sospeso l'avvocato

Sospeso l’avvocato che si appropria del denaro del cliente La Cassazione conferma la sospensione dalla professione per due anni nei confronti dell'avvocato che si appropria delle somme del cliente

Illecito permanente avvocato

Sospeso l’avvocato che si appropria delle somme del cliente: l’illecito, ribadiscono le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 26374/2024, confermando la sospensione dalla professione per due anni, ha natura permanente.

La vicenda

Nella vicenda, alcuni soggetti segnalavano al competente Ordine professionale di essersi rivolti all’avvocato in questione per essere assistiti nella controversia avente ad oggetto il risarcimento del danno da essi sofferto in conseguenza della morte del rispettivo figlio e fratello in un sinistro stradale.

L’avvocato aveva incassato per conto loro la somma versata dalla compagnia assicuratrice tacendo la circostanza e intascando il denaro.

Veniva avviato procedimento disciplinare che si concludeva con l’irrogazione all’incolpato della sanzione della sospensione per due anni. La decisione veniva impugnata innanzi al CNF il quale rigettava il gravame.

L’avvocato impugnava quindi la decisione innanzi alla Cassazione con un ricorso fondato su un unico motivo.

Il ricorso

Nell’illustrazione del motivo, l’avvocato sosteneva che l’illecito disciplinare era stato commesso nel 2011, per cui esso era soggetto alle previsioni del codice deontologico vigente ratione temporis, le cui previsioni erano più favorevoli per l’incolpato rispetto alle corrispondenti previsioni del codice deontologico vigente al momento della decisione.

In particolare, il ricorrente sosteneva che “rispetto alla contestazione di violazione del dovere di corretta gestione del denaro del cliente, il codice deontologico attuale è più sfavorevole del precedente perché questo prevede la sospensione fino a tre anni, mentre quello non prevedeva espressamente una sanzione predeterminata”. Inoltre, che, “rispetto alla contestazione di violazione del dovere di informare il cliente, il codice deontologico attuale è più sfavorevole del precedente sia per le medesime ragioni appena indicate, sia perché qualifica quello di informazione come ‘dovere’, invece che come ‘obbligo'”.

La decisione

Per gli Ermellini, però, il ricorso è manifestamente infondato per due indipendenti ragioni.
La prima ragione è l’erroneità del presupposto di diritto da cui muove il ricorrente: ovvero che, avendo egli commesso il contestato illecito nel 2011, è a tale momento che occorre fare riferimento per individuare la disciplina applicabile ratione temporis.

La censura, osservano infatti dal Palazzaccio, “non tiene conto del fatto che una delle condotte ascritte a titolo di illecito disciplinare all’odierno ricorrente (non restituire il denaro incassato per conto dei clienti) è un illecito permanente”.

Come già stabilito dalla giurisprudenza precedente, aggiungono i giudici, “l’illecito disciplinare commesso dall’avvocato che si appropria di una somma di denaro destinata a un suo cliente ha natura permanente e la sua consumazione si protrae, in mancanza di restituzione, fino alla decisione disciplinare di primo grado” (così Cass. SS.UU. n. 23239/2022). Di conseguenza, la disciplina applicabile andava individuata in base al momento di cessazione della permanenza, non in base al momento di inizio della stessa.
La seconda ragione di infondatezza del ricorso, concludono dalla S.C. rigettando in toto le doglianze dell’avvocato, “è che il codice deontologico del 1997 puniva la violazione degli obblighi in tema di informazione del cliente e gestione del denaro altrui senza fissare la misura o il tipo della sanzione (art. 41 cod. deont. del 1997)”. Dunque, “in modo meno favorevole rispetto al codice deontologico del 2014, del quale pertanto correttamente fu fatta applicazione nel caso di specie, ai sensi dell’art. 65 d.lgs. 247/12”.

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opere abusive al comune

Opere abusive al Comune se l’ordine di demolizione non è eseguito entro 90 giorni Acquisizione comunale delle opere costruite abusivamente se l’ordine di demolizione non è stato ottemperato nel 90 giorni dalla notifica 

Acquisizione comunale se ordine di demolizione non è eseguito

Opere abusive al comune se l’ordine di demolizione non viene eseguito entro 90 giorni dalla notifica. Questo quanto emerge dalla sentenza n. 37948/2024 della Corte di Cassazione. Nella motivazione, precisazioni sulle caratteristiche dell’ordine di demolizione e dei suoi rapporti con alcuni provvedimenti amministrativi e giurisdizionali.

Ordine di demolizione eseguito in ritardo: acquisizione comunale

Il Tribunale territoriale revoca l’ordine di demolizione disposto con sentenza del Pretore per opere abusive. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ricorre in Cassazione contro la sentenza. Nell’impugnazione sottolinea lavvenuta acquisizione comunale delle opere a causa del mancato rispetto dellordine di demolizione entro il termine di 90 giorni dalla notifica. Il permesso di costruire in sanatoria rilasciato in relazione alle opere stesse è quindi illegittimo perché rilasciato dopo l’acquisizione comunale.

I fatti e la vicenda processuale

Nel 1997 il Pretore accerta la realizzazione di alcune opere abusive compiute nel gennaio 1995 in violazione di due titoli edilizi del 1994. Alla sentenza segue l’ordinanza sindacale di demolizione. A questa sopravviene un’istanza di condono delle opere, prima della maturazione dei 90 giorni entro i quali ottemperare l’ordine demolitorio.

Nel 1998 interviene il condono edilizio, ma solo per alcune opere. Nel 2001 si accerta che le opere abusive non sono ancora state demolite. Si provvede quindi a notificare al proprietario la distinta ingiunzione di demolire della Procura. Il proprietario nell’aprile del 2001 per alcune opere presenta istanza di sanatoria e a queste segue la concessione edilizia. Viene quindi avviato un procedimento d’annullamento in autotutela della precedente concessione perché la stessa è stata rilasciata dopo i 90 giorni dalla notifica dell’ordinanza del 1994 e dopo l’ingiunzione a demolire o ripristinare.

Mancata ottemperanza dell’ordine di demolizione

La Cassazione accoglie il ricorso del Procuratore e annulla la decisione di revoca dell’ordine di demolizione disposto da oltre vent’anni e mai eseguito. Alla luce dei fatti descritti la Cassazione rileva prima di tutto che nel gennaio 1995 è stato emesso un ordine di demolizione, che non è stato ottemperato. Nel 1998 alcune opere sono state condonate, ma decorsi i 90 giorni dalla notifica dell’ordine di demolizione, il  provvedimento non risulta ancora ottemperato.

Ne consegue la acquisizione di diritto al patrimonio comunale dell’opera perché nonostante il decorso di 90 giorni dalla notifica del provvedimento di demolizione, l’ordine non è stato eseguito. Non rileva ai fini della acquisizione comunale l’ingiunzione a demolire della Procura del 2001.

Ordine di demolizione: profili, natura e finalità

La Cassazione si addentra quindi nell’analisi dell’ordine di demolizione per motivare al meglio la sua decisione.

A tal fine afferma prima di tutto che “l’ordine di demolizione delle opere abusive, emesso con la sentenza passata in giudicato, può essere sospeso solo qualora sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di elementi concreti, che in un breve lasso di tempo sia adottato dall’autorità amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con detto ordine di demolizione.”

Per gli Ermellini è quindi necessario precisare i profili dell’ordine di demolizione, che nel caso di specie è stato revocato e quali sono gli atti di altre autorità che possono venire in contrasto con lo stesso.

L’ordine di demolizione è un provvedimento che viene adottato dal giudice penale quando emette sentenza di condanna per il reato previsto dall’art. 44 del DPR  n. 380/2001, sempre che le opere non siano già state demolite.

Questo provvedimento presuppone quindi la condanna penale per abuso edilizio accertato giudizialmente. L’ordine però non può essere disposto per qualsiasi abuso, ma solo per le opere edilizie costruite in totale difformità del permesso di costruire.

La Cassazione precisa poi che l’ordine di demolizione ha natura sanzionatoria amministrativa. Esso infatti non persegue finalità punitive e produce effetti nei confronti del soggetto che è in rapporto con il bene, anche se non è l’autore dell’abuso.

Esso persegue la finalità di ripristinare la legalità violata. L’ordine infatti persiste anche se interviene la morte del reo. Esso inoltre  è una misura ad rem, che non si prescrive. 

Revocabilità e rapporti con provvedimenti giurisdizionali amministrativi

Questo provvedimento è revocabile solo quando “risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all’immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l’abusività.”

Questo tema per la Cassazione impone di esaminare i rapporti tra l’esecuzione dell’ordine di demolizione e le decisioni dell’autorità giurisdizionale amministrativa. In particolare rileva il rapporto tra giudicato penale e amministrativo “nella misura in cui involga, in particolare, il tema della abusività della medesima opera” dal cui esame emerge che: “non ogni tipo di decisione del giudice amministrativo può incidere sull’ordine di demolizione adottato dal giudice penale, con sentenza di condanna irrevocabile. Ma solo quelle che abbiano esaminato li profilo di abusività di un intervento” e non si siano limitate a valutazioni procedurali, come quella che il giudice dell’esecuzione ha valorizzato nel caso di specie, per revocare l’ordine di demolizione.

Quest’ultimo infatti ha preso in considerazione le due pronunce con cui il Tar “in ragione del lungo lasso di tempo intercorso dalla sanatoria all’auto-annullamento della stessa e della assente esplicazione di un interesse pubblico prevalente a base dell’auto-annullamento esercitato dal Comune, ha annullato i provvedimenti di annullamento in autotutela adottati dal Comune in relazione alle opere interessate dal predetto ordine ex art. 31 cit. qui in esame. Si è trattato, infatti, di una decisione estranea ad ogni profilo di merito degli abusi in questione, come tale inidonea a sancire un contrasto che, nei termini finora illustrati, possa giustificare la revoca o sospensione dell’ordine di demolizione ex art. 31 citato.”

Annullamento con rinvio

Si tratta di una decisione che evidentemente non riguarda la sostanza dell’abuso e che trascura la natura ripristinatoria dell’ordine di demolizione, che giustifica l’assenza di un termine di prescrizione.  Da qui la decisione degli Ermellini di annullare l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale per un nuovo giudizio che tenga conto dei principi sanciti.

 

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coerede risponde dei debiti

Coerede risponde dei debiti solo per la sua quota Per la Cassazione, il coerede deve rispondere pro quota dei debiti del cuius in presenza di altri eredi o di un litisconsorzio

Coerede: risponde pro quota dei debiti del defunto

Il coerede deve rispondere dei debiti ereditari pro-quota o come litisconsorte in presenza di altri coeredi. Se però questa qualità sopravviene durante il processo introdotto nei confronti del de cuius tra i coeredi si realizza un litisconsorzio necessario. Deve quindi applicarsi l’art. 754 c.c, che prevede che ogni coerede risponda dei debiti nei limiti della propria quota ereditaria. Questo in sintesi il principio sancito dalla Cassazione nella sentenza n. 26833/2024.

Decreto ingiuntivo e pagamento pro quota a carico degli eredi

Una S.p.a chiede e ottiene un decreto ingiuntivo per ottenere il pagamento pro-quota a carico degli eredi del debitore di 139.697,07 euro oltre interessi. La somma è dovuta a titolo di anticipazione su crediti in conto corrente per obbligazioni contratte dalla fallita S.n.c, dal suo amministratore e dal suo fideiussore.

Opposizione al decreto: coerede con beneficio di inventario

Gli eredi si oppongono al decreto, dichiarando di aver accettato l’eredità con beneficio di inventario. La S.p.a però, nel costituirsi in giudizio, chiede il rigetto delle opposizioni ed eccepisce che l’accettazione è intervenuta tardivamente, perché gli eredi erano già nel possesso dei beni. In ogni caso, anche qualora l’accettazione con beneficio sia intervenuta tempestivamente, gli eredi sono ormai decaduti dal beneficio. Gli stessi infatti non hanno iniziato la procedura nel termine dei tre mesi dal decesso, come previsto dalla legge.

Succede poi che nel corso del giudizio un altro debitore viene a mancare. Gli eredi portano avanti la causa con atto di costituzione volontaria, ma uno degli eredi rinuncia alla propria quota.

Il Tribunale istruisce la causa, accoglie in parte le opposizioni, revoca il decreto ingiuntivo opposto e condanna gli opponenti al pagamento della somma di 94.718,41 euro e della somma di euro 37.029,96 per sconto delle cambiali presentate. Gli eredi di uno dei debitori devono considerarsi accettanti l’eredità con beneficio di inventario perché non decaduti dallo stesso.

Appello: mancata notifica a tutti gli eredi

La società appella la decisione sollevando tre motivi di doglianza, ma gli eredi eccepiscono che l’appello non è stato notificato a tutti gli eredi dei debitori. La sentenza quindi deve considerarsi passata in giudicato nei confronti di questi eredi e l’effetto favorevole della limitazione di responsabilità derivante dal beneficio di inventario deve estendersi agli altri eredi. La corte d’appello però rigetta l’impugnazione e conferma integralmente la sentenza di primo grado.

Litisconsorzio necessario anche se ogni erede risponde pro quota

La società soccombente contesta la decisione della corte d’appello ricorrendo in Cassazione. La società con il primo motivo di impugnazione denuncia la violazione degli articoli 102 e 331 c.p.c per error in procedendo. La sentenza inoltre è nulla per omessa integrazione del contraddittorio e falsa applicazione dell’articolo 752 c.c. La Corte ha infatti escluso una situazione di litisconsorzio necessario, richiamando il principio secondo il quale ogni erede è tenuto a soddisfare i debiti ereditari pro quota anche se l’oggetto del contendere è rappresentato dall’accertamento della circostanza relativa alla qualità di erede puro e semplice o beneficiato. Dopo il decesso si è creata una situazione di litisconsorzio necessario. La corte d’appello però ha negato questa condizione in virtù del principio per il quale ogni erede risponde dei debiti pro quota, anche se l’oggetto del contendere è rappresentato dalla necessità di accertare le qualità di eredi puri e semplici (per aver proceduto tardivamente all’accettazione o per essere decaduti dal beneficio) o beneficiati.

Coerede obbligato pro quota

La Cassazione accoglie il primo motivo perché fondato. Assorbiti tutti gli altri.

Gli Ermellini precisano che il coerede convenuto in giudizio per il pagamento di un debito ereditario deve eccepire la propria qualità di obbligato pro-quota in presenza di altri coeredi. Qualora tale qualità sopravvenga nel corso di un processo introdotto in origine nei confronti del de cuius, tra i coeredi si instaura un litisconsorzio necessario processuale. Va quindi applicata la regola di quell’articolo 754 c.c. secondo la quale ciascuno degli eredi risponde nei confronti del creditore nei limiti della propria quota ereditaria. Nel caso di specie la morte di uno dei debitori si è verificata in corso di causa. Tale evento interruttivo ha determinato la trasmissione della legittimazione processuale attiva e passiva agli eredi, che si sono trovati in una posizione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali. In fase di appello doveva  essere ordinata d’ufficio l’integrazione del contraddittorio nei confronti di chi non si era costituito nel giudizio di gravame a differenza degli altri eredi.

 

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niente tenuità del fatto

Niente tenuità del fatto per la responsabilità da reato degli enti L’istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto trova applicazione in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 (“Decreto 231”)?

La particolare tenuità del fatto

L’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto trova compiuta disciplina per le persone fisiche nell’art. 131-bis cod. pen. Tale disposizione normativa esclude la punibilità dei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni (o con pena pecuniaria sola o congiunta alla pena detentiva) quando, per le modalità della condotta o per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento non risulti abituale.

Responsabilità amministrativa da reato degli enti

Giova rilevare che le prescrizioni in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ex Decreto 231, con riferimento all’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. (introdotto dal d.lgs. n. 28/2015), non prevedono un’esplicita regolamentazione normativa.

Nello specifico, l’art. 8 del Decreto 231 (rubricato: “Autonomia delle responsabilità dell’ente”) sancisce che: “La responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.

La disciplina relativa all’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, nonostante, sia stata introdotta dopo il 2001, ossia nel 2015, l’articolo 8 del Decreto 231 non è stato soggetto a nessun intervento di aggiornamento.

Il primo intervento della Cassazione

È spettato alla Suprema Corte, pertanto, risolvere il quesito dell’applicabilità (o meno), nel processo contra societatem, della causa di non punibilità ex art 131-bis c.p.

Negli anni successivi all’introduzione nel Codice Penale dell’art. 131-bis, a opinione di molti giuristi, la Corte di Cassazione con la sentenza del 28 febbraio 2018, n. 9072 sembrava implicitamente avvallare la compatibilità tra l’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e il sistema di responsabilità amministrativa degli enti.

La Suprema Corte, infatti con la soprammenzionata sentenza, si limitava ad affermare  che: “In tema di responsabilità degli enti, in presenza di una sentenza di applicazione della particolare tenuità del fatto, nei confronti della persona fisica responsabile della commissione del reato rilevante ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio il reato fu commesso; accertamento di responsabilità che non può prescindere da una opportuna verifica della sussistenza in concreto del fatto reato, in quanto l’applicazione dell’art. 131-bis, cod. pen. non esclude la responsabilità dell’ente, in via astratta, ma la stessa deve essere accertata effettivamente in concreto; non potendosi utilizzare, allo scopo, automaticamente la decisione di applicazione della particolare tenuità del fatto, emessa nei confronti della persona fisica”.

La soluzione definitiva della Suprema Corte

La soluzione definitiva a tale quesito arriva con la recente sentenza della Corte di Cassazione del 10 ottobre 2024 n. 37237 che non lascia alcun margine di opinabilità in materia, approdando ad una chiusura netta della questione.

Nelle considerazioni in diritto, infatti, la stessa ha specificato che:

  • si deve richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (Cass. Pen., Sez. III, n. 1420/2020), secondo cui la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. non è applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente per i fatti commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dai propri dirigenti o dai soggetti sottoposti alla loro direzione prevista dal d.lgs. n. 231/2001, in considerazione della differenza esistente tra i due tipi di responsabilità e della natura autonoma della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica che ponga in essere il reato rilevante ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 ”;
  • tale autonomia esclude che l’eventuale applicazione all’agente della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto impedisca di applicare all’ente la sanzione amministrativa, dovendo egualmente il giudice procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso”.

Esclusa la particolare tenuità del fatto

In conclusione, l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. non è applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente ex Decreto 231 per i fatti commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dai soggetti di cui all’art. 5 dello stesso[1], in quanto, tale approdo giurisprudenziale trova ragione:

  • nella differenza esistente tra la responsabilità penale della persona fisica e responsabilità amministrativa da reato dell’ente, nonché
  • nella natura autonoma della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica.

[1] “L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).”

giurista risponde

Diritto alla provvigione del mediatore e rilevanza della veste giuridica dell’affare In caso di conclusione di un negozio diverso da quello per cui l’incarico di mediazione era stato conferito ma avente il medesimo spostamento patrimoniale come risultato finale, il mediatore ha comunque diritto alla provvigione?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

Il mediatore ha diritto alla provvigione ove le parti concludano l’affare, senza che possa assumere rilievo la veste giuridica da costoro prescelta, ma solo il raggiungimento dello scopo economico, per perseguire il quale esse avevano dato incarico al mediatore (Cass. 20 giugno 2024, n. 16973).

Tizio, nella qualità di rappresentante legale della società a responsabilità limitata alfa, ha conferito alla società beta l’incarico di adoperarsi per la vendita di un immobile avente un prezzo soglia minima. Ricevuta un’offerta inferiore e poi declinata, la società alfa ha ceduto il proprio intero patrimonio alla società gamma il cui amministratore era il coniuge del primo offerente, al fine di assicurare la cessione immobiliare con un risparmio fiscale.

Di fronte al rifiuto di corrispondere la provvigione, la società mediatrice beta ha citato in giudizio le parti alienanti e acquirenti, nonché i relativi rappresentanti legali.

Il tribunale di primo grado rigettò tuttavia la domanda traendo spunto dalla natura ontologicamente diversa dell’affare concluso (cessione di quote sociali) rispetto a quello per cui era stato l’incarico di mediazione (vendita del bene), nonostante il patrimonio della società venditrice fosse costituito solo da questo.

A seguito di impugnazione proposta dalla società beta, la Corte di Appello ha dato atto della raggiunta mediazione tra gli appellanti e la società alfa, condannando questi ultimi al pagamento di una somma pecuniaria; le argomentazioni proposte dai giudici di secondo grado hanno riguardato, ex multis, la continuità tra il soggetto che aveva partecipato alle trattative e quello stipulante, il rapporto di causalità tra l’opera del mediatore e la conclusione dell’affare, nonché l’effetto esclusivo di ottenere un risparmio fiscale attraverso la cessione immobiliare per quote societarie.

Adita la Corte di Cassazione, i giudici si sono espressi nel seguente modo:

–   in primo luogo, gli effetti degli atti compiuti dal rappresentante legale ricadono sulla società rappresentata organicamente, specie se dotata di piena autonomia patrimoniale e personalità giuridica; purtuttavia, i giudici di prime cure non hanno propriamente esaminato se il legale rappresentante avesse agito anche nell’interesse proprio o si sia mosso ingenerando nel terzo il legittimo affidamento che lo stesso incaricando della vendita di un bene nella propria signoria e piena disponibilità, al fine di escluderne la personale responsabilità dell’agente;

–   in secondo luogo, viene ribadito che “il diritto del mediatore alla provvigione consegue alla conclusione dell’affare, mentre non rileva che questo sia concluso dalle medesime parti ovvero da parti diverse da quelle cui è stato proposto, purché vi sia un legame, anche se non necessariamente di rappresentanza, tra la parte originaria – che resta debitrice nei confronti del mediatore, per avere costei avuto rapporti con lo stesso – e quella con cui è stato successivamente concluso, tale da giustificare, nell’ambito dei reciproci rapporti economici, lo spostamento della trattativa o la stessa conclusione dell’affare su un altro soggetto”; infatti, l’art. 1755 c.c. parla di “affare” e non di “contratto” stante che il diritto al compenso non è condizionato dalla corrispondenza tra il contratto prospettato con l’incarico e quello attraverso il quale è stato reso possibile il regolamento dei privati interessi, bensì dal raggiungimento dello scopo economico per la persecuzione del quale la parte aveva dato incarico al mediatore. La condizione per cui il predetto diritto possa sorgere è l’identità dell’affare proposto con quello concluso senza che assuma rilevanza il caso in cui le parti sostituiscano altri a sé nella stipulazione finale, ovvero che vi sia continuità tra il soggetto che partecipa alle trattative e quello che ne prende il posto, e che la conclusione dell’affare sia collegabile al contratto determinato dal mediatore tra le parti originarie, tenute comunque al pagamento della provvigione, senza che assumano rilevanza le forme giuridiche mediante le quali l’affare medesimo è concluso.

In conclusione, rigettando il ricorso, la Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio di diritto:

Il mediatore ha diritto alla provvigione ove le parti concludano l’affare, senza che possa assumere rilievo la veste giuridica da costoro prescelta, ma solo il raggiungimento dello scopo economico, per perseguire il quale esse avevano dato incarico al mediatore”.

(*Contributo in tema di “Diritto alla provvigione del mediatore e rilevanza della veste giuridica dell’affare”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

palmario

Palmario: componente aggiuntiva del compenso dell’avvocato Palmario: componente aggiuntiva o straordinaria o premio per l'importanza e la difficoltà della prestazione dell'avvocato

Che cos’è il palmario

Il palmario si identifica con il compenso che il cliente promette o riconosce all’avvocato in una misura determinata. Esso sostituisce l’onorario o si aggiunge allo stesso, nel caso in cui la controversia gestita dal legale, anche in sede stragiudiziale, si concluda positivamente. Il riconoscimento di una somma ulteriore che il cliente riconosce all’avvocato in base alla complessità dell’attività svolta o al risultato raggiunto deve scaturire da un accordo scritto.

Il palmario è un compenso legittimo. Le parti possono infatti convenire liberamente un compenso aggiuntivo rispetto all’onorario che spetterebbe al legale in base alle tariffe professionali.

Questa definizione è stata di recente confermata anche dalla Corte di Cassazione. Gli Ermellini infatti, nella sentenza n. 23738/2024 hanno sancito che il palmario rappresenta una quota aggiuntiva del compenso che il cliente riconosce all’avvocato se la lite si conclude con un esito favorevole. Questo a titolo di compenso straordinario o di premio collegato alla difficoltà e all’importanza della prestazione.

Il palmario non è un patto di quota lite

La definizione del palmario potrebbe creare un certa confusione con un altro tipo di accordo.In origine il comma 3 dell’articolo 2233 del Codice civile vietava il patto di quota lite.  

Dal 2006 al 2012: patto di quota lite consentito

Dal 2006 però il patto di quota lite è consentito. Questo in virtù delle  modifiche che l’articolo 2 del dl n. 223/2006 (convertito con modifiche dalla legge n. 248/2006) ha apportato al testo della norma.

Le modifiche hanno previsto in particolare l’abrogazione delle disposizioni che prevedevano il divieto di concordare compensi parametrati in base agli obiettivi raggiunti.

Il comma 3bis del decreto n. 223/2006, nel riscrivere   lultimo comma dellarticolo 2233 del codice civile, aveva stabilito che qualora il cliente e l’avvocato si fossero accordati per regolare i patti sui compensi professionali gli stessi avrebbero dovuto redigerli in forma scritta. Sotto la vigenza di questa norma quindi i patti tra cliente e avvocati erano liberi, purché redatti in forma scritta.

La legge professionale n. 247/2012 vieta di nuovo il patto

A queste modifiche è seguita poi quella dell’ordinamento della professione forense (legge n. 247/2012).

In base all’art. 13 comma 2 della legge professionale “Il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale.”

Il comma 3 stabilisce invece che: “La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione.

Il comma 4 però dispone che: “Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.”

In base a questa norma, sono ammessi in sostanza solo i patti commisurati, anche in percentuale, al valore dell’affare mentre è vietato il patto di quota lite calcolato in base al risultato raggiunto.

Ratio del divieto del patto di quota lite

Il patto di quota lite evita commistioni inutili tra cliente e avvocato, che sarebbero presenti qualora il compenso fosse collegato anche solo in parte al risultato della lite. Questo accordo in effetti trasformerebbe il rapporto professionale in un rapporto associativo.

La Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 21420/2022 ha chiarito infatti che: “il divieto del cosiddetto “patto di quota lite” tra l’avvocato ed il cliente, sancito dalla norma di cui all’art. 2233 c.c., nella (…) trova il suo fondamento nell’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, al fine di tutelare l’interesse del cliente e la dignità della professione forense, che risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui, nella convenzione concernente il compenso, sia ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione richiestagli. Ne consegue che il patto di quota lite va ravvisato non soltanto nell’ipotesi in cui il compenso del legale sia commisurato ad una parte dei beni o crediti litigiosi, ma anche qualora tale compenso sia stato convenzionalmente correlato al risultato pratico dell’attività svolta, realizzandosi, così, quella non consentita partecipazione del professionista agli interessi pratici esterni della prestazione.”

Palmario e patto di quota lite a confronto

Dall’analisi effettuata emerge che il patto di quota lite e il palmario sono accordi assai diversi tra loro. La differenza principale tra questi due istituti è stata messa in evidenza dalla sentenza del Tribunale di Monza n. 247/2013. Essa ha infatti chiarito che il patto di quota lite è un contratto aleatorio. Il compenso infatti varia al variare dei benefici riconducibili all’esito favorevole della lite. La sua caratteristica principale è rappresentata dall’elemento di rischio. Il risultato da perseguire infatti non è certo nel quantum, ma soprattutto nell’an. L’aleatorietà è quindi il tratto distintivo che differenzia il patto di quota lite dal palmario.

 

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Avvocato molesta l’aspirante segretaria: quale sanzione? L'avvocato che molesta l'aspirante segretaria durante il colloquio merita una pena più severa dell'avvertimento

Avvocato molesta aspirante segretaria: giudizio disciplinare

Un avvocato molesta l’aspirante segretaria durante un colloquio. Lo stesso viene quindi condannato alla pena sospesa della reclusione di 9 mesi e allinterdizione dai pubblici uffici per la stessa durata. L’imputato avrebbe toccato con intenzioni inequivoche la mano e i fianchi della donna recatasi presso il suo studio per un colloquio di lavoro.

L’aspirante segretaria denuncia l’avvocato, che viene sottoposto anche a procedimento disciplinare. Il legale è ritenuto responsabile di aver violato i doveri di probità, dignità e decoro (art. 9 comma 2 codice deontologico) e l’obbligo di comportarsi in modo da non compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi (art. 63 codice deontologico).

Per i suddetti motivi il Consiglio distrettuale di disciplina lo sanziona con la sanzione dell’avvertimento.

Avvertimento: pena inappropriata per l’avvocato molestatore

Il procuratore generale però impugna la decisione ritenendo inappropriata la sanzione irrogata.

Il CNF accoglie l’impugnazione e sanziona l’avvocato con la sospensione dallesercizio dellattività professionale per la durata di 6 mesi. Il Consiglio nazionale Forense ritiene che la condotta dell’avvocato abbia violato l’articolo 9 del Codice deontologico. La norma sancisce in particolare i doveri di dignità, probità e decoro. L’avvocato però non avrebbe violato l’articolo 63 comma 3 del Codice deontologico, ma la legge penale. Inappropriata quindi la sanzione dell’avvertimento prevista da quest’ultima norma.

Corretta la sospensione di 6 mesi per l’avvocato che molesta

L’avvocato impugna la decisione davanti alla Corte di Cassazione contestando la violazione dell’articolo 4 comma 2 del Codice deontologico che rimanda alla violazione consapevole della legge penale. Per il legale la rilevanza penale della condotta non lo avrebbe sottratto dall’applicazione dell’art. 63 del codice deontologico, ma avrebbe potuto comportare a suo carico l’applicazione delle aggravanti previste dall’articolo 22 comma 2 del codice deontologico.

Per le Sezioni Unite Civili della Cassazione (sentenza n. 26369/2024), il CNF ha individuato correttamente di sussumere la violenza sessuale nella previsione generale invece che in quella speciale. Rispetta la proporzione la decisione di non far rientrare un fatto sanzionabile penalmente nella previsione deontologica che sanziona la condotta   in misura più lieve. Conforme a misura anche la decisione di escludere l’applicazione dell’art. 63 del codice deontologico. In base alla tesi del ricorrente si finirebbe infatti per punire con l’avvertimento qualsiasi illecito extraprofessionale.

La Cassazione del resto afferma ormai da tempo che:il giudice disciplinare è libero di individuare l’esatta configurazione della violazione tanto in clausole generali, quanto in diverse norme deontologiche o anche di ravvisare un fatto disciplinarmente rilevante in condotte atipiche non previste da dette norme.”

Infondato il motivo con cui il ricorrente contesta la violazione dell’art. 653 c.p.c da parte del giudice penale. Se il giudice aveva infatti escluso l’aggravante contemplata dall’art. 61 n. 11 cp ossia di abuso di relazioni d’ufficio, il CNF ha disposto la sospensione semestrale dalla professione perché l’avvocato avrebbe tenuto la condotta sanzionata abusando della propria posizione di datore rispetto alla soggettiva sudditanza in cui si trovava l’aspirante impiegata al ruolo di segretaria.

Inammissibile infine il motivo con cui l’avvocato precisa che la sanzione della sospensione possa essere irrogata solo in due casi, ossia in presenza di comportamenti o responsabilità gravi o quando non sussistono ragioni per irrogare la censura. La correttezza della scelta della sanzione non è infatti censurabile in sede di legittimità.

 

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beneficio della non menzione

Beneficio della non menzione anche in Cassazione Il beneficio della non menzione può essere disposto dalla Cassazione senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto

Non menzione e giudizio di legittimità

Il beneficio della non menzione può essere direttamente disposto dalla Cassazione, sulla base degli elementi già valorizzati dal giudice del merito, senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto. Lo ha stabilito la seconda sezione penale nella sentenza n. 37164/2024 accogliendo sul punto il ricorso di un imputato.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Napoli confermava la condanna emessa dal tribunale nei confronti di un imputato per i reati di cui agli art. 81, 10 e 640-ter e 81, 10 e 493-ter cod. pen.

L’uomo adiva il Palazzaccio dolendosi, tra le altre cose, della carenza di motivazione in merito alla richiesta di applicazione del beneficio della non menzione.

La decisione

Per la S.C. il motivo è fondato (sebbene il ricorso sia complessivamente infondato nel resto). La Corte d’appello infatti non ha offerto una specifica risposta all’ultimo motivo di gravame, con cui si invocava il beneficio di cui all’art. 175 c.p. e tale inequivoca lacuna motivazionale impone, limitatamente a questa sola statuizione, l’annullamento della sentenza impugnata.
L’apparato argomentativo speso dalla Corte territoriale in tema di sospensione condizionale della pena, fondato sulla valutazione dei medesimi elementi ex art. 133 c.p. che vengono necessariamente in rilievo anche per la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, “consente tuttavia di colmare la denunciata carenza, senza necessità di rinvio” aggiungono gli Ermellini.

“lI beneficio in questione può, infatti, essere direttamente disposto – dalla Cassazione – sulla base degli elementi già valorizzati dal giudice del merito ex art. 164 cod. pen. nei termini sopra accennati, senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto (cfr., tra le altre, Cass. n. 14885/2021).

Per cui, la S.C. annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al mancato riconoscimento del beneficio della non menzione della condanna, che concede. E rigetta il ricorso nel resto.

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Decreto ingiuntivo: titolo inoppugnabile per ammissione al passivo Decreto ingiuntivo: inoppugnabile per l’ammissione al passivo se il giudizio si è estinto e sono decorsi i 10 giorni per il reclamo

Decreto ingiuntivo opposto e ammissione al passivo

Il decreto ingiuntivo opposto acquisisce efficacia di giudicato sostanziale e diventa titolo idoneo per l’ammissione al passivo del fallimento a condizione che il giudizio di opposizione si sia estinto e nel momento in cui viene emessa la sentenza di fallimento, il termine di 10 giorni per proporre il reclamo verso l’ordinanza di estinzione sia già decorso. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 22125/2024.

Titolo inidoneo se diventa definitivo dopo il fallimento

Una banca vorrebbe partecipare alla distribuzione della somma ricavata dalla vendita dei beni immobili che la debitrice fallita ha ceduto a un’altra società fallita. Sui beni immobili la banca aveva iscritto un’ipoteca giudiziale in virtù di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo. Il giudice del fallimento ritiene rituale la domanda avanzata dalla banca. Costui però la respinge perché l’ipoteca si fonderebbe su un decreto ingiuntivo, che è stato dichiarato esecutivo in via definitiva dopo il fallimento delle due società, quella cedente e quella cessionaria.  

Decreto ingiuntivo definitivo dopo il fallimento: ipoteca inopponibile

La banca presenta la sua opposizione al fallimento ai sensi dell’art. 98 della legge fallimentare. Il Tribunale però la respinge per due ragioni.

  • Il titolare di ipoteca non può avvalersi del procedimento di verifica del passivo nella procedura fallimentare. Occorre instaurare un contraddittorio con il debitore e far valere il suo diritto nelle modalità previste dagli articoli 602-604 c.p.c.
  • L’ipoteca giudiziale non è opponibile al fallimento perché il decreto è diventato esecutivo in via definitiva dopo il fallimento.

Titolo definitivo dopo l’estinzione dell’opposizione

La banca ricorre quindi in Cassazione per contestare le ragioni del rigetto.

Nel primo motivo precisa di aver presentato una domanda di partecipazione al riparto di quanto ricavato dalla vendita degli immobili.

Con il secondo motivo invece chiarisce che il decreto ingiuntivo è diventato esecutivo in via definitiva dopo l’estinzione del giudizio di opposizione a causa della mancata riassunzione del giudizio da parte del curatore fallimentare.

Decreto ingiuntivo, giudicato sostanziale e ammissione al passivo

La Corte, nel respingere il primo motivo di doglianza richiama la Cassazione a sezioni unite n. 8557/2023 e i principi in essa sanciti ossia che “i creditori titolari di un diritto di ipoteca o di pegno sui beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito (…) possono (…)  intervenire nel procedimento fallimentare in vista della ripartizione dell’attivo, per richiedere di partecipare alla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dei beni compresi nella procedura che sono stati ipotecati o pignorati in loro favore.” 

Nell’accogliere il secondo motivo invece la Cassazione spiega che il decreto ingiuntivo della banca ricorrente è divenuto definitivo nei confronti della debitrice principale con la sentenza con cui il tribunale ha dichiarato estinto il giudizio di opposizione, prima della dichiarazione di fallimento della società a cui la debitrice principale aveva ceduto i propri immobili a cui quindi doveva ritenersi opponibile.

Decreto ingiuntivo opposto dal debitore fallito

L’ordinanza n. 9933/2018 della Cassazione sul punto aveva precisato che: il decreto ingiuntivo che sia stato opposto dal debitore poi fallito è opponibile alla massa fallimentare, a condizione che sia stata pronunciata sentenza di rigetto dell’opposizione, ovvero ordinanza di estinzione, divenute non più impugnabili – per decorso del relativo termine – prima della dichiarazione di fallimento, restando irrilevante che con i detti provvedimenti sia stata dichiarata l’esecutorietà del decreto monitorio, ex art. 653 c.p.c., ovvero che sia stato pronunciato, prima dell’apertura del concorso tra i creditori, il decreto di esecutività di cui all’art. 654 c.p.c.” 

Alla luce di questa e di altre decisioni  ribadisci Ermellini sanciscono infine che “il decreto ingiuntivo, in caso di opposizione, acquista efficacia di giudicato sostanziale idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo, purché il relativo giudizio si sia estinto e, al momento della sentenza di fallimento, sia già decorso il termine di dieci giorni per proporre reclamo avverso l’ordinanza di estinzione.”

 

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licenziato il dipendente scortese

Licenziato il dipendente scortese con i clienti Licenziato il dipendente scortese con il cliente anziano se per la modalità della condotta non è possibile proseguire il rapporto

Licenziamento del dipendente per condotta col cliente

Licenziato il dipendente scortese con i clienti, che invece di chiedere scusa prosegue il diverbio con toni sempre più accesi. Questa la decisione della Corte di Cassazione contenuta nell’ordinanza n. 26440/2024, che nel respingere il ricorso del dipendente gli contesta di non aver sollevato critiche specifiche alla decisione della Corte di appello. L’art. 2119 c.c. che contempla il licenziamento per giusta guisa contempla la clausola generale in base alla quale “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” di lavoro.

Dipendente scortese con un cliente anziano

Una società licenzia un suo dipendente. Costui impugna il licenziamento disciplinare e il giudice di primo grado accoglie le sue richieste. In sede di appello però la Corte accoglie il reclamo della S.R.L. La datrice contesta all’addetto al banco macelleria di essersi rivolto in maniera sgarbata, scurrile e volgare a un cliente di una certa età. La condotta è grave perché il dipendente, invece di chiedere scusa, ha proseguito il diverbio con toni accessi sempre crescenti, dando vita uno spettacolo indecoroso e preoccupante.

Per la datrice il lavoratore ha violato l’art. 215 del c.c.n.l, che punisce le gravi violazioni degli obblighi previsti dall’art. 210, tra i quali è presente quello di “usare modi cortesi con pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri.” La società datrice nel licenziare il dipendente tiene conto anche di altre violazioni disciplinari, dalle quali emerge disprezzo delle regole. È evidente che una condotta simile non consente alla datrice di proseguire il rapporto.

Insussistenza dei motivi che impediscono di proseguire il rapporto

Il dipendente ricorre in Cassazione sollevando 5 motivi di doglianza. Con il primo contesta l’inattendibilità del cliente perché costui ha omesso di riportare la frase esatta che lo stesso gli ha rivolto. Nel secondo sottolinea l’età di soli 67 anni del cliente e l’atteggiamento tutt’altro che remissivo dello stesso. Nel terzo critica la rilevanza dei gesti che gli sono stati contestati, come lo spostamento della bilancia e il tentativo di colpire il cliente in pieno viso con uno schiaffo. Con il quarto dimostra il proprio disappunto sulle affermazioni della datrice relative alle precedenti condotte che avrebbe tenuto sul posto di lavoro. Con il quinto infine si oppone all’affermata violazione delle norme del c.c.n.l riportate dalla datrice. La Corte d’appello non ha preso della dovuta considerazione i profili oggettivi e soggettivi dei fatti, ossia l’intenzionalità, la condotta arrogante della controparte e l’assenza di altri clienti al momento dei fatti. Tali elementi, valutati nel loro complesso,  denotano in particolare la scarsa offensività della condotta per l’immagine della datrice.

Giusta causa di licenziamento

La Cassazione decide di trattare congiuntamente tutti i motivi del ricorso per valutare la sussistenza dei fatti, l’integrazione della giusta causa del recesso e la proporzionalità della sanzione irrogata.

La Suprema Corte, alla luce di quanto emerso nei precedenti gradi di merito, rigetta il ricorso del dipendente. Per prima cosa gli Ermellini precisano di non aver il potere di riesaminare la vicenda processuale nel merito. Essi possono solo verificare la correttezza delle argomentazioni del giudice dal punto di vista logico e giuridico. La Cassazione non rileva poi alcuna violazione delle norme sull’onere probatorio. Per quanto riguarda invece la rilevanza della condotta del dipendente dal punto di vista disciplinare la suprema corte ricorda di aver affermato in diverse occasioni che la giusta causa di licenziamento sussiste quando il fatto commesso non permette la prosecuzione del rapporto in base alla valutazione del giudice di merito, che nel compiere questa operazione deve rispettare anche clausole generali come quella contenuta nell’art. 2119 c.c, che fa riferimento alla “causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.”

Tale critica però non è sempre consentita. La Cassazione può sindacare l’attività integrazione del precetto contenuto dall’art. 2119 cc se la censura è generica, come nel caso di specie. Il ricorrente infatti non identifica nel ricorso i parametri integrativi della clausola contenuta nell’art. 2119 c.c, che la corte d’appello avrebbe violato. Lo stesso si limita solo a sollecitare una rivisitazione dei fatti e a ribadire l’inesistenza di una giusta causa di licenziamento.

 

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