rilevanza assume tale distinzione nella qualificazione giuridica del fatto?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Per accertare il dolo nel reato di incendio, si seguono criteri indiziari basati su circostanze esteriori che rivelano l’atteggiamento interiore dell’agente. Il dolo generico implica la volontà di cagionare un incendio con caratteristiche tali da creare un pericolo per la pubblica incolumità, mentre il dolo specifico consiste nell’uso del fuoco esclusivamente per danneggiare un bene altrui.

La distinzione è rilevante per qualificare il fatto come incendio doloso (art. 423 c.p.) o danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.), in base alla volontà dell’autore e all’entità dell’evento (Cass., sez. I, 12 settembre 2024, n. 45886).

Nel caso di specie, gli imputati erano accusati di aver causato un incendio doloso utilizzando liquido infiammabile cosparso su automezzi parcheggiati in prossimità di abitazioni.

La Corte d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio doloso (art. 423 c.p.), rilevando la presenza del dolo generico. La Cassazione ha confermato tale qualificazione affermando che il dolo, quale elemento soggettivo del reato, deve essere ricostruito attraverso un ragionamento indiziario, valutando indicatori fattuali capaci di sostenere la rappresentazione e la volontà dell’autore di realizzare il fatto illecito. La Suprema Corte ha confermato quanto stabilito da Cass., sez. I, 23 giugno 2021, n. 4985 evidenziando che, nel reato di incendio di cui all’art. 423 c.p., il dolo è generico e si configura quando l’agente ha la volontà di cagionare una combustione tale da provocare un concreto pericolo per la pubblica incolumità. Diversamente, nel caso del danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 c.p., è richiesto il dolo specifico, ovvero l’intenzione di danneggiare un bene altrui mediante l’uso del fuoco, senza la previsione o la volontà di generare un incendio (così anche Cass., sez. I, 3 novembre 2020, n.32566).

La Cassazione nel caso in questione ha chiarito ex professo che se l’agente, oltre ad avere l’intenzione di danneggiare, agisce con la consapevolezza e l’accettazione del rischio di provocare un incendio di dimensioni tali da assumere le caratteristiche di un fuoco di non lievi proporzioni, si configura il delitto di incendio, anche se il dolo è eventuale (così anche Cass., sez. I, 11 febbraio 2013, n. 16612).

Nella decisione de qua, la Suprema Corte ha rilevato la correttezza e la logicità della motivazione resa dalla Corte d’Appello, con gli specifici riferimenti alle modalità utilizzate.

Il Tribunale d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio ex art. 423 c.p., rilevando la presenza del dolo generico.

La Cassazione ha confermato tale qualificazione, evidenziando che l’impiego del liquido infiammabile su più veicoli, con serbatoi pieni, indicava la volontà degli imputati di accettare il rischio di propagazione incontrollata del fuoco, oltre al fatto che il pericolo concreto per la pubblica incolumità era dimostrato dall’intensa attività dei vigili del fuoco per domare l’incendio.

La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che la qualificazione giuridica dipende dalla volontà dell’agente, che deve essere valutata in base alle circostanze fattuali del caso (così come Cass., sez. I, 3 febbraio 2009, n. 6250).

La Cassazione ha, infine, ribadito quanto affermato da Cass. pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 cioè che al fine di accertare il dolo è necessario seguire un ragionamento indiziario “dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall’id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l’espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha esaminato i ricorsi presentati e, dopo averli ritenuti complessivamente infondati, ha affermato che la corretta instaurazione del rapporto processuale imponeva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per estinzione del reato per prescrizione, confermando, tuttavia, la validità delle statuizioni civili.

 

(*Contributo in tema di “Il dolo nel reato di incendio”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

voltura catastale

Voltura catastale e consultazione: come funzionano i servizi online Al via i nuovi servizi di voltura catastale e consultazione registro partite catastali online attivati dall'Agenzia delle Entrate

Nuovi servizi catastali online

“Voltura catastale” e “Consultazione registro partite catastali” sono i nuovi servizi attivati dall’Agenzia delle Entrate direttamente online. Entrambi i servizi, come reso noto dal fisco con comunicato del 15 aprile 2025 hanno il fine di rendere più semplice la richiesta di voltura degli immobili nonchè la consultazione dei vecchi registri cartacei ora digitalizzati.

Voltura catastale web più semplice

La voltura catastale, spiegano le Entrate, è il principale strumento con il quale devono essere aggiornati i soggetti iscritti in Catasto. Con la “domanda di volture”, quindi, il contribuente comunica al Fisco che il titolare di un determinato diritto reale su un bene immobile non è più la stessa persona, ma un’altra (come ad esempio nelle successioni ereditarie).

Il nuovo servizio “Voltura catastale web”, accessibile tramite credenziali Spid, Cie, Cns o Entratel/Fisconline, consente di presentare la domanda di volture e versare le somme dovute direttamente online. Il sistema guida l’utente nella compilazione della dichiarazione e, al termine, attesta la ricezione, il controllo e l’accettazione dei documenti inseriti, nonché l’avvenuto pagamento dei tributi.

Consultazione partite catastali

Attivo anche il nuovo servizio gratuito “Consultazione registro partite catastali” disponibile nell’area riservata sul sito delle Entrate.

La nuova funzionalità consente di consultare i “registri di partita”, ovvero gli schedari cartacei con i nomi degli intestatari (ditte catastali) contrassegnati da un numero (numero di partita). Nel corso degli anni tali registri sono stati microfilmati e successivamente trasferiti su immagini digitali, che oggi vengono rese consultabili online grazie al nuovo servizio, senza la necessità di recarsi fisicamente presso gli uffici dell’Agenzia. Benché questi registri cartacei non siano più aggiornati, poiché superati dalle attuali modalità di archiviazione dei dati catastali, conclude la nota stampa, “la consultazione delle informazioni in essi contenute risulta particolarmente utile in caso di ricerche a ritroso nel tempo”.

Cessione del quinto

Cessione del quinto Cessione del quinto: cos'è, come funziona, a chi è rivolta e i nuovi tassi 2025

Cos’è la cessione del quinto

La cessione del quinto è una forma di estinzione di un prestito personale disciplinata da una normativa specifica, che prevede il rimborso mediante trattenuta diretta su stipendio o pensione, fino a un massimo del 20% dell’importo mensile percepito.

Si tratta di una soluzione sempre più diffusa per la sua semplicità gestionale e il rischio ridotto per il creditore. Vediamo nel dettaglio come funziona, chi può richiederla, quali vantaggi e svantaggi presenta e quali sono i nuovi tassi applicabili da aprile 2025.

Normativa

La cessione del quinto dello stipendio o della pensione è regolata dagli articoli 1260 e seguenti del codice civile e, in ambito pubblico e statale, anche dal D.P.R. n. 180/1950 e dal D.P.R. n. 895/1950. L’istituto prevede la concessione di un prestito non finalizzato, la cui rata non può superare un quinto (ossia il 20%) dell’emolumento netto mensile percepito dal richiedente. Il rimborso avviene tramite trattenuta diretta operata dal datore di lavoro o dall’ente previdenziale.

Come funziona: stipendio e pensione

La cessione del quinto sullo stipendio è rivolta a

  • dipendenti pubblici e statali;
  • dipendenti di aziende private con contratto a tempo indeterminato.

Il datore di lavoro è obbligato ad accettare la cessione e a trattenere l’importo dalla busta paga. Il contratto può avere una durata massima di 10 anni.

La cessione del quinto sulla pensione invece può essere richiesta dai titolari di pensioni, con esclusione dei beneficiari di:

  • pensioni sociali;
  • pensioni di invalidità civile;
  • assegni al nucleo familiare o di sostegno al reddito.

È l’INPS a trattenere mensilmente la rata e a versarla direttamente al soggetto finanziatore.

Chi può richiederla

Sono ammessi a richiederla:

  • i lavoratori dipendenti pubblici, statali e privati (con contratto a tempo indeterminato);
  • i pensionati con trattamento mensile sufficiente a garantire la quota cedibile, tutelando il cosiddetto minimo vitale.

È inoltre necessaria una polizza assicurativa obbligatoria contro il rischio di morte e perdita dell’impiego (per i lavoratori).

Vantaggi e svantaggi della cessione di 1/5

I vantaggi di questa misura sono i seguenti:

  • rata fissa e trattenuta automatica;
  • nessun obbligo di motivare la richiesta (prestito non finalizzato);
  • accessibilità anche in presenza di segnalazioni in centrale rischi;
  • possibilità di rinnovo o estinzione anticipata.

Gli svantaggi invece sono rappresentati invece:

  • dall’obbligo assicurativo che incide sul costo complessivo;
  • l’indisponibilità per contratti a termine o pensioni minime;
  • il limite della rata (1/5) che riduce l’importo ottenibile.

Costi della cessione del quinto

Il TAN (Tasso Annuo Nominale) e il TAEG (Tasso Annuo Effettivo Globale) variano in base ai seguenti dati:

  • età del richiedente;
  • durata del prestito;
  • ente erogatore e tipo di assicurazione.

Tra i costi obbligatori da sostenere troviamo:

  • interessi;
  • premi assicurativi;
  • spese di istruttoria;
  • commissioni bancarie o di intermediazione.

I nuovi tassi INPS da aprile 2025

Con il messaggio INPS n. 1166 del 4 aprile 2025, sono stati aggiornati i tassi soglia TAEG da utilizzare per i prestiti che si possono estinguere con la cessione di 1/5 della pensione, quando concessi da banche o intermediari in regime di convenzione ai pensionati:

Fascia di età alla scadenza Fino a €15.000 Oltre €15.000
Fino a 59 anni 9,69% 7,58%
Da 60 a 64 anni 10,49% 8,38%
Da 65 a 69 anni 11,29% 9,18%
Da 70 a 74 anni 11,99% 9,88%

 

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contenuto della querela

Il contenuto della querela spiegato dalla Cassazione Il contenuto della querela e la qualificazione giuridica del fatto: la Cassazione si pronuncia con la sentenza n. 4258/2025

Contenuto della querela

Contenuto della querela: la prima sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4258/2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di querela, stabilendo che essa deve limitarsi a contenere la notizia di reato con l’istanza di punizione, mentre la qualificazione giuridica del fatto spetta esclusivamente al giudice.

La vicenda processuale

Il caso in esame trae origine dalla sentenza del tribunale di Foggia che, previa riqualificazione del fatto contestato dal pubblico ministero come integrante la contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen. anziché il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., ha condannato un uomo concessegli le circostanze attenuanti generiche, alla pena di euro 200 di ammenda.
Il Tribunale ha anche precisato che non potesse essere accolta la richiesta,
formulata dal difensore dell’imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, di definizione del procedimento mediante oblazione in caso di riqualificazione del reato di atti persecutori in quello di molestie. A tal proposito, il tribunale ha richiamato pronunce di legittimità secondo cui l’imputato può avere accesso all’oblazione solo quando avanzi, in via preventiva e cautelativa, una
sollecitazione al giudice circa la diversa qualificazione con contestuale richiesta di oblazione, incorrendo altrimenti nella decadenza.

Nel caso di specie, l’imputato si è limitato genericamente a sollecitare di essere ammesso all’oblazione nel caso in cui il giudice avesse in sentenza riqualificato i fatti.

Il ricorso

Avverso la predetta sentenza, ha proposto ricorso innanzi alla Cassazione, il difensore dell’imputato, articolando tre motivi.

Con il primo motivo, lamenta l’omessa declaratoria di improcedibilità per il difetto di querela, nonché la mancanza di motivazione. Nel secondo si duole del negato accesso all’oblazione. Con il terzo e ultimo motivo, infine, la mancanza di motivazione in ordine alla mancata concessione del beneficio della non menzione.

La motivazione della sentenza

Per gli Ermellini, il ricorso è parzialmente fondato, in ordine alla preclusione del diritto a fruire dell’oblazione.

Infondati invece gli altri motivi, soprattutto in ordine alla querela, osservano i giudici, dagli atti risulta che la persona offesa abbia presentato una valida querela contenente l’espressa richiesta di punizione.
Sotto questo profilo, proseguono, “non rileva che la querela fosse stata originariamente proposta per il reato di atti persecutori anziché per quello di molestie, in quanto è sufficiente che l’atto esprima la volontà di procedere nei confronti del responsabile di un fatto.
La querela, invero, rammentano dalla S.C., “deve contenere solo la notizia di reato con l’istanza di punizione, spettando esclusivamente al giudice il potere d’inquadrare il fatto storico, ossia la qualificazione giuridica del fatto stesso, indipendentemente da quella data dal querelante (cfr., tra le altre, Cass. n. 12159/1977; Cass. n. 27964/2020).

La decisione

Alla luce di quanto affermato, la sentenza impugnata per piazza Cavour va annullata limitatamente alla valutazione dell’istanza di ammissione all’oblazione, con rinvio al Tribunale di Foggia in diversa persona fisica per un nuovo giudizio sul punto. Nel resto, invece, il ricorso è rigettato.

Allegati

custodia cautelare

La custodia cautelare Custodia cautelare: cos'è, normativa di riferimento, requisiti di applicazione, durata, reati e giurisprudenza

Cos’è la custodia cautelare?

La custodia cautelare è una misura cautelare personale prevista dal codice di procedura penale (art. 285- art. 286 bis c.p.p). Si applica a un imputato quando sussistono gravi indizi di colpevolezza e specifiche esigenze cautelari, al fine di garantire il corretto svolgimento del processo.

Normativa di riferimento

Le disposizioni relative alla custodia cautelare sono contenute nel Titolo I, Capo II del Libro IV del Codice di procedura penale. Le principali norme di riferimento includono:

  • Art. 272 c.p.p.: sancisce che le libertà della persona possa essere limitata solo con misure cautelari nel rispetto delle disposizioni di legge dedicate presenti nel codice di procedura penale.
  • Art. 273 c.p.p.: le misure cautelari possono essere disposte solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza.
  • Art. 274 c.p.p.: le principali esigenze cautelari sono rappresentate dal pericolo di fuga, da quello di reiterazione del reato, dal possibile inquinamento delle prove.
  • Art. 285 c.p.p.: contiene la disciplina della custodia cautelare in carcere.
  • Art. 286 c.p.p.: prevede la custodia cautelare in un luogo di cura.
  • Art 286 bis c.p.p: prevede in quali casi è previsto il divieto della custodia cautelare.

Requisiti per l’applicazione

La custodia cautelare è disposta dal giudice quando ricorrono tre presupposti fondamentali:

  1. Gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p.).
  2. Esigenze cautelari concrete e attuali (art. 274 c.p.p.):
    • Pericolo di fuga;
    • Pericolo di reiterazione del reato;
    • Pericolo di inquinamento delle prove.
  1. Adeguatezza della misura: il giudice deve valutare se misure meno afflittive (es. arresti domiciliari, obbligo di firma) siano insufficienti. Il comma 2 dell’articolo 275 c.p.p sancisce infatti che “ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o che si ritiene possa essere irrogata.”

Durata della custodia cautelare

La custodia cautelare ha una durata massima stabilita dagli artt. 303 e 304 c.p.p., che varia in base alla gravità del reato e alla fase del processo:

  • Indagini preliminari: 3 mesi per delitti che prevedono la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, 6 mesi per reati puniti con la reclusione per un periodo non superiore a sei anni salvo quanto sancito dal punto 3), comma 1, art. 2303 c.p.p, 1 anno per reati puniti con l’ergastolo o con una pena non inferiore nel massimo a 20 anni;
  • Giudizio di primo grado: sei mesi per reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a sei anni; 1 anno per reati puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a 20 anni; 1 anno e sei mesi se la pena prevista è l’ergastolo o la pena della reclusione superiore, nel massimo, a 20 anni.
  • Appello e Cassazione: i tempi sono ulteriormente ridotti.

Reati per cui si applica la custodia cautelare

La custodia cautelare può essere applicata per reati di particolare gravità, tra cui:

  • Mafia e associazione per delinquere (art. 416-bis c.p.).
  • Omicidio volontario (art. 575 c.p.).
  • Violenza sessuale aggravata (art. 609-bis c.p.).
  • Traffico di droga (art. 73 D.P.R. 309/90).
  • Rapina aggravata (art. 628 c.p.).

Giurisprudenza rilevante 

La Corte di Cassazione intervenuta spesso in materia di custodia cautelare per precisare le caratteristiche peculiari dell’istituto e la sua applicazione.

Cassazione n. 10925/2025

La misura della custodia cautelare in carcere va confermata nei confronti di un imputato accusato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, evidenziando che il semplice decorso del tempo non è, di per sé, sufficiente a escludere l’attualità delle esigenze cautelari. La decisione si basa sulla persistenza di elementi concreti e attuali che attestano la pericolosità del soggetto, come condotte recenti indicative di una propensione a reiterare reati della stessa natura. In questo contesto, la valutazione dell’autorità giudiziaria deve considerare non solo il tempo trascorso, ma anche eventuali comportamenti che confermino il mantenimento del legame con l’ambiente criminale o la possibilità di nuovi reati.

Cassazione SU n. 44060/2024

Nel caso in cui l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.

Cassazione n. 32593/2021

In materia di misure cautelari personali, il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l’applicazione della custodia in carcere, previsto dall’art. 275 c.p.p., comma 2-bis, opera non solo nella fase di applicazione, ma anche nel corso dell’esecuzione della misura, sicché la misura non può essere mantenuta qualora sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite; in motivazione, la Corte ha precisato che i principi di proporzionalità ed adeguatezza devono essere costantemente verificati, al fine di attuare la minor compressione possibile della libertà personale, non potendo prevalere le valutazioni compiute in fase cautelar rispetto alla pronuncia adottata in fase di merito.”

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