valida la notifica

Valida la notifica effettuata alla moglie anzichè al difensore Per la Cassazione è valida la notifica effettuata alla moglie convivente anzichè al domicilio eletto perchè garantisce la conoscenza dell'atto

Notifica valida alla moglie convivente

È ritenuta valida la notifica effettuata alla moglie convivente della persona offesa, anche se non eseguita presso il domicilio eletto del difensore, giacché idonea a garantire la conoscenza dell’atto. Lo ha affermato la sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 12445/2025.

Il caso

Nella vicenda, il Tribunale di Nola, all’udienza dibattimentale del processo a carico di un imputato per i reati di cui agli artt. 570 e 570-bis cod. pen., dichiarava la nullità, ex art. 178, lett. c) c.p.p., del decreto di citazione emesso dal giudice dell’udienza predibattimentale. In particolare, dal verbale dell’udienza risultava che la difesa della persona offesa aveva eccepito l’omessa notifica del decreto che disponeva il giudizio (la persona l’aveva ricevuta a mani proprie, ma in sede di querela aveva nominato il difensore di fiducia), chiedendo la remissione in termini per la costituzione di parte civile.
lI Tribunale, nel dichiarare la nullità del decreto, riteneva di qualificarsi quale giudice predibattimentale e disponeva la rinnovazione delle notificazioni rinviando l’udienza.

Il ricorso

Avverso la suddetta ordinanza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, denunciando l’abnormità del provvedimento e lamentando che erroneamente il tribunale aveva ritenuto la notifica alla persona offesa non
valida, nonostante la consegna a mani proprie e contrariamente alla giurisprudenza di legittimità sul punto. Pertanto, correttamente il giudice dell’udienza predibattimentale aveva ritenuto regolare la costituzione delle parti fissando la prosecuzione del giudizio alla fase dibattimentale. Mentre, il Tribunale dichiarando nullo il provvedimento di prosecuzione del giudizio e autodesignandosi giudice dell’udienza predibattimentale, aveva determinato una indebita regressione del procedimento.

Per la S.C., il ricorso è fondato.

Notifica alla moglie convivente

Va premesso, affermano i giudici, che non dava luogo ad alcuna nullità la notificazione “a mani” della persona offesa, anziché al domicilio legale. Si è infatti affermato “che è nullo, per violazione del diritto al contraddittorio, il decreto di archiviazione nel caso in cui l’avviso della richiesta avanzata dal pm sia stato notificato alla persona offesa, che ha chiesto di essere informata, presso la sua residenza per compiuta giacenza, nonostante abbia nominato un difensore di fiducia, perché, in tal caso, il domicilio si intende eletto presso il difensore stesso a meno che la notifica sia eseguita a mani di persona convivente (cfr. Cass. n. 15521/2019)”. Inoltre, “la notifica effettuata a mani della moglie convivente della persona offesa, anziché presso il difensore, è valida in quanto idonea a garantire la conoscenza dell’atto”. L’art. 33 disp. att. c.p.p. infatti “ha lo scopo di soddisfare esigenze di speditezza e di economia processuale e non di creare un assetto di garanzie a tutela della persona offesa di più ampio spessore rispetto a quello previsto per l’imputato, in conformità al principio generale per il quale alla certezza legale è equiparata la certezza storica (cfr. Cass. n. 10718/2016)”.

La decisione

Nella specie, osservano dalla S.C., il Tribunale poteva rilevare l’eventuale nullità della notificazione del decreto di citazione alla persona offesa, trattandosi di nullità a regime intermedio ex art. 180 c.p.p. e disporre la restituzione degli atti al giudice dell’udienza predibattimentale”.
L’art. 554-bis c.p.p. prevede infatti che spetti al Giudice dell’udienza predibattimentale disporre la rinnovazione delle notificazioni dichiarate nulle.
L’abnormità, ragionano da piazza Cavour, “piuttosto risiede nel fatto che il giudice del dibattimento si sia arbitrariamente investito della trattazione della fase predibattimentale (che in base all’art. 554-ter c.p.p. va trattata da un giudice diverso rispetto a quello dell’udienza dibattimentale)”.
Ne consegue che l’ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio con la trasmissione degli atti al Tribunale di Nola per il giudizio in sede di udienza predibattimentale.

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giurista risponde

Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico Nella liquidazione del danno non patrimoniale, il danno morale costituisce una duplicazione del danno biologico?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto, modificativo in pejus, con la vita quotidiana (il danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (Cass., sez. III, 14 novembre 2024, n. 30461).

Il giudizio di merito trae origine da un’azione di risarcimento danni intentata iure proprio e altresì come rappresentante legale della persona offesa dalla coniuge di un uomo rimasto invalido al 90% a seguito di una caduta su scala mobile interna ad una clinica ospedaliera, in cui si era recato a seguito di un malore e da cui era stato dimesso dopo esservisi recato per due giorni consecutivi. Il giudice di prime cure ha riconosciuto la responsabilità concorrente dei medici che hanno dimesso il paziente e della clinica, decisione altresì confermata dalla Corte di Appello in sede di impugnazione, la quale ha tuttavia ridotto l’ammontare del danno in ragione della sopravvenuta morte del danneggiato.

Con ricorso per Cassazione, la coniuge ha impugnato la decisione di merito, deducendo anzitutto l’illogicità dei criteri utilizzati per la liquidazione del danno biologico in caso di premorienza, che hanno comportato una riduzione del danno risarcibile a causa della morte del danneggiato in pendenza di giudizio. Secondo le tabelle milanesi utilizzate dalla Corte di Appello, infatti, l’invalidità permanente inciderebbe in misura maggiore all’inizio e in maniera progressivamente decrescente con il trascorrere del tempo, sino alla morte del soggetto leso.

La Suprema corte ha accolto le censure della ricorrente, poiché secondo costante e recente giurisprudenza in caso di premorienza per cause avulse dall’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, non già a quella statisticamente probabile, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass., sez. III, 29 maggio 2024, n. 15112).

Ulteriore motivo di doglianza è stata altresì l’omessa liquidazione del danno da invalidità temporanea, che a parere della ricorrente è diverso ed ultroneo dal danno biologico da premorienza. Anche per la Cassazione si tratta, infatti, di due voci di danno diverse: il danno da premorienza è il danno biologico permanente che, data la morte, cessa e che – pertanto – richiede una liquidazione parametrata sull’effettivo vissuto, cioè per la durata dell’invalidità permanente, senza che però ciò inglobi ex se il danno cagionato dall’invalidità temporanea, che va liquidato a parte.

Infine, la ricorrente ha lamentato l’omessa liquidazione del danno morale soggettivo, sull’assunto del giudice di merito per cui esso sarebbe una duplicazione del danno biologico. La Corte di cassazione ha – di contro – ribadito il principio consolidato per cui il danno morale costituisce un’autonoma voce del danno non patrimoniale. Esso va allegato e provato, ma è disgiunto dal danno biologico, al punto che esso può prodursi anche senza che il danneggiato abbia subito una lesione del diritto alla salute, come nel caso del danno all’onore o alla reputazione.

La Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. derivante dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti comprende, oltre al danno biologico, il danno morale, cioè la sofferenza interiore cagionata al danneggiato, nonché il danno esistenziale o dinamico-relazionale, ove la lesione abbia un impatto negativo sulla vita quotidiana. Trattasi, dunque, di tre voci di danno non patrimoniale che sono autonomamente risarcibili, salvo l’onere della prova in capo al richiedente.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, con rinvio al Giudice di merito per nuovo giudizio.

 

(*Contributo in tema di “Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Sanzioni tributarie: non si trasmettono agli eredi La Cassazione si è pronunciata sull'intrasmissibilità delle sanzioni tributarie agli eredi in base alla normativa vigente

Intrasmissibilità sanzioni tributarie agli eredi

Le sanzioni tributarie non si trasmettono agli eredi del contribuente deceduto. Tale principio trova fondamento nell’articolo 8 del decreto legislativo n. 472/1997, rubricato appunto «Intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi», il quale stabilisce in modo esplicito che: «L’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi». E’ quanto ha rammentato la sezione tributaria della Cassazione, nell’ordinanza n. 8684/2025, esaminando il ricorso di una vedova del socio di una società di fatto, chiamata a rispondere del debito tributario del de cuius, in qualità di erede del predetto.

Sanzioni civili e amministrative: diverso regime

La S.C. si è quindi soffermata, sul diverso regime successorio delle sanzioni civili rispetto a quelle amministrative. “Mentre le sanzioni civili sono sanzioni aggiuntive, destinate a risarcire il danno ed a rafforzare l’obbligazione con funzione di deterrente per scoraggiare l’inadempimento, le sanzioni amministrative (di cui alla l. n. 689/1981) – hanno affermato quindi i giudici della S.C. – quelle tributarie (di cui alla l. n. 472/1997) hanno un carattere afflittivo ed una destinazione di carattere generale e non settoriale, sicché rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire, nei limiti della ragionevolezza, quando la violazione debba essere colpita da un tipo di sanzione piuttosto che da un altro”.

A tale scelta, peraltro, “si ricollega il regime applicabile, anche con riferimento alla trasmissibilità agli eredi, prevista solo per le sanzioni civili, quale principio generale in materia di obbligazioni, e non per le altre, per le quali opera il diverso principio dell’intrasmissibilità, quale corollario del carattere personale della responsabilità (cfr. Cass. n. 15067 del 2008; Cass. n. 25315 del 2022)”.

Interessi sui tributi: quando sono trasmissibili

Diversa è la questione relativa agli interessi maturati sui tributi dovuti, i quali, a differenza delle sanzioni, sono considerati accessori dei tributi stessi e dunque trasmissibili agli eredi.

La decisione

Per cui, limitatamente alla doglianza sulle sanzioni, il ricorso della donna è accolto e la sentenza cassata.

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concetto di domicilio

La Cassazione chiarisce il concetto di domicilio Per la Suprema Corte, il domicilio non può coincidere con qualsiasi ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza

Concetto di domicilio

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8593/2025, ha stabilito che il concetto di domicilio non può essere esteso a qualsiasi luogo che garantisca intimità e riservatezza. In particolare, la S.C. ha chiarito che non ogni ambiente destinato a garantire la privacy può essere considerato domicilio ai fini delle tutele previste dall’art. 14 della Costituzione italiana, che protegge l’inviolabilità del domicilio.

La vicenda

Nella vicenda, i ricorrenti, dichiarati colpevoli di concorso in tentato furto aggravato in luogo di privata dimora, per essersi introdotti all’interno di una farmacia compiendo atti diretti a impossessarsi delle cose mobili presenti all’interno, impugnano la sentenza della Corte d’appello di Roma che ha confermato la decisione di primo grado.

Il ricorso per cassazione è affidato al comune difensore di fiducia, il quale svolge un unico motivo, dolendosi della qualificazione giuridica data al fatto. Si sostiene, infatti, alla luce della evocata giurisprudenza, che la fattispecie concreta in esame non consenta di ritenere che i luoghi al cui interno i correi si sono introdotti siano configurabili quali luoghi di privata dimora, secondo le coordinate delineate dalla giurisprudenza. Il tentativo di furto è stato, infatti, perpetrato in orario notturno, in assenza di persone, e li foro di accesso è stato praticato in prossimità della parte retrostante alla cassa, zona esposta all’accesso del pubblico. Trattasi, dunque, a suo dire, di pertinenza non rientrante nei luoghi in cui possano svolgersi, neppure astrattamente, atti di vita privata connessi all’attività lavorativa.

Il luogo di privata dimora

Per la S.C., i ricorsi non sono fondati.

Come premesso, il ricorso svolge un’unica doglianza riferita all’errore giuridico circa la qualificazione del delitto quale tentativo di furto in abitazione, sostenendosi, sulla base di richiami giurisprudenziali, che il fatto andrebbe riqualificato in furto tentato ai sensi degli artt. 56-624 cod. pen., a cui conseguirebbe l’effetto della non procedibilità per carenza di querela.
Tuttavia, per i giudici di legittimità, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto che governato la materia.

Il domicilio

Gli elementi delineati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti il “domicilio” e ritenuti indefettibili per garantire la copertura costituzionale dell’art. 14 Cost.,, affermano dalla S.C., “sono stati evidenziati già nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26795/2006, secondo cui per « luogo di privata dimora», deve intendersi quello adibito ad esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente, senza turbativa da parte di estranei, precisando che il concetto di domicilio individua un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza. Questo non implica, peraltro, che tutti i locali dai quali li possessore abbia diritto di escludere le persone a lui non gradite possano considerarsi luoghi di privata dimora, in quanto lo ius excludendi alios rilevante ex art. 614 cod. pen., non è fine a se stesso, ma serve a tutelare li diritto alla riservatezza, nello svolgimento di alcune manifestazioni della vita privata della persona, che l’art. 14 Cost. garantisce, proclamando l’inviolabilità del domicilio, cosicchè, « il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza»”.

Nozione di privata dimora nei luoghi di lavoro

In un successivo approdo, le Sezioni Unite hanno esaminato specificamente la questione della applicabilità della nozione di privata dimora di cui all’art. 624 bis cod. pen. ai luoghi di lavoro, ed hanno affermato che «Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale» (Sez. Un., n. 31345 del 23/03/2017).

Secondo tale ultima pronuncia, gli indici ai quali ancorare la classificazione di un luogo come di privata dimora sono tre: «a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare».
Potrà, quindi, essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro se in essi, o in parte degli stessi, specificano dal Palazzaccio, “il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento – Sez. Un. “D’Amico”, cit.).

Furto ai danni di farmacie

Coerente con tali coordinate ermeneutiche, la giurisprudenza, pur se antecedente ai richiamati approdi del massimo consesso di legittimità, formatasi in casi analoghi a quello di specie, ovvero di furto ai danni di farmacie; si è, infatti, considerato che, in tanto la fattispecie di cui all’art. 624- bis cod. pen. può essere ritenuta in quanto la condotta di furto si indirizzi nei confronti di quelle parti dell’immobile che, avendo le caratteristiche evidenziate dalla giurisprudenza sopra richiamate, possono essere qualificate privata dimora, nel senso che è tale “la condotta del soggetto che, per commettere un furto, si introduca all’interno di una farmacia, soltanto quando l’introduzione clandestina avvenga nelle parti dell’immobile destinati, per l’uso che in concreto ne è fatto, a privata dimora, vale a dire quale luogo non pubblico in cui le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti di vita privata ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale politica”. (Sez. 4, n. 51749 del 13/11/2014, Rv. 261577).
Tale interpretazione, infatti, “aderisce alla nozione di privata dimora riferibile ai luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata – compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale – e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza li consenso del titolare ( Sez. 5, n. 34475 del 21/06/2018)”.

La decisione

Calando tali principi nella vicenda concreta in esame, ritiene la S.C. che la sentenza della Corte territoriale sia nel giusto, osservando come i luoghi presi di mira fossero, da un lato, destinati allo svolgimento di attività strumentali all’esercizio della farmacia e dall’altro pertinenze di abitazione privata. Per cui, ne consegue l’infondatezza del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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giurista risponde

Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT della PA In tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica, si determina un vuoto di tutela?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica non si determina un vuoto di tutela, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo (Cass., Sez. Un., 25 novembre 2024, n. 30220).

Le Sezioni Unite hanno stabilito che: “In tema di impugnazione dell’elenco annuale ISTAT delle pubbliche amministrazioni predisposto ai sensi del SEC 2010, l’art. 23quater D.L. 137/2020, nel delimitare la giurisdizione della Corte dei Conti – Sezioni Riunite alla sola applicazione della disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non ha determinato un vuoto di tutela o il mancato rispetto dell’effetto utile della disciplina unionale, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo”.

Pertanto, la Cassazione conferma la centralità dell’art. 103 Cost., che attribuisce alla Corte dei Conti una giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, senza tuttavia precludere al legislatore di ridefinirne i confini per esigenze di sistema. Inoltre, ribadisce che il sistema italiano è compatibile con il principio di effettività, affidando al G.A. il controllo sugli aspetti procedurali e di legittimità e alla Corte dei Conti il compito di vigilare sugli effetti contabili della spesa pubblica.

 

(*Contributo in tema di “Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA.”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

festività soppresse

Festività soppresse Festività soppresse: quali sono, quale legge le ha abolite e quali sono le conseguenze per i lavoratori in termini di riposo e retribuzione

Cosa sono le festività soppresse

Le festività soppresse sono giornate che in passato erano riconosciute come festività civili o religiose, ma che nel tempo sono state eliminate dal calendario festivo nazionale. Tuttavia, la loro abolizione non ha comportato la perdita del diritto al riposo o alla retribuzione per i lavoratori, poiché il legislatore ha previsto specifiche tutele in merito.  

Quali sono le festività soppresse?

Le festività soppresse erano originariamente riconosciute dalla Legge n. 260/1949, che disciplinava le festività nazionali. Successivamente, con la Legge n. 54/1977, alcune di queste sono state eliminate dal calendario, pur mantenendo delle compensazioni per i lavoratori. In Italia sono:

  • San Giuseppe (19 marzo)
  • Ascensione (quaranta giorni dopo la Pasqua, variabile): nel 2025 è il 29 maggio 2
  • Corpus Domini (giovedì successivo alla Pentecoste, variabile): nel 2025 è il 19 giugno
  • Unità Nazionale (4 novembre) – celebrazione senza chiusura lavorativa

Normativa di riferimento

La principale normativa sulle festività soppresse include:

  • Legge n. 260/1949: contiene le disposizioni in materia di ricorrenze festive
  • Legge n. 54/1977: contiene le disposizioni in materia di giorni festivi, ha soppresso alcune festività e ne ha regolato la compensazione;
  • P.R. n. 792/1985_ ha confermato la soppressione delle festività religiose;
  • Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL), che stabiliscono modalità di compensazione specifiche per ogni categoria di lavoratori.

Conseguenze per i lavoratori

Le festività soppresse sono state trasformate in permessi individuali retribuiti per i lavoratori. Questi permessi, noti come “ex festività”, ammontano a un totale di 32 ore annuali. Queste giornate, pur non essendo più considerate festive a livello civile, danno diritto ai lavoratori a godere di permessi retribuiti, permettendo loro di usufruire di un riposo equivalente. I permessi per le ex festività, derivanti dalle festività religiose soppresse, sono regolati dai contratti collettivi di lavoro. La retribuzione di questi permessi è calcolata con le stesse modalità utilizzate per i giorni di ferie.

Giurisprudenza

La giurisprudenza si è più volte espressa sulla questione delle festività soppresse e sulla loro gestione retributiva:

Cassazione n. 8926/2024: Anche in assenza di una specifica regolamentazione contrattuale per i dipendenti degli enti pubblici non economici, la mancata fruizione dei riposi per festività soppresse può essere monetizzata al termine del rapporto di lavoro, purché sussistano le stesse condizioni previste per la monetizzazione delle ferie. Ciò è possibile in virtù delle disposizioni dell’art. 2 della legge n. 937 del 1977, che equiparano sostanzialmente i riposi per festività soppresse alle ferie, consentendo così l’applicazione analogica delle norme relative a quest’ultime.

Cassazione n. 18425/2014: la maggiorazione retributiva per le festività soppresse non è automatica, ma dipende dalle previsioni del contratto collettivo applicato. In particolare, se il contratto prevede tale maggiorazione solo in caso di effettiva prestazione lavorativa durante la festività, come nel caso esaminato, in cui le lavoratrici avevano usufruito di permessi sindacali, la maggiorazione non spetta. La Corte ha inoltre ribadito che il principio di onnicomprensività della retribuzione, pur esistente, non è una regola assoluta e non impedisce all’autonomia privata di escludere determinati compensi dal calcolo della retribuzione per altri istituti contrattuali o legali, a meno che non vi sia una norma specifica che lo imponga.

Tribunale Napoli n. 23136/2011: La reintroduzione di una festività soppressa, come il 2 giugno, non autorizza il datore di lavoro a modificare unilateralmente un accordo che prevede ferie o permessi in sostituzione delle festività civili soppresse. Nemmeno la presupposizione, che richiederebbe la risoluzione del contratto o un nuovo accordo bilaterale, può giustificare tale modifica unilaterale.

notifica pec

Notifica pec fallita per causa ignota: va rinnovata La Cassazione ha chiarito che in caso di notifica pec fallita per causa ignota, la stessa va rinnovata dalla cancelleria

Notifica pec fallita

Notifica PEC non andata a buon fine per causa ignota. Va rinnovata dalla Cancelleria. Questo quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 8361/2025.

Il caso: notifica PEC non consegnata

La decisione è scaturita dal ricorso di un uomo condannato per stalking dalla Corte d’Appello di Brescia. Il ricorrente ha contestato la validità della notifica dell’avviso di udienza al difensore e quella effettuata presso il domicilio eletto. La causa del fallimento non era chiaramente individuabile. Dagli atti risultava, infatti, che l’avvocato di fiducia non aveva ricevuto nel domicilio elettronico indicato la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, risultante – del resto – dal fascicolo d’ufficio come non consegnato al destinatario. Di qui, a suo dire, “poiché non è stata individuata la causa della mancata consegna del messaggio di posta elettronica, non è possibile attribuirgli, in conformità ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sulla questione, alcuna responsabilità per l’omesso recapito del predetto messaggio”.

Per la Corte, le doglianze suscettibili di valutazione unitaria, sono fondate.

Obbligo di ripetizione della notifica

La questione che si pone all’attenzione della S.C. è “se la notifica possa ritenersi valida anche in un’ipotesi come quella considerata, ossia nella quale non sia possibile stabilire se l’omessa consegna sia dipesa dalla responsabilità del destinatario del messaggio (ad es., per problemi correlati alla ‘saturazione’ della relativa cartella) ovvero da quella della Cancelleria” ragiona la Corte. In definitiva, “si tratta di individuare le conseguenze, in punto di validità della notifica dell’atto processuale a mezzo pec, dell’omessa consegna del messaggio inviato dalla cancelleria per una causa rimasta ignota”.
Nella giurisprudenza di legittimità, “è stato sancito il dovere del difensore di controllare il corretto funzionamento della propria casella di posta elettronica, con la conseguenza che, ove la mancata consegna dipenda da un malfunzionamento del sistema, le conseguenze restano a carico del difensore, in virtù della prescrizione espressa dall’art. 16, comma 6, del d.l. n. 179/2012, che impone il deposito dell’atto in cancelleria (ex multis, Cass. n. 41697/2019)”.

La decisione

Nel caso di specie, tuttavia, l’omessa consegna del messaggio trasmesso dalla cancelleria a mezzo posta elettronica certificata è rimasta ignota. E ciò in quanto la preminente importanza che, anche nella giurisprudenza costituzionale, è attribuita al diritto di difesa dell’imputato rispetto al principio della ragionevole durata del processo, comporta che, “nelle ipotesi di incertezza circa la responsabilità dell’omesso perfezionamento del procedimento notificatorio, questo non possa considerarsi validamente compiuto”.
“Il che impone alla cancelleria, in un caso siffatto, concludono dal Palazzaccio, “la rinnovazione della notifica, trattandosi, peraltro, di un adempimento semplificato proprio dalla possibilità di utilizzare l’agile strumento della posta elettronica certificata”.
Da qui l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio.

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giurista risponde

Furto con strappo e rapina Il contegno con cui il reo asporta una res particolarmente aderente al corpo della vittima è sussumibile nella fattispecie di furto con strappo o in quella più grave della rapina?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Il soggetto agente che, con violenza sulla cosa, sottrae un bene strettamente aderente al corpo della persona offesa e se ne impossessa commette il delitto di cui all’art. 628 c.p., indipendentemente dalla volontaria resistenza della vittima o dalle ecchimosi da questa subite, in quanto, per superare la fisiologica opposizione posta dal corpo e conseguire, quindi, il risultato atteso, la violenza sulla cosa si estende necessariamente alla persona e si sviluppa su di essa (Cass., sez. II, 17 ottobre 2024, n. 45589 (Furto con strappo e rapina).

Nel caso di specie i Giudici di legittimità sono stati chiamati a sciogliere i nodi circa la qualificazione di una peculiare fattispecie in cui l’imputato si è reso autore dell’impossessamento di una collana particolarmente stretta al collo di una signora ultrasessantenne e in condizioni di vulnerabilità, in quanto rimasta vittima di tale condotta criminosa all’interno del suo domicilio cui il reo ha avuto accesso mediante artifizi e raggiri.

In sede di giudizio abbreviato il soggetto agente è stato condannato con sentenza del G.i.p. del Tribunale di Modena, riconosciuto il vincolo della continuazione e, quindi, della medesimezza del disegno criminoso, per il delitto di truffa aggravata e rapina aggravata, sentenza questa che è stata, tra l’altro, confermata dalla Corte d’appello di Bologna.

Contro la decisione del giudice di secondo grado il reo, per mezzo del suo difensore, ha esperito ricorso per cassazione per omessa motivazione e manifesta illogicità della stessa circa alcuni profili dedotti nell’atto di appello.

Il difensore, innanzitutto, ha contestato che il giudice di merito abbia, erroneamente e senza adeguata motivazione, privilegiato la seconda versione dei fatti resa con la querela, quest’ultima successiva all’annotazione della P.G rispetto alla quale risulta contraddittoria.

Infatti, nelle dichiarazioni fornite alla P.G. il giorno in cui si è perfezionato e consumato il reato la persona offesa – per come dedotto nella censura di legittimità – non ha fatto riferimento alcuno alla violenza perpetrata dal reo.

Inoltre, il ricorrente ha lamentato la mancata riqualificazione del fatto in furto con strappo ai sensi dell’art. 624bis c.p.

La violenza eventualmente cagionata dall’imputato – sostiene il difensore – era diretta nei confronti della res senza alcun coinvolgimento della persona offesa, in quanto quest’ultima non opponeva alcuna resistenza all’agire delittuoso.

La seconda sezione penale della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

In particolare, i giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto logica la motivazione della Corte d’appello circa l’accoglimento della seconda versione fornita dalla vittima mediante querela, in quanto risultante più circostanziata e maggiormente attendibile per la maggiore lucidità psicologica caratterizzante la persona offesa.

Inoltre, la Cassazione con il suo arresto ha ribadito il principio di diritto espresso in una sua precedente decisione Cass. pen., sez. II, 3 ottobre 2006, n. 34206, nella quale la linea di demarcazione tra furto con strappo e rapina è stata individuata nella direzione della violenza sprigionata dal soggetto agente.

In particolare, il furto con strappo si configura quando la violenza si rivolge direttamente alla cosa, indipendentemente dai riflessi indiretti e involontari che la vittima possa subire a causa della relazione fisica tra la stessa e il bene posseduto. Per contro, si realizza il delitto di rapina nel momento in cui la violenza è diretta alla persona o si sviluppa sulla medesima e, comunque, anche quando viene esercitata per vincere la sua resistenza attiva (così anche Cass. pen., sez. II, 19 dicembre 2014, n. 2553).

Ciò nonostante, con quest’illuminante sentenza gli Ermellini sono andati oltre e hanno approfondito con un’interessante argomentazione la vexata quaestio circa il confine tra le due tipologie di reato.

Nel caso specifico si è precisato che, quando la cosa che si intende asportare è particolarmente aderente al corpo del possessore, la violenza perpetrata sul bene si estende inevitabilmente anche alla persona (così anche Cass. pen., sez. II, 11 novembre 2010, n. 41464).

Icasticamente nella fattispecie in questione il soggetto attivo, per raggiungere il risultato criminoso atteso, ha dovuto superare non solo la forza di coesione inerente alla relazione fisica tra possessore e cosa sottratta, ma altresì la materiale opposizione determinata dal corpo della vittima, per cui qui lo strumento con cui si è realizzata la sottrazione non è tanto lo strappo, quanto la violenza stessa (così anche Cass. pen., sez. II, 21 febbraio 2019, n. 16899).

La configurazione della rapina, peraltro, non è ostacolata dalla circostanza che la persona offesa non abbia subito alcuna contusione o lesione, in quanto lo strappo della collana determina un inconfutabile esercizio di energia fisica sul collo della donna che si concretizza, quindi, in una violenza sulla persona, elemento quest’ultimo costitutivo ai sensi dell’art. 628 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Furto con strappo e rapina”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

cane dall'indole diffidente

Cane dall’indole diffidente al guinzaglio anche nell’area dedicata La Cassazione chiarisce che a prescindere da taglia e razza, il cane dall'indole diffidente va tenuto al guinzaglio anche nell'apposita area sgambamento

Cane dall’indole diffidente: guinzaglio obbligatorio

La quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 9620/2025, ha stabilito che anche nelle zone appositamente attrezzate per lo sgambamento, un cane dall’indole diffidente deve essere condotto con guinzaglio e museruola. Questo obbligo si applica indipendentemente dalla razza e/o dalla taglia. Si tratta, infatti, di una regola di prudenza che il proprietario deve rispettare per garantire la sicurezza di persone e animali.

Il caso: responsabilità del proprietario per lesioni colpose

Nel caso esaminato dalla S.C., il Tribunale aveva confermato la condanna della proprietaria di un pitbull per il reato ex art. 590 c.p. per aver cagionato alla vittima, entrata all’interno dell’area cani insieme al suo cucciolo di piccola taglia, lesioni personali colpose.

La condanna era stata motivata dalla mancata adozione di misure di sicurezza per imprudenza, imperizia e negligenza da parte della proprietaria, che, pur consapevole dell’indole diffidente dell’animale, non lo aveva assicurato al guinzaglio né dotato di museruola lasciandolo libero di circolare all’interno dell’area cani.

La donna ricorreva innanzi al Palazzaccio, lamentando che nelle aree appositamente attrezzate, i cani possono essere condotti senza guinzaglio e senza museruola, mentre tali accorgimenti vanno adottati per i cani di indole aggressiva. Da ciò deriva che nessun obbligo giuridico fosse configurabile a suo carico, non essendo certificato che il cane potesse essere definito ex ante come aggressivo, né potendo estendersi le limitazioni previste per gli animali aggressivi a quelli descritti come diffidenti.

La responsabilità del proprietario e le regole di condotta

Tuttavia, la Suprema Corte ha rigettato le argomentazioni della difesa, sottolineando che la natura colposa della condotta del ricorrente, “è da ricondurre all’inosservanza di norme cautelari afferenti al governo e alla conduzione dei cani”. Norme “volte a prevenire, neutralizzare o ridurre i rischi per la pubblica incolumità, specificamente declinate in relazione alle potenzialità lesive dell’animale, con richiamo alla norma di cui all’art. 672 c.p., che sanziona a livello amministrativo l’incauta custodia di animali e che positivizza il generale dovere di diligenza e prudenza che l’ordinamento pone in capo a chiunque abbia il dominio di un animale dotato di capacità lesiva”. Sancendo “l’assunzione di una posizione di garanzia rispetto alla possibilità del verificarsi di eventi dannosi, corredata da una serie di obblighi, divieti e modelli comportamentali la cui violazione determina responsabilità giuridica a vari livelli (amministrativo, civile e penale)”.

Nella sentenza di primo grado si è, con chiarezza, “affermata la violazione di regole di generica prudenza considerando che, in presenza di un altro animale nell’area di sgambamento nonché del relativo accompagnatore, la proprietaria del cane avrebbe dovuto fronteggiare la situazione con maggiore cura e cautela attuando una vigilanza stretta e una presenza dominante sul cane” aggiungono gli Ermellini.

“Il giudice di appello ha, per altro verso, addebitato all’imputata di aver lasciato il cane libero di circolare all’interno dell’area cani nonostante si trattasse di cane di indole da lei stessa definita ‘diffidente’ e nonostante un estraneo avesse manifestato l’intento di avvicinarsi e accarezzarlo”.

La “culpa in vigilando”

In definitiva, per la Cassazione, “la culpa in vigilando del proprietario del cane è stata correttamente identificata quale violazione di una regola cautelare non positivizzata desumibile da una massima di esperienza, legata non tanto alla razza del cane quanto piuttosto alla eventualità che un cane diffidente reagisca in maniera aggressiva all’avvicinamento di terzi estranei”. Si tratta di argomenti coerenti con il principio secondo il quale “in tema di colpa, allorquando risulti ex ante l’inefficacia preventiva delle regole cautelari positivizzate, il gestore del rischio è tenuto a osservare ulteriori regole cautelari non positivizzate, preesistenti alla condotta ed efficaci a prevenire l’evento, individuate alla luce delle conoscenze tecniche scientifiche e delle massime di esperienza (cfr. Cass. n. 32899/2021)”.

Da qui il rigetto delle doglianze avanzate dall’imputata nel ricorso che, tuttavia, viene accolto limitatamente al trattamento sanzionatorio, annullando la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Roma in diversa persona fisica per nuovo giudizio sul punto.

Allegati

danno iatrogeno

Danno iatrogeno Danno iatrogeno: definizione, normativa di riferimento, risarcimento del danno e giurisprudenza rilevante in materia

Cos’è il danno iatrogeno?

Il danno iatrogeno differenziale si verifica quando un paziente subisce un peggioramento delle proprie condizioni di salute a causa di un trattamento sanitario. Questo danno può derivare da errori medici, effetti collaterali non prevedibili o complicazioni post-operatorie. La responsabilità per questo danno può essere attribuita alla struttura sanitaria o al personale medico, qualora vi sia una condotta colposa o negligente.

Normativa di riferimento

Il danno iatrogeno rientra infatti nell’ambito della responsabilità sanitaria disciplinata dalla Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), che stabilisce i criteri di imputabilità della responsabilità medica. In particolare:

  • il medico risponde penalmente solo per colpa grave in caso di imperizia, se ha seguito le linee guida riconosciute;
  • la struttura sanitaria risponde a titolo di responsabilità contrattuale, mentre il medico dipendente ha responsabilità extracontrattuale.

Risarcimento del danno

La liquidazione del danno iatrogeno segue i principi del risarcimento del danno biologico, patrimoniale e morale:

  • Danno biologico: peggioramento della salute del paziente, quantificato attraverso le tabelle di invalidità permanente.
  • Danno patrimoniale: perdita di reddito o aumento delle spese mediche per trattamenti correttivi.
  • Danno morale: sofferenza psicologica del paziente.

Giurisprudenza di rilievo

La giurisprudenza ha fornito importanti chiarimento sul danno iatrogeno differenziale:

Cassazione n. 8851/2017: il danno differenziale si verifica quando il danneggiato richiede il risarcimento esclusivamente per il danno iatrogeno, senza includere l’intero danno subito. In sede di liquidazione, verranno quindi considerati i postumi che il paziente avrebbe comunque riportato anche in caso di un trattamento medico corretto. Il risarcimento del danno iatrogeno differenziale si determina sottraendo dall’importo corrispondente all’invalidità complessiva quello relativo alla percentuale di invalidità che si sarebbe comunque verificata, anche in presenza di un intervento medico eseguito in modo ottimale.

Cassazione n. 26117/2021: in materia di danno differenziale e impatto degli indennizzi Inail nel calcolo del risarcimento la corte ha chiarito che il calcolo del danno differenziale prevede la sottrazione dell’indennizzo INAIL solo se quest’ultimo copre lo stesso pregiudizio per cui si richiede il risarcimento. Se l’indennizzo è erogato sotto forma di rendita, occorre considerare sia i ratei già percepiti sia il valore capitale della rendita futura. Nel caso di danno iatrogeno, ossia l’aggravamento di una lesione preesistente dovuto a negligenza medica, il danno deve essere quantificato economicamente e confrontato con l’indennizzo ricevuto per determinare l’effettivo risarcimento spettante.

 

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