reddito di cittadinanza

Reddito di cittadinanza indebitamente percepito: niente tenuità del fatto La Cassazione conferma la negazione della particolare tenuità del fatto per il reddito di cittadinanza indebitamente percepito

Reddito di cittadinanza indebitamente percepito

Niente particolare tenuità del fatto a chi percepisce indebitamente il reddito di cittadinanza per non aver comunicato tempestivamente la nuova occupazione. Così la terza sezione penale della Cassazione con sentenza n. 36936/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Lecco condannando una donna in relazione al reato di cui all’art. 7 comma 2 del DL 4/2019.

L’imputata proponeva ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro, di non avere l’obbligo di comunicare all’ente pubblico di riferimento la nuova assunzione, non trattandosi di
una variazione occupazionale, rispetto alla presentazione della domanda del reddito di cittadinanza, atteso che con la nuova assunzione permaneva il pregresso stato di occupata. Peraltro, non sussisterebbe alcun termine per operare la suddetta comunicazione, con conseguente assenza del reato. Conseguentemente, inoltre, la ricorrente non avrebbe avuto consapevolezza della pretesa illiceità del comportamento ascrittole.
Si doleva, altresì, del diniego dell’applicazione della speciale tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p.

La decisione

Gli Ermellini le danno torto.

La Corte d’appello ha, infatti, “congruamente osservato, in maniera condivisibile, come ala luce dell’art. 3 comma 8 del dl .n 4/2019, laddove nell’ultima parte del predetto comma 8
invero prevede che ‘l’avvio dell’attività di lavoro dipendente è comunque comunicato dal lavoratore al’INPS per il tramite della Piattaforma digitale per il Patto per il lavoro di cui all’articolo 6, comma 2, a pena di decadenza dal beneficio, entro trenta giorni dall’inizio dell’attività, ovvero di persona presso i centri per l’impiego’ risulti obbligo di comunicazione e tempestivo del nuovo lavoro dipendente, che abbia generato la rimodulazione della somma percepibile a titolo di reddito di cittadinanza in uno con la consumazione del reato ascritto”.  Quanto alla tesi – giuridica – per cui la comunicazione non sarebbe stata necessaria a fronte della persistenza comunque di uno stato di occupata della ricorrente, “occorre innanzitutto richiamare la regola per cui il vizio di motivazione non è configurabile riguardo ad argomentazioni giuridiche delle parti. Queste ultime infatti, come ha più volte sottolineato la Suprema Corte, o sono fondate, e allora il fatto che il giudice le abbia disattese dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge; o sono infondate, come nel caso di specie, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all’art. 619 comma 1 cod. proc. pen. che consente di
correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta (cfr. ni tal senso Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 Rv. 271451 – 01 Emmanuele)”.

Per il Palazzaccio, “valida è anche la risposta, tutt’altro che mancata, sulla assenza di consapevolezza della violazione”. Si rammenta peraltro, scrivono i giudici, “che in tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa la sussistenza del diritto a percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a tal fine richiesti dall’art. 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del citato d.l.”.

Nulla di fatto, anche con riferimento alla negazione della fattispecie di cui all’art. 131 bis cod. pen., “stante la considerevole somma indebitamente percepita, costituendo, li valore di quanto ingiustamente percepito, una argomentazione di per sé autonoma e adeguata. Le rappresentazioni difensive per cui la donna si sarebbe appropriata di una somma minore attengono al merito della vicenda, e come tali non possono essere sindacate in questa sede” concludono da piazza Cavour.
Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Allegati

giurista risponde

Tasso di interesse e usura Secondo quali parametri il giudice deve qualificare le operazioni di finanziamento intercorrenti tra privati ai fini della valutazione del tasso di interesse come usurario?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

Il giudice del merito deve rinvenire i profili di omogeneità tra le categorie individuate dai decreti ministeriali e il rapporto in causa, rispetto ai quali assumono rilievo soprattutto: la natura del prestito, ossia se si tratta di un negozio tra privati, non tra professionisti quali banche o intermediari non bancari, rispetto al quale dovrebbe essere chiarita l’eventuale funzione di scopo del finanziamento tale da integrare la struttura tipica del negozio, ampliandone la causa, nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali (Cass., sez. II, 5 settembre 2024, n. 23866).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla qualificazione giuridica di un contratto di finanziamento al fine di valutare se gli interessi applicati allo stesso fossero o meno usurari.

In primo grado il Giudice qualificava il contratto intercorrente tra le parti come operazione di mutuo, sulla base delle categorie individuate dal Ministero del Tesoro per l’individuazione del tasso-soglia, ritenendo pertanto come usurario il tasso di interesse del 10% applicato.

Il Giudice d’appello, viceversa, riteneva valida la clausola di previsione degli interessi convenzionali contenuta all’interno della scrittura privata intercorrente tra le parti; in particolare, il rapporto dedotto in giudizio veniva qualificato come “altro finanziamento a breve, medio/lungo termine”, sulla base dell’assunto che le operazioni di finanziamento chirografario non possono essere qualificate come mutui.

Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea qualificazione della scrittura privata nella categoria “altri finanziamenti” anziché in quella dei contratti di mutuo, con conseguente applicazione di un diverso tasso di riferimento per la determinazione dell’usura.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, delinea i criteri sulla base dei quali deve essere effettuata l’operazione di qualificazione del contratto di finanziamento oggetto di causa. In particolare, in caso di dubbio circa la riconducibilità di un’operazione finanziaria all’una o all’altra delle categorie, identificate con Decreto Ministeriale cui si riferisce la rilevazione dei tassi globali medi, l’interprete deve procedere ad individuare i profili di omogeneità che l’operazione stessa presenti rispetto alle diverse tipologie ivi contemplate, attribuendo rilievo, a tal fine, ai richiamati parametri normativi individuati dall’art. 2, comma 2, L. 108/1996, apprezzando, in particolare, quelli, tra essi, che, sul piano logico, meglio giustifichino l’inclusione del prestito preso in esame in questa o in quella classe di operazioni. Pertanto, i parametri da valorizzare sono la natura del prestito nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali.

Per tali ragioni, la Corte di cassazione ha ritenuto di accogliere il motivo proposto e di rinviare il giudizio rinviato alla medesima Corte d’Appello che, in applicazione dei principi sopra riportati, provvederà alla corretta qualificazione del rapporto negoziale di cui è causa ai fini dell’individuazione del tasso di interesse soglia di riferimento.

 

(*Contributo in tema di “Tasso di interesse e usura”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Avvocato in ritardo: il giudice non è tenuto ad aspettare Si tratta infatti, afferma la Cassazione, di una mera prassi che risponde al buon senso e al rispetto del ceto forense ma che non è imposta da alcuna norma

Ritardo avvocato in udienza

Avvocato in ritardo? Non c’è alcun obbligo per il giudice di attendere il legale che si presenti anche se soltanto dopo pochi minuti in udienza. Questo quanto affermato dalla quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 2779/2025, respingendo il ricorso di un uomo condannato in appello per furto aggravato.

Breve ritardo

L’avvocato sosteneva di avere tardato soltanto qualche minuto in quanto impegnato in altra aula, ma il giudice, previa nomina di difensore d’ufficio, aveva chiuso il verbale.

Mera prassi attendere l’avvocato

La Cassazione, nel ritenere la risposta della Corte territoriale “logica ed adeguata”, ha spiegato che “la prassi di attendere il difensore di fiducia, anche per qualche tempo dopo che è decorso l’orario fissato per l’udienza, risponde alle regole di buon senso e rispetto del ceto forense ma non è imposto da alcuna norma e dunque la sua violazione non determina alcuna nullità processuale”.

Da qui il rigetto del ricorso.

 

Leggi gli altri articoli sul tema professioni

Allegati

capacità di stare in giudizio

Capacità di stare in giudizio: salute mentale e psicofisica equiparabili Capacità di stare in giudizio: l’autodeterminazione può essere pregiudicata da problemi psicofisici, la compromissione va provata

Capacità di stare in giudizio: il pregiudizio fisico rileva?

Sulla capacità  di stare in giudizio rileva anche il pregiudizio fisico se compromette la percezione e la coscienza. Queste alterazioni  però devono essere debitamente provate. Questo in breve il principio espresso dalla Cassazione n. 47299/2024.

Compromissione della capacità di stare in giudizio

La Corte d’appello ha confermato la condanna emessa dal Tribunale e ha ritenuto l’imputato responsabile di molteplici reati fiscali ai sensi del d.lgs. n. 74/2000. Tra questi figurano l’occultamento di scritture contabili e la dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti. La pena inflitta è stata di cinque anni e quattro mesi di reclusione.

Un aspetto rilevante del procedimento è la questione della capacità di stare in giudizio, sollevata dalla difesa dell’imputato. Questo tema, connesso all’autodeterminazione dell’imputato durante il processo, ha suscitato particolare interesse alla luce di una recente pronuncia della Corte costituzionale.

La difesa dell’imputato ha infatti presentato ricorso per cassazione sollevando dubbi sulla capacità del suo assistito di agire consapevolmente nel processo.

La difesa ha contestato il mancato esperimento di una perizia volta a verificare se l’imputato, successivamente al 19 gennaio 2011, fosse in grado di comprendere e valutare le proprie azioni. Tale data coincide con un grave evento traumatico subito dall’imputato. Lo stesso ha anche sostenuto che le condizioni psicofisiche dell’imputato abbiano compromesso la sua capacità di autodeterminarsi e partecipare consapevolmente al procedimento. La Corte d’appello però aveva ritenuto irrilevanti i certificati medici prodotti dalla difesa.

Condizioni psicofisiche pregiudicano le facoltà cognitive

Per la difesa è necessario considerare che la Corte costituzionale, con sentenza n. 65/2023, ha ampliato il concetto di incapacità di stare in giudizio. La stessa ha infatti dichiarato illegittimi gli articoli del codice di procedura penale che limitano tale incapacità al solo stato mentale, escludendo altre condizioni psicofisiche. La Corte ha sottolineato che anche situazioni di disabilità fisica possono compromettere facoltà essenziali quali coscienza, pensiero, percezione ed espressione, analogamente alle disabilità mentali.

I certificati medici prodotti dalla difesa però non hanno dimostrato una compromissione significativa delle facoltà cognitive o decisionali dell’imputato. Questo per due motivi. I certificati attestavano una “lesione ischemica acuta ed epilessia secondaria”, ma non indicavano problemi specifici relativi alla coscienza o alla percezione. L’imputato inoltre, seppur colpito da problemi di salute, aveva continuato a operare, anche con l’aiuto della moglie.

Capacità di stare in giudizio: l’alterazione va dimostrata

La Corte di Cassazione ha dichiarato quindi manifestamente infondati i motivi relativi alla capacità di intendere e di volere e alla capacità di stare in giudizio. Secondo la giurisprudenza consolidata, la richiesta di perizia è ammissibile solo se supportata da concreti elementi di dubbio sull’imputabilità. Nel caso specifico, tali elementi non sono emersi. La documentazione prodotta attestava patologie fisiche, ma non dimostrava che queste avessero compromesso la capacità dell’imputato di partecipare consapevolmente al processo. Inoltre, i problemi di salute citati si erano manifestati ben oltre la data della sentenza di secondo grado e non erano riconducibili al periodo rilevante per il giudizio.

La capacità di stare in giudizio rappresenta un principio fondamentale nel diritto processuale penale. La partecipazione consapevole dell’imputato garantisce il rispetto del diritto di difesa e la legittimità del processo. La sentenza della Corte costituzionale ha introdotto una visione più inclusiva, riconoscendo l’incidenza delle condizioni psicofisiche. Tuttavia, resta fondamentale che tali condizioni siano adeguatamente documentate e rilevanti per il periodo processuale in esame. Sebbene la difesa abbia tentato di dimostrare l’incapacità dell’imputato, le evidenze fornite nel caso di specie non sono state ritenute sufficienti. Dalla sentenza emerge quindi l’importanza di un quadro probatorio solido e puntuale per sollevare dubbi concreti sull’idoneità dell’imputato a partecipare al processo.

 

Leggi anche gli altri interessanti articoli di diritto penale 

Allegati

condanna alle spese

Condanna alle spese processuali: non è censurabile in Cassazione La condanna alle spese processuali da parte del giudice di merito rientra nel suo potere discrezionale e non è censurabile in Cassazione

Spese processuali

“La facoltà di disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà”. Ne segue che la pronuncia di condanna alle spese processuali, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione”. E’ quanto affermato dalla prima sezione civile della Cassazione con ordinanza n. 25940/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Ancona aveva respinto la domanda di risarcimento danni all’immagine personale e professionale del ricorrente in conseguenza dell’ingiusto protesto di un assegno. In appello, anche la corte, svolta la premessa in ordine all’attuale abbandono giurisprudenziale della tesi del danno in re ipsa, così che la semplice illegittimità del protesto, pur costituendo un indizio in ordine all’esistenza di un danno alla reputazione, non è di per sé sufficiente per la liquidazione del danno, essendo necessarie la gravità della lesione e la non futilità del danno stesso, da provarsi anche mediante presunzioni semplici, rigettava il gravame.

La questione approdava quindi innanzi alla Cassazione.

Danno alla reputazione per illegittimità del protesto

La Cassazione coglie l’occasione per ribadire che “la semplice illegittimità del protesto, pur costituendo un indizio in ordine all’esistenza di un danno alla reputazione, non è, di per sé sufficiente per la liquidazione del danno, essendo necessarie la gravità della lesione e la non
futilità del danno, da provarsi anche mediante presunzioni semplici, fermo restando inoltre l’onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l’esistenza e l’entità del pregiudizio (v., in senso conforme ai riferimenti dell’impugnata sentenza, Cass. Sez. 3n. 2226-12, Cass. Sez. 6-1 n. 21865-13, Cass. Sez. 1n. 23194-13)”. Si tratta invero, affermano gli Ermellini “di principio del tutto pacifico, peraltro sostenuto da rilievi comuni a distinte fattispecie, sia per le persone fisiche che per le persone giuridiche; principio declinato dal rilievo che ogni pregiudizio arrecato ai diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine e alla reputazione commerciale o professionale, non costituisce
un mero danno-evento, e cioè in re ipsa, ma deve essere oggetto di allegazione e prova, anche tramite presunzioni semplici (cfr. tra le più recenti Cass. Sez. 3 n. 19551-23, Cass. Sez. 3 n. 34026-22, Cass. Sez. 1 n. 11446-17; e v. pure, in altre fattispecie di danno del genere, Cass. Sez. 1 n. 479-23, Cass. Sez. 1 n. 26801-23)”.
Per cui, “l’epilogo indiscusso del percorso giurisprudenziale induce a rifiutare qualsivoglia automatismo valutativo” e l’insistere su un difforme criterio da parte del ricorrente, “senza argomenti idonei a un mutamento di indirizzo – integra la condizione di inammissibilità del mezzo ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ.”.

Condanna alle spese e decisione

Infine, in ordine al governo delle spese, la Corte non ritiene vi sia stata l’asserita violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., essendo, come sopra specificato, nella facoltà del giudice disporre o meno la compensazione tra le parti e la pronuncia di condanna alle spese non è censurabile in Cassazione (v. Cass. Sez. Un. 14989-05, cui adde, ex allis, Cass. Sez. 6-3 n. 11329-19).
Da qui l’inammissibilità del ricorso.

Allegati

giurista risponde

Azione di riduzione del prezzo L'acquirente può avvalersi dell'azione di riduzione del prezzo anche nei casi di mancanza di qualità promesse o essenziali?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

L’azione di riduzione del prezzo va considerata esperibile da parte dell’acquirente anche nelle fattispecie contemplate dall’ art. 1497 c.c., relative alla mancanza delle qualità promesse ovvero delle qualità essenziali per l’uso a cui la cosa è destinata (Cass., sez. II, 16 febbraio 2024, n. 4245).

La doglianza dalla quale prende l’avvio la pronuncia oggetto di commento riguarda il motivo di ricorso con il quale l’acquirente denuncia la violazione degli artt. 1490, 1492, 1497 c.c. nonché dell’art. 112 c.p.c. nella misura in cui l’impugnata sentenza, una volta inquadrato il caso di specie nell’ambito dell’art. 1497 c.c. poiché il bene oggetto della compravendita non era idoneo all’uso, ha statuito che l’unico rimedio fosse la risoluzione e quindi disatteso le domande di diminuzione del prezzo e di risarcimento del danno proposte in via principale. La Corte di Appello territorialmente competente, infatti, aveva argomentato nel senso che fosse da confermare la decisione del primo giudice che aveva accolto la sola domanda di risoluzione del contratto. Secondo questa, la natura dei vizi del bene era di ostacolo all’accoglimento delle domande proposte in via principale ex art. 1492 c.c., poiché entrambe presuppongono che il vincolo contrattuale permanga. In presenza di vendita di bene affetto da vizi, l’art. 1492 c.c. consente al compratore di chiedere (ove non esclusa dagli usi per determinati vizi) la risoluzione del contratto oppure la riduzione del prezzo, ma solo ove i vizi accertati risultino contenuti nei limiti di usuale tollerabilità. Ove invece, come nel caso di specie, i vizi si traducano in mancanza delle qualità essenziali, il rimedio deve essere solo la risoluzione del contratto come previsto dall’art. 1497 c.c.

La Cassazione, tuttavia, ritiene che questo orientamento sia in contrasto con la direzione in cui si stanno muovendo dottrina e giurisprudenza maggioritarie. Ad avviso della Suprema Corte, invero, i rapporti tra rimedi in caso di vizi ex art. 1490 c.c. e quelli in caso di mancanza delle qualità promesse o essenziali contenuti nell’art. 1497 c.c., risentono ancora dell’idea secondo la quale la tutela giurisdizionale vincolata a previsioni di rimedi specifici. In conseguenza di ciò, il passaggio da un rimedio all’altro determinerebbe tendenzialmente un mutamento dell’oggetto del processo. Questa lettura appare da superare in favore di una concezione moderna e “sostanzialistica” del diritto di azione che ricostruisca l’azione giudiziaria come atipica. Un diritto processuale che assume per presupposto l’affermazione della titolarità di un diritto sostanziale riconosciuto dall’ordinamento e per finalità la richiesta di un provvedimento giurisdizionale diretto nel suo contenuto a soddisfare il bisogno specifico di tutela. Ma se l’azione deve guardare alla sostanza del diritto fatto valere allora ne discende logicamente l’ammissibilità di ogni meccanismo idoneo a raggiungere tale risultato. Così acquistano cittadinanza domande complesse o gradate o che si configurino quali richieste di provvedimenti non ancora tipizzati legalmente purché rispondenti allo specifico bisogno di tutela fatto valere.

Questo il collegamento col caso concreto all’esame della Seconda sezione. Fin dall’inizio del processo l’acquirente aveva manifestato l’ordine di priorità che riteneva soddisfare il suo bisogno di tutela, ponendo al primo posto l’interesse al mantenimento della proprietà sulla cosa acquisita attraverso lo scambio contrattuale e in posizione subordinata l’interesse ad avviare una vicenda risolutiva. D’altra parte, prosegue la Corte, è proprio l’art. 1497 c.c., il quale si limita a disporre che in mancanza di qualità essenziali sono applicabili le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento, che non esclude logicamente un permanente interesse dell’attore al mantenimento in vita del rapporto contrattuale. Argomentando a contrario, ad avviso della pronuncia, si perverrebbe all’assurda conclusione per cui sarebbe il convenuto a delineare l’ordine dei rimedi.

Sono le formule letterali degli artt. 1490 e 1497 c.c. che, frutto di retaggi culturali passati, vanno calate nel dinamismo delle relazioni economiche e degli interessi ambientati nel clima moderno, liberando le direzioni del diritto sostanziale dagli eccessivi vincoli restrittivi codificati nelle disposizioni di legge. Questa lettura conferma quegli orientamenti giurisprudenziali che argomentano nel senso di ritenere la presenza di vizi e la mancanza di qualità assoggettate alla stessa disciplina.

 

(*Contributo in tema di “Azione di riduzione del prezzo”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Guida sotto effetto di stupefacenti: esame del sangue più affidabile Per provare la guida sotto effetto di stupefacenti l'esame del sangue è un metodo diagnostico più attendibile rispetto a quello delle urine

Guida sotto effetto di stupefacenti

Nella guida sotto effetto di stupefacenti, l’esame del sangue si dimostra prova più attendibile rispetto a quello delle urine. Questo quanto ribadito dalla Cassazione, nella sentenza n. 2020/2025. La decisione si fonda sulla diversa capacità diagnostica dei due metodi, con implicazioni significative per l’accertamento di reati legati alla sicurezza stradale.

La vicenda

La pronuncia della Corte di Cassazione trae origine da un caso concreto in cui un automobilista era stato condannato in appello per il reato di cui all’art. 187 comma 1 codice della strada,  per essersi messo alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti sulla base di esami delle urine ed ematici.

Il ricorso

L’imputato aveva contestato la validità della prova, sostenendo che l’esame rilevasse solo tracce residue di sostanze consumate in passato, senza dimostrare un’effettiva compromissione delle sue capacità di guida al momento del fermo. La Suprema Corte, investita della questione, ha stabilito che, per garantire un accertamento equo e scientificamente fondato, è necessario privilegiare l’esame del sangue.

Esame del sangue e affidabilità temporale

Secondo la Corte, “l’esame del sangue consente di rilevare la presenza di sostanze stupefacenti attive al momento dell’accertamento, fornendo un quadro chiaro della capacità psicofisica del conducente al tempo della guida.”

Questo metodo diagnostico si distingue per la sua precisione temporale, consentendo di verificare se le sostanze presenti abbiano effettivamente compromesso le capacità di guida.

Limiti dell’esame delle urine

Nella sentenza viene evidenziato che l’esame delle urine, “non garantisce la certezza di una correlazione diretta tra l’assunzione di stupefacenti e il momento della guida.” Tale metodo, infatti, può rilevare metaboliti che permangono nell’organismo anche molti giorni dopo il consumo, senza indicare una compromissione attuale delle facoltà del conducente.

La posizione della Cassazione

La Corte ha concluso che “l’esame del sangue deve costituire il principale strumento probatorio nei procedimenti relativi alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, in quanto offre maggiori garanzie di attendibilità rispetto agli esami delle urine.”

Rigettando anche le altre doglianze, la S.C. ha dichiarato pertanto il ricorso infondato e confermato la condanna.

Allegati

giurista risponde

Conducente in stato di ebbrezza e risarcimento del terzo passeggero Il passeggero terzo, vittima di un sinistro stradale, ha diritto ad ottenere il risarcimento dell’assicurazione se il conducente dell’auto ha bevuto alcolici?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

L’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità. La colpa non è sempre imputabile in capo a chi, dopo aver accettato di essere trasportato a bordo di un veicolo con una persona ubriaca alla guida, rimane coinvolto in un sinistro stradale di cui la responsabilità è rinvenibile a capo del conducente. È il giudice che deve valutare, caso per caso, l’esistenza e il grado della colpa del trasportato nel causare il sinistro (Cass., sez. III, 17 settembre 2024, n. 24920).

Il caso in oggetto prende le mosse dalle lesioni riportate da un soggetto trasportato a bordo di un autoveicolo. Di tale danno il terzo trasportato chiese il risarcimento al vettore ed al suo assicuratore.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello attribuirono alla vittima un concorso di colpa del 50%, in quanto il terzo trasportato aveva fornito un contributo causale all’avverarsi del da lui stesso sofferto, accettando di essere trasportato a bordo di un veicolo condotto da una persona in evidente stato di ebbrezza.

Il soggetto trasportato ricorre in Cassazione e questa dichiara improcedibile il ricorso.

Tuttavia, la Corte affronta la questione prendendo le mosse dal principio sancito dall’art. 1227 c.c. il quale prevede che, se il comportamento colpevole della vittima ha concorso a causare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. È quindi possibile escludere o ridurre il diritto al risarcimento del danno di persona trasportata su un veicolo condotto in stato di ebrezza.

In quest’ottica la Suprema Corte si occupa della questione concernente la compatibilità tra il diritto comunitario e l’art. 1227, comma 1, c.c. Sul punto, la Corte, nel richiamare la normativa comunitaria in materia, preliminarmente fa riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia 30 giugno 2005, che ha affermato due principi. Secondo il primo, il diritto comunitario, in tema di assicurazione, sarebbe “privato del suo effetto utile” in presenza d’una normativa nazionale che negasse al passeggero il diritto al risarcimento – ovvero lo limitasse in misura sproporzionata – “in base a criteri generali ed astratti”. Per il secondo, il diritto comunitario consente, invece, agli Stati membri di limitare il risarcimento dovuto al trasportato “in base ad una valutazione caso per caso” di circostanze eccezionali. Pertanto, mentre contrasterebbe con l’art. 13 Direttiva 2009/103 una norma di diritto interno che escludesse o limitasse ipso facto il diritto al risarcimento del passeggero, per il solo fatto di avere preso posto a bordo d’un veicolo condotto da persona ubriaca, non viola per contro il diritto comunitario una norma di diritto nazionale che, senza fissare decadenze o esclusioni in linea generale, consente al giudice di valutare caso per caso, secondo le regole della responsabilità civile, se la condotta della vittima possa o meno ritenersi colposamente concorrente alla produzione del danno.

Alla luce di quanto sopra premesso, la Corte enuncia dei principi fondamentali di diritto.

In primo luogo, afferma che l’art. 1227, comma 1, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale e astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente; una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, par. 3, della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitoria spettante al trasportato, qualsiasi disposizione di legge […] che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol.

Spetterà, quindi, al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore. Da ultimo l’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.

 

(*Contributo in tema di “Conducente in stato di ebbrezza e risarcimento del terzo passeggero”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

smart working

Il disabile ha diritto allo smart working Smart working: ne ha diritto l’ipo-vedente che lo ha già svolto durante la pandemia, se il datore non è impossibilitato 

Lavoratore disabile e smart working

Nella sentenza n. 605/2025 la Cassazione si è espressa su un caso di discriminazione nei confronti di un lavoratore disabile in relazione al suo diritto di svolgere il lavoro in modalità smart working. Con questa sentenza, la Corte ha affermato, nello specifico, l’obbligo per i datori di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli” per garantire la parità di trattamento ai dipendenti con disabilità.

Richiesta del disabile di lavorare in smart working

Un dipendente, assunto dal 1997 e inquadrato al quinto livello del contratto collettivo nazionale (CCNL) nel settore Customer Care, chiede di lavorare in smart working. A causa di gravi deficit visivi, raggiungere la sede lavorativa di Napoli è diventato estremamente difficile. L’azienda  però esclude i dipendenti della sua categoria (caring agents) dalle possibilità di lavoro agile, pur avendo adottato un accordo sullo smart working nel 2017.

La Corte di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, accoglie la domanda del lavoratore, ordinando all’azienda di consentirgli di svolgere le sue mansioni da remoto o dalla sede più vicina alla sua abitazione. La decisione si basa sull’obbligo legale di adottare misure ragionevoli per evitare discriminazioni, come previsto dall’articolo 3, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n. 216/2003.

La società datrice però non accetta la decisione e la impugna davanti alla Cassazione, sostenendo:

  • l’assenza di una condotta discriminatoria;
  • la necessità, per lo svolgimento del lavoro agile, di un accordo specifico tra le parti, che nel caso di specie non è stato raggiunto.

Discriminatorio negare il lavoro agile al disabile

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso motiva la sua decisione sulla base di diverse fonti normative nazionali e internazionali.

  • La Direttiva 2000/78/CE stabilisce l’obbligo per i datori di lavoro di adottare soluzioni per garantire la parità di trattamento.
  • La Carta dei Diritti Fondamentali dellUnione Europea sancisce il diritto dei disabili a misure che ne favoriscano l’autonomia
  • La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità riconosce il diritto a condizioni di lavoro eque per le persone con disabilità.

Per gli Ermellini quindi è pienamente condivisibile il ragionamento della Corte di merito. La mancata adozione di accomodamenti ragionevoli rappresenta una forma di discriminazione diretta, vietata dalla legge.

Smart working: obbligo del datore all’accomodamento

I datori di lavoro devono bilanciare gli interessi aziendali con quelli dei dipendenti disabili. È necessario infatti adottare misure che rendano compatibile l’ambiente lavorativo con le esigenze dei dipendenti, a meno che queste non comportino costi eccessivi. Nel caso specifico il lavoratore aveva già svolto le sue mansioni in smart working durante la pandemia. La richiesta del dipendente non richiedeva quindi investimenti finanziari sproporzionati. Il datore avrebbe dovuto accoglierla perché rappresentava un “accomodamento ragionevole”. In corso di causa inoltre l’azienda non aveva dimostrato l’impossibilità di adottare tali misure. La legge, come visto sopra, impone alle aziende di valutare le richieste dei lavoratori disabili e di trovare soluzioni condivise, nel rispetto delle norme antidiscriminatorie. In presenza di lavoratori disabili la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli costituisce una discriminazione diretta. Il lavoro agile non è infatti solo uno strumento di flessibilità organizzativa, ma anche una misura fondamentale per garantire l’inclusione e l’equità nel mondo del lavoro.

 

Leggi anche: Infortunio in itinere anche per lo smart working

negoziazione assistita

Negoziazione assistita: senza domanda per danni improcedibile Negoziazione assistita: obbligatoria nelle cause per il pagamento di somme fino a 50.000 euro, in assenza la domanda è improcedibile

Negoziazione assistita risarcimento danni

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 186-2025 ribadisce l’importanza della negoziazione assistita come passaggio obbligatorio in alcune controversie. Il caso analizzato riguarda una richiesta di risarcimento danni presentata da un conducente contro la Regione Marche per un incidente stradale causato da un cinghiale su una strada provinciale. Dal punto di vista procedurale la richiesta risarcitoria di somme inferiori ai 50.000 richiede il preventivo esperimento della negoziazione assistita. Nel caso si specie però la procedura stragiudiziale non è stata esperita, per questa ragione la domanda giudiziale è stata dichiarata improcedibile.

Richiesta risarcitoria danni materiali

L’iter giudiziario che ha portato la Cassazione alla predetta decisione è stato complesso. In primo grado, il Tribunale di Macerata ha accolto la domanda del danneggiato e condannato la Regione a pagare 7.014 euro. La Regione però ha fatto appello, sostenendo che la domanda fosse improcedibile a causa del mancato esperimento del procedimento di negoziazione assistita. La Corte d’Appello ha accolto questa eccezione, dichiarando quindi improcedibile la domanda originaria.

Negoziazione assistita: condizione di procedibilità

L’articolo 3 del Decreto Legge n. 132/2014 stabilisce in effetti che, per alcune controversie, è obbligatorio tentare la negoziazione assistita prima di ricorrere al giudice. Questo obbligo vale in due casi distinti:

  • per richieste di risarcimento danni da circolazione di veicoli e natanti, senza limiti di valore;
  • per domande di pagamento di somme non superiori a 50.000 euro.

La ratio della norma è di ridurre il carico di lavoro dei tribunali, favorendo soluzioni amichevoli. Il giudice o la parte convenuta, se la negoziazione non viene esperita, possono eccepire l’improcedibilità della domanda entro la prima udienza.

Nel caso specifico, la Regione Marche aveva inizialmente eccepito l’improcedibilità della domanda sostenendo che si trattasse di una richiesta di risarcimento per danni derivanti dalla circolazione di veicoli, ma il Tribunale aveva rigettato l’eccezione. In appello, invece la Regione aveva sollevato un nuovo motivo di improcedibilità, affermando che la richiesta riguardasse la richiesta di pagamento di una somma inferiore a 50.000 euro, altra fattispecie soggetta a negoziazione assistita. La Corte d’Appello aveva accolto la nuova eccezione.

Negazione assistita: rispetto termini per sollevare l’eccezione

La Corte di Cassazione invece ha stabilito che, fermo restando l’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento della negazione assistita nei casi previsti dalla legge, sollevare tale eccezione in appello deve ritenersi inammissibile. Questa eccezione rituale infatti deve essere sollevata in primo grado, ossia entro i limiti temporali previsti dalla legge. La Cassazione ha  evidenziato nella decisione che il giudice d’appello non poteva accogliere una nuova eccezione di improcedibilità sollevata in secondo grado. La sentenza impugnata è stata quindi cassata e la causa è stata rinviata alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, per un nuovo esame.

Dalla decisione emerge l’importanza della negoziazione assistita, condizione di procedibilità della domanda in giudizio nelle richieste risarcitorie e di pagamento sopra evidenziate. Chi intende agire in giudizio deve quindi verificare se il caso rientra tra quelli soggetti alla negoziazione assistita perché il mancato rispetto di questa condizione può rendere la domanda improcedibile. Importante però anche il rispetto rigoroso delle regole procedurali e in particolare dei termini entro cui sollevare l’eccezione di improcedibilità della domanda, condizione che nel caso di specie non è stata rispettata.

 

Leggi anche gli altri articoli che si occupano della negoziazione assistita

Allegati