transazione novativa

Transazione novativa: guida e modello Cos’è la transazione novativa, quali sono le caratteristiche, la normativa, la giurisprudenza in materia e un fac-simile

Cos’è la transazione novativa

La transazione novativa è un istituto giuridico attraverso il quale le parti coinvolte in una controversia decidono di estinguere il rapporto obbligatorio preesistente, sostituendolo con una nuova obbligazione. Questo accordo mira a risolvere una lite già in atto o a prevenirne una futura, creando un nuovo rapporto giuridico che sostituisce integralmente quello precedente.

Caratteristiche

Perché una transazione possa essere qualificata come novativa, è necessario che sussistano specifici requisiti sia oggettivi che soggettivi:

  • Requisito oggettivo: le concessioni reciproche tra le parti devono determinare una sostituzione totale del rapporto precedente, creando una situazione di incompatibilità tra il vecchio e il nuovo accordo.
  • Requisito soggettivo: è fondamentale una chiara manifestazione della volontà delle parti di estinguere il rapporto originario e instaurarne uno nuovo.

La giurisprudenza ha ribadito che, affinché si configuri una transazione novativa, è essenziale infatti che le parti esprimano inequivocabilmente l’intenzione di sostituire il precedente rapporto obbligatorio con uno nuovo. In mancanza di tale volontà chiara, l’accordo transattivo non può essere considerato novativo.

Elementi costitutivi

Gli elementi fondamentali che caratterizzano una transazione novativa sono:

  • Animus novandi: la volontà delle parti di novare, ossia di creare una nuova obbligazione in sostituzione di quella precedente.
  • Aliquid novi: l’elemento di novità che distingue la nuova obbligazione da quella estinta, che può riguardare l’oggetto, il titolo o le modalità della prestazione.

Effetti della transazione novativa

La stipula di una transazione novativa comporta l’estinzione dell’obbligazione originaria e la nascita di una nuova obbligazione. Di conseguenza, eventuali garanzie o accessori legati al rapporto precedente cessano di avere effetto, a meno che non siano espressamente rinnovati nel nuovo accordo.

È importante notare che, in caso di inadempimento della nuova obbligazione, la Cassazione nell’ordinanza n. 29219/20924 ha chiarito che: «La risoluzione della transazione per inadempimento non può essere richiesta se il rapporto preesistente è stato estinto per novazione, salvo che il diritto alla risoluzione sia stato espressamente stipulato» va interpretata in senso restrittivo, avuto riguardo al preciso e univoco tenore testuale della disposizione, che fa menzione espressa e in modo esclusivo della risoluzione della transazione “per inadempimento”, e ai principi generali della risoluzione riguardanti i contratti a prestazioni corrispettive, rispetto ai quali il venir meno del sinallagma funzionale, qualunque sia la causa – l’inadempimento, l’impossibilità sopravvenuta o la eccessiva onerosità – comporta sempre la caducazione del contratto; alla interpretazione letterale e sistematica segue che la irresolubilità della transazione novativa deve intendersi circoscritta alla sola “risoluzione per inadempimento” e non può estendersi anche alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta (così, in motivazione, Cass. 28/08/1993, n. 9125; v. anche Cass. 20/02/2020, n. 4451).”

Differenze tra transazione semplice e novativa

La principale distinzione tra transazione semplice e transazione novativa risiede negli effetti prodotti sull’obbligazione originaria:

  • Transazione semplice: le parti, mediante reciproche concessioni, regolano o modificano il rapporto preesistente senza estinguerlo. L’obbligazione originaria permane, sebbene adattata alle nuove condizioni concordate.
  • Transazione novativa: l’accordo comporta l’estinzione dell’obbligazione precedente e la creazione di una nuova, con caratteristiche differenti rispetto alla prima.

La volontà di novare deve essere chiaramente espressa dalle parti; in assenza di tale manifestazione, l’accordo sarà interpretato come una transazione semplice.

Giurisprudenza rilevante

Nell’ordinanza n. 7963/2020 la Cassazione ha ricorda che la transazione novativa si distingue dal negozio di accertamento  perché “diversamente dalla transazione, “che postula una reciprocità di concessioni tra le parti in modo che ciascuna di esse subisca un sacrificio, e della rinuncia, che postula l’esistenza di un diritto acquisito e la volontà abdicativa volta e dismettere il diritto medesimo, il negozio di accertamento ha la funzione di fissare il contenuto di un rapporto giuridico preesistente con effetto preclusivo di ogni ulteriori contestazione al riguardo; esso non costituisce fonte autonoma degli effetti giuridici da esso previsti, ma rende definitive ed immutabili situazioni effettuali già in stato di obiettiva incertezza, vincolando le parti ad attribuire al rapporto precedente gli effetti che risultano dall’accertamento, e precludendo loro ogni pretesa, ragione od azione in contrasto con esso”.

Fac-simile di transazione novativa

Di seguito un esempio di clausola di transazione novativa:

Accordo di Transazione Novativa

Tra

[Nome e cognome], nato a [luogo], il [data], residente in [indirizzo], codice fiscale [codice fiscale],

e

[Nome e cognome], nato a [luogo], il [data], residente in [indirizzo], codice fiscale [codice fiscale],

Premesso che:

– Tra le parti è sorta una controversia in merito a [descrizione della controversia];

– Le parti intendono definire amichevolmente la suddetta controversia, estinguendo il precedente rapporto obbligatorio e sostituendolo con una nuova obbligazione.

Si conviene e stipula quanto segue:

  1. Le premesse costituiscono parte integrante del presente accordo.
  2. Le parti dichiarano di estinguere consensualmente il rapporto obbligatorio originario relativo a [descrizione del rapporto originario].
  3. In sostituzione del rapporto estinto, [Nome e cognome] si obbliga a [descrizione della nuova obbligazione], entro e non oltre il [data].
  4. Con la sottoscrizione del presente accordo, le parti rinunciano a qualsiasi ulteriore pretesa derivante dal rapporto originario.
  5. Il presente accordo ha efficacia di transazione novativa ai sensi dell’art. 1976 c.c.

Letto, confermato e sottoscritto.

[Luogo], [Data]

___________________________

[Firma di [Nome e cognome]]

___________________________

[Firma di [Nome e cognome]]

 

 

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enfiteusi

Enfiteusi: guida e modello Cos’è l’enfiteusi, quali caratteristiche presenta, quali sono gli obblighi, la durata e la giurisprudenza in materia. Guida con modello

Cos’è l’enfiteusi

L’enfiteusi è un diritto reale di godimento su un bene altrui che attribuisce all’enfiteuta poteri analoghi a quelli del proprietario, con l’obbligo di migliorare il fondo e di corrispondere un canone periodico al concedente. Questo istituto, disciplinato dagli articoli 957-977 del Codice Civile italiano, ha origini antiche e trova applicazione soprattutto in ambito agricolo.

Caratteristiche dell’enfiteusi

L’enfiteusi conferisce all’enfiteuta il diritto di utilizzare il bene e di percepirne i frutti, similmente al proprietario. Tuttavia, l’enfiteuta è tenuto a:

  • Migliorare il fondo: apportando interventi che ne aumentino la produttività o il valore.
  • Pagare un canone periodico: che può essere in denaro o in natura, come stabilito nel contratto.

La durata dell’enfiteusi può essere perpetua o temporanea, ma, se a tempo determinato, non può essere inferiore a venti anni.

Obblighi dell’enfiteuta

Oltre agli obblighi principali di miglioramento e pagamento del canone, l’enfiteuta deve:

  • Non mutare la destinazione economica del fondo: salvo diverso accordo con il proprietario.
  • Consentire ispezioni: per verificare lo stato del bene e l’adempimento degli obblighi assunti.

Estinzione dell’enfiteusi

L’enfiteusi si estingue per:

  • Scadenza del termine: se costituita a tempo determinato.
  • Perimento totale del fondo: quando il bene perde completamente la sua utilità.
  • Affrancazione: l’enfiteuta può acquisire la piena proprietà del bene pagando una somma capitale, liberandosi così dall’obbligo del canone.
  • Devoluzione: il concedente può richiedere la risoluzione del contratto in caso di inadempimento grave da parte dell’enfiteuta, come il mancato pagamento del canone o il deterioramento del fondo.

Giurisprudenza rilevante

Le Corti superiori hanno più volte affrontato temi legati all’enfiteusi.

Ad esempio, nella sentenza n. 30823/2023 ha chiarito che il livello è assimilabile all’enfiteusi, poiché nel tempo i due istituti si sono fusi, rientrando entrambi tra i diritti reali di godimento. La sua esistenza va provata attraverso il titolo costitutivo o un atto di ricognizione, mentre i dati catastali non hanno valore probatorio.

Con l’ordinanza n. 26520/2018 la Cassazione ha sancito invece che la devoluzione di un fondo enfiteutico può essere richiesta separatamente per ciascun coenfiteuta, senza necessità di litisconsorzio. La pronuncia vale solo per le quote dei soggetti citati in giudizio, senza pregiudicare i diritti degli altri.

Con la sentenza n. 406 del 7 aprile 1988, la Corte Costituzionale ha esaminato aspetti relativi alla determinazione del canone enfiteutico.

Fac-simile di contratto di enfiteusi

Di seguito un esempio di contratto di costituzione di enfiteusi:

CONTRATTO DI COSTITUZIONE DI ENFITEUSI

Tra

Il Sig. ____________, nato a ____________ il ____________, residente in ____________, (di seguito “Concedente”)

e

Il Sig. ____________, nato a ____________ il ____________, residente in ____________, (di seguito “Enfiteuta”)

si conviene e stipula quanto segue:

  1. Oggetto del contratto: Il Concedente concede in enfiteusi all’Enfiteuta il fondo sito in ____________, censito al Catasto al foglio ___, particella ___.
  2. Durata: L’enfiteusi ha una durata di ___ anni, con decorrenza dal ____________ al ____________.
  3. Canone: L’Enfiteuta si obbliga a corrispondere al Concedente un canone annuo di € ____________, da pagarsi in un’unica soluzione entro il ____________ di ogni anno.
  4. Obblighi dell’Enfiteuta: L’Enfiteuta si impegna a migliorare il fondo mediante ____________ e a non mutarne la destinazione senza il consenso scritto del Concedente.
  5. Affrancazione: L’Enfiteuta ha facoltà di affrancare il fondo secondo le modalità previste dagli articoli 971 e seguenti del Codice Civile.

Letto, confermato e sottoscritto.

Luogo e data ____________

Il Concedente _____________________

L’Enfiteuta _____________________

Questo modello è a scopo illustrativo e andrebbe adattato alle specifiche esigenze delle parti coinvolte.

 

 

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l'avvocato paga il domiciliatario

L’avvocato paga il domiciliatario se non provvede il cliente L'avvocato paga il domiciliatario se la parte non lo fa: i chiarimenti della Cassazione sulla deontologia forense

Deontologia Forense: chiarimenti dalla Cassazione

L’avvocato paga il domiciliatario se non provvede il cliente. Se il dominus non rispetta questa norma deontologica, è soggetto a sanzioni. Sono le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione a chiarire alcuni aspetti del Codice deontologico forense con l’ordinanza n. 4850/2025 depositata il 25 febbraio.

Censura per l’avvocato che non paga il domiciliatario

L’ordinanza riguarda una disputa tra due avvocati che lamentavano il mancato pagamento per servizi svolti come domiciliatari per conto di un collega. Il Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) ha censurato l’avvocato, che ha impugnato la decisione davanti al Consiglio Nazionale Forense (CNF), sostenendo l’estinzione del procedimento disciplinare. Tuttavia, il CNF ha respinto il ricorso e confermato la sanzione. L’avvocato ha quindi presentato ricorso alla Corte di Cassazione, ribadendo la presunta estinzione del procedimento disciplinare. La Cassazione, analizzando il ricorso relativo al mancato pagamento dei colleghi domiciliatari, ha accolto il primo motivo e respinto il secondo.

Il dominus provvede al compenso del domiciliatario

Nella motivazione, la Corte di Cassazione sottolinea che, ai sensi dell’articolo 43 del Nuovo Codice deontologico Forense, se un avvocato incarica un collega di rappresentare e assistere un proprio cliente e quest’ultimo non adempie al pagamento, è l’avvocato stesso a dover provvedere al compenso.

La mancata osservanza di questa norma disciplinare volta a tutelare i rapporti tra colleghi comporta una violazione disciplinare.

 

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Allegati

clausole claims made

Le clausole Claims Made Clausole Claims Made: definizione, tipologie, ambito applicativo, rischi e giurisprudenza rilevante in materia

Cosa sono le clausole claims made

Le clausole claims made rappresentano una tipologia specifica di accordo all’interno delle polizze di assicurazione per la responsabilità civile. Queste clausole stabiliscono che la copertura assicurativa si attiva nel momento in cui l’assicurato riceve una richiesta di risarcimento durante il periodo di validità della polizza, indipendentemente da quando si sia verificato l’evento dannoso. Questo approccio si differenzia dal regime “loss occurrence”, in cui la copertura è legata al momento in cui si verifica il sinistro, a prescindere da quando viene avanzata la richiesta di risarcimento.

Tipologie di clausole Claims Made

Esistono principalmente due varianti di clausole “claims made”:

  1. Claims Made Pura: la copertura si attiva per tutte le richieste di risarcimento ricevute dall’assicurato durante la validità della polizza, indipendentemente da quando si sia verificato l’evento dannoso.
  2. Claims Made Mista: la copertura è limitata alle richieste di risarcimento relative a eventi accaduti entro un determinato periodo precedente o coincidente con la validità della polizza.

Rischi associati a queste clausole

L’adozione di clausole “claims made” può comportare alcuni rischi per l’assicurato, tra cui:

  • Limitazione temporale: se la richiesta di risarcimento viene presentata dopo la scadenza della polizza, l’assicurato potrebbe non essere coperto, anche se l’evento dannoso è avvenuto durante la validità della polizza.
  • Retroattività: alcune polizze potrebbero non coprire eventi accaduti prima dell’inizio della polizza, escludendo così sinistri “pregressi”.

Assicurazioni responsabilità civile in regime Claims Made

Nel contesto delle assicurazioni di responsabilità civile, le clausole “claims made” sono spesso utilizzate per coprire professionisti come medici, avvocati o ingegneri. Questo perché in tali professioni possono emergere richieste di risarcimento anche a distanza di anni dall’evento che ha causato il danno. Le polizze “claims made” offrono quindi una copertura basata sul momento della richiesta, piuttosto che sull’evento stesso.

Giurisprudenza rilevante

La validità e l’applicazione delle clausole “claims made” sono state oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali.

La Corte di Cassazione italiana, con la sentenza a SU n. 9140 del 6 maggio 2016, ha affermato la legittimità di tali clausole, purché rispettino determinati criteri di equilibrio contrattuale e non risultino vessatorie per l’assicurato.

Successivamente, con la nuova sentenza a SU 22437 del 13 settembre 2018, la stessa Corte ha concluso nel senso che la clausola claims made, in astratto, non possa essere considerata vessatoria né immeritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. Tuttavia, è essenziale il ruolo dell’intermediario assicurativo nel fornire un’informazione chiara e completa all’assicurato circa gli effetti di tale clausola. In particolare, l’intermediario deve informare adeguatamente il cliente sulle implicazioni della clausola claims made, ossia sulla limitazione della copertura ai sinistri denunciati durante il periodo di validità della polizza.

Con la pronuncia n. 20873/2024 la Cassazione ha accolto la censura del ricorrente e ha stabilito che nell’ambito dell’assicurazione della responsabilità civile, la clausola claims made non configura una decadenza convenzionale nulla ai sensi dell’art. 2965 c.c., in quanto la perdita del diritto non dipende esclusivamente dalla scelta di un terzo. La richiesta del danneggiato, infatti, rappresenta un elemento determinante per la definizione del rischio assicurato. Di conseguenza, questo tipo di contratto rientra pienamente nel modello dell’assicurazione della responsabilità civile, collocandosi all’interno del più ampio genere dell’assicurazione contro i danni disciplinato dall’art. 1904 c.c., di cui la clausola claims made costituisce un’espressione coerente con la funzione indennitaria.

 

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reato di falso materiale

Reato di falso materiale coprire la targa per sfuggire all’autovelox La Cassazione conferma il reato di falso materiale nei confronti dell'automobilista che ha coperto la targa per sfuggire all'autovelox

Targa manomessa è reato

Con la sentenza n. 5255/2025, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito un principio importante in materia di violazioni stradali e responsabilità penale: coprire la targa dell’auto con del nastro adesivo per eludere i controlli dell’autovelox costituisce reato di falso materiale. Questo pronunciamento rappresenta un punto fermo nell’interpretazione delle condotte fraudolente tese a sottrarsi alle sanzioni amministrative, chiarendo i confini tra illecito amministrativo e reato penale.

Il caso: l’automobilista e la targa camuffata

Il caso riguarda un automobilista cui veniva rigettata la richiesta di riesame avverso il provvedimento di convalida del sequestro probatorio di una targa contraffatta (con apposizione di nastro adesivo).

Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, per il tramite del proprio difensore, lamentando che il Tribunale aveva ricondotto la condotta alla violazione del precetto penale, anziché all’illecito amministrativo previsto dal comma 12 dell’art. 100 cod. strada, alla luce del quale “chiunque circola con un veicolo munito di targa non propria o contraffatta è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da Euro 2.046 a Euro 8.186”. Si deduce altresì vizio di motivazione apparente, per non avere il collegio del riesame adeguatamente valorizzato la circostanza che l’indagato non si era accorto dell’esistenza di nastro adesivo sulla targa, come dimostrato dal fatto che aveva superato – lampeggiando – l’auto dei carabinieri e si era poi fermato spontaneamente.

Insiste il ricorrente nel sostenere l’innocuità del falso, alla luce del fatto che il falso realizzato era macroscopicamente percepibile da chiunque e, a tutto voler concedere, sarebbe ravvisabile, a suo avviso, la violazione dell’art. 102, comma 7, cod. strada che sanziona chi circola con targa non chiaramente ed integralmente leggibile.

La decisione della Cassazione: il falso materiale si configura

La Cassazione ha confermato la condanna, ribadendo che “integra il reato di falsità materiale, commessa dal privato in certificati o autorizzazioni amministrative (artt. 477 e 482 c.p.), la condotta di colui che modifica i dati identificativi della targa della propria autovettura mediante applicazione di nastro adesivo, mentre non è configurabile l’illecito amministrativo previsto dall’art. 100, comma 12, cod. strada., che sanziona chi circola con veicolo munito di targa non propria o contraffatta nel caso in cui questi non sia l’autore della contraffazione. (Sez. 5, n. 20799 del 22/02/2018, Cognetta, Rv. 273035 – 01)”.

Le ulteriori considerazioni dedicate alla innocuità del falso, per gli Ermellini, non colgono nel segno, proprio alla luce della finalità emergente dalle dichiarazioni rese dallo stesso indagato di voler rendere la targa non identificabile ai rilevatori automatici di velocità.

Va ribadito proseguono i giudici che, in tema di falsità in atti, ricorre il cosiddetto “falso innocuo” nei casi in cui l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o l’alterazione (nel falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e non esplichino effetti sulla sua funzione documentale, non dovendo l’innocuità essere valutata con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto (Sez. 5, n. 5896 del 29/10/2020, dep. 2021, Rv. 280453 – 01).

In tale contesto, “la disinvolta condotta di guida e il fatto che il ricorrente si fosse fermato sono dati che non assumono alcun rilievo rispetto alle conclusioni univocamente ritraibili dagli elementi sopra ricordati”.

Il ricorso è dunque rigettato.

porto d'armi

Porto d’armi: come si ottiene Guida all’ottenimento del porto d’armi, quali sono le tipologie, come si presenta la domanda, qual è la normativa di riferimento

Il porto d’armi: cos’è

Il porto d’armi è un’autorizzazione rilasciata dalle autorità competenti che consente ai cittadini di detenere e, in alcuni casi, portare armi da fuoco. In Italia, la normativa che disciplina il porto d’armi è principalmente contenuta nel Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS) e nelle relative disposizioni attuative.

Normativa di riferimento

La disciplina del porto d’armi in Italia è regolata principalmente dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS) e dalle relative disposizioni attuative. Nel corso degli anni, diverse modifiche legislative hanno aggiornato la materia, tra cui il Decreto Legislativo n. 104 del 2018, che ha recepito la Direttiva UE 2017/853, introducendo novità sia per il rilascio del porto d’armi per difesa personale sia per la detenzione di armi in casa.

Tipologie di porto d’armi

Esistono diverse tipologie di porto d’armi, ciascuna con specifiche finalità e requisiti:

  • Porto d’armi per difesa personale: autorizza il titolare a portare un’arma fuori dalla propria abitazione per difesa personale. Ha una validità di un anno ed è rilasciato dalla Prefettura.
  • Porto d’armi per uso sportivo: consente di detenere e utilizzare armi per attività sportive, come il tiro a segno o il tiro a volo. La licenza ha una validità di cinque anni ed è rilasciata dal Questore.
  • Porto d’armi per uso venatorio: permette di portare fucili da caccia durante la stagione venatoria. Anch’essa ha una validità di cinque anni ed è rilasciata dal Questore.
  • Licenza per collezione di armi: autorizza la detenzione di armi a scopo collezionistico, senza possibilità di utilizzarle. Questa licenza ha carattere permanente.

Procedura per la richiesta

La procedura per ottenere il porto d’armi varia in base alla tipologia richiesta, ma generalmente include i seguenti passaggi:

  1. Presentazione della domanda: la richiesta deve essere inoltrata all’autorità competente (Questura o Prefettura) utilizzando gli appositi moduli disponibili presso gli uffici di Polizia o Carabinieri.
  2. Requisiti del richiedente: è necessario essere maggiorenni, non avere precedenti penali e dimostrare l’idoneità psico-fisica attraverso certificati medici specifici.
  3. Documentazione aggiuntiva: a seconda della licenza richiesta, potrebbero essere necessari ulteriori documenti, come l’attestato di frequenza a corsi di tiro per uso sportivo o il tesserino venatorio per uso caccia.

Rinnovo del porto d’armi

Il rinnovo dell’autorizzazione deve essere richiesto prima della scadenza della licenza in possesso. La procedura è simile a quella per il primo rilascio e richiede la presentazione di una nuova domanda corredata dalla documentazione aggiornata. È fondamentale rispettare i termini di validità per evitare sanzioni o il ritiro dell’autorizzazione. Per la licenza ad uso sportivo o per quella di caccia esempio il rinnovo deve avvenire prima della scadenza dei 5 anni, per la difesa personale invece prima del decorso di un anno.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza italiana ha più volte affrontato temi legati al porto d’armi:

Corte di Cassazione n. 28320/2019: Il possesso di un’autorizzazione per il porto d’armi a fini sportivi non legittima il trasporto dell’arma per scopi differenti da quelli previsti dal provvedimento amministrativo.

Consiglio di Stato n. 6789/ 2020: La normativa sulle autorizzazioni di polizia, secondo gli artt. 11 e 43 del T.U.L.P.S., mira a impedire il rilascio del porto d’armi a persone che, per il loro passato, dimostrino scarsa affidabilità nel corretto utilizzo delle armi, rappresentando un potenziale rischio per la sicurezza pubblica. Tuttavia, è necessario che i precedenti del richiedente evidenzino una propensione alla violenza o all’uso improprio delle armi, tale da far prevedere, in via preventiva, un pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza altrui.

Consiglio di Stato n. 7545/2024 Il ritiro della licenza di detenzione di armi è legittimo in caso di abuso, come nello svolgimento illegale dell’attività venatoria, poiché qualsiasi elemento che generi dubbi sulla possibilità di un uso improprio delle armi giustifica l’intervento dell’autorità. In Italia, non esiste un diritto costituzionale al possesso di armi, ma vige un divieto generale, con la possibilità di concedere licenze solo a soggetti ritenuti pienamente affidabili. Il controllo amministrativo in questo ambito è particolarmente rigoroso, poiché mira a prevenire rischi per la sicurezza pubblica e l’incolumità dei cittadini. La concessione della licenza, quindi, è subordinata a un’attenta valutazione comparativa tra l’interesse del richiedente e il dovere dello Stato di garantire la sicurezza collettiva, con la tutela della pubblica incolumità che assume sempre un ruolo prioritario.

 

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compensi anche per le udienze

Avvocato: compensi anche per le udienze di mero rinvio All’avvocato d’ufficio spettano i compensi anche per le udienze di mero rinvio nel processo penale

Il diritto ai compensi per le udienze di rinvio

Al difensore d’ufficio spettano i compensi anche per le udienze di mero rinvio. Questa regola si applica anche nei casi in cui il rinvio sia stato disposto per la ricerca dell’imputato irreperibile. La presenza obbligatoria del difensore, infatti, comporta un’attività professionale che deve essere adeguatamente remunerata. Così la Cassazione, nella sentenza n. 4539/2025.

La vicenda

Nella vicenda, l’avvocato aveva chiesto al tribunale di Reggio Calabria, la liquidazione dei compensi e il rimborso delle spese in relazione all’attività difensiva d’ufficio svolta nell’interesse dell’imputato ammesso al gratuito patrocinio. Il tribunale rigettava la richiesta e, proposto ricorso in opposizione, anche questo veniva rigettato sul presupposto che il difensore avesse presenziato a quattro udienze di mero rinvio, che si erano rese necessarie per l’espletamento delle ricerche dell’imputato poi dichiarato irreperibile, e che erano escluse, in quanto tali, dalla liquidazione ai sensi dell’art. 12, comma 1, del D.M. n. 55/2014.

La questione approdava, quindi, in Cassazione, innanzi alla quale l’avvocato si doleva del rigetto dell’istanza di liquidazione onorari sul presupposto della mancanza di attività difensiva, senza, invece, considerare che nel processo penale vige il principio dell’obbligatorietà del diritto di difesa dalla quale discende l’obbligatorietà dell’attività difensiva, tanto più nel momento in cui il difensore sia nominato d’ufficio e quindi debba onorare un incarico avente natura pubblica, in virtù del quale è tenuto a presenziare anche alle udienze di mero rinvio, non celebrabili in assenza del difensore.

Compensi difensore d’ufficio

Per gli Ermellini, il motivo è fondato.

L’art. 117 d.P.R. n. 115 del 2002, premettono, stabilisce, infatti, al comma 1 che “L’onorario e le spese spettanti al difensore di ufficio della persona sottoposta alle indagini, dell’imputato o del condannato irreperibile sono liquidati dal magistrato nella misura e con le modalità previste dall’articolo 82”, ni virtù del quale “L’onorario e le spese spettanti al difensore sono liquidati dall’autorità giudiziaria con decreto di pagamento, osservando la tariffa professionale in modo che, in ogni caso, non risultino superiori ai valori medi delle tariffe professionali vigenti relative ad onorari, diritti ed indennità, tenuto conto della natura dell’impegno professionale, in relazione all’incidenza degli atti assunti rispetto alla posizione processuale della persona difesa”.

Lo stesso art. 12 del d.m. n. 55 del 2014, stabilisce che li compenso si liquida per fasi, intendendosi con ciò la fase di studio, ivi compresa l’attività investigativa, la fase introduttiva del giudizio, la fase istruttoria o dibattimentale e la fase decisionale.

Per cui proseguono i giudici, “nessuno sbarramento è, dunque, imposto dal legislatore in ordine alla liquidazione spettante al difensore d’ufficio di persona irreperibile in relazione alla natura delle specifiche attività svolte, ossia all’an della spettanza dei compensi, incidendo le specifiche attività svolte soltanto sulla valutazione del quantum della pretesa, come evincibile dal ridetto art. 82, che richiama per l’appunto l’impegno professionale profuso nello svolgimento dell’incarico”.

Il DM 55/2014

Con riguardo a questo specifico aspetto, inoltre, l’art. 12, secondo capoverso, del d.m. n. 55 del 2014, fornisce ulteriori precisazioni, allorché stabilisce che “Ai fini della liquidazione del compenso spettante per l’attività penale […] si tiene altresì conto del numero di udienze, pubbliche o camerali, diverse da quelle di mero rinvio, e del tempo necessario all’espletamento delle attività medesime”, oltre naturalmente agli altri criteri specificati nella prima parte, ossia “delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della complessità del procedimento, della gravità e del numero delle imputazioni, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate, dei contrasti giurisprudenziali, dell’autorità giudiziaria dinanzi cui si svolge la prestazione, della rilevanza patrimoniale, del numero dei documenti e degli atti da esaminare, della continuità dell’impegno anche in relazione alla frequenza di trasferimenti fuori dal luogo ove svolge la professione in modo prevalente, nonché dell’esito ottenuto avuto anche riguardo alle conseguenze civili e alle condizioni finanziarie del cliente”.

Compensi anche per le udienze di mero rinvio

“Ciò comporta – affermano quindi da piazza Cavour – che la partecipazione ad udienze di mero rinvio non incide sull’esistenza del diritto al compenso, comunque dovuto ai sensi del terzo comma dell’art. 12 d.m. n. 55 del 2014, ma semmai sulla sola quantificazione dello stesso, in uno con gli ulteriori criteri meglio specificati nel comma 1 della predetta disposizione”.

Del resto, negli stessi termini si è già espressa la Cassazione, nell’interpretare li ridetto art. 12, comma 1, affermando, “che il tempo necessario per lo svolgimento della prestazione professionale rileva unicamente ai fini della quantificazione del compenso conseguentemente maturato, ma non può in alcun modo comportare che, in ragione della asserita brevità temporale di esecuzione della stessa, li compenso relativo possa essere addirittura negato (Cass., Sez. 6-2, 10/9/2020, n. 18791)”.

La decisione

Alla luce delle premesse svolte, dunque, ha errato il giudice di merito nel rigettare la pretesa liquidazione sul presupposto che le quattro udienze alle quali aveva partecipato il difensore fossero di mero rinvio, non soltanto perché non ha considerato che, nel processo penale, l’assistenza del difensore è sempre obbligatoria e che questi svolge attività anche solo con la sua necessaria presenza, ma anche perché, nella specie, i rinvii si erano resi necessari al fine di svolgere le ricerche dell’imputato irreperibile e attenevano, perciò, alla fase introduttiva del giudizio.

Peraltro, il giudice, concludono dalla S.C., avrebbe anche dovuto valutare quali ulteriori attività il difensore avesse avuto modo di compiere, anche tenendo conto del momento della nomina, se in udienza o fuori da essa.

In definitiva, il ricorso è fondato e l’ordinanza impugnata cassata con rinvio.

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Casella pec piena: obbligo di secondo invio La Cassazione ha chiarito l'obbligo per la PA di effettuare un secondo invio della notifica in caso di casella pec piena

Casella pec piena

Casella pec piena: la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3703/2025, ha chiarito l’obbligo per la Pubblica Amministrazione di effettuare un secondo invio della notifica a mezzo PEC quando la casella del destinatario risulta satura. Non è invece necessario un secondo invio in caso di indirizzo non valido.

Il caso concreto

La vicenda trae origine dal ricorso di una contribuente contro un’intimazione di pagamento, contestando l’omessa notifica di alcune cartelle e sollevando l’eccezione di prescrizione e decadenza. La CTP ha accolto il ricorso, e la CTR ha respinto l’appello dell’Agenzia delle Entrate, che ha poi ricorso in Cassazione.

Il principio stabilito dalla Cassazione

“In caso di notifica a mezzo PEC ex art. 60 D.P.R. 600/1973, ove l’indirizzo risulti non valido o inattivo, il completamento della notifica tramite deposito telematico e pubblicazione dell’avviso su InfoCamere, con successiva raccomandata, non richiede un secondo invio PEC, che è necessario solo in caso di casella satura al primo tentativo.”

Allegati

remissione di querela

Remissione di querela: guida e modello Remissione di querela: cos'è, quali sono le conseguenze e la giurisprudenza rilevante in materia

Cos’è la remissione di querela

La remissione di querela, disciplinata dall’art. 152 del Codice Penale, è l’atto con cui la persona offesa revoca la querela sporta per un reato perseguibile a querela di parte, provocando l’estinzione del reato. Questa facoltà è fondamentale nei procedimenti per reati minori, favorendo la composizione bonaria delle controversie.

Quando si può fare la remissione di querela

La remissione è possibile solo per i reati procedibili a querela di parte, come:

  • ingiuria (prima della depenalizzazione), diffamazione, lesioni lievi, violenza privata;
  • danneggiamento semplice, minacce non aggravate.

Essa può essere effettuata:

  • prima dell’inizio del processo o durante il processo, ma prima della condanna, ad eccezione dei casi previsti dalla legge;
  • in sede processuale o extraprocessuale in modo espresso o tacito (se il querelante compie atti incompatibili con la volontà di portare avanti la querela);
  • senza apporre alla stessa termini o condizioni, in essa però si può indicare la rinuncia al diritto di ottenere restituzioni e risarcimento del danno.

Conseguenze della remissione di querela:

  • estinzione del reato: il procedimento penale cessa;
  • impossibilità di riproporre la querela, in quanto l’atto è irrevocabile.

Accettazione della remissione

L’art. 155 c.p. stabilisce che:

  • la remissione non produce effetti se il querelato la ricusa in modo espresso o tacito;
  • se il querelato è un minore o un interdetto, non ha un rappresentante o è in conflitto con lo stesso, la remissione è accettata dal curatore speciale.

Giurisprudenza rilevante sulla remissione di querela

Di seguito alcune massime della Cassazione:

Cassazione n. 16375/2019

La rinuncia alla denuncia, una volta che la persona accusata l’ha formalmente accettata, porta alla chiusura del procedimento penale, annullando il reato. Questo effetto ha la precedenza su qualsiasi altra ragione di chiusura del caso. Se questa rinuncia avviene mentre il caso è in esame presso la Corte di Cassazione, i giudici devono obbligatoriamente dichiarare la fine del processo. La decisione di chiudere il caso per rinuncia alla denuncia cancella automaticamente tutte le condanne civili legate al reato.

Cassazione n. 35539/2021

“integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale del querelante, previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l’eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela (Sez. U, n. 31668 del 23/06/2016).

Cassazione n. 31832/2024

“Integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale del querelante, previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l’eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela.”

Cassazione n. 6031/2025

“ammissibile il ricorso per cassazione proposto anche al solo fine di introdurre nel processo la remissione della querela, ritualmente accettata, intervenuta dopo la sentenza impugnata e prima della scadenza del termine per la presentazione dell’impugnazione.”

Modello di remissione di querela

Oggetto: Remissione di querela
Spett.le Procura della Repubblica presso il Tribunale di [Città]
Io sottoscritto/a [Nome e Cognome], nato/a il [data] a [luogo], C.F. [codice fiscale], residente in [indirizzo], dichiaro di rimettere la querela sporta in data [inserire data] nei confronti del Sig./Sig.ra [Nome dell’imputato], nato/a il [data], per il reato di [indicare il reato] (art. [articolo c.p.]).
Dichiaro di essere consapevole che la remissione è irrevocabile e comporta l’estinzione del reato.
[Luogo, Data]
Firma: _____________________
Allega: copia del documento di identità.

 

 

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polizza condominio

Polizza condominio anche senza unanimità Polizza condominio: la Cassazione sostiene che l'assemblea ha la facoltà di stipulare una polizza assicurativa senza unanimità dei consensi

Polizza condominio: cosa dice la Cassazione

L’assemblea condominiale ha la facoltà di stipulare una polizza assicurativa per la tutela legale senza l’unanimità dei consensi. Ciò perché la spesa rientra tra i costi relativi alla gestione comune dell’edificio e deve essere ripartita tra tutti i condomini. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 4340/2025.

Il caso giuridico

Una condomina ha citato in giudizio il condominio per ottenere la dichiarazione di nullità o l’annullamento della delibera condominiale, con la quale veniva approvato l’addebito, nel bilancio condominiale, di un premio di € 1.688,91 per la stipula di una polizza assicurativa di tutela legale.
L’attrice sosteneva che tale spesa era lesiva del diritto individuale dei condomini, regolato dall’art. 1132 c.c., e deduceva che la delibera non rientrava nei poteri assembleari di cui all’art. 1135 c.c. Chiedeva, altresì, la condanna dell’indicato Condominio al risarcimento danni ex art. 96, co. 1 e 3, c.p.c.
Il giudice di pace adito respingeva la domanda che veniva rigettata anche in appello dal tribunale di Forlì, il quale richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 11349/2022 e n. 23254/2021), sosteneva che l’assemblea condominiale, nei limiti dell’art. 1135 c.c., può validamente deliberare spese per coprire costi processuali inerenti le parti comuni, senza violare il diritto dei condomini dissenzienti.
La questione approdava quindi in Cassazione.

La decisione della Cassazione

Innanzi al Palazzaccio, la condomina si doleva che la delibera assembleare approvando la stipula di una polizza assicurativa di tutela legale, con addebito del premio a tutti i condomini, avesse violato li diritto dei dissenzienti previsto dall’art. 1132 c.c., che consente loro di estraniarsi dalle conseguenze delle liti deliberate dall’assemblea, eccedendo “i poteri dell’assemblea previsti dall’art. 1135 c.c., in quanto ha imposto un onere generalizzato anche sui condomini non partecipanti alle controversie, incidendo sui diritti individuali e determinando un aggravio economico ingiustificato”.

Per gli Ermellini, tuttavia, la donna ha torto. Richiamando l’orientamento univoco ormai espresso in più pronunce, la S.C. ha ribadito che “l’assemblea condominiale ha li potere di stipulare una polizza per la tutela legale nell’ambito della propria discrezionalità gestionale”.  Inoltre, “l’articolo 1132 del codice civile non può essere invocato per invalidare la stipula della polizza, poiché questa non impone ai condomini dissenzienti di contribuire alle spese processuali di una controversia specifica, ma ha una finalità più generale di tutela del condominio. Questa Corte ha sottolineato che le spese per la stipula della polizza devono essere ripartite tra tutti i condomini in base ai criteri stabiliti dall’articolo 1123 c.c., trattandosi di una spesa relativa alla gestione comune dell’edificio (cfr., per tutte, Cass. n. 23254/2021 e Cass.
п.11891/2024)”.
Il ricorso è quindi inammissibile.

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