maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia: no a sospensione automatica responsabilità genitoriale Maltrattamenti in famiglia, la Corte costituzionale limita l’automatismo: il giudice deve valutare l’interesse del minore nella sospensione della responsabilità genitoriale

Maltrattamenti in famiglia, no all’automatismo

Con la sentenza n. 55/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 34, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui impone automaticamente la sospensione della responsabilità genitoriale a seguito della condanna per maltrattamenti in famiglia (articolo 572, secondo comma, c.p.) commessi in presenza o a danno di minori.

L’intervento della Consulta

La questione di legittimità era stata sollevata dal Tribunale di Siena, che, pur avendo riconosciuto la responsabilità penale di due genitori per maltrattamenti nei confronti dei figli conviventi, aveva evidenziato l’incompatibilità tra l’applicazione automatica della pena accessoria e la necessità di tutelare, in concreto, l’interesse del minore.

Secondo l’articolo 34, secondo comma, c.p., la condanna per reati commessi abusando della responsabilità genitoriale comporta automaticamente la sospensione dall’esercizio della stessa, per una durata pari al doppio della pena principale. Tuttavia, questo meccanismo, secondo la Corte, si pone in contrasto con i principi espressi dagli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione, che pongono al centro la tutela effettiva dell’interesse del minore.

L’automatismo censurato

La Consulta ha rilevato che l’applicazione rigida della sospensione non consente una valutazione concreta della situazione familiare e del rapporto tra genitore e figlio, impedendo al giudice di considerare se, in casi specifici, mantenere la responsabilità genitoriale possa meglio garantire il benessere del minore.

La pronuncia richiama l’orientamento consolidato secondo cui l’interesse del minore è il parametro fondamentale nella regolazione dei rapporti familiari, e sottolinea che l’automatismo previsto dalla norma censurata crea una presunzione assoluta di incompatibilità tra la condanna e la prosecuzione del rapporto genitoriale, presunzione che risulta irragionevole e lesiva della dignità e dei diritti del minore stesso.

Il ruolo del giudice nella tutela concreta del minore

La Corte costituzionale ha quindi affermato che spetta al giudice, caso per caso, valutare se la sospensione della responsabilità genitoriale sia effettivamente conforme al preminente interesse del minore. Tale valutazione deve tener conto non solo della gravità del reato, ma anche dell’evoluzione del rapporto genitoriale successivamente ai fatti oggetto di condanna.

In particolare, la responsabilità genitoriale comporta obblighi e diritti che non devono essere compressi senza una attenta ponderazione degli effetti concreti sull’equilibrio e sulla crescita del minore.

avvocato d'ufficio

Avvocato d’ufficio: anche per il genitore insolvente paga lo Stato La Corte Costituzionale estende le garanzie anche al difensore del genitore insolvente nei procedimenti di adottabilità

Difesa d’ufficio nei procedimenti di adottabilità

Con la sentenza n. 58 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 143, comma 1, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico in materia di spese di giustizia), nella parte in cui non prevedeva l’anticipazione da parte dello Stato dei compensi spettanti al difensore d’ufficio del genitore insolvente nei procedimenti per la dichiarazione dello stato di adottabilità del minore, regolati dalla legge 4 maggio 1983, n. 184.

Il caso

La questione è nata da un ricorso presentato da un avvocato, nominato difensore d’ufficio della madre in un procedimento minorile. Dopo aver adempiuto al mandato difensivo e tentato senza esito il recupero del credito professionale, l’avvocato aveva chiesto al Tribunale per i minorenni la liquidazione del compenso a carico dell’erario, vedendosi rigettare la richiesta.

La Corte di cassazione ha quindi sollevato la questione di legittimità costituzionale, rilevando una violazione dell’articolo 3 della Costituzione, in ragione della disparità di trattamento rispetto:

  • al difensore d’ufficio del genitore irreperibile;

  • al difensore d’ufficio dell’imputato insolvente nei procedimenti penali.

Il richiamo alla sentenza n. 135/2019

Nel motivare la decisione, la Consulta ha richiamato la propria sentenza n. 135 del 2019, con cui era già stata censurata la mancata previsione dell’anticipazione del compenso per il difensore del genitore irreperibile.

La Corte ha ribadito che i procedimenti civili minorili e quelli penali presentano profili di omogeneità in relazione agli interessi tutelati e alla funzione del difensore d’ufficio, che interviene in entrambi i casi a garanzia di diritti fondamentali.

Diritto all’anticipazione del compenso

La difesa d’ufficio obbligatoria, comportando l’irrinunciabilità dell’incarico, implica il diritto del professionista all’anticipazione del compenso da parte dello Stato anche in caso di insolvenza del genitore assistito, analogamente a quanto già previsto per:

  • l’imputato insolvente nel processo penale (art. 116 T.U. spese di giustizia),

  • il genitore irreperibile nei procedimenti per l’adottabilità.

Possibile recupero delle somme da parte dell’erario

La Corte ha precisato che resta ferma la facoltà per l’erario di recuperare le somme anticipate, qualora il genitore assistito torni reperibile o solvibile e non chieda l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

L’onere probatorio del difensore d’ufficio

Infine, la Corte ha sottolineato che spetta al difensore d’ufficio dimostrare l’infruttuosità del tentativo di recupero del credito, allegando gli esiti negativi della procedura esecutiva. Solo in tal caso, il magistrato potrà disporre, con decreto, la liquidazione degli onorari e delle spese nella misura prevista dal Testo unico sulle spese di giustizia.

testamento valido

Testamento valido anche con monosillabi La Cassazione chiarisce che il testamento è valido anche se ci sono gravi limitazioni motorie ma sussiste la capacità di intendere e di volere

Validità del testamento

Testamento valido anche con monosillabi: la seconda sezione civile della Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 9534/2025, ha confermato la validità di un testamento pubblico redatto in presenza di un testatore affetto da gravi limitazioni motorie, che si era espresso unicamente attraverso monosillabi e movimenti del capo.

La vicenda

Nel caso esaminato, i fratelli del de cuius avevano contestato il testamento pubblico con cui erano stati istituiti erede universale e legatari i convenuti chiedendo che fosse dichiarata l’invalidità delle disposizioni di ultima volontà per incapacità naturale o per inosservanza delle formalità di redazione del testamento stesso. In corso di causa gli attori proponevano querela di falso, deducendo che il notaio aveva ricevuto le volontà del de cuius in assenza di testi ed aveva falsamente attestato che il testatore non era in grado di firmare l’atto.

Il Tribunale ha respinto tutte le domande con sentenza integralmente confermata in appello. Il giudice distrettuale infatti aveva evidenziato che l’incapacità del de cuius era prevalentemente motoria e non incideva sulla capacità di intendere e di volere. Il testatore era apparso, inoltre, in possesso della facoltà mentali nel corso del giudizio di interdizione, conclusosi con pronuncia di inabilitazione, e all’esame diretto da parte del CTU e dei medici curanti.

La questione approdava innanzi alla Cassazione, la quale tuttavia confermava la correttezza della sentenza impugnata.

La decisione

La S.C. ha chiarito che l’incapacità naturale del disponente che, ai sensi dell’art. 591 c.c., “determina l’invalidità del testamento non si identifica in una generica alterazione del normale processo di formazione ed estrinsecazione della volontà, richiedendo che, a causa dell’infermità, il soggetto, al momento della redazione del testamento, sia assolutamente privo della coscienza del significato dei propri atti e della capacità di autodeterminarsi”.

Nella specie, il de cuius era affetto da deficit motorio e dell’espressione verbale, ma capace di intendere e di volere, rispondendo in maniera pertinente alle domande che gli venivano rivolte, mostrando di comprenderne il contenuto e di articolare risposte congruenti.

La circostanza che si fosse espresso a monosillabi o con gesti espressivi del capo non inficiava, dunque per i giudici, la validità del testamento, essendo tali modalità le uniche coerenti con le sue condizioni di salute, “caratterizzate da un deficit motorio tale da non incidere sulle capacità, né sulla possibilità di esprimere in maniera intellegibile la propria volontà, non potendosi negare che il consenso così esternato fosse stato validamente manifestato, né potendosi contestare la genuinità e la pienezza dell’espressione di volontà che il giudice di merito ha riscontrato in concreto, con motivazione esente da vizi”.

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reato di cattiva conservazione

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio anche senza danno La Cassazione ribadisce che è sufficiente la potenziale pericolosità di prodotto per integrare il reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio per la salute, anche senza danno concreto. In ambito alimentare, infatti, la semplice potenziale pericolosità di un prodotto è sufficiente a configurare il reato anche in assenza di danni effettivi ai consumatori. È quanto ha ribadito la terza sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 13826/2025, confermando la condanna nei confronti del titolare di una macelleria all’interno di un supermercato per la vendita di carni e salumi conservati in ambienti igienicamente inadeguati.

Quando si configura il reato ex art. 5 l. 283/1962

Secondo quanto previsto dall’articolo 5, lettere b) e d), della legge n. 283/1962, rammentano innanzitutto dal Palazzaccio, la violazione si concretizza quando gli alimenti risultano:

  • in cattivo stato di conservazione;

  • alterati o insudiciati;

  • non conformi alle norme igienico-sanitarie stabilite dalla legge.

Non è necessario che il prodotto abbia causato un danno alla salute del consumatore. È sufficiente che si accerti la propensione oggettiva dell’alimento a costituire un pericolo, in virtù del suo deterioramento o della sua contaminazione.

Il principio espresso dalla Cassazione

I giudici di legittimità hanno chiarito che ciò che rileva ai fini della responsabilità penale è l’assenza delle condizioni igieniche minime richieste per la sicurezza del prodotto alimentare.

La tracciabilità carente, la mancata adozione di misure preventive, o anche il non rispetto delle norme di comune esperienza in materia di conservazione, sono elementi sufficienti a configurare il reato.

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lealtà e correttezza

Lealtà e correttezza: canoni generali dell’agire dell’avvocato Il Consiglio Nazionale Forense ha rammentato l'importanza di lealtà e correttezza quali canoni generali dell'agire dell'avvocato

Lealtà e correttezza dell’avvocato

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 370/2024 pubblicata il 10 aprile 2025 sul sito del Codice deontologico, ha ribadito l’importanza del dovere di lealtà e correttezza che ogni avvocato deve osservare. Non solo nei confronti del proprio assistito, ma anche verso la controparte e i terzi. Questo principio mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività.

Il caso esaminato

La vicenda trae origine da un procedimento disciplinare avviato nei confronti di un avvocato del foro di Catania. Il legale era accusato di aver introdotto un giudizio utilizzando un mandato alle liti con firma apocrifa del cliente, deceduto anni prima, e di non aver adempiuto al dovere di informazione prima dell’iniziativa giudiziale.

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina di Catania aveva comminato la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per un anno.

L’avvocato aveva impugnato la decisione, ma il CNF ha confermato la sanzione, evidenziando la gravità delle violazioni commesse.

Il principio affermato dal CNF

La sentenza sottolinea che l’avvocato deve svolgere la propria attività con lealtà e correttezza non solo nei confronti della parte assistita, ma anche verso i terzi e la controparte. Il dovere di lealtà e correttezza nell’esercizio della professione è un canone generale dell’agire di ogni avvocato, volto a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato stesso quale professionista leale e corretto, appunto, in ogni ambito della propria attività. Evitando “comportamenti che compromettano gravemente l’immagine che la classe forense deve mantenere nei confronti della collettività al fine di assicurare responsabilmente la funzione sociale che l’ordinamento le attribuisce”.

Patto di quota lite invalido: compenso in base alle tariffe Patto di quota lite invalido se prevede il 40% del compenso in caso di vittoria e nulla in caso di sconfitta, alll'avvocato compenso in base alle tariffe forensi

Patto di quota lite invalido

La Cassazione nella sentenza n. 9359/2025 si è espressa sul patto di quota lite tra avvocato e cliente. L’accordo prevedeva un compenso del 40% in caso di vittoria e non prevedeva alcun compenso in caso di sconfitta. Per gli Ermellini un patto di questo tipo non è valido. La legge vieta infatti questi accordi ai fini del riconoscimento del compenso del legale.

Compenso avvocato pari al 40%

La causa ha inizio perché una donna incarica un avvocato di difenderla in un giudizio. L’accordo relativo al compenso del legale prevede il riconoscimento del 40% della somma che la cliente potrebbe ottenere in giudizio. Accade però che la cliente perde la causa. L’avvocato chiede quindi il pagamento del compenso previsto in base alle tariffe forensi, sostenendo la nullità del patto convenuto. Il Tribunale di Forlì accoglie la domanda dell’avvocato, ritenendo nullo il patto di quota lite e applicando le regole sul compenso del difensore. La cliente nell’impugnare la decisione, sostiene che l’accordo stipulato con il legale non è vietato. Le clausole, a suo dire, hanno portata autonoma. Una clausola commisurava infatti il compenso al 40% del risultato, l’altra prevedeva l’assenza di compenso in caso di sconfitta. Questa seconda clausola deve essere interpretata come una rinuncia preventiva al compenso.

Nullo il patto di quota lite, valido il contratto

La Cassazione però rigetta il ricorso della cliente, affermando che le due clausole formavano in realtà un unico accordo. Questo accordo regolava il compenso del difensore e le clausole in esso contenute prevedevano due ipotesi alternative. In caso di vittoria, il compenso era il 40%, mentre in caso di sconfitta, non spettava alcun compenso. Un’ipotesi dipendeva dall’altra, le stesse non costituivano patti autonomi.

La Cassazione conferma quindi la nullità del patto di quota lite, precisando però che la nullità è parziale e non inficia comunque l’intero contratto di patrocinio. Questo infatti resta valido e il compenso del difensore deve essere calcolato in base alle tariffe forensi. Il tribunale quindi ha correttamente ritenuto la clausola di rinuncia un patto di quota lite, ma la legge vieta questi accordi a tutela del lavoro del difensore.

 

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uomini violenti

Recupero uomini violenti: i percorsi di riabilitazione Uomini violenti con le donne: definiti con decreto i criteri di accreditamento degli enti che organizzano i percorsi di recupero

Corsi di recupero uomini violenti: il decreto

Il Ministro della Giustizia e la Ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità hanno firmato un decreto importante per contrastare la violenza contro le donne attraverso il recupero degli uomini violenti. 

Il provvedimento definisce particolare i criteri e le modalità per riconoscere e accreditare gli enti che organizzano percorsi di recupero per uomini autori di violenza di genere o domestica.

Questi percorsi possono essere svolti solo nei C.U.A.V. (Centri per Uomini autori o potenziali autori di violenza), inseriti in un elenco ufficiale gestito dal Ministero della Giustizia.

I centri possono essere organizzati da enti pubblici, servizi sanitari, organismi del terzo settore o da una loro collaborazione. Solo chi è accreditato potrà realizzare i programmi.

Il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità è responsabile del riconoscimento degli enti e della gestione dell’elenco, pubblicato online.

L’Ispettorato generale del Ministero potrà effettuare controlli e vigilanza sulle attività svolte.

Percorso e sospensione condizionale della pena

La partecipazione a questi percorsi è fondamentale per i condannati che intendono accedere alla sospensione condizionale della pena, ma può coinvolgere anche imputati e indagati, come misura preventiva.

Il decreto introduce anche le linee guida nazionali per i percorsi di recupero, che saranno aggiornate ogni tre anni. Queste indicazioni si baseranno anche sui dati raccolti dall’Osservatorio sulla violenza contro le donne e sulla violenza domestica, con l’obiettivo di garantire interventi efficaci e mirati.

Il provvedimento interministeriale si pone l’obiettivo di combattere la violenza attraverso la prevenzione e la trasformazione comportamentale degli autori dei comportamenti violenti. Offrire loro un’opportunità di cambiamento è un passo fondamentale per proteggere le vittime e ridurre il rischio di recidiva.

Il decreto, se correttamente applicato, potrebbe offrire numerosi vantaggi per la società, il sistema giudiziario e soprattutto per la tutela delle vittime.

 

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molestie alla collega

Molestie alla collega: legittimo il licenziamento Molestie alla collega: legittimo il licenziamento, è sufficiente la prova testimoniale della persona offesa

Molestie alla collega: licenziamento legittimo  

Licenziamento per giusta causa legittimo per il lavoratore che, anche in presenza di un solo testimone oculare, rivolge molestie alla collega sul posto di lavoro baciandola sulla bocca, senza il suo consenso. Il tutto accompagnato da frasi a sfondo sessuale. Lo ha stabilito la Corte di Appello di Torino nella sentenza n. 150/2025.

Licenziamento per giusta causa illegittimo

Un addetto alla reception di una università viene licenziato. Il Tribunale però non ritiene provata la giusta causa disciplinare del licenziamento, ritenendo inattendibile la testimonianza del capo squadra del servizio di pulizie. L’uomo è stato accusato nello specifico di avere molestato fisicamente una collega e di aver abbandonato il posto di lavoro. I fatti sarebbero avvenuti in occasione di una festa di pensionamento di un collega. Alla festa il lavoratore avrebbe alzato il gomito e “in grave e visibile stato di ebbrezza” avrebbe rivolto alla collega attenzioni non gradite. La versione dei fatti però non viene condivisa dal Tribunale, tanto che la domanda di accertamento del licenziamento viene respinta. Il Tribunale accoglie invece la domanda riconvenzionale con il quale è stato chiesto l’annullamento del recesso del datore di lavoro, stante la natura ritorsiva della condotta. La decisione però viene impugnata. Per l’appellante infatti il giudice di primo grado ha errato nella valutare le testimonianze e non considerare rilevante dal punto di vista disciplinare l’abbandono della postazione di lavoro.

Testimonianza della collega attendibile

La Corte però ritiene meritevole di accoglimento la doglianza esposta nel primo motivo di appello tanto che accoglie l’impugnazione, dichiarando legittimo il licenziamento. Queste le ragioni della decisione.

Il Collegio concentra la sua attenzione sulle molestie alla collega del dipendente. L’uomo infatti ha abbracciato e baciato sulla bocca la donna contro la sua volontà. Ha anche fatto apprezzamenti sul suo aspetto e ha dichiarato di essere innamorato. La collega ha testimoniato l’accaduto. Ha raccontato che l’uomo l’ha presa per il viso e l’ha baciata, senza giustificare il gesto. Subito dopo, le ha fatto complimenti e le ha detto di essere innamorato di lei. La donna però ha precisato che non c’era mai stato un rapporto confidenziale tra loro. La testimonianza della donna per la Corte è credibile.

Lei ha notato che il collega parlava in modo strano e barcollava. Sentiva odore di alcol. L’uomo stesso ha ammesso di aver bevuto due bicchieri di vino poco prima. Anche se non era ubriaco, l’alcol poteva averlo alterato leggermente. La donna non poteva sapere del brindisi, quindi la sua affermazione sull’alito vinoso è veritiera. La sua deposizione inoltre è in linea con la mail che ha inviato pochi giorni dopo l’episodio. Il fatto che non ricordasse se l’uomo l’avesse anche abbracciata rafforza la sua attendibilità.

La testimonianza della collega insomma è sufficiente come prova. Non serve quella di un’altra persona. Le incongruenze minori evidenziate nella prima sentenza non sminuiscono la sua credibilità sul bacio e sugli apprezzamenti. Anzi, queste piccole differenze rendono la sua testimonianza più genuina. Se avesse voluto mentire, si sarebbe accordata con un’altra collega per una versione perfetta.

Errato colpevolizzare la vittima

Il primo giudice non ha ritenuto credibile la donna perché non ha subito chiesto aiuto. Ha anche criticato il suo comportamento dopo la molestia. Queste argomentazioni però non convincono il Collegio. Il comportamento di una vittima dopo una molestia non toglie veridicità all’evento. Non esiste un modo “giusto” di reagire. Colpevolizzare la vittima è sbagliato. La donna potrebbe non aver voluto denunciare subito per diverse ragioni. La molestia subita non era di estrema violenza. Inoltre, lei stessa non voleva che l’episodio avesse conseguenze.

La Corte si chiede inoltre perché la donna avrebbe dovuto calunniare il collega. Non c’era un motivo plausibile. Non avevano particolari rapporti o ragioni di risentimento. L’unica circostanza menzionata dall’uomo è che la sorella della donna ha preso il suo posto di lavoro dopo il licenziamento. Questa cosa è stata detta però solo in appello e non c’è prova che sia emersa dopo il primo giudizio. Inoltre, il mezzo (calunnia) è sproporzionato rispetto al fine (un posto di lavoro non particolarmente allettante).

La donna stessa ha detto di non voler portare avanti la cosa subito dopo l’accaduto. Questo dimostra che non voleva che la direzione aziendale sapesse della molestia. Se avesse voluto incastrare l’uomo, non avrebbe agito da sola. Avrebbe avuto bisogno della complicità dei vertici aziendali, cosa non plausibile. L’uomo non ha fornito un motivo convincente per cui la donna avrebbe dovuto calunniarlo.

Illecito disciplinare le molestie alla collega

La testimonianza della donna è quindi attendibile riguardo alla molestia sessuale. Questa rientra nella definizione di comportamenti indesiderati a sfondo sessuale che violano la dignità di una lavoratrice. Costituisce anche un illecito disciplinare punibile con il licenziamento senza preavviso. La condotta dell’uomo è oggettivamente offensiva e mina il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. La giusta causa disciplinare accertata giustifica il licenziamento, a prescindere da eventuali ragioni di ritorsione dell’azienda. Il Collegio non esamina l’abbandono del posto di lavoro.

 

 

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codice Ateco prostituzione

Codice ATECO anche per prostitute ed escort Codice ATECO prostituzione dal 1° aprile 2025: porte aperte a condotte illegali, l'ISTAT però assicura "solo attività legali"

Codice ATECO prostituzione

Codice ATECO prostituzione in vigore dal 1° aprile 2025. Lo prevede la nuova classificazione ISTAT delle attività economiche ATECO operativa nel Registro Imprese. Tra le novità, c’è il codice 96.99.92, che include infatti i “Servizi di incontro ed eventi simili“, comprendendo esplicitamente escort e sex worker. Il codice va ovviamente segnalato quando si avviano queste attività economiche.

ATECO 2025: una classificazione aggiornata

La nuova classificazione ATECO 2025 sostituisce quella del 2022. Essa descrive in modo più accurato le attività economiche, considerando le innovazioni e le trasformazioni recenti dell’economia e della società. L’ISTAT e il sistema camerale hanno collaborato all’elaborazione della  tabella di riclassificazione e hanno integrato diverse informazioni disponibili.

Aggiornamento automatico e implicazioni fiscali

Il codice ATECO di ogni impresa si aggiorna automaticamente: in “Visura” saranno visibili quindi sia il nuovo codice ATECO che quello vecchio. Le nuove attività adottano invece subito il nuovo Codice ATECO 2025 e spetta alla Camera di Commercio l’attribuzione del nuovo codice. Il sistema fiscale non riclassifica quindi d’ufficio e i contribuenti possono  usare il codice ATECO nelle proprie scadenze fiscali.

Codice ATECO prostituzione 96.99.92  

Come anticipato, l’elenco ATECO aggiornato al 2025 include il codice 96.99.92 per “Servizi di incontro ed eventi simili”.

Le note esplicative specificano che il codice attività include:

  • attività di accompagnatori (escort) e agenzie di incontro;
  • fornitura o organizzazione di servizi sessuali;
  • organizzazione di eventi di prostituzione e gestione di locali.

Regolarità fiscale e illiceità penali

La nuova classificazione permette così l’iscrizione alla Camera di Commercio ai sex worker e alle escort. La regolarizzazione fiscale però potrebbe collidere, per ovvi motivi, con le attività illecite. Il codice include infatti anche l’organizzazione di servizi sessuali e locali di prostituzione, tutte attività che, come noto,  possono configurare reati di sfruttamento della prostituzione.

Reato di sfruttamento della prostituzione

Lo sfruttamento della prostituzione del resto è un reato grave per nostro ordinamento e punito in base alle legge n. 75/1958.

Chi organizza o dirige la prostituzione altrui, traendone profitto, rischia infatti la reclusione e multe salate. La nuova classificazione ATECO 2025 sembra però legittimare queste attività.

Precisazioni ISTAT codice ATECO prostituzione

L’ISTAT precisa tuttavia che il nuovo codice ATECO riguarda solo le attività legali in Italia. Il codice 96.99.92 include in particolare le agenzie matrimoniali e di speed dating.

L’ISTAT tiene a precisare inoltre che la nuova classificazione non fa che recepire la classificazione europea NACE Rev. 2.1. In Europa infatti, alcune attività legate alla prostituzione, sono legali.

Implicazioni e controversie  

La nuova classificazione ATECO 2025 solleva indubbiamente questioni giuridiche complesse. Non c’è dubbio che la regolarizzazione fiscale di alcune attività possa entrare in conflitto con le leggi penali. La distinzione tra attività legali e illegali richiede un’analisi approfondita. E’ necessario monitorare l’applicazione della nuova classificazione al fine di valutarne l’impatto sul piano giuridico e sociale.

 

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mancato deposito telematico

Mancato deposito telematico è sempre imputabile all’avvocato Mancato deposito telematico: imputabile all'avvocato se non sussistono problemi tecnici che lo impediscono

Mancato deposito telematico

Il mancato deposito telematico ricade sempre sulla responsabilità dell’avvocato. La Corte di Cassazione nella sentenza n. 9269/2025 ha enunciato questo principio, dichiarando improcedibile un ricorso contro un avviso di accertamento IMU perché lo stesso è avvenuto oltre i termini e in forma cartacea, senza giustificazioni valide.

Richiesta di autorizzazione al deposito cartaceo

La vicenda che porta la Cassazione a enunciare il principio esposto in materia di deposito, nasce da un contenzioso tra una contribuente e il Comune. Quest’ultimo aveva richiesto il pagamento dell’IMU per l’anno 2015. Dopo due gradi di giudizio sfavorevoli alla contribuente, il suo avvocato ha presentato ricorso in Cassazione. Il deposito però non è avvenuto nei tempi previsti (20 giorni dalla notifica), ed è stato fatto in formato cartaceo. La difesa ha tentato di giustificare il deposito cartaceo invocando difficoltà tecniche nel sistema telematico. L’avvocato ha ammesso la propria “mancata perizia” nell’uso della piattaforma informatica. Ha anche chiesto l’autorizzazione per il deposito in formato cartaceo, che la Prima Presidente ha concesso in via d’urgenza. Tuttavia, ha precisato che ogni valutazione definitiva spettava al Collegio.

Mancato deposito telematico, responsabile l’avvocato

La Corte per decidere al meglio chiede al Centro Elettronico di Documentazione (CED) di verificare eventuali disfunzioni informatiche. La risposta però è stata chiara: il sistema era pienamente funzionante nei giorni indicati. Nessun problema tecnico impediva il deposito telematico. Non sussistevano pertanto le condizioni di urgenza previste dalla normativa per autorizzare il deposito cartaceo.

La Corte richiama i principi espressi in precedenti sentenze e alla luce di questi ricorda che solo eventi eccezionali ed estranei alla volontà dell’avvocato, possono giustificare il mancato deposito telematico. Le difficoltà soggettive o la scarsa dimestichezza con gli strumenti digitali non bastano. La procedura online, oggi obbligatoria, richiede preparazione e attenzione. L’errore dell’avvocato non può essere coperto da deroghe. Nel caso di specie comunque il legale non ha neppure avviato la procedura telematica. Non ha tentato cioè l’invio online del ricorso. Ha semplicemente scelto la via cartacea, ma così facendo, ha violato le norme sul deposito in Cassazione, rendendo improcedibile l’intero ricorso.

Avvocati: obbligatori strumenti previsti dalla legge

In conclusione, in assenza di reali impedimenti tecnici, come avvenuto nel caso di specie, l’omesso deposito telematico è frutto di negligenza. Nessuna deroga può coprire l’inadempienza. Il difensore ha l’obbligo di utilizzare correttamente gli strumenti previsti dalla legge. La decisione contiene un chiaro monito per la categoria forense. L’avvocato non può più permettersi incertezze sul piano tecnico. Il rispetto delle regole del processo telematico non è una facoltà, ma un dovere preciso, che se non viene rispettato presenta conseguenze inevitabili.

 

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