deprezzamento immobile

Deprezzamento immobile: indennizzo per casa vicino autostrada La Cassazione dà ragione ad una coppia che aveva fatto causa per ottenere l'indennizzo per il deprezzamento immobile causato dal rumore del traffico autostradale

Indennizzo per deprezzamento immobile

Il deprezzamento di un immobile causato dalle immissioni di rumore derivanti dal traffico autostradale può essere oggetto di risarcimento anche in assenza di esproprio del terreno o dell’edificio. La Cassazione, con l’ordinanza n. 631/2025, ha confermato il diritto di una coppia savonese a ricevere un indennizzo per la riduzione del valore del bene, commisurato all’indennità di esproprio, basandosi sulla normativa civilistica sulle immissioni.

Il caso in esame

Nella vicenda, sia in primo che in secondo grado, venivano accolte le doglianze della coppia tese ad ottenere un indennizzo per il deprezzamento dell’immobile a causa della vicinanza all’autostrada. Ritenendo intollerabili le immissioni di rumore che interessavano la proprietà degli appellanti ed atteso che le misure di mitigazione richieste, oltre a comportare enormi problemi tecnici di attuazione, non sarebbero risolutive, la Corte territoriale accoglieva parzialmente l’appello e condannava la società autostradale a risarcire il danno da deprezzamento dell’immobile quantificato per equivalente ai sensi dell’art. 2058, comma 2, c.c. in Euro 951.252,03, oltre alle spese di primo e secondo grado di giudizio.

La società adiva il Palazzaccio, assumendo che la normativa corretta da applicare fosse quella pubblicistica, sui limiti di accettabilità del rumore individuati dal D.P.R. 142/2004, richiamati e fatti propri dall’art. 6 ter della legge 27 febbraio 2009 n. 13 di conversione del decreto-legge 30 dicembre 2008 n. 208.

Immissioni acustiche

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, ribadendo il proprio orientamento consolidato. Invero, “in tema di immissioni acustiche (nella specie, come nel caso in esame, provenienti da circolazione stradale), viene in rilievo l’art. 844 c.c., che detta una regola concepita per risolvere i conflitti di interesse tra usi diversi di unità immobiliari contigue qualora le immissioni superino la normale tollerabilità e che, solo in caso di svolgimento di attività produttive, consente l’elevazione della soglia di tollerabilità, sempre che non venga in gioco il diritto fondamentale alla salute, da considerarsi valore comunque prevalente rispetto a qualsiasi esigenza della produzione, in quanto funzionale al diritto ad una normale qualità della vita (Cass. Sez. 1, 12/07/2016 n. 14180; in senso conforme, Cass Sez. 2, n. 35856 del 2017)”.

Più volte la Cassazione si occupata della materia delle immissioni sonore provocate dal traffico veicolare o comunque da attività connesse ai trasporti o alla produzione ed è sempre pervenuta alla conclusione che “in tema di immissioni acustiche, la differenziazione tra tutela civilistica e tutela amministrativa mantiene la sua attualità, diversità di tutele a cui non può aprioristicamente attribuirsi una portata derogatoria e limitativa dell’art. 844 c.c., con l’effetto di escludere l’accertamento in concreto del superamento del limite della normale tollerabilità, dovendo comunque ritenersi prevalente, alla luce di interpretazione costituzionalmente orientata, il soddisfacimento una dell’interesse ad una normale qualità della vita rispetto alle esigenze della produzione (cfr. tra tante, Cass. Sez. 3, 7/10/2016 n. 20198; Cass. Sez. 3, 16/10/2015 n. 20927)”.

La decisione

La Corte d’appello di Genova, per piazza Cavour, si è attenuta puntualmente ai principi di diritto sopra enunciati, avendo ritenuto non dirimente l’osservanza delle normative tecniche speciali, avendo accertato, nella specie, il superamento dei parametri secondo il criterio del c.d. “differenziale comparativo”, di cui alla disciplina “generale” dettata dall’art. 4, comma 1, del DPCM 14 novembre 1997 e concluso per l’intollerabilità delle immissioni che interessano la proprietà de qua.

In conclusione, il ricorso della società è rigettato.

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violenza sessuale

Violenza sessuale anche senza contatto fisico Violenza sessuale: per integrare il reato è sufficiente la costrizione, non occorre il contatto fisico tra reo e persona offesa

Violenza sessuale: non occorre il contatto fisico

La violenza sessuale si configura anche senza contatto fisico. L’agente lede l’autodeterminazione della vittima con violenza, minaccia o induzione. La costrizione o l’induzione a subire atti sessuali, può avvenire anche senza contatto fisico diretto. Lo ha specificato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5688/2025.

Reato “costringere” la collega ad atti di autoerotismo

Il Tribunale di primo grado ritiene un soggetto responsabile di diversi illeciti penali ai danni della persona offesa. Tra questi figurano il reato di atti persecutori, estorsione e violenza sessuale. Quest’ultimo reato si sarebbe configurato perché l’imputato avrebbe costretto la sua collega, un’animatrice turistica, a compiere atti di autoerotismo ripresi in un video che l’uomo avrebbe poi diffuso.

Non c’è reato se manca il contatto fisico

L’imputato nel contestare il reato di violenza sessuale, rileva la totale assenza di un contatto fisico con la persona offesa. A sua difesa l’uomo invoca l’interpretazione più restrittiva della nozione di violenza sessuale per la quale “la nozione di atti sessuali racchiude in sé i concetti di congiunzione carnale e quella di atti di libidine.”

Violenza sessuale: costrizione della libertà sessuale

La Cassazione nel rigettare il ricorso dell’imputato fornisce alcune importanti precisazioni sul reato di cui all’art. 609 bis c.p. La violenza sessuale non implica necessariamente un contatto fisico tra l’aggressore e la vittima. Essa si verifica quando l’aggressore compromette la capacità della vittima di autodeterminarsi, costringendola o persuadendola a eseguire o subire azioni sessuali.

La giurisprudenza sottolinea che il contatto fisico non è un requisito essenziale per la configurazione del reato. Ciò che conta è il coinvolgimento fisico della vittima, obbligata o indotta a partecipare o subire atti sessuali contro la sua volontà.La protezione della libertà sessuale individuale è l’interesse giuridico in questione. La violenza si manifesta attraverso qualsiasi atto che comprometta questa libertà, sia esso caratterizzato da un contatto diretto fisico oppure no.

L’aspetto psicologico del reato risiede nella consapevolezza e volontà di compiere un atto che invade e danneggia la libertà sessuale della vittima. Non è necessario che l’aggressore agisca con lo scopo di soddisfare i propri desideri sessuali; possono esserci diversi obiettivi, come la violenza fisica, l’umiliazione morale o il disprezzo pubblico.

La minaccia di divulgare immagini intime, ad esempio, può configurare il reato di violenza sessuale se si costringe la vittima a eseguire atti di autoerotismo. In questo caso, la libertà sessuale della vittima risulta violata, indipendentemente dalla presenza fisica o virtuale dell’aggressore.

La definizione di “atto sessuale” è oggettiva e non dipende dalle intenzioni dell’aggressore. È sufficiente che l’atto sia oggettivamente in grado di compromettere la libertà sessuale della vittima.

 

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giurista risponde

Furto di energia elettrica e aggravante (art. 625, comma 1, n. 7, c.p.) È legittima la contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p. al soggetto che, al fine di procurarsi un profitto e soddisfare il proprio fabbisogno elettrico, si impossessi di energia elettrica sottraendola dalla società fornitrice Servizio Elettrico Nazionale?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez

 

 

In tema di furto di energia elettrica, può ritenersi legittimamente contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7, c.p., in quanto l’energia elettrica, su cui ricade la condotta di sottrazione, è un bene funzionalmente destinato a un pubblico servizio, essendo idoneo a raggiungere le utenze terminali di un numero indeterminato di persone e a soddisfare un’esigenza di rilevanza pubblica (Cass., sez. IV, 31 ottobre 2024, n. 40161).

La Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a valutare i confini e i limiti applicativi della circostanza aggravante del furto commesso su cose destinate a pubblico servizio. Ad un maggior grado di dettaglio, ai giudici di legittimità viene domandato se l’energia elettrica, oggetto di sottrazione e impossessamento, rappresenti un bene destinato a pubblico servizio.

I fatti di causa possono essere riassunti come segue. I giudici di merito non avevano riconosciuto l’aggravante in commento, sulla scorta dell’argomentazione che l’imputato si era limitato ad ottenere – con l’uso della fraudolenta esclusione della registrazione del consumo – l’illecito fine di usufruire dell’energia senza pagarne il prezzo. Non vi sarebbe, pertanto, pregiudizio per il servizio pubblico cui la risorsa è destinata in quanto detta condotta incide solo sul rapporto contrattuale tra utente e società distributrice della fornitura. Ne derivava la pronuncia ex art. 129 c.p.p. di non doversi procedere per mancanza di querela in relazione al delitto previsto e punito dagli artt. 624 e 625, comma 2, n. 1 c.p.

Avverso la sentenza proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica per violazione di legge. Si deduceva, quindi, la sussistenza dell’aggravante in parola poiché l’allacciamento abusivo ai terminali collocati in una proprietà privata risultava incidente sulla destinazione della cosa al pubblico servizio. Il precipitato della contestazione dell’aggravante è rappresentato dalla procedibilità di ufficio del delitto, anche in seguito alla modifica apportata dall’art. 2 del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”.

I giudici di legittimità rammentano la nozione di destinazione a pubblico servizio: questa non è data dalla fruizione pubblica del bene, bensì dalla qualità del servizio che viene organizzato anche attraverso la destinazione di risorse umane e materiali, e che viene destinato alla soddisfazione di un bisogno riferibile alla generalità dei consociati (Cass. 3 dicembre 2013, n. 698). La Corte, inoltre, ricorda come a fianco di una lettura soggettiva del concetto di servizio pubblico, si staglia una lettura oggettiva che riconosce rilevanza alle prestazioni dei servizi pubblici non in ragione del soggetto che ne assicura la fornitura quanto delle caratteristiche oggettive delle prestazioni erogate in considerazione del numero indeterminato dei destinatari che ne traggono giovamento.

Da tali considerazioni consegue che la destinazione del bene-energia, oggetto di furto, a pubblico servizio, legittima la punizione più severa dell’azione ablativa dell’agente in quanto pertinente ad un bene che, per volontà del proprietario, ovvero per la qualità ad essa inerente, serve ad un uso di pubblico vantaggio. Dalla corretta applicazione della circostanza aggravante di cui al comma settimo dell’art. 625 c.p. deriva la procedibilità d’ufficio del reato ascritto.

Per tali motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla Pubblica Accusa, al quale consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza cassata e la trasmissione degli atti al Tribunale competente per l’ulteriore corso del processo.

 

(*Contributo in tema di “Furto di energia elettrica e circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7, c.p.”, a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

responsabilità medica

Responsabilità medica: niente risarcimento per il nato “non sano” Responsabilità medica: il nato con malformazioni non ha diritto al risarcimento, non esiste il diritto a “non nascere” se non sano

Nessun risarcimento per il nato disabile

In materia di responsabilità medica la Cassazione, nell’ordinanza n. 3502/2025 ribadisce un principio già sancito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 25767/2015. Non è possibile riconoscere un pregiudizio di tipo biologico o alla vita di relazione al figlio nato con delle malformazioni. L’ordinamento non contempla “il diritto a non nascere se non sano” né la vita del nato può essere considerata un danno conseguenza della condotta illecita del medico.

Risarcimento del danno da nascita indesiderata

Due genitori agiscono in giudizio per conto del figlio minorenne contro una Azienda Sanitaria Locale, il medico e le sue eredi e una Compagnia di assicurazione per la manleva. I ricorrenti chiedono il risarcimento dei danni causati dal condotta negligente e inadeguata del medico. Il sanitario infatti, non rilevando le gravi malformazioni congenite del nascituro presentava, non ha consentito alla madre, se adeguatamente informata, di valutare l’interruzione di gravidanza. Il medico con la sua condotta ha cagionato al neonato il danno da nascita indesiderata e  la lesione del diritto a nascere sano.

Diritto del nascituro a una vita senza limitazioni

Il giudice di prime cure ritiene il sanitario responsabile nei confronti dei genitori del nato, ma ritiene insussistente un danno da nascita indesiderata in capo al figlio. La Corte di appello conferma la decisione. Da qui il ricorso in Cassazione, per contestare il riconoscimento ai soli genitori del diritto al risarcimento per il danno causato dal mancato rilievo delle gravi malformazioni. Il nascituro infatti ha il diritto di godere di una vita senza limitazioni. Da questa considerazione la richiesta risarcitoria del figlio in considerazione delle precarie condizioni di vita che è costretto a vivere e tanto, non solo in riferimento alla situazione lavorativa, ma anche in riferimento al normale andamento dei rapporti familiari e sociali”. 

Responsabilità medica: diritto a non nascere se non sano

Per la Cassazione però il ricorso è inammissibile in quanto “è stata esclusa in via generale la possibilità di riconoscere un pregiudizio biologico e relazionale in capo al figlio, essendo per lui l’alternativa quella di non nascere, inconfigurabile come diritto in sé, neppure sotto il profilo dell’interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo.”

La giurisprudenza di legittimità ha già sancito che “il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno consistente nella sua stessa condizione, giacché lordinamento non conosce il diritto a non nascere se non sano”, né la vita del nato può integrare un danno-conseguenza dellillecito del medico.” Di recente la Cassazione ha osservato che: la ragione di danno da valutare sotto il profilo dell’inserimento del nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo» rivela sostanzialmente quale mero «mimetismo verbale del c.d. diritto a non nascere se non sani», andando pertanto «incontro alla . . . obiezione dell’incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con lunica alternativa ipotizzabile, rappresentata dall’interruzione della gravidanza» non essendo d’altro canto possibile stabilire un «nesso causale» tra la condotta colposa del medico e le «sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita.”

 

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mae

MAE: la protezione internazionale non è un ostacolo assoluto Il riconoscimento della protezione internazionale da parte di uno Stato membro dell’Unione europea non impedisce la consegna del cittadino straniero a un altro Stato membro che abbia emesso un regolare mandato d’arresto europeo

Mae e protezione internazionale

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 5793/2025, ha stabilito un principio di rilievo in materia di mandato d’arresto europeo (MAE) e protezione internazionale. Secondo i giudici di legittimità, il riconoscimento della protezione internazionale da parte di uno Stato membro dell’Unione europea non impedisce la consegna del cittadino straniero a un altro Stato membro che abbia emesso un regolare mandato d’arresto europeo.

Il caso esaminato dalla Cassazione

La vicenda trae origine dalla richiesta di consegna da parte della procura di Salonicco (Grecia) di un cittadino straniero residente in Italia, sulla base di un mandato d’arresto europeo emesso per il reato di tentato furto. L’uomo, tuttavia, aveva ottenuto in Italia lo status di rifugiato richiedente asilo politico e lavorava in Italia come aiuto cuoco. Da qui il ricorso al Palazzaccio, dove la difesa lamentava che la Corte di appello aveva negato lo status di rifugiato benchè dal permesso di soggiorno risultasse la richiesta di asilo politico. Inoltre, rappresentava che poichè l’uomo risiedeva e lavorava in Italia sussistevano “le ragioni per opporre il motivo di rifiuto facoltativo della consegna” per il suo interesse a che la pena fosse eseguita in Italia.

Protezione internazionale e MAE

La Cassazione, con la sentenza in esame, ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato.

A prescindere dalla carenza o meno della prova dello stato di rifugiato richiedente asilo politico deve rammentarsi, osservano i giudici, “che essendo il mandato d’arresto europeo un meccanismo di consegna che esplica i suoi effetti unicamente all’interno dell’area territoriale propria dell’Unione, il riconoscimento del diritto di protezione sussidiaria da parte dello Stato italiano non costituisce causa ostativa alla consegna ad altro paese dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 2 della legge 22 aprile 2005, n. 69”.

Non refoulement

Invero, “il rilievo che il consegnando non potrebbe fruire delle stesse garanzie costituzionali in tema di asilo è palesemente infondato, atteso che, da un lato, l’art. 33 della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati sancisce che il principio del ‘non refoulement’ riguarda soltanto i territori in cui la vita o la libertà del soggetto sarebbero minacciate a motivo della razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale, opinioni politiche, e, dall’altro, lo status di asilo o di protezione internazionale attribuito nell’ambito dell’Unione europea ha natura uniforme ed è valido in tutti gli Stati Membri (Sez. 6, n. 9821 del 10/03/2021)”.

MAE: presupposti del rifiuto

Quanto al motivo di rifiuto correlato alla residenza la S.C. rileva l’assoluta genericità della doglianza atteso che alcun documento è stato sottoposto alla Corte di appello a dimostrazione del radicamento nel quinquennio nel territorio nazionale.
Al riguardo, osservano da piazza Cavour “che anche dopo la modifica dell’art. 18-bis per effetto del d.l. 13 giugno 2023 n. 69, convertito con modificazioni nella legge 10 agosto 2023 n. 103, in vigore dal 1 agosto 2023, il presupposto del motivo di rifiuto in esame, quanto alla durata minima della presenza stabile nel territorio nazionale, è rimasto immutato. La modifica ha riguardato, invero, solo l’ambito dei soggetti interessati, non più limitato al cittadino italiano o al cittadino di altro Stato membro, ma esteso a qualunque persona (senza attributo alcuno di cittadinanza) che legittimamente ed effettivamente risieda o dimori in via continuativa da almeno cinque anni sul territorio italiano, sempre che al Corte stessa disponga l’esecuzione in Italia della pena o della misura di sicurezza per cui la consegna viene richiesta conformemente al diritto interno”.
In altri termini, “solo se la presenza sul territorio nazionale presenti i caratteri della stabilità e della durata non inferiore a cinque anni richiesti dal comma 2, sorge la necessità di giustificare il mancato esercizio della facoltà di avvalersi del motivo di rifiuto sulla base degli ulteriori indici specificati nel comma 2-bis cit.”.

Da qui l’inammissibilità del ricorso.

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Nessun mantenimento alla ex se non cerca lavoro Mantenimento alla ex: non è dovuto l’assegno alla moglie che, per età e capacità, può mantenersi da sola ma non si attiva per cercare lavoro

Assegno di mantenimento alla ex

La Cassazione, con l’ordinanza n. 3354/2025, ha deciso che l’assegno di mantenimento alla ex è dovuto se dimostra di aver cercato attivamente lavoro senza successo. La capacità lavorativa è un criterio essenziale per determinare il diritto all’assegno. È responsabilità del richiedente fornire prove di un’infruttuosa ricerca occupazionale. L’assegno, previsto dall’articolo 156 del codice civile, difende la solidarietà coniugale ma non copre ciò che il coniuge potrebbe ottenere autonomamente. Nel caso specifico, la richiesta della ex moglie è stata respinta poiché non ha dimostrato di aver cercato lavoro e ha rifiutato ingiustificatamente un’offerta.

Mantenimento post-separazione: art. 156 c.c.

Il Tribunale si esprime in prima istanza sulla separazione personale di due coniugi. Il marito contesta la decisione, chiedendo che la colpa della separazione venga attribuita alla moglie e che la richiesta di mantenimento venga respinta. La moglie non ha infatti soddisfatto le condizioni dell’articolo 156 c.c., che richiedono l’assenza di redditi adeguati. In giudizio, la moglie chiede il rigetto delle richieste del marito e che un terzo creditore del coniuge le paghi le somme dovute come mantenimento.

Mantenimento negato senza ricerca attiva

La Corte rigetta invece le richieste della moglie, accogliendo parzialmente quelle del marito. L’indagine istruttoria non permette alla Corte di stabilire se la fine del matrimonio sia attribuibile a uno o entrambi i coniugi. Tuttavia, riguardo al mantenimento richiesto dalla moglie, esso viene negato poiché ha rifiutato un’offerta lavorativa senza giustificazioni e non ha cercato attivamente lavoro. La donna si è limitata a inviare un curriculum a una banca, lamentando difficoltà nel trovare occupazione per mancanza di un mezzo proprio. Secondo la Corte l’assegno non è dovuto data la giovane età della richiedente, la breve durata del matrimonio e l’assenza di figli. L’assegno mensile di 250 euro decretato dal Tribunale non è giustificabile poiché non è stato neanche dimostrato il tenore di vita durante il matrimonio durato solo quattro anni.

Differenze economiche e difficoltà lavorative

La parte soccombente ricorre in Cassazione sottolineando che il marito possiede un notevole patrimonio immobiliare e un reddito adeguato mentre lei  durante il matrimonio si occupava della casa e della famiglia. Tra i due esisteva una significativa disparità economica e patrimoniale; inoltre va considerata la sua difficoltà nel trovare lavoro in Calabria, regione nota per problemi occupazionali.

Mantenimento alla ex escluso se capace di lavorare

La Cassazione però rigetta il ricorso sottolineando il mancato sforzo nella ricerca lavorativa da parte della moglie. Gli Ermellini ribadiscono che in tema di separazione dei coniugi, spetta al richiedente dimostrare lattivazione sul mercato del lavoro compatibile con le proprie capacità professionali in assenza di adeguati redditi propri. L’assegno previsto dall’articolo 156 c.c., pur esprimendo un dovere solidaristico, non può comprendere ciò che ordinariamente ci si può procurare autonomamente.

Per la Cassazione quindi le differenze reddituali non sono rilevanti se manca la prova della ricerca attiva di impiego; nel caso specifico è stato provato semmai il rifiuto ingiustificato dell’offerta lavorativa proposta.

 

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Licenziamento disciplinare: valide le giustificazioni inviate entro 5 giorni La Cassazione chiarisce che in caso di licenziamento disciplinare il termine dei 5 giorni si riferisce all’invio delle giustificazioni

Licenziamento disciplinare e giustificazioni lavoratore

In tema di licenziamento disciplinare, sono da considerarsi valide le giustificazioni trasmesse dal lavoratore entro 5 giorni. Il termine di decadenza, infatti, è relativo al momento dell’invio e non a quello della ricezione delle giustificazioni stesse da parte del datore di lavoro. Non solo. Il datore di lavoro non può adottare provvedimenti disciplinari senza previa audizione del lavoratore. Questi i principi che si ricavano dall’ordinanza n. 2066/2025 della sezione lavoro della Cassazione.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello confermava la misura del licenziamento per giusta causa comminata a un lavoratore a seguito di contestazione disciplinare.

L’uomo adiva il Palazzaccio lamentando, tra l’altro, che la Corte territoriale, condividendo quanto già considerato in primo grado, aveva ritenuto tardive le giustificazioni da lui rese all’azienda a mezzo pec.

La decisione

La Cassazione ritiene la doglianza fondata, citando sia la prescrizione normativa di cui all’art. 7 comma 2 dello Statuto dei Lavoratori che l’art. 8 del CCNL Metalmeccanica aziende industriali.

Inoltre, osservano i giudici di piazza Cavour, è stato giò affermato che “il dato letterale del secondo comma, ove si fa riferimento alla presentazione delle giustificazioni e non anche alla ricezione delle stesse da parte datoriale, è sufficientemente chiaro, orientando l’attività ermeneutica nel senso di attribuire alle parti sociali l’intento di riferire il termine di decadenza per l’esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, al momento dell’invio delle giustificazioni e non della ricezione delle medesime da parte del datore di lavoro, non potendo prospettarsi ragionevoli dubbi sull’effettiva portata del significato della clausola” (cfr. Cass. n. 32607/2018; n. 12360/2014).

Vertendosi in tema di decadenza, secondo i principi enunciati in sede di legittimità (cfr. in termini Cass. Sez. Un. 14/4/2010 n. 8830; Cass. 24/3/2011 n. 6757), inoltre, “l’effetto impeditivo di esse va collegato al compimento da parte del soggetto, unicamente dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio – idoneo a garantire un adeguato affidamento – sottratto alla sua ingerenza, in ragione di un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti (vedi Cass. 16/7/2018 n. 18823)”. Per cui, “il termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito, prima della cui scadenza è preclusa, ai sensi dell’art. 7, quinto comma, della legge n. 300 del 1970, la possibilità di irrogazione della sanzione disciplinare, è chiaramente funzionale ad esigenze di tutela dell’incolpato (Cass. S.U. 7/5/2003 n. 6900)”.

Più di recente, infine affermano gli Ermellini, cassando la sentenza con rinvio, è stato ribadito li principio di diritto “secondo cui il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato che, nel termine di cui all’art. 7, comma 5, st. lav., ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione di giustificazioni scritte, anche se queste appaiano di per sé ampie ed esaustive” (cfr. Cass. n. 12272/2023).

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malversazione a danno

Malversazione a danno dello Stato Il reato di malversazione a danno dello Stato: normativa, caratteristiche, aspetti procedurali e giurisprudenza

Malversazione a danno dello Stato: in cosa consiste

Il reato di malversazione a danno dello Stato è previsto e punito dall’art. 316-bis del codice penale italiano. Questo reato si configura quando un soggetto, avendo ricevuto contributi, sovvenzioni o finanziamenti pubblici, utilizza tali risorse per scopi diversi da quelli per cui erano stati concessi. Si tratta di un illecito che mira a tutelare l’integrità e la corretta destinazione delle risorse pubbliche.

Quando viene integrato il reato di malversazione?

Il reato si integra quando:

  1. Erogazione di fondi pubblici: il soggetto riceve contributi, sovvenzioni o finanziamenti da parte dello Stato o di altri enti pubblici;
  2. Destinazione illecita: le risorse ricevute vengono utilizzate per finalità diverse da quelle previste dai bandi o dai contratti di concessione;
  3. Assenza di restituzione: il mancato utilizzo conforme delle somme non è accompagnato dalla restituzione dei fondi.

Non è necessario che il comportamento abbia causato un danno economico all’amministrazione pubblica; è sufficiente l’uso difforme rispetto alle finalità stabilite.

Come viene punita la malversazione

L’art. 316-bis c.p. prevede la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni per chiunque commetta il reato. La pena può variare in base alla gravità del fatto e alla quantità di risorse indebitamente utilizzate. In alcuni casi, possono essere applicate pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici.

Aspetti procedurali del reato di malversazione

  • Competenza: la competenza per il giudizio è generalmente del tribunale ordinario.
  • Indagini preliminari: le indagini sono condotte dalla Procura della Repubblica, con il supporto della Guardia di Finanza per le verifiche contabili.
  • Prescrizione: il reato di malversazione si prescrive in sei anni, salvo interruzioni dovute a atti processuali.
  • Restituzione e attenuanti: la restituzione spontanea delle somme può costituire una circostanza attenuante, riducendo la pena.

Giurisprudenza malversazione

La giurisprudenza italiana ha fornito chiarimenti importanti sull’applicazione dell’art. 316-bis c.p.:

Cassazione n. 3770/2025: “con il decreto-legge 25 febbraio n. 2022, n. 13, (c.d. decreto frodi) convertito nella L. n.25/22 sono state introdotte alcune modifiche alla formulazione letterale dell’art. 316-bis cod. pen.:

  • le parole «a danno dello Stato» sono sostituite dalle seguenti: «di erogazioni pubbliche»;
  • al primo comma, le parole da «o finanziamenti» a «finalità» sono sostituite dalle seguenti: «, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, destinati alla realizzazione di una o più finalità, non li destina alle finalità previste».

La nuova previsione normativa ricomprende anche il tipo di finanziamento ottenuto dall’imputato che, pur provenendo da un istituto bancario privato, era stato erogato in forza non di una valutazione del merito del credito, ma della verifica dei presupposti della convenzione intercorsa con lo Stato, di cui il soggetto privato opera come longa manus.”

Cassazione n. 11732/2024: Il delitto di malversazione ex art. 316-bis c.p. si perfeziona al momento della scadenza del termine essenziale previsto dal contratto per la realizzazione dell’opera o del servizio per cui i fondi sono stati erogati. Tuttavia, può consumarsi anche prima, qualora risulti impossibile destinare le risorse alla finalità pubblica prevista, ad esempio a causa della violazione di vincoli o condizioni ulteriori, la cui inosservanza comprometta irrimediabilmente la tutela garantita dalla norma.

Cassazione n. 23927/2023: il reato di malversazione di erogazioni pubbliche consiste nell’omessa destinazione delle somme ricevute agli scopi previsti, distinguendosi così dalla truffa aggravata, che si configura quando l’ottenimento dei fondi avviene inducendo in errore l’ente erogatore mediante artifici o raggiri.

 

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giurista risponde

Peculato d’uso: configurabilità Può considerarsi integrata la fattispecie di peculato in caso di utilizzo, da parte del pubblico funzionario, di un bene del quale abbia la disponibilità per ragione del suo ruolo, qualora ciò avvenga per un interesse privato ma senza che venga distolta dalla sua destinazione istituzionale?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez

 

Il delitto di peculato non sussiste quando l’uso concomitante della cosa per finalità private ed istituzionali non determini un apprezzabile pregiudizio economico o funzionale per l’amministrazione (Cass., sez. VI, 28 ottobre 2024, n. 39546).

La Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito alla corretta configurabilità del delitto di cui all’art. 314, comma 2, c.p.

Il ricorrente, assolto in primo grado per insussistenza dei reati ascrittogli e condannato in secondo grado, denuncia l’assenza di motivazione rafforzata in punto di elemento oggettivo e soggettivo del reato, nonché il vizio di motivazione in punto di offensività delle condotte.

Secondo quanto prospettato dalla difesa, in primis le automobili utilizzate non erano mai state distolte dalla loro destinazione istituzionale e, quindi, sottratte alla sfera di dominio dell’ente pubblico a cui, peraltro, non è stato arrecato alcun pregiudizio, né un danno economico. In secondo luogo, quanto alla natura dolosa della condotta, non è riscontrabile alcuna volontà di appropriarsi di un bene dell’Amministrazione, sicché si tratterebbe di un mero errore sul fatto costituente reato e non di errore su legge extra penale che, in quanto tale, è inescusabile.

I giudici della Sesta Sezione, nell’accogliere il ricorso, hanno ribadito i principi dettati dalla Sezioni Unite in tema di peculato. L’art. 314, c.p. tutela tanto il patrimonio della P.A., quanto l’interesse alla legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, per cui il reato è configurabile tutte le volte in cui tale interesse sia leso pur in assenza di un danno patrimoniale (Cass. 25 giugno 2019, n. 38691 e Cass. 20 dicembre 2012, n. 19054). Il disvalore del peculato deve essere ravvisato nell’abuso del possesso della cosa. Precisamente, la fattispecie in esame si ritiene sussistente quando il pubblico funzionario sfrutti la disponibilità della cosa e la distolga dal suo scopo istituzionale e questo può accadere anche in assenza di un pregiudizio economico per l’ente pubblico.

Chiarita la ratio della norma incriminatrice, i giudici di legittimità hanno escluso che l’uso concomitante della cosa per finalità private ed istituzionali costituisca peculato, almeno nella misura in cui non determini un apprezzabile pregiudizio economico o funzionale per l’amministrazione.

Alla luce di questi principi, la Corte ha assolto l’imputato del reato contestatogli.

 

(*Contributo in tema di “Peculato d’uso”, a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

pensione di invalidità

Pensione di invalidità, la Cassazione chiarisce quando spetta Pensione di invalidità: la Suprema Corte stabilisce che è legittimo il riconoscimento del beneficio anche quando il soggetto è impedito a compiere i gesti quotidiani della vita

Pensione di invalidità: i chiarimenti della Cassazione

La sezione lavoro della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2744/2025, ha fornito un’importante precisazione in tema di pensione di invalidità, stabilendo che è legittimo il riconoscimento del beneficio quando il soggetto è impedito a compiere i gesti quotidiani della vita.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Rovereto, all’esito di opposizione ad ATP accertava il diritto di una bambina all’indennità di accompagnamento per minorenni ex articolo 3 comma 1 legge provincia 7 del 1998, revocata all’esito di revisione amministrativa, e condannava la Provincia a pagare la prestazione nonché l’Azienda Pubblica Servizi Sanitari a riconoscere “ogni indennità erogazione o privilegio o servizio” consequenziali a detta invalidità.
Avverso tale sentenza ricorreva APSS deducendo, tra l’altro, violazione dell’articolo 2 legge 118 del 1971 e 3 legge provincia 7 del 1998, per avere la Corte territoriale trascurato che la c.t.u. richiamata non solo era relativa ad altro giudizio, ma riguardava solo la frequenza, e per avere ritenuto rilevante la mera difficoltà da parte della minore a compiere gli atti quotidiani, laddove occorreva invece l’impossibilità di compiere i detti atti quotidiani.

Il principio sancito dalla Cassazione

Per la S.C., la doglianza è infondata in quanto “il giudice – quale peritus peritorum che, in quanto tale, per la soluzione di questioni di natura tecnica o scientifica, non ha alcun obbligo di nominare un consulente d’ufficio, potendo ricorrere alle conoscenze specialistiche acquisite
direttamente attraverso studi o ricerche personali, e ben può invece, esaminando direttamente la documentazione su cui si basa la relazione del consulente tecnico, disattenderne le
argomentazioni, in quanto sorrette da motivazioni contraddittorie, o sostituirle con proprie diverse, tratte da personali cognizioni tecniche”.

Per altro verso, sentenziano gli Ermellini, le considerazioni tecniche dell’altra c.t.u. sono state calate in concreto dalla Corte nella situazione specifica della bambina, portatrice, nel caso di specie, “non di una mera difficoltà ma di una vera e propria impossibilità di compiere gli atti quotidiani senza assistenza. La Corte espressamente dice che le patologie “incidono su aspetti essenziali della vita sociale della persona e determinano ripercussioni talmente gravi
sulla stessa e sui suoi familiari da far ritenere integrate le condizioni per il riconoscimento della prestazione richiesta”.
Tale valutazione, “peraltro sindacabile in sede di legittimità solo entro ristretti limiti – per i giudici – è del tutto da condividere, per l’importanza della funzione che veniva in questione”. Per cui il ricorso è rigettato.

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