diffamazione

Diffamazione: l’uso del condizionale non basta per evitarla Cassazione: non basta il condizionale per evitare la diffamazione se la notizia è falsa e non verificata

Diffamazione online

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 14196 del 2025, ha stabilito un principio rilevante in materia di diffamazione a mezzo stampa e diritto di cronaca: l’impiego di forme verbali al condizionale non è sufficiente a escludere la lesione della reputazione altrui, qualora le informazioni diffuse siano false, offensive e prive di verifica.

Secondo i giudici di legittimità, non si può invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca – neppure nella sua forma putativa – quando l’articolo diffonde insinuazioni suggestive e ambigue, presentando fatti non veri come se fossero plausibili, soprattutto se associati ad accadimenti reali.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, un giornalista era stato condannato per aver pubblicato un articolo in cui un appartenente alla Guardia di Finanza veniva indicato come “in combutta coi narcos” in relazione a un’operazione antidroga. La notizia, veicolata attraverso un blog, utilizzava il condizionale per insinuare il coinvolgimento dell’agente, ma non era fondata su riscontri oggettivi né su fonti attendibili.

La difesa aveva sostenuto che l’uso del condizionale escludesse l’intento diffamatorio, ma la Cassazione ha chiarito che tale forma linguistica non esclude la responsabilità, quando le espressioni sono idonee a indurre il lettore a ritenere veritiera una notizia falsa.

Cronaca e verità: i limiti dell’art. 21 Cost.

Il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, incontra limiti precisi, fissati dalla giurisprudenza consolidata:

  1. Verità oggettiva della notizia, o quantomeno verità putativa, purché frutto di adeguate verifiche;

  2. Interesse pubblico alla diffusione del fatto;

  3. Continenza espositiva, ovvero modalità sobrie e rispettose nella narrazione.

L’assenza di uno di questi presupposti rende il contenuto potenzialmente diffamatorio e non giustificabile. L’utilizzo di un linguaggio allusivo o insinuante – anche se formalmente prudente – non è idoneo a scriminare la condotta lesiva.

La posizione della Cassazione

Nel testo della pronuncia, la Corte sottolinea che la carica offensiva di un’esposizione redazionale che mescoli fatti veri e non veri, con l’uso di espressioni ambigue e condizionali, è persino superiore rispetto a forme dubitative o interrogative. L’ambiguità narrativa può infatti generare nel lettore medio la convinzione di trovarsi di fronte a una verità oggettiva.

In assenza di verifica delle fonti e di riscontri concreti, il condizionale non solo non attenua, ma rafforza la responsabilità del cronista, specialmente quando si attribuiscono fatti penalmente rilevanti a soggetti determinati.

patrocinio infedele

Patrocinio infedele Patrocinio infedele: quando l’avvocato risponde penalmente – guida completa all’art. 380 c.p.

Cos’è il patrocinio infedele

Il reato di patrocinio infedele si configura quando l’avvocato, agendo con dolo, viola consapevolmente i doveri di fedeltà e lealtà nei confronti del proprio assistito, arrecandogli un danno giuridicamente rilevante. Si tratta di una fattispecie che tutela l’integrità del rapporto fiduciario tra difensore e cliente, ponendosi al crocevia tra diritto penale, deontologia forense e responsabilità professionale.

Normativa di riferimento: art. 380 codice penale

Il testo dell’art. 380 c.p. recita: “Il patrocinatore (…) che,  rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa non inferiore a euro 516.”

Il legislatore con questa norma intende colpire penalmente le condotte scorrette e sleali del difensore, che tradiscono gli interessi del proprio cliente con comportamenti fraudolenti.

Quando si configura il reato di patrocinio infedele

Il reato si perfeziona quando sussistono due elementi fondamentali:

  • un comportamento sleale o doloso dell’avvocato nell’esercizio dell’attività difensiva o di assistenza;
  • la lesione dei diritti della parte assistita, cagionata da tale comportamento.

Non si tratta di una semplice negligenza o imperizia, ma di una vera e propria infedeltà dolosa, come ad esempio:

  • la mancata presentazione intenzionale a un’udienza rilevante;
  • l’acquiescenza consapevole a provvedimenti sfavorevoli;
  • l’omissione di atti fondamentali per interesse proprio (es. favorire la controparte);
  • la comunicazione fraudolenta di informazioni al cliente, al solo fine di indurlo a rinunciare a un diritto.

Elemento oggettivo del reato

Sul piano oggettivo, il reato di patrocinio infedele richiede:

  • un atto o comportamento attivo od omissivo del difensore;
  • che tale condotta abbia precluso o danneggiato i diritti della parte;
  • che la condotta sia fraudolenta, ossia accompagnata da un elemento di inganno o dissimulazione.

Elemento soggettivo: il dolo specifico

Affinché si configuri il reato è sufficiente la presenza del dolo generico, ovvero  la rappresentazione e la volontà, anche eventuale, delle conseguenze dell’evento.

L’avvocato non risponde penalmente se:

  • agisce in buona fede;
  • commette un errore tecnico con colpa;
  • svolge l’attività con imperizia o superficialità, ma senza volontà fraudolenta.

Il momento consumativo del reato

Il reato si consuma nel momento in cui si materializza la lesione degli interessi del cliente. Non è sufficiente che si realizzi la mera lesione dell’interesse al regolare funzionamento della giustizia.

Procedibilità, competenza e pena

  • Procedibilità: il reato è procedibile d’ufficio.
  • Competenza: spetta al Tribunale in composizione monocratica.
  • Pena prevista: reclusione da uno a tre anni e multa don inferiore a 516,00 euro.

Violazione grave del rapporto fiduciario

Il patrocinio infedele costituisce una delle violazioni più gravi che un avvocato possa commettere nei confronti del proprio cliente. La norma mira a tutelare la fiducia nella funzione difensiva, cardine del giusto processo. La responsabilità penale si affianca a quella disciplinare e civile, e può comportare radiazione dall’albo, sanzioni economiche e pregiudizi irreparabili per la parte lesa.

Giurisprudenza rilevante sul patrocinio infedele

La Cassazione penale è intervenuta più e più volte per chiarire alcuni aspetti importanti del reato.

Cassazione n. 13084/2025: Nell’accertare il reato di infedele patrocinio, il giudice non può limitarsi a esaminare singoli atti isolati. È invece essenziale contestualizzare l’intera attività professionale svolta dall’avvocato, inserendola nella linea difensiva complessiva e nella strategia processuale adottata per raggiungere gli obiettivi del cliente. Questo approccio permette di valutare se il patrocinatore abbia intenzionalmente tradito il suo obbligo di curare gli interessi della parte, in conformità con il mandato ricevuto, le regole professionali e le incombenze processuali.

Cassazione n. 341/2025: il reato di patrocinio infedele ai sensi dell’articolo 380 del Codice Penale non si configura con la sola violazione dei doveri professionali. È infatti necessario che si verifichi un nocumento agli interessi della parte, il quale può manifestarsi come il mancato ottenimento di risultati favorevoli o la creazione di situazioni processuali pregiudizievoli, anche se queste si presentano in una fase intermedia del procedimento, ritardandone o impedendone il prosieguo. Questo nocumento, inteso come conseguenza della violazione dei doveri professionali, costituisce l’evento del reato. Tale evento non è necessariamente un danno patrimoniale in senso civilistico, ma può consistere anche nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, inclusi quelli di natura morale, che sarebbero derivati da un esercizio corretto e leale del patrocinio legale.

Cassazione n. 25766/2023: Il delitto di patrocinio infedele, delineato dall’articolo 380 del Codice Penale, si perfeziona nel momento in cui il professionista compie un’azione o un’omissione che, oltre a rappresentare un’infedeltà ai suoi doveri professionali, risulta capace di arrecare un nocumento agli interessi della parte che sta rappresentando, assistendo o difendendo.

Leggi anche: La responsabilità professionale dell’avvocato

docenti e avvocati

Docenti e avvocati: quando è lecito agire contro il Ministero La Cassazione chiarisce i limiti per i docenti che esercitano la professione forense. Focus su autorizzazione, conflitto d’interessi e diritti del lavoratore pubblico

Docenti e avvocati: i limiti

Docenti e avvocati: con l’ordinanza n. 12204/2025, la sezione lavoro della Cassazione si è espressa su una questione di rilievo per i dipendenti pubblici che esercitano una libera professione: può un docente patrocinare cause contro il Ministero dell’Istruzione, da cui dipende professionalmente? L’intervento si inserisce in un ambito sempre più attuale, vista la crescente presenza di docenti abilitati all’esercizio dell’attività forense, e chiarisce i confini tra legittimo esercizio della professione e violazione dei doveri di fedeltà nei confronti dell’amministrazione pubblica.

Il quadro normativo

Il punto di partenza è l’art. 508, comma 15, del d.lgs. n. 297/1994, secondo cui i docenti possono esercitare libere professioni, purché compatibili con l’orario di servizio e previa autorizzazione del dirigente scolastico. La norma non prevede limitazioni espresse sulle controparti processuali, lasciando dunque spazio all’interpretazione in merito a eventuali cause contro la stessa amministrazione.

A ciò si affianca l’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, che vieta qualsiasi attività in conflitto con l’interesse del pubblico impiego, e i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della P.A. (art. 98 Cost.).

Il caso concreto

Il caso esaminato riguardava un docente che, regolarmente autorizzato a esercitare la professione forense, aveva patrocinato ricorsi contro il Ministero dell’Istruzione. In seguito, era stato sanzionato con dieci giorni di sospensione dal servizio, con l’accusa di aver violato il dovere di lealtà verso l’amministrazione.

La Corte d’Appello di Bologna aveva annullato la sanzione, osservando che l’autorizzazione era stata concessa senza vincoli o limitazioni specifiche. Tale pronuncia è stata confermata dalla Cassazione.

La decisione della Cassazione

Secondo la Suprema Corte, l’autorizzazione all’esercizio della libera professione non può essere disattesa o limitata in via implicita. Eventuali restrizioni devono essere espresse formalmente e con chiarezza. La semplice richiesta di chiarimenti da parte del dirigente scolastico non può valere come revoca o modifica dell’autorizzazione.

In assenza di provvedimenti espliciti, l’attività professionale resta legittima anche qualora coinvolga l’amministrazione stessa come controparte processuale. La sanzione inflitta è dunque illegittima per carenza di motivazione formale e assenza di divieti specifici.

Vietato ogni conflitto di interessi

La Corte ha però chiarito che il principio generale del pubblico impiego resta intatto: è sempre vietato esercitare attività che possano generare un conflitto di interessi.

In altri termini, anche se formalmente autorizzato, il docente non può patrocinare cause che lo pongano in una posizione incompatibile con i propri obblighi istituzionali. L’autorizzazione non ha efficacia “sanante” rispetto a comportamenti che contrastano con i principi di lealtà, imparzialità e correttezza.

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aggredire il capotreno

Aggredire il capotreno è reato di resistenza a pubblico ufficiale Aggredire il capotreno configura il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 20125/2025

La qualifica di pubblico ufficiale

Aggredire il capotreno è reato. Con la sentenza n. 20125/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che il capotreno, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, riveste la qualifica di pubblico ufficiale. La decisione trae origine da un episodio in cui un passeggero, giunto il treno a fine corsa, ha rifiutato di scendere e ha aggredito il capotreno e il macchinista con calci e pugni.

La difesa aveva contestato la qualifica di pubblico ufficiale, sostenendo che l’attività svolta dal capotreno – limitata alla verifica del termine della corsa – fosse di natura interna e priva di rilievo pubblicistico. La Suprema Corte ha però escluso tale interpretazione.

Poteri autoritativi anche senza coercizione

La Cassazione ha chiarito che il concetto di “potere autoritativo” non si esaurisce nelle sole attività coercitive, ma comprende ogni attività che implichi l’esercizio di una potestà pubblica in forma discrezionale. Il soggetto che si trova destinatario di tale potere assume una posizione non paritetica, ovvero non è sullo stesso piano dell’autorità che lo esercita.

In questo contesto, anche se esercitata da personale appartenente a una società per azioni – come Trenitalia S.p.A. – l’attività può essere qualificata come pubblicistica se regolata da norme di diritto pubblico e finalizzata alla tutela di interessi generali, come la sicurezza dei viaggiatori.

La funzione pubblica del capotreno

Nel caso di specie, il capotreno, giunto a fine corsa, ha invitato il passeggero a lasciare il convoglio. L’aggressione è avvenuta in risposta a tale invito. Secondo la Corte, il controllo effettuato in quel momento rientrava pienamente nei compiti di sicurezza e ordine pubblico previsti dal D.P.R. n. 753/1980, che impone ai viaggiatori il rispetto delle disposizioni impartite dal personale ferroviario per la regolarità e sicurezza del servizio.

La normativa affida al personale ferroviario poteri accertativi e certificativi, anche in assenza delle forze dell’ordine, in merito a condotte rilevanti ai fini sanzionatori. Ne consegue che il comportamento del capotreno – diretto a garantire la sicurezza dei passeggeri e la regolare chiusura del servizio – ha natura pubblicistica.

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha confermato la condanna per il reato di cui all’art. 337 c.p., ritenendo legittima la qualifica di pubblico ufficiale attribuita al capotreno. È stata dunque respinta la tesi difensiva secondo cui la funzione esercitata sarebbe stata priva di rilievo pubblicistico.

Il ricorso è stato rigettato e l’imputato condannato anche al pagamento delle spese processuali.

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mantenimento dei figli maggiorenni

Mantenimento dei figli maggiorenni: il parziale adempimento è reato La Cassazione chiarisce che l'adempimento parziale dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni è reato

Omesso mantenimento figli maggiorenni reato

Con la sentenza n. 15264/2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato un tema di rilievo in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570, comma 2, n. 2, c.p., chiarendo un punto controverso riguardante il mantenimento dei figli maggiorenni.

La Corte ha statuito che l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento non esclude la responsabilità penale, neppure quando i figli beneficiari siano divenuti maggiorenni, salvo che non sia comprovato uno stato di necessità, la cui valutazione, tuttavia, segue criteri diversi rispetto ai casi in cui il mantenuto sia minorenne.

Il fatto

Il procedimento trae origine dalla condanna inflitta a un padre per omesso versamento dell’assegno di mantenimento in favore della figlia, divenuta nel frattempo maggiorenne ma ancora non economicamente autosufficiente, in quanto impegnata in un regolare corso di studi universitari.

L’uomo si era difeso sostenendo di aver eseguito solo versamenti parziali a causa di gravi difficoltà economiche, legate alla perdita del lavoro e alla sopravvenienza di nuovi oneri familiari. Aveva quindi chiesto l’assoluzione per carenza dell’elemento soggettivo del reato, invocando lo stato di necessità.

Il principio affermato dalla Cassazione

La Corte ha confermato la condanna e ha affermato un principio di diritto destinato ad orientare futuri giudizi in casi analoghi:

“In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento in favore del figlio maggiorenne non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., anche se la condotta è determinata da difficoltà economiche, salvo che queste integrino un vero e proprio stato di necessità penalmente rilevante.”

In sostanza, non basta addurre genericamente problemi economici per escludere la punibilità, se i versamenti sono stati inferiori a quanto stabilito dal giudice. La Corte distingue chiaramente tra:

  • Figli minorenni, per i quali il giustificato stato di necessità può escludere l’elemento soggettivo del reato, purché provato.
  • Figli maggiorenni non autosufficienti, per i quali il debitore deve dimostrare compiutamente che l’inadempimento era assolutamente inevitabile, non potendo in alcun modo adempiere.

Le motivazioni

La Corte richiama precedenti conformi e ribadisce che il mantenimento è un obbligo legale, non una prestazione facoltativa, e che la maggiore età del figlio non lo fa venir meno, se il beneficiario non ha ancora raggiunto una indipendenza economica. Come precisato in motivazione:

“La responsabilità genitoriale non si esaurisce con il compimento del diciottesimo anno di età, ma persiste in relazione alle condizioni oggettive del figlio. Il debitore non può arbitrariamente ridurre quanto dovuto, né invocare mere difficoltà finanziarie senza dimostrare l’assoluta impossibilità di adempiere.”

Il parziale adempimento, se volontario e non accompagnato da iniziative giudiziali per la modifica dell’importo (es. ricorso ex art. 710 c.p.c.), non ha effetto scriminante, ma anzi può integrare gli estremi del reato se produce una situazione di effettiva privazione per il figlio.

Figlio maggiorenne e autosufficienza

Un altro passaggio chiave della sentenza riguarda la condizione del figlio:

“L’obbligo di mantenimento permane finché il figlio non abbia raggiunto una effettiva e stabile indipendenza economica. L’onere della prova su tale condizione spetta al genitore obbligato.”

Nel caso concreto, la figlia risultava ancora iscritta all’università, priva di redditi, e residente con la madre. L’uomo, pur lavorando saltuariamente, non aveva dimostrato di trovarsi in stato di indigenza assoluta né aveva attivato strumenti legali per modificare il quantum dovuto.

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abusi edilizi

Abusi edilizi: la sola demolizione non estingue il reato La Cassazione ha chiarito che in tema di abusi edilizi la sola demolizione del manufatto abusivo non determina l'estinzione automatica del reato

Abusi edilizi

La demolizione di un manufatto abusivo non determina l’estinzione automatica del reato edilizio, soprattutto se non è preceduta dall’accoglimento di un’istanza di sanatoria o dalla verifica giudiziale dei relativi presupposti. Lo ha chiarito la Cassazione penale con la sentenza n. 20661/2025, accogliendo il ricorso promosso dal Procuratore della Repubblica contro una decisione di non luogo a procedere emessa dal giudice di merito.

Demolizione postuma

Nel caso esaminato, l’imputato aveva proceduto alla rimozione dell’abuso edilizio durante il processo penale, sostenendo che tale comportamento fosse sufficiente per estinguere il reato. Tuttavia, la Corte ha stabilito che la demolizione successiva alla commissione dell’illecito – e in pendenza di giudizio – non può in alcun modo sostituirsi agli strumenti legali previsti per la regolarizzazione, quali il rilascio del permesso in sanatoria o l’accoglimento di un’istanza presentata nei termini.

Area archeologica e reato paesaggistico

Un aspetto centrale della pronuncia riguarda la localizzazione dell’opera abusiva in area soggetta a tutela archeologica, circostanza che impone l’applicazione dell’art. 181 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42/2004). Secondo tale norma, il reato paesaggistico può considerarsi estinto solo se l’intervento di ripristino dello stato dei luoghi è eseguito volontariamente dal responsabile prima dell’emanazione dell’ordine di rimessione in pristino da parte dell’autorità amministrativa competente.

Nel caso in esame, la demolizione è intervenuta successivamente, e dunque non ha prodotto alcun effetto estintivo ai fini penali. La Corte ha pertanto annullato la decisione del giudice di merito che aveva erroneamente ritenuto che l’intervento di rimozione dell’abuso potesse legittimare un esito processuale di tipo liberatorio.

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indennità custode giudiziario

Indennità custode giudiziario: alle SS.UU. il termine di decadenza La Cassazione rimette alle Sezioni Unite il nodo del termine di 100 giorni per chiedere l’indennità del custode giudiziario

Indennità custode giudiziario

Indennità custode giudiziario: con l’ordinanza interlocutoria n. 15046/2025, la prima sezione civile della Cassazione ha rimesso alle sezioni unite la seguente questione: se al custode giudiziario debba applicarsi il termine di 100 giorni previsto per gli altri ausiliari del giudice ai sensi dell’art. 71, comma 2, del D.P.R. n. 115/2002 (Testo unico spese di giustizia).

Il nodo interpretativo nasce da un contrasto giurisprudenziale tra le sezioni civili e penali della stessa Corte, evidenziando la natura trasversale della figura del custode tra processo civile e penale.

Il caso

La vicenda trae origine da una opposizione proposta da un custode giudiziario contro il rigetto, da parte del GIP di Locri, dell’istanza di liquidazione delle indennità relative alla custodia di autoveicoli sequestrati in sede penale.

Il ricorrente lamentava che il termine di decadenza di 100 giorni, previsto dall’art. 71 per gli ausiliari del giudice, non fosse applicabile alla sua posizione, regolata invece dal successivo art. 72 del D.P.R. n. 115/2002, che non contempla alcun termine decadenziale.

Le tesi contrapposte

La Cassazione ha esaminato due orientamenti consolidati ma contrapposti:

  • Orientamento restrittivo (penale): esclude l’applicabilità del termine di decadenza al custode, evidenziando l’assenza di tale previsione nell’art. 72 e la differenza strutturale e funzionale tra custode e altri ausiliari. Il custode, infatti, non contribuisce all’accertamento giudiziale, ma ha un compito materiale di conservazione del bene sottoposto a vincolo.

  • Orientamento estensivo (civile): sostiene l’applicazione del termine anche al custode giudiziario, fondandosi sull’art. 3 del T.U. spese di giustizia, che elenca gli ausiliari del giudice in senso ampio. In tale prospettiva, il custode rientrerebbe tra i soggetti che devono presentare l’istanza di liquidazione entro 100 giorni dal compimento dell’incarico.

Le ragioni del rinvio alle Sezioni Unite

La Corte, pur rilevando l’esistenza di numerose pronunce che equiparano il custode agli ausiliari del giudice, ha riconosciuto la presenza di elementi distintivi che potrebbero giustificare un trattamento differenziato. In particolare, si osserva che:

  • L’attività del custode ha una natura continuativa e spesso si protrae nel tempo;

  • Il compenso del custode è definito come “indennità”, distinta dagli “onorari” previsti per gli altri ausiliari;

  • La disciplina vigente (in particolare l’art. 72) non contiene alcuna disposizione specifica in merito a un termine perentorio di richiesta.

Quale sarà la sorte dell’indennità del custode?

Sarà ora compito delle Sezioni Unite della Cassazione chiarire in modo definitivo se il custode giudiziario debba o meno presentare l’istanza di liquidazione entro il termine di 100 giorni dal termine del proprio incarico.

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giurista risponde

Danno da perdita del rapporto parentale patito dalle figlie Il danno morale patito dalle figlie per perdita della relazione parentale va riconosciuto anche in caso di mancata convivenza con il genitore?

Quesito con risposta a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa

 

L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, quest’ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur: in tal caso, grava sul convenuto l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo. (Cass., sez. III, 16 febbraio 2025, n. 3904  – Danno da perdita del rapporto parentale).

 Nel caso di specie, la Suprema Corte, a distanza di pochi anni da un suo precedente arresto, torna nuovamente a pronunciarsi sul tema del danno da perdita del rapporto parentale, con particolare riguardo all’incidenza che riveste la coabitazione e la vicinanza geografica fra il defunto, quale vittima primaria, e alcuni suoi familiari, come vittime secondarie o di riflesso.

Il caso sottoposto al vaglio dei giudici di merito, prima, e della Corte di legittimità, in sede di ricorso, concerne l’azione risarcitoria avanzata dagli attori avverso la struttura ospedaliera per il riconoscimento del danno derivante dalla definitiva deprivazione della relazione parentale, in seguito all’uccisione del rispettivo coniuge e padre.

Atteso il rigetto della domanda da parte del giudice di prime cure, veniva adita la Corte d’appello che, in parziale accoglimento del gravame, riconosceva esclusivamente in capo al coniuge il danno da sofferenza per morte del congiunto, rigettando l’analoga domanda delle figlie.

Le ragioni che hanno condotto ad escludere la rilevanza del legame con la vittima ai fini del diritto al risarcimento, riposerebbero nella lontananza dal de cuius e nella mancata allegazione del concreto atteggiarsi della relazione affettiva richiesta per i rapporti tra genitori e figli non conviventi.

Avverso il decisum, i soccombenti ricorrevano per Cassazione eccependo, quale unica doglianza, la violazione ed erronea interpretazione degli artt. 1123 e 2059 c.c., nonché violazione dei precetti costituzionali dedicati alla famiglia, ex art. 29, 30 e 31 Cost.

La Suprema Corte, disattendendo l’assunto confermato in appello, con un’argomentazione più succinta, ma non per questo reticente – tenuto conto dell’evidente rinvio ai precedenti sul punto – si sofferma sul tema del nesso intercorrente tra la cessazione della convivenza e le ricadute in termini probatori ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria.

Il collegio giudicante muove dalla premessa logico-giuridica che l’esistenza di un pregiudizio conseguente dalla perdita del rapporto parentale si presume allorquando il fatto colpisca i membri della c.d. “famiglia nucleare”, ossia quei soggetti legati da un matrimonio o da uno stretto vincolo di parentela.

Da siffatta circostanza ne consegue che l’evento uccisione di uno dei soggetti componenti la cellula minima familiare è idonea ex se a far presumere, a mente dell’art. 2727 c.c., una sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima.

Ma vi è di più.

L’enunciato principio di diritto, sostiene la Corte, non subisce alcuna torsione in ragione del fatto che vittima e superstite non convivessero né che fossero distanti, in quanto ciò non si riflette nella volontà di porre fine al forte, peculiare e duraturo legame affettivo; tuttalpiù, le citate circostanze assumono rilievo ai soli del giudizio di quantificazione del danno sofferto e, comunque, non sarebbero di per sé sole, foriere di un contesto relazionale compromesso.

Sullo sfondo della prospettiva accolta dalla Corte è possibile scrutare gli approdi di quel consolidato orientamento giurisprudenziale che, per un verso, non riconosce al venir meno della coabitazione alcun valore autonomo circa la produzione del danno non patrimoniale, e, per altro, non richiede l’elemento della convivenza fra la vittima primaria e secondaria per riconoscere il risarcimento del danno morale riflesso dall’uccisione di un parente.

Tale solco ermeneutico, prosegue la sentenza, oltre a costituire un caposaldo della granitica e costante giurisprudenza di legittimità, consente, al contempo, di destrutturare agevolmente le argomentazioni poste a fondamento della decisione oggetto del giudizio di legittimità.

Ne deve conseguire, il riconoscimento di un danno morale in capo ai superstiti, anche se non più conviventi con la vittima, nonché l’inversione della prova in capo al convenuto circa l’esistenza di un rapporto di indifferenza e di odio tra i medesimi soggetti.

Alla luce del summenzionato iter argomentativo e facendo buon governo dei precedenti pronunciamenti, la Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata rinviando, per l’effetto, la causa alla Corte d’Appello.

 

(*Contributo in tema di “Danno da perdita del rapporto parentale ”, a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

lavoro pesante

Il lavoro pesante non è mobbing La Cassazione chiarisce che la mole di lavoro, anche intensa, non costituisce mobbing se rientra nei doveri noti del lavoratore

Mole di lavoro e mobbing

Il lavoro pesante non è mobbing. Con l’ordinanza n. 14890/2025, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito che la gravosità delle mansioni assegnate a un lavoratore non integra automaticamente una condotta di mobbing o straining da parte del datore di lavoro, specialmente quando tali compiti rientrano nei doveri tipici della posizione ricoperta e sono noti al prestatore sin dall’instaurazione del rapporto.

Secondo i giudici di legittimità, è legittimo che un superiore imponga un’intensificazione dell’attività lavorativa se ciò è funzionale al perseguimento di obiettivi aziendali prefissati, a condizione che tale condotta non si traduca in atti persecutori, discriminatori o lesivi della dignità personale del dipendente.

Il potere direttivo non è di per sé abusivo

Nel caso esaminato, la Corte ha condiviso le conclusioni dei giudici di merito, che avevano rigettato le accuse di mobbing e straining mosse dal lavoratore. È stato affermato che l’organizzazione del lavoro, incluse le direttive impartite gerarchicamente, rientrava nell’alveo del potere organizzativo e direttivo del datore, esercitato in funzione dell’efficienza aziendale, senza intenti vessatori.

Tale orientamento conferma che il semplice disagio o affaticamento, anche significativo, non è sufficiente a integrare una condotta antigiuridica in assenza di specifici atti ritorsivi o di sistematica emarginazione.

L’onere della prova grava sul lavoratore

La Suprema Corte ha inoltre ribadito un principio cardine in materia di responsabilità datoriale: è il lavoratore che lamenta un danno alla salute a dover fornire la prova del pregiudizio subito, della nocività dell’ambiente di lavoro e del nesso causale tra tali elementi.

Solo al ricorrere di tale presupposto scatta in capo al datore l’obbligo di dimostrare di aver adottato tutte le misure prevenzionistiche idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Nel caso in oggetto, tuttavia, il dipendente si è limitato a dedurre genericamente la sussistenza di un ambiente stressogeno, senza allegare né documentare elementi concreti e specifici a sostegno delle proprie doglianze. Ciò ha comportato il rigetto delle sue istanze in tutte le sedi di giudizio.

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procura speciale e definizione accelerata

Procura speciale e definizione accelerata: chiarimenti delle SS.UU. Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono quando non è più necessaria la nuova procura speciale nei procedimenti di definizione accelerata, alla luce del correttivo Cartabia

La nuova linea sull’art. 380-bis c.p.c.

Procura speciale e definizione accelerata: con la sentenza n. 14986 del 4 giugno 2025, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno fatto chiarezza sull’ambito di applicazione dell’art. 380-bis c.p.c. come riformulato dal d.lgs. n. 164/2024 (cosiddetto “correttivo Cartabia”), stabilendo in quali casi non è più necessario allegare una nuova procura speciale in sede di istanza di decisione.

Quando si applica la nuova versione

Secondo la Suprema Corte, la nuova formulazione dell’art. 380-bis c.p.c. – che elimina l’obbligo di allegare una nuova procura speciale all’istanza di decisione – trova applicazione nei procedimenti in cui il termine per richiedere la decisione sia scaduto dopo il 26 novembre 2024, data di entrata in vigore del d.lgs. 164/2024.

La Cassazione chiarisce che la riforma è applicabile anche ai ricorsi notificati prima dell’1 gennaio 2023, purché non fosse stata ancora fissata l’adunanza camerale o l’udienza pubblica alla data di entrata in vigore della riforma.

Il principio tempus regit actum

Le Sezioni Unite richiamano il principio tempus regit actum, specificando che la riforma si applica agli atti processuali compiuti successivamente alla sua entrata in vigore. In tale contesto, l’atto rilevante è l’istanza di decisione: se presentata dopo il 26 novembre 2024, non è più necessario corredarla di una nuova procura speciale.

Nei procedimenti in cui, invece, il termine per l’istanza era già scaduto prima di quella data, l’assenza della procura speciale comporta l’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 391 c.p.c., trattandosi di un vizio processuale sopravvenuto.

Procura speciale e definizione accelerata: i casi anteriori

Nei ricorsi rientranti ancora nel regime previgente, la mancata allegazione della nuova procura speciale impedisce la prosecuzione del giudizio, poiché equivale alla mancanza di una rituale richiesta di decisione. In tali ipotesi, non si può ritenere che la causa sia stata definita in conformità alla proposta di manifesta inammissibilità, improcedibilità o infondatezza: l’estinzione dipende da un vizio autonomo, indipendente dal contenuto della proposta.