tolleranza del 5%

Tutor autostrade: la tolleranza del 5% è obbligatoria per legge La Cassazione chiarisce: le multe per eccesso di velocità rilevate col tutor devono applicare una tolleranza del 5%, con minimo di 5 km/h

Tutor e limiti di velocità

La Cassazione, con ordinanza n. 15894/2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di sanzioni per eccesso di velocità: anche quando l’infrazione è rilevata tramite sistema “tutor”, deve essere applicata la tolleranza del 5% prevista dal regolamento di esecuzione del Codice della Strada, in base all’art. 345, comma 2.

La riduzione ha un minimo garantito di 5 km/h, anche quando la percentuale applicata risulterebbe inferiore.

Il caso: contestazione di una multa per tutor

Nel caso esaminato, l’automobilista aveva impugnato una sanzione per eccesso di velocità accertata mediante sistema tutor, lamentando la mancata applicazione della prevista riduzione tecnica. I giudici di merito avevano respinto il ricorso, ma la Cassazione ha accolto il motivo, riconoscendo la violazione del diritto alla corretta applicazione della norma tecnica.

La normativa di riferimento

L’articolo 345 del Regolamento di esecuzione del Codice della Strada stabilisce che, per le rilevazioni elettroniche, i valori di velocità devono essere considerati al netto della tolleranza tecnica, pari al 5% della velocità rilevata, e comunque mai inferiore a 5 km/h.

La Corte sottolinea che non si tratta di una facoltà, ma di un obbligo normativo, che garantisce l’affidabilità della rilevazione automatica.

Tolleranza del 5%: più tutele per gli automobilisti

Con questa decisione, la Cassazione rafforza la tutela dei conducenti contro errori di calcolo o rigidità applicativa dei sistemi automatici. Chi riceve una multa con tutor può sempre verificare se è stata applicata correttamente la tolleranza e, in caso contrario, contestarla dinanzi al giudice di pace.

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responsabilità medica

Responsabilità medica: colpa del dentista per danni al “nervo” La Cassazione conferma la responsabilità medica penale del dentista per danni anatomici durante un’estrazione dentaria

Responsabilità medica

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22474/2025, ha riconosciuto la responsabilità medica penale di un odontoiatra che, durante l’esecuzione di un intervento di estrazione dentaria, ha provocato l’interruzione della corticale ossea mandibolare. Il paziente ha riportato danni anatomici permanenti e sintomi post-operatori invalidanti, elementi che hanno portato alla condanna del professionista per lesioni colpose.

La condotta colposa: oltre il rischio consentito

Secondo i giudici, l’intervento è stato condotto con imperizia e negligenza, violando le regole di buona pratica clinica. L’interruzione della corticale, pur essendo un rischio teoricamente possibile, non rientrava tra gli eventi inevitabili in un’estrazione eseguita correttamente, come accertato dalla consulenza tecnica.

La motivazione della Cassazione

La Suprema Corte ha sottolineato che la responsabilità non deriva dalla scelta di procedere all’estrazione, ma dalla modalità con cui è stata eseguita la manovra chirurgica. L’odontoiatra ha omesso di adottare cautele e tecniche conservative volte a evitare il danno. Ne deriva una responsabilità per lesioni colpose, aggravata dalla natura permanente delle conseguenze subite dal paziente.

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notifica regolare

Notifica regolare non garantisce conoscenza effettiva del processo Notifica regolare e processo ignoto: la Cassazione chiarisce i limiti della conoscenza effettiva

Notifica regolare e processo ignoto

Notifica regolare e processo ignoto: con la sentenza n. 16899/2025, la sesta sezione penale della Cassazione è tornata a esaminare il delicato rapporto tra regolarità formale della notifica dell’atto di citazione a giudizio e la conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato, ribadendo un principio cardine in materia di diritto alla difesa: “La regolarità della notifica dell’atto di citazione in giudizio non implica necessariamente la conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato”.

Il caso esaminato

Nel caso specifico, l’imputato era stato giudicato in contumacia a seguito della notifica, formalmente regolare, dell’atto di citazione in giudizio presso il domicilio eletto. Tuttavia, lo stesso imputato aveva successivamente dedotto di non aver mai avuto conoscenza effettiva del procedimento e di non aver potuto esercitare il proprio diritto di difesa.

La Corte di merito aveva ritenuto sufficiente, ai fini della validità del processo, la sola regolarità formale della notifica, rigettando la richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione.

La decisione della Cassazione

La Sesta Sezione, accogliendo il ricorso dell’imputato, ha censurato la decisione del giudice di merito, ricordando che il diritto alla difesa, sancito dall’art. 24 Cost. e dagli articoli 6 e 14 della Convenzione EDU, non può essere ridotto al rispetto formale delle regole procedurali, ma impone che l’imputato sia posto concretamente in condizione di conoscere e partecipare al processo.

Secondo la Corte, la notifica “regolare” non garantisce automaticamente la conoscenza effettiva del processo da parte del destinatario. È necessario verificare in concreto se l’imputato abbia avuto effettiva consapevolezza dell’instaurazione del procedimento, specie nei casi di elezione di domicilio risalente o presso terzi, situazioni che possono determinare un’informazione solo apparente.

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reati fiscali

Reati fiscali, tenuità del fatto se il debito è quasi estinto La Cassazione riconosce la tenuità del fatto per chi, pur indagato per reati fiscali, ha quasi integralmente estinto il debito

Reati fiscali e tenuità del fatto

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22076/2025, ha ribadito un importante principio in materia di reati fiscali: l’elevato grado di collaborazione del contribuente con l’amministrazione finanziaria può giustificare l’applicazione dell’art. 131-bis c.p., che disciplina la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Ciò vale soprattutto quando l’autore del reato ha versato quasi per intero l’importo contestato.

La vicenda

La questione riguarda una contribuente, legale rappresentante di una società, imputata per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2, D.lgs. 74/2000). Secondo l’accusa, l’imputata aveva inserito in dichiarazione elementi passivi fittizi per evadere l’IVA.

Condannata in primo grado dal Tribunale di Salerno il 12 marzo 2024, la sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello. La difesa, nel ricorso per Cassazione, ha però evidenziato che l’imputata aveva già versato 95.500 euro su un debito complessivo di circa 97.000 euro, lamentando il mancato riconoscimento della tenuità del fatto.

Il principio affermato

Per la Suprema Corte, il comportamento successivo alla commissione del reato — nella specie il versamento quasi integrale del debito — costituisce un indice rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis c.p. La valutazione della particolare tenuità deve tenere conto della parte residua del debito ancora da saldare e dell’impegno concreto e attuale al pagamento.

Secondo i giudici, se la parte versata copre la quasi totalità del dovuto, tale condotta assume particolare rilevanza sotto il profilo collaborativo e può prevalere sull’offensività originaria del fatto.

Collaborazione e recupero prevalgono sulla punizione

La Cassazione sottolinea che negare rilevanza a tali comportamenti finirebbe per svuotare di significato la riforma dell’art. 13 del D.lgs. 74/2000, orientata a privilegiare il recupero delle somme evase rispetto alla sola finalità punitiva. Il diritto penale tributario moderno, in questa prospettiva, è volto a incentivare la regolarizzazione spontanea, anche parziale, dei debiti tributari.

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giurista risponde

Adescamento di minore e reati-fine: quale confine Come si atteggia il delitto di adescamento di minore previsto e punito dall’art. 609undecies c.p. rispetto ai reati-fine cui tende la condotta dell’agente?

Quesito con risposta a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano

 

Il delitto di adescamento, di cui all’art. 609undecies c.p., è stato introdotto dalla L. 1° ottobre 2012, n. 172, recante la ratifica della Convenzione di Lanzarote, per accrescere la tutela del minore rispetto ai pericoli cui è esposto, in particolare sul web, e contiene una clausola di riserva “se il fatto non costituisce più grave reato”. Punisce infatti solo le condotte prodromiche a quelle previste dagli articoli da 600 a 600quinquies e dagli art. 609bis, 609quater, 609quinquies, 609octies c.p., sempre che non si sia verificato il reato fine. Il presupposto, pertanto, è che non siano ancora configurabili gli estremi del tentativo o della consumazione del reato fine. Si tratta quindi di una tutela anticipata rispetto alla commissione del reato fine, sia pure allo stadio del tentativo, e non è ammesso il concorso formale tra i due reati, perché vi sarebbe un bis in idem (Cass. sez. VI, 23 gennaio 2025, n. 2787).

Avverso la sentenza di condanna pronunciata in secondo grado che riconosceva la responsabilità penale dell’imputato in ordine al delitto previsto e punito dall’art. 609undecies c.p., la difesa ricorreva per Cassazione, eccependo violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo alla carenza dell’elemento soggettivo del reato di adescamento sotto il duplice profilo dell’assenza di prova dell’intenzione di commettere il reato-fine di atti sessuali con minorenne e della mancanza di prova della conoscenza o conoscibilità dell’età della persona offesa.

Dall’ipotesi accusatoria recepita dai giudici di merito, emergeva che l’imputato – venticinquenne – avesse adescato la persona offesa – dodicenne – su un social, carpendone la fiducia mediate la cessione delle credenziali di accesso alla piattaforma Netflix, finalizzata ad ottenere incontri sessuali. Inequivocabile appariva l’intento dal contenuto erotico delle conversazioni virtuali intrattenute, connotate da richieste ed inoltro da parte dell’imputato di materiale pornografico autoprodotto, nonché dalle bramose richieste di incontro in circostanze di intimità. Parimenti sconfessata appariva l’eccezione della difesa in ordine alla conoscibilità dell’età della persona offesa, atteso che quest’ultima denegava una richiesta d’incontro a causa della punizione impartita dai genitori.

Ebbene, la Suprema Corte adita – ritenendo il ricorso complessivamente infondato – ha trattato della fattispecie di adescamento di minore, analizzandone natura e funzione. Partendo dalla ratio legis della fattispecie in esame – rappresentata dalla necessità di tutelare i minori rispetto ai pericoli cui sono esposti, in particolare sul web, concepita al precipuo scopo di neutralizzare il rischio di commissione di reati più gravi – e dall’analisi della casistica nella quale si è costantemente ravvisato il tentativo del delitto di atti sessuali con minorenni, la Corte di legittimità ha evidenziato quanto segue. La disposizione di cui all’art. 609undecies c.p., integrando un reato di pericolo concreto, offre una tutela anticipata al bene giuridico che mira a proteggere (corretto sviluppo psicofisico del minore e sua autodeterminazione), criminalizzando condotte prodromiche rispetto a quelle previste dagli articoli da 600 a 600quinquies e dagli artt. 609bis, 609quater, 609quinquies e 609octies c.p., sempreché non si sia verificato il reato fine. Segnatamente, il delitto de quo si configura allorquando l’agente ponga in essere – attraverso artifici, lusinghe o minacce – atti volti a carpire la fiducia del minore, al fine di attrarre la persona offesa al proprio volere e addivenire al compimento del reato-fine. Affinché si configuri il delitto di cui all’art. 609undecies c.p. è, pertanto, necessario che non siano ancora configurabili gli estremi del tentativo o della consumazione del reato-fine, cui si accede quando si passa a richieste insistenti o pressanti di ottenere materiale pornografico ovvero atti sessuali. Quanto detto fuga ogni dubbio in ordine alla tenuta costituzionale della norma rispetto al principio di offensività. Parimenti è a dirsi per quanto concerne la legittimità della norma rispetto ai principi di determinatezza e proporzionalità della pena, atteso che il vaglio sull’elemento soggettivo del reato – dolo specifico – e sulla materialità dello stesso è ancorato a parametri oggettivi dai quali possa dedursi il movente sessuale e che gli atti posti in essere dall’agente finalisticamente orientati alla commissione del reato fine sono sanzionati con una cornice edittale autonoma – equa, proporzionata e inferiore – rispetto a quella prevista per i delitti cui accede. Di qui, la compatibilità del sistema anche con il principio di rieducazione della pena.

 

(*Contributo in tema di “Il confine tra il delitto di adescamento di minore e i reati-fine che la norma mira a prevenire”, a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Naspi

Naspi, ferie e riposi contano come giornate di lavoro effettivo La Cassazione chiarisce: per la Naspi valgono ferie e giorni retribuiti come lavoro effettivo. Anche le pause rientrano nel requisito dei 30 giorni

Naspi, il concetto di lavoro effettivo

La Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza n. 15660/2025, ha precisato i criteri interpretativi relativi al requisito delle “trenta giornate di lavoro effettivo” richieste per l’accesso alla NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego). Secondo la Corte, non solo le giornate di effettiva attività lavorativa, ma anche quelle di ferie e riposi retribuiti contribuiscono al raggiungimento del requisito.

Ferie e pause retribuite: giorni da includere

I giudici hanno ribadito che le giornate in cui il lavoratore è in ferie o in pausa retribuita non interrompono il sinallagma contrattuale. Anche in assenza di attività materiale, l’obbligo retributivo e contributivo permane, rendendo queste giornate giuridicamente assimilabili al lavoro effettivo.

Tali momenti, infatti, sono considerati parte integrante e fisiologica del rapporto di lavoro, finalizzati alla tutela della salute e al recupero psico-fisico del dipendente.

Lavoro effettivo: interpretazione giuridica

La Cassazione ha chiarito che il concetto di “lavoro effettivo” non va interpretato in senso strettamente materiale, cioè come prestazione fisica resa, ma secondo un’accezione giuridica. Conta ogni giornata che dà diritto alla retribuzione e alla contribuzione, a prescindere dalla concreta attività lavorativa svolta.

Naspi: i principi di diritto fissati dalla Cassazione

Nel corpo della sentenza, la Suprema Corte ha espresso due importanti principi di diritto applicabili ai casi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2025, in base all’art. 3, comma 1, lett. c), del D.lgs. 22/2015, nella versione anteriore alla riforma della legge n. 207/2024:

  • Sono valide ai fini della Naspi tutte le giornate che comportano retribuzione e contribuzione, comprese ferie e riposi;

  • Non vanno conteggiati i periodi di sospensione del rapporto per cause tutelate dalla legge, che vengono considerati “neutrali” nel computo dei 12 mesi precedenti l’inizio della disoccupazione.

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furto d'auto

Furto d’auto in hotel? Niente risarcimento senza contratto di deposito La Cassazione nega l’indennizzo per il furto d’auto in hotel: serve un vero contratto di deposito, non basta il parcheggio all’interno della struttura

Furto d’auto nel parcheggio dell’hotel

Con l’ordinanza n. 12840/2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di furto d’auto nel parcheggio di un hotel, l’albergatore non è automaticamente responsabile, a meno che non sia stato perfezionato un contratto di deposito. L’esistenza di tale contratto è infatti il presupposto imprescindibile per poter ottenere un indennizzo.

Il contratto di deposito: quando si perfeziona

Secondo il Codice civile (artt. 1766 ss.), il contratto di deposito è di natura reale: si perfeziona solo con la consegna della cosa mobile e, in certi casi, anche delle chiavi, quando necessarie alla custodia. Il depositario ha l’obbligo di custodire e restituire il bene, salvo eventi indipendenti dalla sua volontà.

Nel caso del furto, l’art. 1780 c.c. stabilisce che il depositario è liberato dalla responsabilità solo se denuncia immediatamente l’accaduto e dimostra che l’evento non gli è imputabile.

Il caso: furto d’auto e richiesta di risarcimento

Un cliente (Sempronio) aveva soggiornato in un albergo, parcheggiando la propria auto in un’area interna alla struttura. In seguito al furto del veicolo, aveva citato l’hotel per ottenere un risarcimento, sostenendo che il servizio di parcheggio fosse incluso nel soggiorno e che ciò integrasse un contratto di deposito.

La struttura alberghiera si è difesa sostenendo che non vi era stata alcuna consegna né dell’auto né delle chiavi, e che il cliente aveva solo usufruito di uno spazio delimitato, senza alcun accordo specifico di custodia.

Nessuna responsabilità dell’hotel

Sia il tribunale di primo grado che la Corte d’appello hanno respinto la richiesta di risarcimento. Il cliente ha proposto ricorso per Cassazione, invocando una presunta violazione dell’art. 1780 c.c., ma la Suprema Corte ha confermato le decisioni precedenti.

Gli Ermellini hanno chiarito che il solo fatto che il parcheggio sia interno alla struttura non implica la nascita automatica di un contratto di deposito. Senza consegna del veicolo e delle chiavi, e in assenza di specifiche condizioni pattuite, manca il presupposto giuridico per l’obbligo di custodia e, di conseguenza, per il risarcimento in caso di furto.

rifiuto della quarta pec

Rifiuto della quarta pec: focus sui motivi del rigetto La Cassazione chiarisce che in caso di rifiuto della quarta pec, la parte deve contestare solo le ragioni indicate dalla cancelleria

Deposito PCT rigettato

Rifiuto della quarta pec: con l’ordinanza n. 15801/2025, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito un importante principio in materia di processo civile telematico (PCT). Quando un atto viene rifiutato dalla cancelleria a seguito del controllo manuale (la cosiddetta “quarta PEC”), l’onere della parte si limita a contestare i motivi indicati nel rigetto, senza dover dimostrare la regolarità dell’intero processo di invio.

Il caso concreto riguardava una S.c.a.r.l. che aveva proposto opposizione allo stato passivo di un fallimento, ma il Tribunale di Teramo aveva dichiarato il ricorso tardivo, ritenendo insufficiente la documentazione relativa al primo deposito, avvenuto via PEC.

Perfezionamento deposito telematico

Nel processo civile telematico, ogni deposito genera quattro distinte comunicazioni PEC:

  1. Ricevuta di accettazione: il sistema accoglie il messaggio inviato;

  2. Ricevuta di consegna: l’atto arriva alla casella PEC dell’ufficio giudiziario;

  3. Controlli automatici: verifica formale dell’indirizzo del mittente, del formato e della dimensione;

  4. Controllo del cancelliere: verifica manuale e definitiva accettazione (o rigetto).

Il deposito si considera perfezionato già al momento della seconda PEC, con effetto provvisorio, salvo successivo buon esito della verifica finale da parte della cancelleria.

Basta la contestazione mirata

Nel caso analizzato, il deposito iniziale del 14 marzo 2016 era stato rifiutato il 18 marzo con la quarta PEC. L’opponente aveva poi effettuato un nuovo deposito cartaceo il 30 marzo, allegando le quattro ricevute PEC.

Il Tribunale aveva ritenuto la prova insufficiente, poiché mancavano i file originali e il contenuto informatico del primo atto. Ma per la Cassazione questa impostazione è errata: la parte non deve dimostrare l’intero iter tecnico, ma può concentrarsi esclusivamente sui motivi esplicitati nel rigetto della cancelleria.

Il principio di diritto della Cassazione

Secondo la Suprema Corte: “Nell’ipotesi in cui la quarta p.e.c. dia esito non favorevole, la parte ha l’onere di attivarsi con immediatezza per rimediare al mancato perfezionamento del deposito telematico; la reazione immediata si sostanzia, alternativamente e secondo i casi:

(a) in un nuovo tempestivo deposito, da considerare in continuazione con la precedente attività, previa contestazione delle ragioni del rifiuto;
(b) in una tempestiva formulazione dell’istanza di rimessione in termini ove la decadenza si assuma in effetti avvenuta ma per fatto non imputabile alla parte.”

In altre parole, basta contestare i motivi specifici contenuti nella quarta PEC. La prova dell’intera regolarità tecnica o del contenuto del ricorso non può essere richiesta dal giudice, salvo specifica eccezione della controparte.

Giudizio da rifare

Rilevata l’erroneità del ragionamento del giudice di merito, la Cassazione ha rinviato il procedimento al Tribunale di Teramo, in diversa composizione, affinché valuti:

  • la tempestività della reazione della parte al rifiuto;

  • la legittimità delle ragioni del rigetto indicate dalla cancelleria.

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spese processuali

Spese processuali anche se il reato è prescritto La sentenza della Cassazione chiarisce che la prescrizione non evita la condanna dell’imputato alle spese della parte civile

Spese processuali e prescrizione

Con la sentenza n. 18619/2025, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito un importante principio in materia di spese processuali in caso di estinzione del reato per prescrizione, affermando che l’imputato può essere comunque condannato al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, anche se non vi è stata pronuncia di colpevolezza.

Il fatto

Nel caso esaminato, il tribunale di merito aveva dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Nonostante ciò, il giudice aveva condannato l’imputato al pagamento delle spese legali sostenute dalla parte civile costituitasi nel processo. L’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, sostenendo che, venendo meno l’accertamento della responsabilità penale, non vi fosse legittimazione a imporre il pagamento delle spese a suo carico.

La motivazione della Corte

La Cassazione ha rigettato il ricorso e ha riaffermato che:

“Nell’ipotesi di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può comunque essere condannato al pagamento delle spese in favore della parte civile, non essendo la prescrizione indice di soccombenza”.

Secondo la Corte, la prescrizione non implica una pronuncia di assoluzione né tantomeno una valutazione favorevole in ordine alla fondatezza delle difese dell’imputato. Anzi, nel processo penale, la decisione di non proseguire per intervenuta estinzione del reato non impedisce al giudice di decidere sulle spese processuali, tenendo conto del comportamento complessivo delle parti.

Il principio di diritto affermato

Il principio sancito dalla sentenza è il seguente:

Anche in caso di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può essere condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, soprattutto quando quest’ultima si sia costituita tempestivamente e la sua pretesa risarcitoria non sia risultata temeraria o strumentale.

Ciò si fonda sull’interpretazione sistematica dell’art. 541 c.p.p., secondo cui il giudice, nel disporre la condanna alle spese, può tener conto dell’andamento processuale e delle risultanze probatorie, pur senza emettere un giudizio di responsabilità.

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giurista risponde

Infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie Può ritenersi integrato il delitto di patrocinio infedele di cui all’art. 380 c.p. al cospetto della violazione di doveri professionali dai quali non consegua alcun nocumento?

Quesito con risposta a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano

 

In tema di reati contro l’attività giudiziaria, il reato di patrocinio infedele non è integrato dalla sola violazione dei doveri professionali, occorrendo anche la verificazione di un nocumento agli interessi della parte, che può essere costituito dal mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero da situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione. – Cass., sez. VI, 28 gennaio 2025, n. 3431.

Con sent. 3431/2025, la Suprema Corte – chiamata a pronunciarsi in tema di patrocinio infedele previsto e punito dall’art. 380 c.p. – conformandosi all’orientamento giurisprudenziale in seno alla stessa consolidatosi, è tornata a sancire la necessità, ai fini dell’integrazione del delitto di cui trattasi, della sussistenza di un concreto nocumento cagionato all’assistito al cospetto della condotta che si assume infedele del patrocinatore.

La pronuncia originava dal ricorso promosso dall’imputato avverso la sentenza emessa in grado d’appello confermativa della condanna di primo grado, con la quale veniva riconosciuta la responsabilità penale del prefato accusato di aver abbandonato la difesa del proprio assistito (omettendo di comparire e costituirsi in giudizio). Ebbene, la difesa ricorreva per Cassazione eccependo violazione di legge ed erronea affermazione della responsabilità penale in ordine al delitto di cui all’art. 380 c.p. per insussistenza degli elementi strutturali del reato (sub species dell’elemento soggettivo e oggettivo), atteso che:

  • nell’ambito dei tre procedimenti penali oggetto d’imputazione, l’assistito veniva prosciolto e che all’odierno ricorrente alcun emolumento veniva corrisposto;
  • con riferimento al procedimento di natura civile, al ricorrente non veniva conferito mandato alle liti, difettando così il presupposto di legittimazione del difensore a costituirsi in giudizio.

Alcun pregiudizio subiva la persona offesa, ravvisandosi l’assenza nocumento da intendersi non necessariamente in senso civilistico quale danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale, che avrebbero potuto conseguire al corretto e leale esercizio del patrocinio legale (Cass., sez. V, 3 febbraio 2017, n. 22978; Cass., sez. II, 14 febbraio 2019, n. 12361). Pertanto, nell’accogliere il ricorso, la Corte di legittimità ha sancito l’impossibilità di sussumere il concreto nell’alveo della fattispecie incriminatrice in esame partendo proprio dalla definizione del nocumento quale elemento costitutivo indefettibile della sussistenza dell’illecito penale. In plurimi arresti, infatti, il Supremo Consesso ha sancito il principio secondo il quale la sola violazione dei doveri professionali gravanti in capo al patrocinatore non sarebbe sufficiente ad integrare gli estremi del delitto de quo, essendo necessario che dalla stessa derivi la verificazione dell’evento ovverossia di un nocumento agli interessi della parte ravvisabile anche al cospetto del mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero di situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione (Cass., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 8617; Cass. pen. 7 novembre 2019, n. 5764; Cass., sez. VI, 16 giugno 2015, n. 26542).

 

(*Contributo in tema di “Il delitto di infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie ”, a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)