piattaforma digitale unificata avvocati

PDUA: dal 18 luglio la piattaforma gratis per gli avvocati Cassa Forense mette a disposizione degli iscritti PDUA, la nuova piattaforma cloud appositamente progettata e realizzata per le esigenze degli avvocati

PDUA: la piattaforma digitale unificata degli avvocati

Dal 18 luglio sarà attivo il nuovo servizio pensato su misura degli avvocati. Si tratta della piattaforma digitale unificata (PDUA) offerta gratuitamente a tutti gli iscritti da Cassa Forense.

Cosa si può fare con PDUA

Con PDUA si può:

  • accedere ai dati e ai documenti in qualunque momento e ovunque, da qualsiasi dispositivo, anche smartphone e tablet.
  • fruire di uno spazio personale cloud storage, dove creare, consultare e scaricare i fascicoli, le anagrafiche dei clienti, delle controparti e dei difensori, effettuare ricerche rapide all’interno del sistema grazie ai filtri di ricerca avanzati.
  • gestire il PCT – processo civile telematico: consultare i registri di cancelleria e, con il redattore, compilare gli atti ed effettuarne il deposito, caricando i documenti dal tuo pc oppure dal sistema documentale in cloud.
  • firmare digitalmente, usando i dispositivi personali, leggere e spedire le PEC tramite il client di posta integrato, ricevere le notifiche telematiche e le comunicazioni delle cancellerie giudiziarie.

L’agenda

Per ottimizzare la gestione del tempo, l’agenda di PDUA può essere collegata ai calendari personali esterni e, grazie alla sincronizzazione automatica, avere la visualizzazione giornaliera, settimanale o mensile degli impegni.  L’agenda si sincronizzera’ in automatico anche con i fascicoli personali presenti in Polisweb, rendendo così possibile scadenzare anche le udienze e gli adempimenti del processo civile telematico.

Direttamente da PDUA, tramite link, si può accedere agli altri processi telematici (penale, amministrativo e tributario), ed effettuare il pagamento delle spese di giustizia civili, generando gli avvisi di pagamento agli uffici giudiziari e scaricando le ricevute telematiche.

La vetrina

La piattaforma mette a disposizione delle software house la sezione Marketplace: una vetrina di prodotti di aziende terze che potranno integrare e implementare i servizi offerti.

Info su call center Cassa Forense

A partire dal 18 luglio, data in cui sarà presentato e attivato il servizio gratuito per tutti gli iscritti, il Call center di Cassa Forense (al numero 06.51435340) offre un servizio di assistenza telefonica dedicata per qualsiasi info, attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 8 alle ore 19, il sabato dalle ore 8.00 alle ore 13.00.

banca dati sentenze tributarie

Sentenze tributarie: al via la banca dati Attivo il servizio di ricerca della banca dati della giurisprudenza tributaria di merito del Mef

La banca dati delle sentenze tributarie

È attivo il servizio di ricerca e consultazione della banca dati della giurisprudenza tributaria di merito del Ministero dell’economia e delle finanze, gestito dal Dipartimento della Giustizia Tributaria.

L’avvio sperimentale del servizio, finalizzato ad assicurare la conoscenza del precedente giurisprudenziale, è stato finanziato, rende noto il Mef, parzialmente con fondi europei nell’ambito di un progetto partecipato dal Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria e dal Ministero dell’economia e delle finanze.

Sentenze dal 2021

La banca dati si basa su una piattaforma digitale innovativa che offre un accesso semplificato e intuitivo per la consultazione delle sentenze tributarie di primo e secondo grado, native digitali e pseudoanonimizzate.
Il servizio, che attualmente consente la consultazione delle sentenze native digitali depositate dal 2021 al 2023, sarà progressivamente e costantemente aggiornato con le sentenze native digitali pubblicate dal 2024 ed analogiche depositate dal 2021.

Implementazioni del servizio

Sono in corso, inoltre, implementazioni finalizzate non solo a consentire la ricerca delle ordinanze emesse dagli organi della giustizia tributaria di rinvio alle Corti superiori (Corte costituzionale, Corte di Cassazione e Corte di giustizia dell’Unione Europea), ma anche alla possibilità, previo accordo con la Suprema Corte di Cassazione, di verificare l’eventuale presenza del ricorso di legittimità e della relativa decisione con riguardo alla sentenza di merito oggetto di consultazione.

riscatto laurea pensione

Riscatto laurea: non può essere “neutralizzato” La Corte Costituzionale afferma che il riscatto degli anni di laurea non può essere neutralizzato per passare nel computo della pensione dal retributivo al misto

Riscatto laurea e computo pensione

No alla neutralizzazione del riscatto degli anni di laurea ai fini del computo della pensione. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 112-2024, con la quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 13, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (c.d. Riforma Dini del sistema pensionistico) e dell’art. 1, comma 707, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità 2015), sollevata dal Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro.

La questione di legittimità costituzionale

Il tribunale capitolino riteneva tali disposizioni contrastanti con gli artt. 3 e 38 della Costituzione, nella parte in cui “non è previsto il diritto alla neutralizzazione dei contributi versati in seguito al riscatto volontario degli anni di laurea, quando ciò sia necessario per uscire dal sistema retributivo di computo della pensione, applicabile all’interessato proprio in virtù del riscatto, e accedere al sistema misto, rivelatosi più conveniente al momento del pensionamento”.

Principio di neutralizzazione

Secondo la Corte, per attivare il principio di neutralizzazione non basta che tali contributi, normalmente versati in esordio dell’attività lavorativa, siano ininfluenti rispetto alla maturazione del diritto alla pensione. Tale principio può operare, infatti, soltanto all’interno del sistema retributivo al fine di escludere dalla base pensionabile i contributi che siano non solo aggiuntivi al perfezionamento del requisito minimo contributivo, ma anche correlati all’ultimo scorcio della vita lavorativa e corrispondenti a retribuzioni che, in quanto inferiori a quelle percepite in precedenza, possano incidere in senso riduttivo sulla pensione virtualmente già acquisita.

La decisione

Nel caso in esame, invece, la neutralizzazione non è stata invocata per «elidere gli effetti nocivi che la contribuzione da riscatto ha determinato nell’ambito del sistema retributivo», bensì per «“fuoriuscire” da quel sistema, rivelatosi (contrariamente alle aspettative) meno conveniente» e al quale l’interessato aveva avuto accesso esercitando, liberamente, la facoltà di riscattare un periodo non coperto da contribuzione obbligatoria.

Per la Corte, in sostanza, non è possibile “scegliere” il sistema di computo del trattamento pensionistico in base a una valutazione effettuata solo nel momento del pensionamento, in quanto ciò si porrebbe in contrasto con il principio di certezza del diritto che deve pur sempre presidiare il sistema previdenziale. Tanto più, precisa ancora la Corte, che la funzione del riscatto degli anni di laurea si esaurisce nell’incremento dell’anzianità contributiva.

Allegati

giurista risponde

Aggiudicazione all’asta di stabilimento balneare e subingresso nella concessione demaniale L’aggiudicazione all’asta del complesso aziendale di cui fa parte lo stabilimento balneare comporta il subingresso automatico nella concessione demaniale marittima?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

L’aggiudicazione all’asta del complesso aziendale di cui fa parte lo stabilimento balneare non comporta il subingresso automatico nella concessione demaniale marittima, conferendo solo un interesse legittimo pretensivo al subingresso. – Cons. Stato, sez. VII, 30 aprile 2024, n. 3940.

La vicenda in esame, all’esito del giudizio di primo grado, ha visto dichiarata l’improcedibilità del ricorso introduttivo e dei due atti di motivi aggiunti per sopravvenuta carenza di interesse, ciò in ragione dell’entrata in vigore della L. 118/2022 in materia di durata delle concessioni demaniali marittime. L’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse viene ribadita dalla VII Sezione del Consiglio di Stato in quanto con l’art. 3 della L. 118/2022 si è stabilito quale termine finale di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore della legge stessa al 31 dicembre 2023.

Nel caso in esame l’appellante dopo la vendita forzosa si è resa acquirente del complesso aziendale di cui fa parte lo stabilimento balneare – nel quale, ad ogni modo, non rientra automaticamente l’assegnazione della precedente concessione – ciò non giustifica una deroga all’applicazione dei principi sanciti dall’Adunanza Plenaria del 9 novembre 2021, n. 17. Infatti, risulta evidente che l’acquisizione del complesso aziendale nell’asta pubblica di una procedura esecutiva che ha avuto ad oggetto l’azienda non costituisce una procedura competitiva trasparente. Pertanto, la concessione in capo all’odierna appellante risulterebbe sfornita del requisito dell’interesse transfrontaliero, così come previsto dalla Direttiva 2006/123/CE.

Dunque, l’aggiudicazione all’asta del complesso aziendale di cui fa parte lo stabilimento balneare non comporta il subingresso automatico nella concessione demaniale marittima, conferendo solo un interesse legittimo pretensivo al subingresso e, ad ogni modo, anche in caso di autorizzazione al subingresso non si determinerebbe un prolungamento automatico dell’originaria concessione.

*Contributo in tema di “Aggiudicazione all’asta di stabilimento balneare e subingresso nella concessione demaniale”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

guida senza patente reato

Guida senza patente: nessun reato se c’è misura di prevenzione La Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 73 del Codice Antimafia nella parte in cui prevede come reato la guida senza patente per soggetto sottoposto a misura di prevenzione personale

Guida senza patente

“La persona sottoposta a misura di prevenzione personale, al pari di ogni altra, che guidi senza patente perchè revocata o sospesa per precedenti violazioni del codice della strada, ne risponde come illecito amministrativo e non già come reato”. Così la Corte costituzionale (con la sentenza n.116/2024) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73 cod. antimafia nella parte in cui prevede come reato la condotta di colui che, sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, ma senza che per tale ragione gli sia stata revocata la patente di guida, si ponga alla guida di un veicolo dopo che il titolo abilitativo gli sia stato revocato o sospeso a causa di precedenti violazioni di disposizioni del codice della strada.

La questione di legittimità costituzionale

Il Tribunale di Nuoro ha sollevato la questione nell’ambito di un giudizio instaurato nei confronti di una persona destinataria, in via definitiva, dalla misura di prevenzione dell’avviso orale semplice (art. 3, comma 4, cod. antimafia) imputata del reato di cui all’art. 73 cod. antimafia, per aver guidato una autovettura senza patente, in quanto in precedenza, sospesa con provvedimento prefettizio per guida in stato di ebbrezza.

Violato l’art. 25 Cost.

La Consulta ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione dell’art. 25 Cost., affermando che la disposizione censurata, “incriminando colui che, sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, guidi senza patente in quanto revocata o sospesa, anche nei casi in cui la revoca o la sospensione del titolo abilitativo alla guida conseguano non già all’applicazione della misura di prevenzione, ma alla precedente violazione di disposizioni del codice della strada ( nel caso di specie, di quella sui limiti di tasso alcolemico del conducente), non è compatibile con il principio di offensività dopo che, in generale, il reato di guida senza patente, o con patente sospesa o revocata, è stato depenalizzato e trasformato in illecito amministrativo”.

La Corte ha sottolineato che la previsione di una fattispecie penale che abbia, come presupposto, una qualità della persona che non si riflette su una maggiore pericolosità o dannosità condotta, dà luogo ad una inammissibile responsabilità penale cosiddetta d’autore.

Nella sentenza si è altresì evidenziato che alcuna giustificazione, anche sotto il profilo del principio di uguaglianza, “può ascriversi a un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello stabilito dal legislatore per tutti gli altri soggetti, per i quali la medesima condotta rileva non già come reato, ma quale illecito amministrativo (salvo il caso della recidiva nel biennio)”.

La decisione

In conclusione, per effetto della riduzione dell’ambito applicativo della fattispecie penale, conseguente alla dichiarazione di illegittimità, si riespande quella prevista dal codice della strada (art. 116, comma 15) per la guida senza patente, o con patente sospesa o revocata con conseguente applicazione dell’ordinaria sanzione amministrativa.

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avvocati reato diffamazione

Avvocati: non è reato dare del pezzente alla controparte Per la Cassazione non c'è reato di diffamazione, in quanto il vocabolo non incide sulla reputazione del destinatario

Reato di diffamazione

Non c’è diffamazione se durante l’udienza un avvocato definisce “pezzente” la controparte. Il vocabolo, peraltro usato in una reazione di stizza percepita solo dai legali, non è idoneo ad incidere sulla reputazione del destinatario. Così la quinta sezione penale, con sentenza n. 25026-2024 accogliendo senza rinvio il ricorso dell’imputato perchè il fatto non costituisce reato.

La vicenda

Nella vicenda, un avvocato ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Gela, che ne ha confermato l’affermazione di responsabilità, statuita in primo grado dal giudice di pace, in ordine al reato di diffamazione, per aver proferito nel corso di un’udienza di un processo civile, in presenza di più persone, in danno della parte civile costituita nel processo penale, la parola “pezzente”.

Secondo il legale, la parola “”pezzente” non avrebbe valenza diffamatoria e il fatto non integrerebbe il reato contestato, anche alla luce dei precedenti giurisprudenziali che avrebbero escluso la sua sussistenza in presenza di espressioni di contenuto più triviale. Difetterebbe comunque la prova del dolo generico del reato di diffamazione perchè l’intento dell’imputato sarebbe stato solo quello di esprimere una critica consentita e contestualizzata.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato e va pronunciata sentenza di annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste. La doglianza circa “l’inosservanza della legge penale con riferimento alla portata intrinsecamente offensiva dell’espressione utilizzata e sotto questo profilo, anche nell’ambito dell’esercizio del potere officioso attribuito al giudice dall’art. 129 comma 1cod. proc. pen. – ritiene il collegio – che colga nel segno”.

Nel caso di specie, per la S.C., difettano gli elementi essenziali del reato di diffamazione, che attiene alla “tutela del bene giuridico della reputazione, intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile”.

La giurisprudenza di legittimità che si è formata in tema di diffamazione richiede, invero, che “la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento (sez. 5, n. 5654 del 19/10/2012)”.
Nella specie, invece, la parola “pezzente” è stata pronunciata dall’imputato isolatamente, in modo improvviso ed occasionale, al di fuori di un più ampio ed articolato contesto dialogico, in occasione di un non meglio precisato
riferimento, emerso nel corso di un’udienza di una controversia civile, ad una denuncia per truffa che la parte civile costituita nel processo penale, avrebbe presentato nei suoi confronti. La parola è stata udita dai due patrocinatori della parte civile, che, dopo aver chiesto ed ottenuto di apprendere a chi fosse rivolta, l’hanno comunicato a quest’ultimo, che ha formalizzato querela. La sentenza impugnata si è limitata, assertivamente, a chiosare che il termine usato possederebbe indiscussa pregnanza offensiva.

Nessun effetto lesivo

Per i giudici di piazza Cavour, invece, “non è possibile cogliere l’effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita di relazione della persona offesa e sul riconoscimento alla sua dignità nella realtà socio-culturale circostante. In altre parole, al di là dell’avvenuta percezione, da parte dei due avvocati, dell’esternazione verbale, non è ravvisabile, alla lettura delle proposizioni delle decisioni di merito, indicatore alcuno e soprattutto appagante della idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, ad incidere sulla reputazione del destinatario di essa, intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera”.

Da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.

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caso Siri Consulta

Caso Siri: l’intervento della Consulta La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri sollevato dal tribunale di Roma nel "caso Siri"

Il caso Siri

La deliberazione del 9 marzo 2022, con cui il Senato della Repubblica ha negato l’autorizzazione richiesta dal Tribunale di Roma all’utilizzo delle intercettazioni riguardanti Armando Siri, senatore all’epoca dei fatti, è stata annullata, perché adottata in contrasto con l’art. 68, terzo comma, della Costituzione. All’origine del conflitto, deciso con la sentenza n. 117/2024 depositata il 2 luglio 2024, dalla Corte Costituzionale, vi era la richiesta del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma di utilizzare in giudizio otto intercettazioni, captate sull’utenza di un soggetto non parlamentare, che hanno coinvolto l’allora senatore Siri.

Tali intercettazioni sono state effettuate, nell’ambito delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Palermo a carico di alcuni imprenditori attivi nel settore delle energie rinnovabili, in un momento antecedente all’emersione di indizi di reità a carico del medesimo senatore, per un’ipotesi di corruzione.

Il Senato, in particolare, rileva la Corte, aveva ritenuto: “a) che, per le prime due captazioni (effettuate il 15 maggio 2018), non sussistesse il requisito della “necessità probatoria” richiesta, per l’autorizzazione successiva all’utilizzo delle intercettazioni, dall’art. 6 della legge n. 120 del 2004; b) che le restanti sei (effettuate tra il 17 maggio e il 6 agosto 2018) dovessero essere qualificate come ‘indirette’, perché l’autorità inquirente, potendo prevedere – dopo i primi contatti – le future interlocuzioni tra il senatore Siri e l’imputato principale, avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione preventiva prevista dall’art. 4 della medesima legge”.

Diniego del Senato

Nell’accogliere il ricorso, la Corte costituzionale ha stabilito, innanzi tutto, che il diniego del Senato in merito alla sussistenza della necessità probatoria in relazione alle intercettazioni captate il 15 maggio 2018 «ha menomato le attribuzioni del Giudice ricorrente, in quanto ha preteso di valutare autonomamente le condotte ascritte al parlamentare, anziché operare un vaglio, nei termini richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte, sulle motivazioni addotte a sostegno della richiesta di autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni».

Quanto, poi, alla prevedibilità delle interlocuzioni tra il senatore Siri e l’imputato principale successive al 15 maggio 2018, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’ingresso del parlamentare nell’area di ascolto delle autorità inquirenti fosse, in questo caso, del tutto occasionale, non sussistendo «alcuno degli elementi sintomatici che inducono a ritenere che il reale obiettivo delle autorità preposte alle indagini fosse quello di accedere indirettamente alle comunicazioni» in questione; ciò tanto più, ha precisato la Corte, ove si consideri che il mutamento della direzione degli atti di indagine si sarebbe avuto solo in un momento successivo a quello in cui le intercettazioni – di cui è stata richiesta l’utilizzazione in giudizio – sono state effettuate, vale a dire al momento dell’iscrizione del senatore Siri nel registro degli indagati (avvenuta nel settembre 2018).

Conflitto di attribuzioni

Di conseguenza, la Corte ha ritenuto sussistente la menomazione delle attribuzioni del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, in relazione al non corretto esercizio, da parte del Senato della Repubblica, del potere a questi assegnato dall’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, in relazione alla qualificazione delle intercettazioni successive al 15 maggio come aventi natura indiretta. La Corte ha, tuttavia, stabilito che, limitatamente a tali captazioni, la richiesta di autorizzazione avanzata dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma necessiti ora di una nuova valutazione, da parte del Senato della Repubblica, in ordine alla «sussistenza dei presupposti ai quali l’utilizzazione delle intercettazioni effettuate in un diverso procedimento è condizionata, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della medesima legge».

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giurista risponde

Assegno non trasferibile: pagamento in favore di persona non legittimata Chi materialmente paga un assegno non trasferibile a persona diversa dall’intestatario, ha comunque la possibilità di provare la propria estraneità?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli

 

La responsabilità cui si espone il banchiere che abbia negoziato un assegno non trasferibile in favore di persona non legittimata ha natura contrattuale. La banca negoziatrice, ai sensi dell’art. 43, comma 2, legge assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), è chiamata a rispondere del danno derivato – per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo – dal pagamento di assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario; è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176, comma 2, c.c. – Cass., sez. I, ord. 22 aprile 2024, n. 10711.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare se, oltre l’ onere probatorio gravante su Poste italiane s.p.a. di dimostrare di aver agito con diligenza, vi fosse l’onere di Unipol di dimostrare il contrario, evidenziando la presenza di contraffazioni visibili ictu oculi sul titolo o sui documenti.

Nella sentenza di primo grado, il Tribunale adito riconosceva la responsabilità di Poste, condannandola al risarcimento dei danni. In secondo grado, la Corte territoriale ha respinto le istanze dell’appellante, osservando che «La regola della cd. responsabilità da “contatto sociale” prevede una presunzione di colpa a carico del debitore inadempiente perché utilizza i criteri della responsabilità contrattuale. L’appellante avrebbe dunque dovuto specificare quali circostanze di fatto emerse nel giudizio di primo grado dimostrassero che il controllo dei documenti fosse avvenuto con la diligenza richiedibile a un operatore professionale. L’onere della prova dell’assenza di colpa era a carico di Poste Italiane s.p.a. e non era stato assolto per il solo fatto che i documenti d’identificazione esibiti fossero falsi. Esistono falsi grossolani ed esistono regole cautelari – ricordate dalla difesa dell’appellato – volte a ridurre il rischio di raggiri attraverso una tecnica truffaldina già nota, anche all’epoca di fatti oggetto del presente processo, a Poste Italiane s.p.a. L’appellante avrebbe dovuto provare di aver assunto una condotta conforme alla diligenza media di un “accorto banchiere”, riferibile alla natura dell’attività esercitata e all’obbligo di verifica visiva e tattile del documento cartaceo esibito per l’incasso dell’assegno» (Cass., Sez. Un., 21 maggio 2018, n. 12477).

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando le argomentazioni utilizzate dalla corte per giustificare la ivi ritenuta sussistenza della responsabilità di Poste Italiane s.p.a.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando il ricorso inammissibile, ha ricordato quanto stabilito da Cass., Sez. Un., 21 maggio 2018, n. 12477, secondo cui, al fine di sottrarsi alla responsabilità, la banca è tenuta a provare di aver assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta, che è quella nascente, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere anche in ipotesi di colpa lieve. È stato chiarito, inoltre, che lo scopo della clausola di intrasferibilità consiste non solo nell’assicurare all’effettivo prenditore il conseguimento della prestazione dovuta, ma anche e soprattutto nell’impedire la circolazione del titolo: a conferma di tale assunto è stato richiamato l’art. 73 del R.D. 1736/1933, il quale esclude l’ammortamento dell’assegno non trasferibile proprio perché lo stesso non può essere azionato da un portatore di buona fede, conferendo nel contempo al prenditore, ma solo come conseguenza indiretta, la maggior sicurezza di poterne ottenere un duplicato denunciandone lo smarrimento, la distruzione o la sottrazione al trattario o al traente.

Nel caso di specie, non resta che prendere atto dell’accertamento di merito effettuato dalla Corte suddetta, rispetto al quale le argomentazioni della censura, sul punto, si rivelano erronee.

Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

*Contributo in tema di “Assegno non trasferibile: pagamento in favore di persona non legittimata”, a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

tribunale unificato brevetti tub

Tribunale unificato dei brevetti europei: inaugurata la sede di Milano Inaugurata l'1 luglio 2024 la sede di Milano del TUB. Per il ministro Nordio si tratta di "una innovazione e una conquista"

TUB Milano

“Una innovazione e una conquista”. Così ilMinistro della Giustizia, Carlo Nordio, alla conferenza che ha preceduto l’inaugurazione della terza divisione centrale del Tribunale Unificato dei Brevetti, svoltasi l’1 luglio, a Milano, presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo.

Cos’è il TUB e di cosa si occupa

Il tribunale dei brevetti è suddiviso in sedi per garantire una copertura efficace in tutta l’Unione. Comprende tre divisioni centrali, situate a Parigi, Monaco di Baviera e dall’1 luglio 2024 anche a Milano, e diverse divisioni locali distribuite negli Stati membri.

Oltre alle Divisioni Centrali, ci sono diverse Divisioni Locali e Regionali distribuite nei vari Stati membri. Le Divisioni Locali si trovano in città come Vienna, Düsseldorf e anche già a Milano, tra le altre. Ogni Divisione Locale gestisce le controversie relative ai brevetti che coinvolgono principalmente imprese e individui del proprio Paese.

Nella sede meneghina, dove era già presente la sezione locale operativa da circa un anno, le competenze del TUB saranno: farmaceutica (eccetto brevetti con certificati complementari di protezione), agroalimentare, fitosanitario, moda (abbigliamento e calzature)).

Italia protagonista in un ambito delicato

Il Guardasigilli, nel corso del suo intervento, ha rimarcato l’impegno che ha permesso di ottenere, dopo la sezione locale, anche la terza Divisione Centrale (oltre a Parigi e Monaco di Baviera), dopo l’uscita di Londra dall’Ue: “E’ stato un lavoro duro, che colloca l’Italia tra le protagoniste assolute in questo ambito così delicato”. Il risultato raggiunto – ha precisato Nordio- è stato il frutto di “una assoluta concordanza di intenti e di organizzazione, fra magistratura, enti locali e Governo, abbiamo fatto sistema”. 

Alla cerimonia del taglio del nastro nel palazzo del tribunale, in via san Barnaba 50, sono intervenuti anche Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Valentino Valentini, Viceministro delle Imprese e del Made in Italy, Attilio Fontana, Presidente della Regione Lombardia, Giuseppe Ondei, Presidente della Corte d’Appello di Milano, Fabio Roia, Presidente del Tribunale di Milano e altre autorità.

licenziamento rifiuto mansioni

Licenziato il dipendente che rifiuta di svolgere mansioni diverse E' idoneo a ledere definitivamente il vincolo fiduciario ed a giustificare il recesso, il rifiuto del lavoratore di svolgere prestazioni che rientrano nella qualifica ricoperta

Licenziamento per rifiuto di svolgere mansioni diverse

Legittimo il licenziamento del dipendente che rifiuta di svolgere mansioni diverse nell’ambito della propria qualifica. Lo ha statuito la Cassazione con l’ordinanza n. 17270/2024, respingendo il ricorso di un operatore ecologico che era stato licenziato a fronte del rifiuto, senza giustificazione, di adempiere alla raccolta di rifiuti con l’ausilio del mezzo aziendale.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Catanzaro aveva accolto il reclamo incidentale proposto dalla società datrice avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto l’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato al lavoratore.

Per la Corte territoriale, il licenziamento era stato intimato a fronte del rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa per ben quattro giorni, durante i quali era stato assegnato ad eseguire la raccolta dei rifiuti con l’ausilio dell’automezzo aziendale, dichiarando di essere un operatore ecologico e di non essere tenuto a svolgere mansioni di autista e che pertanto sarebbe rimasto a disposizione in cantiere. Era integrato, pertanto, il grave inadempimento degli obblighi contrattuali di cui all’articolo 2104, comma 2 c.c. e all’articolo 70, comma 4, lett. e) del c.c.n.l.

L’uomo adiva quindi il Palazzaccio.

Giusta causa e giustificato motivo soggettivo

Per gli Ermellini, le tesi del ricorrente non sono fondate. Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, anticipano i giudici, “dalla natura legale della nozione di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento deriva che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa e giustificato motivo contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito (Cass. n. 2830 del 2016), al quale spetta, non essendo vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, la valutazione di gravità del fatto e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie (tra le recenti v. Cass. n. 33811 del 2021)”.

La scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce quindi “solo uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (Cass. n. 17321 del 2020) e in tal senso depone l’art. 30 della legge 183 del 2010”.

La decisione

Nella specie, la Corte d’appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e di proporzionalità della misura espulsiva ed ha motivatamente valutato la gravità dell’infrazione, in particolare sottolineando come, proseguono dalla S.C., “il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione lavorativa secondo le direttive aziendali, e specificamente di procedere alla conduzione dei veicoli quale attività rientrante nel suo profilo professionale, opposto reiteratamente ed ingiustificatamente per più giorni e in modo tale da impedire il regolare espletamento del servizio pubblico appaltato alla società, costituisse condotta idonea a ledere definitivamente il vincolo fiduciario ed a giustificare il recesso”.

Da qui il respingimento del ricorso.