supercondominio

Il supercondominio Supercondominio: cos'è, requisiti, obbligatorietà, differenze con il condominio parziale, ripartizione spese e giurisprudenza

Cos’è il supercondominio?

Il supercondominio è un tipo particolare di condominio, che insorge  quando più edifici, aventi parti comuni, sono organizzati in un unico complesso. Questo istituto, disciplinato dall’art. 1117-bis c.c., si applica quando più condomini condividono spazi, strutture o servizi comuni, rendendo necessaria una gestione unitaria per la loro amministrazione e ripartizione delle spese.

Il supercondominio sorge in pratica quando più condomini condividono parti comuni come strade, parcheggi, impianti di illuminazione, fognature, ingressi, giardini o servizi comuni. Trattasi di una struttura sovraordinata che regola i rapporti tra singoli condomini appartenenti a edifici distinti, ma collegati da elementi comuni.

Il supercondominio è una realtà sempre più diffusa nei grandi complessi residenziali e richiede una gestione attenta e strutturata. La sua disciplina è simile a quella del condominio ordinario, ma con alcune peculiarità.

La Cassazione ha ribadito più volte l’obbligo di una gestione unitaria, specialmente in relazione alle spese e alla nomina dell’amministratore. È quindi fondamentale conoscere le norme applicabili per evitare conflitti tra condomini e garantire una corretta amministrazione.

Esempi pratici di supercondominio

  • un complesso residenziale formato da più palazzine con un unico ingresso, un vialetto d’accesso e un parcheggio comune;
  • un gruppo di edifici che condividono un’area verde o un impianto idrico centralizzato;
  • un residence con più unità abitative e un sistema di sicurezza comune.

Requisiti per la nascita del supercondominio

Secondo la giurisprudenza, il supercondominio nasce ipso iure et facto, ossia automaticamente, quando più condomini utilizzano e godono di beni e servizi comuni. Non è necessario un atto costitutivo formale, poiché la sua esistenza dipende dalla presenza di elementi comuni tra edifici autonomi.

Alla luce di quanto detto finora i requisiti fondamentali per il suo riconoscimento sono:

  • pluralità di condomini: devono esserci almeno due distinti condomini;
  • esistenza di parti comuni: devono essere presenti beni o servizi ad utilizzo collettivo;
  • una gestione unitaria, indispensabile a causa della condivisione di elementi comuni.

Il supercondominio è obbligatorio?

La legge non rende obbligatoria la formazione di un supercondominio. Ciò nonostante, nel caso in cui diversi edifici condividano servizi indispensabili, ad esempio reti idriche o impianti di riscaldamento, costituire un supercondominio si rivela frequentemente necessario per assicurare una gestione efficace e una divisione dei costi equa.

Differenza tra condominio parziale e supercondominio

È fondamentale distinguere tra condominio parziale e supercondominio, poiché spesso i due concetti vengono confusi.

Aspetto

Condominio Parziale

Supercondominio

Definizione

Un condominio in cui solo alcuni condomini utilizzano un bene comune.

Più condomini distinti che condividono strutture comuni.

Normativa

Art. 1123, comma 3, c.c.

Art. 1117-bis c.c.

Nascita

Non è automatico, ma deriva da una specifica suddivisione delle spese.

Nasce automaticamente se ci sono beni comuni tra più condomini.

Gestione

L’amministrazione riguarda solo alcuni condomini.

Necessita di un’amministrazione unica per le parti comuni.

Un esempio pratico di condominio parziale è una palazzina in cui solo alcuni condomini beneficiano dell’ascensore o del garage, mentre gli altri no. In questo caso, solo chi ne usufruisce dovrà partecipare alle spese di gestione e manutenzione.

Ripartizione delle spese  

La gestione economica del supercondominio segue le regole generali del condominio. Le spese vengono suddivise tra i condomini in base alle regole sancite dall’art. 1123 c.c, ossia in base al valore della groprietò di ciascuno, all’uso che ciascuno può farne e all’utilità che il gruppo di condomini ne trae.

Le principali categorie di spesa sono rappresentate dalle:

  • spese ordinarie: manutenzione di vialetti, illuminazione, aree verdi;
    spese straordinarie: ristrutturazioni, rifacimento fognature, sostituzione di impianti comuni.
    spese di amministrazione: compenso dell’amministratore del supercondominio, assicurazione, spese legali.

Se il regolamento di supercondominio prevede un fondo speciale per le spese straordinarie, i contributi dovranno essere versati in base ai criteri stabiliti dallo stesso.

Giurisprudenza 

La giurisprudenza ha consolidato diversi principi in materia di supercondominio, chiarendo aspetti fondamentali della sua gestione e regolamentazione.

Cassazione n. 8254/2025:  l’articolo 67 delle disposizioni di attuazione del codice civile stabilisce che nei supercondomini o complessi con più di 60 partecipanti, ogni condominio è obbligato a nominare un proprio rappresentante per le decisioni ordinarie sulle parti comuni e per la nomina dell’amministratore. Questa nomina deve avvenire con la maggioranza prevista dall’articolo 1136, quinto comma, del codice civile. Se un condominio non nomina il suo rappresentante, ogni condomino di quel condominio può rivolgersi al giudice affinché provveda alla nomina. Allo stesso modo, se alcuni condominii non designano il loro rappresentante, il tribunale può nominarli su richiesta anche di uno solo dei rappresentanti già designati. In sostanza, la legge impone una delega collettiva obbligatoria attraverso la figura del rappresentante per semplificare la gestione nei supercondomini più grandi.

Cassazione n. 22954/2022: Per riscuotere le quote dovute per la manutenzione dei beni comuni del supercondominio, l’amministratore deve rivolgersi direttamente ai proprietari delle singole unità immobiliari.

Cassazione n. 32237/2019: un supercondominio si costituisce automaticamente (“ipso iure et facto”) quando più edifici, anche se già organizzati in condomini separati, sono legati da beni o servizi comuni essenziali (manufatti, impianti, servizi) che impedirebbero ai singoli edifici di funzionare autonomamente. La definizione di “supercondominio” riprende quella di condominio, applicandola a una pluralità di edifici. Il legame di dipendenza tra le parti comuni che servono e gli edifici serviti fa sì che si applichino le norme specifiche del condominio anziché le regole generali sulla comunione dei beni.

Cassazione n. 15262/2018: Se un immobile privato subisce danni a causa di beni o parti comuni di uno specifico edificio all’interno di un complesso supercondominiale, l’unico soggetto responsabile legalmente è quel particolare condominio. Pertanto, l’azione legale va indirizzata verso quell’amministrazione condominiale, rappresentata dal suo amministratore, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo possa essere anche l’amministratore del supercondominio.

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danno emergente e lucro cessante

Danno emergente e lucro cessante Danno emergente e lucro cessante: cosa sono, differenze, normativa, come si provano e sentenze della Cassazione

Danno emergente e lucro cessante: voci di danno

Il danno emergente e il lucro cessante nel diritto civile italiano, rappresentano le voci primarie di danno patrimoniale conseguenti a un illecito o a un inadempimento contrattuale, in favore di chi ha subito un pregiudizio patrimoniale

Queste due voci risarcitorie hanno finalità riparative differenti: il primo risarcisce la perdita già subita, il secondo compensa il guadagno non realizzato a causa dell’evento dannoso.

Normativa danno emergente e lucro cessante

La base normativa per la liquidazione del danno patrimoniale si trova in due disposizioni fondamentali del codice civile:

  • Art. 1223 c.c.: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore (danno emergente) come il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.
  • Art. 2056 c.c., applicabile in materia di responsabilità extracontrattuale, rinvia ai criteri degli articoli precedenti in tema di danno da inadempimento. In dettaglio la norma dispone infatti che: “Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223 12261227.2. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.”

Queste disposizioni richiedono che il danno sia causato direttamente e immediatamente dall’evento lesivo, escludendo i pregiudizi indiretti o meramente eventuali.

Cos’è il danno emergente

Il danno emergente rappresenta la perdita effettiva subita dal patrimonio del danneggiato. È una voce di danno concreto, attuale e dimostrabile, legata a costi sostenuti, spese affrontate o beni danneggiati.

Esempi tipici:

  • spese mediche e farmaceutiche sostenute a seguito di un sinistro;
  • riparazione o sostituzione di beni danneggiati;
  • costi per consulenze tecniche o legali;
  • perdita di beni materiali (es. distruzione di merci, macchinari o strumenti di lavoro);
  • costi per trasferimenti o per rimediare ai danni subiti.

Come si prova

È necessario fornire documentazione probatoria come:

  • fatture, ricevute e scontrini;
  • contratti e perizie tecniche;
  • testimonianze o relazioni di professionisti.

Cos’è il lucro cessante

Il lucro cessante indica invece il mancato guadagno che il danneggiato avrebbe potuto conseguire in assenza dell’illecito o dell’inadempimento. È un danno futuro e potenziale, ma risarcibile purché sia prevedibile e ragionevolmente certo.

Esempi tipici:

  • perdita di ricavi da un’attività commerciale temporaneamente interrotta;
  • mancato profitto derivante da un contratto non concluso;
  • minore fatturato a seguito della lesione di un bene produttivo (es. fermo impianti);
  • perdita di opportunità professionali o di mercato.

Come si prova

La prova del lucro cessante è più complessa, poiché riguarda eventi non verificatisi, ma astrattamente prevedibili. La giurisprudenza richiede una prova rigorosa, basata su:

  • documenti contabili e bilanci pregressi;
  • stime economiche di esperti;
  • contratti sfumati o ordini non evasi;
  • indicatori economici coerenti con il tipo di attività.

Differenze tra danno emergente e lucro cessante

Elemento

Danno emergente

Lucro cessante

Natura

Perdita già subita

Guadagno non realizzato

Temporalità

Attuale e concreta

Futuro e potenziale

Prova

Oggettiva (ricevute, fatture)

Prospettica (stime, dati economici)

Finalità risarcitoria

Ripristino del patrimonio

Compensazione del mancato arricchimento

Esigibilità

Generalmente più semplice

Richiede elevata attendibilità delle previsioni

Come si calcolano

Per il danno emergente, il calcolo è di norma analitico, basato sulle spese effettivamente sostenute.

La quantificazione del danno secondo criteri equitativi riguarda soprattutto il lucro cessante e può essere effettuata dal giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c., quando non sia possibile la prova precisa del danno. Ai fini del calcolo del lucro cessante, si applicano in genere i seguenti criteri:

  • proiezioni storiche (es. media dei profitti passati);
  • studi di settore e perizie economico-finanziarie;
  • elementi oggettivi di confronto tra periodo precedente e successivo all’evento.

Sentenze su danno emergente e lucro cessante

Negli anni la Cassazione ha sancito importanti principi generali in materia di risarcimento del danno:

Cassazione n. 17670/2024

Il danno patrimoniale si articola in danno emergente (perdita effettiva) e lucro cessante (mancato guadagno). Queste categorie generali comprendono una molteplicità di specifiche voci di danno che possono o meno presentarsi in un determinato caso di illecito o inadempimento. Spetta al giudice di merito esaminare attentamente il caso concreto per accertare l’effettiva sussistenza di queste specifiche ripercussioni negative subite dal creditore o danneggiato, a prescindere dall’etichetta che viene loro attribuita. Il suo compito è garantire un integrale risarcimento di tutti i danni effettivamente provati. È fondamentale che il giudice consideri e risarcisca tutte le voci di danno patrimoniale esistenti e provate, senza tralasciarne alcuna, per rispettare il principio del risarcimento integrale. Tuttavia, questo principio è strettamente correlato al fatto che il responsabile è tenuto a risarcire solo i danni direttamente causati dal suo illecito o inadempimento, evitando così ingiustificate duplicazioni risarcitorie.

Cassazione n. 9277/2023

La facoltà del giudice di quantificare il danno in via equitativa (come previsto dagli articoli 1226 e 2056 del Codice Civile) è una manifestazione del suo più ampio potere discrezionale sancito dall’articolo 115 del Codice di Procedura Civile. Il giudice può esercitare questo potere autonomamente, senza bisogno di una specifica richiesta delle parti, basandosi su un principio di “equità giudiziale” che mira a correggere o integrare la valutazione del danno. Tuttavia, questo potere ha un limite fondamentale: non può supplire alla mancanza di prova né della responsabilità del debitore né dell’esistenza stessa del danno. In altre parole, il giudice non può inventare la responsabilità o l’esistenza del danno se queste non sono state provate. L’equità interviene solo nella quantificazione del danno la cui esistenza e la cui responsabilità siano già state accertate.

 

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mobbing

Il mobbing Mobbing: cos’è, quando è reato, differenze con bossing e straining, tutele e risarcimento del danno

Cos’è il mobbing

Il mobbing è un fenomeno sempre più riconosciuto nei contesti giuridici e organizzativi, caratterizzato da comportamenti sistematicamente ostili nei confronti di un lavoratore. Nonostante l’assenza di una normativa specifica, la giurisprudenza italiana ha tracciato criteri ben precisi per la sua individuazione e per il riconoscimento delle tutele risarcitorie.

Il termine “mobbing” deriva dall’inglese to mob, che significa assalire in gruppo. In ambito lavorativo, il mobbing consiste in una serie di azioni persecutorie, protratte nel tempo, finalizzate a emarginare o espellere un lavoratore dall’ambiente professionale.

Le condotte tipiche includono:

  • esclusione sistematica dalle attività lavorative;
  • critiche continue e immotivate;
  • offese personali o professionali;
  • dequalificazione mansionale;
  • isolamento fisico o relazionale;
  • assegnazione di compiti umilianti o inadeguati.

Il mobbizzato, ossia la vittima di mobbing, sviluppa spesso danni psicofisici che impattano sulla salute e sull’equilibrio familiare e sociale.

Requisiti mobbing secondo la giurisprudenza

La Cassazione ha identificato precisi elementi che devono coesistere per qualificare il mobbing:

  1. una pluralità di atti ostili;
  2. durata prolungata nel tempo;
  3. intento persecutorio;
  4. danno alla salute o alla dignità del lavoratore;
  5. nesso causale tra condotta e danno;
  6. prevaricazione sistematica da parte di colleghi, superiori o anche subordinati.

Di recente la Cassazione con la sentenza n. 3791/2024 ha chiarito che grava sul datore di lavoro l’obbligo di garantire al lavoratore un ambiente lavorativo sano e privo di stress.

Differenze tra mobbing, bossing e straining

  • Mobbing: insieme coordinato e ripetuto di comportamenti ostili.
  • Bossing: forma specifica di mobbing verticale, in cui il persecutore è un superiore gerarchico (es. dirigente, capo reparto).
  • Straining: singola condotta ostile di forte impatto, non necessariamente ripetuta, ma tale da alterare l’equilibrio psicologico del lavoratore (Cassazione n. 123/2025: Il datore di lavoro è ritenuto responsabile se permette che si sviluppi un ambiente di lavoro stressante e non interviene per prevenire o risolvere i conflitti tra i dipendenti.)

Il mobbing implica reiterazione; lo straining si fonda su un solo episodio stressogeno ma persistente nei suoi effetti.

Cosa dice la legge sul mobbing

Nel diritto italiano non esiste una normativa ad hoc sul mobbing, ma la tutela del lavoratore deriva da diverse disposizioni:

  • art. 2087 c.c.: obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore;
  • art. 2043 c.c.: responsabilità extracontrattuale per fatto illecito;
  • Costituzione italiana: artt. 2, 3, 32 e 41 (diritti inviolabili, uguaglianza, salute e dignità).

Il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere anche per culpa in vigilando o culpa in eligendo se non ha impedito condotte vessatorie tra colleghi.

Quando il mobbing è reato

Le condotte persecutorie possono integrare uno o più reati del codice penale, tra cui:

  • lesioni personali (art. 582 c.p.), se provocano danni alla salute;
  • atti persecutori o stalking (art. 612-bis c.p.), se i comportamenti producono ansia o alterazioni della vita quotidiana;
  • maltrattamenti (art. 572 c.p.), in caso di reiterazione sistematica in un contesto di subordinazione;
  • abuso d’ufficio, se il mobbing è esercitato da pubblici ufficiali.

Risarcimento del danno

Il lavoratore vittima di mobbing può chiedere in sede civile il risarcimento del danno, dimostrando:

  • la condotta illecita del datore o colleghi;
  • il danno subito (biologico, morale, esistenziale);
  • il nesso causale tra i comportamenti e il danno.

Le voci risarcibili includono:

  • danno biologico (patologie certificate);
  • danno morale (sofferenza soggettiva);
  • danno esistenziale (alterazione del progetto di vita).

In alcuni casi, si può anche ottenere la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, per perdita di opportunità professionali o stipendi non percepiti.

Tutele e strumenti di difesa

Il lavoratore che ritiene di subire mobbing può:

  1. raccogliere prove documentali (email, ordini, testimoni);
  2. rivolgersi al medico del lavoro o al medico competente;
  3. denunciare i fatti all’Ispettorato del lavoro;
  4. farsi assistere da un sindacato o un avvocato giuslavorista;
  5. promuovere un’azione giudiziaria in sede civile e, se del caso, penale.

In ambito aziendale è consigliato attivare i canali interni (es. organismi di vigilanza, comitato etico, RLS), ove presenti.

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servitù di panorama

La servitù di panorama Servitù di panorama: definizione, riferimenti normativi, differenze rispetto al diritto di veduta e sentenze della Cassazione

Cos’è la servitù di panorama

La servitù di panorama è un diritto reale su cosa altrui che consente al titolare del fondo dominante di mantenere una vista libera e panoramica da un determinato punto del proprio immobile, limitando la facoltà del proprietario del fondo vicino (fondo servente) di costruire o modificare in modo tale da ostruire la visuale.

Diversamente dal diritto di veduta (che riguarda il diritto di affacciarsi e guardare sul fondo altrui), la servitù di panorama si riferisce alla possibilità di godere di una visuale aperta – ad esempio verso il mare, una vallata, un parco o un centro storico – e alla conseguente tutela dell’interesse estetico o economico connesso alla visuale stessa.

La servitù di panorama nel codice civile

Il codice civile italiano non contiene una disciplina espressa di questa servitù. Tuttavia, essa può essere ricondotta alla categoria delle servitù atipiche previste dall’art. 1027 c.c., secondo cui: “La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.”

La servitù di panorama, dunque, rientra tra le servitù prediali purché:

  • sia costituita per iscritto (o per usucapione nei casi ammessi);
  • ci sia un fondo dominante e un fondo servente, entrambi identificabili;
  • l’utilità sia duratura e oggettiva, non meramente personale o estetica.

Differenze rispetto al diritto di veduta 

Spesso si confonde la servitù di panorama con il diritto di veduta, ma i due istituti hanno natura e disciplina differenti:

Caratteristica

Diritto di veduta

Servitù di panorama

Fonte

Normativa espressa (art. 907 c.c. e ss.)

Servitù atipica ex art. 1027 c.c.

Oggetto

Affacciarsi e guardare sul fondo altrui

Mantenere una vista panoramica libera

Costituzione

Anche per usucapione

Solo per titolo scritto o usucapione se evidente e continuata

Limitazioni

Distanze minime da rispettare

Divieto di costruire che ostacoli la visuale

Natura

Servitù apparente o non apparente

Generalmente non apparente

Il diritto di panorama, per essere tutelato, deve essere costituito formalmente come servitù, altrimenti il proprietario del fondo vicino ha piena libertà di edificazione entro i limiti urbanistici e civilistici.

Costituzione e tutela 

La servitù di panorama può essere costituita:

  • per contratto: mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata;
  • per testamento;
  • per usucapione: se l’esercizio della servitù è continuo, pacifico e inequivoco per almeno venti anni, e l’esistenza della servitù è “visibile” (ad esempio per l’esistenza di parapetti o terrazze dedicate).

Una volta costituita, la servitù vincola il fondo servente a non costruire o sopraelevare in modo da pregiudicare la visuale panoramica del fondo dominante.

In assenza di servitù, non si può impedire al vicino di costruire: il solo fatto di godere di una bella vista non attribuisce un diritto acquisito alla sua conservazione.

Servitù di panorama: Cassazione

La Corte di Cassazione nel tempo ha fornito importanti precisazioni sul contenuto e sulle modalità di acquisto della servitù di panorama:

Cassazione n. 17922/2023: il diritto di veduta panoramica si configura come una servitù che, a seconda dei casi, si traduce in un divieto di costruire (non aedificandi) o di sopraelevare (altius non tollendi). Questo diritto può essere acquisito tramite contratto (a titolo derivativo), per destinazione del padre di famiglia o per usucapione (a titolo originario). Tuttavia, queste ultime modalità richiedono, oltre alla specifica destinazione data dall’originario unico proprietario o all’esercizio prolungato per oltre vent’anni di attività corrispondenti alla servitù, anche la presenza di opere visibili e permanenti che siano ulteriori rispetto a quelle che semplicemente consentono la vista.

Cassazione n. 2973/2012: la servitù di panorama, che valorizza la piacevolezza di un fondo grazie alla vista che offre, è un tipo di servitù “altius non tollendi” che limita sia le costruzioni che la crescita degli alberi. Per poterla acquisire tramite la destinazione del padre di famiglia o l’usucapione, è necessario che esistano opere visibili e permanenti ulteriori rispetto a quelle che permettono semplicemente la veduta. In altre parole, tali opere devono essere specificamente destinate all’esercizio della servitù di panorama invocata, altrimenti quest’ultima sarebbe sempre implicita nella servitù di veduta.

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invalidità del matrimonio civile

Cause di invalidità del matrimonio civile Cause di invalidità del matrimonio civile: nullità e annullabilità, procedura, conseguenze e giurisprudenza

Invalidità del matrimonio civile

L’invalidità del matrimonio civile consegue al mancato rispetto dei requisiti specifici previsti dalla legge. In alcuni casi, possono verificarsi infatti situazioni che rendono nullo o annullabile il matrimonio. L’invalidità del matrimonio si verifica quindi quando manca uno degli elementi essenziali previsti dalla normativa italiana, difetto che comporta la dichiarazione di nullità o annullamento del matrimonio da parte dell’autorità giudiziaria.

Le cause di invalidità del matrimonio civile

Le cause di invalidità del matrimonio civile sono disciplinate dal Codice Civile, in particolare dagli articoli 117-129 bis. Esse si dividono in cause di nullità e cause di annullabilità.

1. Nullità assoluta del matrimonio

Un matrimonio è nullo quando manca un requisito essenziale. La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, compreso il Pubblico Ministero. Le principali cause di nullità sono:

Matrimonio contratto in violazione degli impedimenti assoluti (art. 117 c.c.), ad esempio:

  • Matrimonio tra persone già coniugate (bigamia);
  • Matrimonio tra parenti in linea diretta o tra fratelli e sorelle
  • Matrimonio contratto tra persone una delle quali è stata condannata per omicidio o tentato omicidio del coniuge dell’altra.

2. Annullabilità del matrimonio

L’annullabilità riguarda situazioni in cui il matrimonio è valido, ma presenta vizi che ne permettono l’annullamento su richiesta di una delle parti. Le cause principali sono:

  • Incapacità del coniuge al momento del matrimonio (art. 120 c.c.):
    • Minore età senza autorizzazione.
    • Interdizione per infermità mentale.
  • Errore sull’identità o sulle qualità essenziali del coniuge (art. 122 c.c.):
    • Ad esempio, se un coniuge ignora che l’altro sia sterile o abbia commesso reati gravi.
  • Matrimonio contratto per timore (art. 122 c.c.):
    • Se un coniuge si sposa per una minaccia grave.

Procedura di annullamento del matrimonio

L’azione per far dichiarare nullo o annullabile un matrimonio viene presentata dinanzi al tribunale ordinario.

  • L’azione di nullità assoluta può essere promossa da chiunque abbia interesse, senza limiti di tempo.
  • L’azione di annullabilità deve essere promossa entro un termine specifico (generalmente un anno dalla scoperta del vizio).

Se il tribunale accoglie la domanda, il matrimonio viene dichiarato nullo con efficacia retroattiva (ex tunc), come se non fosse mai stato celebrato.

Conseguenze invalidità matrimonio civile

Le principali conseguenze della dichiarazione di invalidità del matrimonio sono:

  • perdita della qualità di coniuge, riacquisto della libertà di stato;
  • cessazione degli obblighi coniugali: i coniugi cessano di avere diritti e doveri reciproci;
  • effetti sui figli: i figli nati da un matrimonio nullo conservano lo stato di figli legittimi (art. 128 c.c.);
  • perdita dei benefici economici: cessazione dei diritti ereditari, cessazione della eventuale comunione coniugale, nullità delle donazioni fatte nell’ambito del matrimonio;
  • perdita del rapporto di affinità con i parenti dell’ex coniuge.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha fornito interpretazioni importanti sui casi di invalidità del matrimonio.

Cassazione n. 1772/2024

In ambito matrimoniale, la validità di un matrimonio putativo, ovvero un matrimonio nullo ma considerato valido per gli effetti civili a causa della buona fede di almeno uno dei coniugi, è regolata dal principio generale di presunzione di buona fede. Questo significa che, al momento della celebrazione del matrimonio, si presume che entrambi i coniugi fossero in buona fede, cioè che ignorassero le cause di nullità del matrimonio. Di conseguenza, chiunque contesti la validità del matrimonio putativo o la buona fede di uno dei coniugi, ha l’onere di dimostrare la loro mala fede.

Tribunale di Livorno 12 luglio 2024

L’errore sulle qualità personali del coniuge è considerato essenziale e può portare all’annullamento del matrimonio solo se, conoscendo la verità, l’altro coniuge non avrebbe dato il suo consenso. Questo vale specificamente per errori riguardanti malattie fisiche o psichiche, o anomalie sessuali, che impediscono la normale vita coniugale. Tuttavia, la semplice mancata conoscenza del sesso originario del coniuge non è sufficiente per annullare il matrimonio. Considerata la durata di 18 anni del matrimonio e l’intenzione di adottare, la richiesta di annullamento deve essere respinta.

Corte di Cassazione n. 28409/2023

il matrimonio può essere annullato se uno dei coniugi, al momento della celebrazione, era incapace di intendere e di volere. Questa incapacità deve essere di tale gravità da impedirgli di comprendere il significato e le conseguenze del matrimonio. In altre parole, non è sufficiente una semplice immaturità o fragilità emotiva, ma è necessario che la persona si trovasse in uno stato patologico che avesse compromesso significativamente le sue facoltà mentali, rendendola incapace di esprimere una volontà cosciente. Tale condizione deve essere assimilabile a un grave deficit psichico, tale da annullare la capacità di comprendere appieno l’atto matrimoniale.

clausola risolutiva espressa

Clausola risolutiva espressa Clausola risolutiva espressa art. 1456 c.c.: cos'è, come funziona, differenze rispetto alla condizione risolutiva e giurisprudenza

Cos’è la clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa è una clausola contrattuale che prevede la risoluzione automatica del contratto in caso di inadempimento di uno degli obblighi  che gravano su una delle parti. In altre parole, se una delle parti non adempie agli obblighi stabiliti nel contratto, l’altra parte può considerare il contratto risolto senza necessità di intervento giudiziale.

Questa clausola è esplicitamente indicata nel contratto e deve essere concordata dalle parti al momento della stipula.

Normativa di riferimento: art. 1456 c.c.

La norma che prevede e disciplina la clausola risolutiva espressa è l’articolo 1456 c.c. Esso dispone in particolare che: “1. I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva.”

Dal tenore letterale della norma emerge che la risoluzione del contratto non richiede l’intervento di un giudice, ma è automatica, in quanto le parti hanno esplicitamente previsto l’inadempimento come causa di risoluzione. La clausola risolutiva espressa è quindi uno strumento di protezione per le parti contraenti, per evitare lunghe procedure legali per risolvere un contratto in caso di inadempimento.

Funzionamento della clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa è un meccanismo automatico di risoluzione, che scatta nel momento in cui si verifica un inadempimento da parte di una delle parti. Tuttavia, affinché la risoluzione si realizzi, è necessario che la clausola sia esplicitamente prevista nel contratto, che l’inadempimento sia di entità tale da giustificare la sua attivazione e che la parte interessata dichiari all’altra parte di volersene avvalere.

Un esempio pratico utile a chiarire

Supponiamo che due parti stipulino un contratto di locazione con una clausola risolutiva espressa che preveda la risoluzione del contratto nel caso in cui una delle parti non paghi il canone entro 30 giorni dalla scadenza. Se il conduttore non paga il canone per un mese, il locatore può ritenere risolto il contratto senza bisogno di una causa legale, comunicando l’intenzione al conduttore di volersi avvalere della clausola. La risoluzione avviene  quindi automaticamente, sulla base di quanto concordato nel contratto. La parte che ha subito l’inadempimento non ha quindi bisogno di rivolgersi al tribunale per chiedere la risoluzione del contratto, proprio perché la clausola prevede già l’eventualità di un effetto automatico a fronte di un comportamento inadempiente.

Differenze con la condizione risolutiva

Molti tendono a confondere la clausola risolutiva espressa con la condizione risolutiva, ma ci sono differenze significative tra le due. Vero che entrambe portano alla risoluzione del contratto, ma la modalità e i presupposti sono diversi.

Cos’è la condizione risolutiva

La condizione risolutiva, come definita dal Codice Civile (Art. 1359), è un evento futuro e incerto che determina la cessazione di un contratto. Il contratto esiste già e ha effetti, ma si risolve automaticamente al verificarsi di una condizione che è incerta e non dipende dall’inadempimento di una delle parti. La condizione risolutiva può essere legata a eventi esterni (ad esempio, l’approvazione di un finanziamento, l’ottenimento di una licenza) e il contratto si risolve solo se tali eventi si verificano. La risoluzione avviene senza bisogno di un’azione delle parti, ma dipende dall’evento specifico concordato.

La differenza con la clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa, invece, dipende direttamente dall’inadempimento di una delle parti e prevede una risoluzione automatica del contratto, senza la necessità di un evento futuro e incerto. Il contratto è già in vigore e, se una parte non adempie ai suoi obblighi, il contratto viene risolto in base a quanto stabilito nella clausola. L’inadempimento, quindi, è la causa scatenante, non un evento esterno.

Giurisprudenza  

La giurisprudenza italiana ha esaminato numerosi casi riguardanti la clausola risolutiva espressa e la sua applicazione nei contratti. Ecco alcune sentenze significative:

Cassazione n. 23287/2024: per avvalersi della clausola risolutiva espressa (ex art. 1456 c.c.), l’inadempimento deve essere effettivo; altrimenti, si rischierebbe un abuso del diritto. La buona fede, sancita dagli artt. 1175 e 1375 c.c., guida l’interpretazione per evitare condotte pretestuose e abusi. La giurisprudenza sottolinea che, se il comportamento del debitore è conforme alla buona fede, anche se rientra nei fatti previsti dalla clausola, non può essere considerato inadempimento. Questo principio tutela entrambe le parti da azioni ingiustificate.

Cassazione n. 14195/2022: la tolleranza del creditore (come l’accettazione di pagamenti parziali o tardivi) non elimina la clausola risolutiva espressa né implica una tacita rinuncia ad avvalersene, purché il creditore, contestualmente o successivamente, dichiari l’intenzione di utilizzarla in caso di ulteriori inadempimenti. Secondo la giurisprudenza (Cass. 2005, 2013, 2018), la tolleranza rende temporaneamente inoperante la clausola, ma questa riprende efficacia se il creditore richiama il debitore all’adempimento puntuale delle sue obbligazioni con una nuova manifestazione di volontà.

Cassazione n. 23879/2021: la clausola risolutiva espressa è invalida se non indica specificamente le obbligazioni contrattuali a cui si riferisce. È necessario individuare con precisione gli obblighi la cui violazione giustifica lo scioglimento immediato del contratto. Durante la redazione, è essenziale definire chiaramente le circostanze che possono provocare la risoluzione automatica, evitando riferimenti generici a tutte le obbligazioni contrattuali. In questo modo le parti possono identificare, sin dall’inizio, le violazioni gravi che impediscono la prosecuzione del rapporto, riducendo tempi e costi rispetto a un accertamento giudiziale.

 

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spese legali stragiudiziali

Spese legali stragiudiziali al condomino moroso: delibera nulla Non è valida la delibera assembleare che imputa al singolo condomino moroso le spese legali stragiudiziali

Spese legali stragiudiziali in condominio

Spese legali stragiudiziali in condominio: il Tribunale di Pavia, con la sentenza n. 178/2025, ha chiarito che non è valida la delibera assembleare che imputa al singolo condomino moroso le spese legali sostenute per l’invio della diffida di pagamento, trattandosi di una spesa che rientra nell’interesse comune.

Il caso esaminato

Nella vicenda, una condomina aveva regolarmente corrisposto le prime due rate del bilancio preventivo, ma si era vista recapitare una lettera di costituzione in mora nella quale si richiedeva anche il rimborso delle spese legali.

La questione finiva, quindi, in giudizio, al fine di ottenere la dichiarazione di nullità della delibera assembleare con conseguente restituzione della somma, perchè non dovuta, in quanto percepita sulla base di una delibera assembleare condominiale nulla.

Il principio affermato dal Tribunale

Nel decidere il merito del ricorso, il tribunale afferma che la questione controversa è se l’imputazione in bilancio delle spese legali per il recupero di crediti in via stragiudiziale debba essere effettuata con riferimento, in via esclusiva, al condomino moroso.

Dopo aver analizzato la normativa del codice civile e gli indirizzi giurisprudenziali in materia, il giudice di Pavia ritiene di dover aderire all’orientamento secondo il quale “pur essendo astrattamente consentito addebitare spese asingoli condomini di natura ‘personale’, queste devono necessariamente ed obbligatoriamente ancorarsi ad una diversa e maggiore utilità concreta che il condomino trae dall’utilizzo diversificato di una o più parti comuni dell’edificio condominiale” (cfr. Cass. n. 12573/2019; Cass. n. 18503/2020).

La spesa per compensi in ragione di attività prestata dall’avvocato incaricato dall’amministratore di condominio era, quindi, non addebitabile esclusivamente ala ricorrente (in assenza di suo esplicito consenso e di espressa previsione del regolamento di condominio), ma doveva essere ripartita fra tutti i condomini in base al criterio legale dei millesimi, dato che i costi in esame non erano in nessun modo inerenti all’uso differenziato delle parti comuni condominiali. Al contrario, l’intero condominio ha beneficiato della stessa attività di legale.

La decisione

La delibera assembleare impugnata, quindi, per il tribunale, deve essere dichiarata nulla perché adottata dall’assemblea in violazione dei criteri stabiliti dalla legge.
La nullità comporta sul piano giuridico l’obbligo di restituzione della somma versata da parte della condomina.

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rendita vitalizia

La rendita vitalizia Rendita vitalizia: cos'è, cosa la distingue dalla rendita perpetua, a chi spetta, come funziona e giurisprudenza di rilievo in materia

Cos’è la rendita vitalizia?

La rendita vitalizia è un contratto disciplinato dagli articoli 1872 e seguenti del Codice Civile, con il quale una parte (denominata costituitore) si obbliga a corrispondere periodicamente una somma di denaro o una quantità di beni a un’altra parte (beneficiario o vitaliziato), per tutta la durata della vita di quest’ultimo o di un terzo.

Il contratto può essere a titolo oneroso, quando il vitaliziato trasferisce un bene o versa una somma in cambio della rendita, oppure a titolo gratuito, se costituito come donazione.

Tipologie di rendita

Il nostro codice civile prevede e disciplina due tipi di rendite:

  • perpetua: non è legata alla durata della vita di una persona specifica (art. 1861 c.c.) e si costituisce tramite contratto. Essa conferisce il diritto a esigere in modo perpetuo una prestazione periodica di denaro o di cose fungibili, quale corrispettivo della vendita di un immobile o della cessione di un capitale;
  • vitalizia: quando dipende dalla vita di un individuo determinato (art. 1872 c.c.). Ai sensi del comma 2 dell’art. 1873 del Codice Civile la rendita può essere costituita anche per la durata della vita di più persone.

Quando e a chi spetta

La rendita vitalizia può essere pattuita tra privati, derivare da specifiche disposizioni testamentarie o da una donazione. È uno strumento spesso utilizzato:

  • nell’ambito della pianificazione successoria, per garantire un reddito stabile a un familiare;
  • nei contratti di cessione di beni immobili con riserva di rendita a favore del cedente;
  • per assicurare un sostegno economico in caso di cessione d’azienda o quote societarie;
  • in ambito previdenziale, con rendite assicurative legate ai piani pensionistici.

La rendita spetta al beneficiario designato, il quale ha diritto a percepirla secondo le condizioni stabilite nel contratto. In caso di premorienza del beneficiario, la rendita si estingue, salvo diversa pattuizione.

Giurisprudenza in materia di rendita vitalizia 

La giurisprudenza ha spesso affrontato controversie relative alla rendita vitalizia.

Cassazione n. 8116/2024

Per accertare la validità di una rendita vitalizia, elemento essenziale è l’alea, ovvero l’equivalenza del rischio tra le parti al momento della stipula. Questa equivalenza si valuta considerando l’entità della rendita e la presumibile durata della vita del beneficiario. Il contratto è nullo se, per l’età e la salute del vitaliziato, era prevedibile con certezza il suo decesso, rendendo calcolabili guadagni e perdite per entrambe le parti. Nel caso specifico, la Cassazione ha confermato la nullità perché la vitaliziata di 48 anni, conoscendo la situazione economica della società vitaliziante, non presentava un rischio equivalente per quest’ultima.

Cassazione n. 10031/2023

L’accordo stipulato in sede di separazione e recepito nel divorzio congiunto, in cui un coniuge cede quote societarie all’altro in cambio di un assegno vitalizio a favore del cedente e dei figli, senza interruzione anche dopo la maggiore età di questi ultimi, non è soggetto a revisione ai sensi dell’articolo 8 della legge sul divorzio. La Corte qualifica tale pattuizione non come un assegno divorzile, ma come la costituzione di una rendita vitalizia, con conseguente inapplicabilità delle norme sulla revisione dell’assegno divorzile.

Cassazione n. 11290/2017

Secondo il consolidato indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, il vitalizio alimentare è un contratto atipico che si distingue dalla rendita vitalizia per la sua aleatorietà più accentuata. Questa alea non riguarda solo la durata del contratto, legata alla vita del beneficiario, ma anche la quantità e la natura delle prestazioni dovute (vitto, alloggio e assistenza), che possono variare nel tempo in base a fattori imprevedibili come le condizioni di salute del beneficiario. Inoltre, le prestazioni di assistenza hanno una natura spiccatamente personale e richiedono un vitaliziante specificamente scelto in base alle sue qualità individuali. Nel vitalizio alimentare, una parte si obbliga a fornire queste prestazioni in cambio del trasferimento di un immobile o di altri beni.

 

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Genitori responsabili dei profili social dei figli Genitori responsabili dei profili social dei figli: spetta a loro vigilare sulle attività, facendo attenzione anche ai software di manipolazione

Profili social dei figli

Genitori responsabili di quanto fanno i figli sui social. Essi hanno l’obbligo di controllare i profili social dei figli, anche se falsi, soprattutto se la prole è fragile o immatura. Il controllo serve a prevenire comportamenti illeciti o pericolosi. Non basta chiedere le password o dire di aver fatto il possibile. I genitori devono sorvegliare in modo attivo e costante. Il Tribunale di Brescia, con la recente sentenza n. 879/2025, ribadisce questo principio e condanna i genitori di una ragazza con un lieve ritardo intellettivo a risarcire 15mila euro alla vittima del comportamento della figlia.

Diffamazione aggravata e altri reati

Una ragazza crea più profili fake e con questi insulta una compagna e pubblica immagini pornografiche ottenute con un software di manipolazione delle immagini. Le indagini penali per diffamazione aggravata, atti persecutori e detenzione di materiale pedopornografico portano alla giovane.

I genitori della vittima decidono quindi di agire in giudizio e chiedono il risarcimento dei danni subiti dalla figlia. La giovane racconta infatti di aver ricevuto insulti continui su Instagram. A causa di questi episodi inoltre ha iniziato ad avere paura a uscire di casa da sola e ha temuto in diverse occasioni di essere  perseguitata da malintenzionati.

Genitori responsabili: attenzione massima ai social

Il Tribunale nel decidere sulle responsabilità e sul risarcimento richiesto, chiarisce quali sono i doveri dei genitori nella sorveglianza dei dispositivi digitali dei figli. Nel caso di specie la ragazza frequentava le superiori, aveva un’insegnante di sostegno e un’educatrice. Quest’ultima in particolare aveva avviato un percorso educativo sull’uso dei social, avvisando anche i genitori sui rischi di questi strumenti. Tutto questo però evidentemente non è bastato. La ragazza infatti ha creato molti profili falsi e sconosciuti alla famiglia e tramite questi ha commesso gli illeciti di rilievo penale che le sono stati contestati in sede penale.

I genitori si difendono dalle accuse loro rivolte, affermando di aver fatto il possibile. Il giudice però ritiene che quanto affermato non sia sufficiente. Per evitare la responsabilità genitoriale (art. 2047 c.c.) serve infatti dimostrare di non aver creato o tollerato situazioni pericolose. Il compito dei genitori è di prevenire i rischi, non di reagire solo quando è troppo tardi.

Massima attenzione anche alle immagini manipolabili

Il Tribunale si sofferma inoltre sull’impiego dei contenuti manipolati con software. I ragazzi oggi possono accedere facilmente a strumenti di intelligenza artificiale per modificare immagini o video. Per questo motivo i genitori devono aumentare ancora di più il controllo sui figli in relazione a questi strumenti. Lasciare i figli soli davanti allo schermo può avere infatti gravi conseguenze legali.

La giurisprudenza recente è concorde nel rafforzare l’obbligo di vigilanza dei genitori sull’utilizzo dei social da parte dei figli. I genitori sono chiamati a limitare sia il tempo sia le modalità di accesso ai social da parte dei figli. L’educazione digitale deve essere concreta e continua. Non basta dire ai figli cosa è giusto: è necessario verificare che lo mettano in pratica.

La precoce autonomia digitale dei minori non solleva i genitori dalle loro responsabilità. Al contrario, li obbliga a educare in modo ancora più attento e moderno. Serve un impegno reale nell’insegnare e verificare l’uso corretto delle tecnologie, inclusa l’intelligenza artificiale.

 

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divisori dei balconi

Divisori dei balconi in condominio Divisori dei balconi in condominio: cosa sono, normativa e ripartizione delle spese

Cosa sono i divisori dei balconi condominiali

I divisori dei balconi (o setti divisori) sono elementi verticali posti tra due balconi attigui di proprietà esclusiva, con la funzione di separare fisicamente e visivamente le unità immobiliari, garantendo privacy, sicurezza e, in alcuni casi, contribuendo al decoro architettonico della facciata condominiale. Possono essere realizzati in vari materiali: muratura, metallo, vetro opaco, PVC, o anche strutture leggere come grigliati e pannelli frangivista.

Pur essendo collocati tra balconi di proprietà privata, i divisori sono spesso soggetti a disciplina comune, soprattutto quando incidono sull’aspetto esteriore dell’edificio o sulla sua stabilità.

Normativa di riferimento

La disciplina dei divisori dei balconi condominiali si desume principalmente dal codice civile, in particolare dagli articoli:

  • Art. 1117 c.c. – beni comuni: nel caso in cui i divisori siano strutturalmente o funzionalmente collegati alla facciata, possono essere considerati parte comune;
  • Art. 1123 c.c. – ripartizione delle spese: occorre applicare la regola generale della proporzionalità al valore della proprietà;
  • Art. 1125 c.c. – spese per i muri divisori: la regola stabilisce la ripartizione a metà tra i proprietari delle unità separate;
  • Art. 1122 c.c. – innovazioni su parti di proprietà esclusiva: vieta interventi che pregiudichino il decoro architettonico o la stabilità dell’edificio.

La giurisprudenza ha più volte chiarito che, anche quando i balconi sono di proprietà esclusiva, i divisori verticali – se integrati nella facciata – assumono rilievo comune ai fini della tutela dell’aspetto architettonico dell’immobile.

Inoltre, l’installazione o modifica di divisori può richiedere autorizzazioni comunali o rispetto delle norme edilizie locali, specie nei casi di edifici vincolati o in zone soggette a tutela paesaggistica.

Tipologie di divisori tra balconi

I principali tipi di divisori in condominio sono:

  • muretti in laterizio o cemento;
  • pannelli in vetro satinato o opalino;
  • grigliati in legno o metallo;
  • pareti mobili o rimovibili in PVC o tessuto tecnico.

La scelta del tipo di divisorio deve rispettare l’estetica del fabbricato e non alterare la sicurezza, la salubrità o la stabilità delle strutture portanti.

Ripartizione delle spese per i divisori dei balconi

Uno degli aspetti più delicati riguarda la ripartizione delle spese di manutenzione, sostituzione o installazione dei divisori tra balconi.

Secondo l’art. 1125 c.c., le spese per la manutenzione dei muri divisori tra due proprietà contigue, come nel caso dei setti tra balconi, vanno ripartite in parti uguali tra i condomini proprietari dei balconi che il divisorio separa.

Ne consegue che:

  • se il divisorio è collocato tra due balconi di proprietà esclusiva, la spesa va divisa al 50% tra i due proprietari;
  • se il divisorio è parte integrante della facciata o dell’impianto architettonico condominiale, può essere considerato bene comune e la spesa va ripartita tra tutti i condomini secondo i millesimi di proprietà (art. 1123, comma 1, c.c.);
  • in caso di modifica unilaterale da parte di un solo condomino, questi ne sopporta interamente la spesa e risponde di eventuali danni o alterazioni al decoro (ex art. 1122 c.c.).

Anche gli interventi per il rifacimento dei divisori a seguito di infiltrazioni o degrado devono seguire il criterio del beneficio e della contiguità tra le proprietà, con eventuale delibera assembleare se l’opera incide sulle parti comuni.

Interventi e limiti da rispettare

Ogni intervento sui divisori quindi deve:

  • evitare modifiche che compromettano il decoro architettonico;
  • non limitare il diritto di veduta;
  • rispettare le distanze legali, previste dal codice civile o dai regolamenti edilizi locali.

Inoltre, qualora il divisorio sia modificato unilateralmente da un condomino (es. sostituzione di una parete opaca con una trasparente), l’amministratore può chiedere il ripristino dello stato originario qualora l’intervento risulti lesivo per il condominio.

 

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