gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: la guida Il gratuito patrocinio (patrocinio a spese dello Stato) è un istituto che permette ai soggetti meno abbienti di potersi difendere in giudizio

Cos’è il gratuito patrocinio

Il gratuito patrocinio, o patrocinio a spese dello Stato, è un istituto giuridico che consente alle persone che non hanno sufficienti risorse economiche di accedere alla giustizia, garantendo loro la possibilità di essere assistiti da un avvocato senza dover sostenere i costi delle spese legali. Questo beneficio viene concesso dallo Stato, che si fa carico delle spese per il patrocinio legale, tra cui onorari e altri costi necessari per la difesa. Il gratuito patrocinio consente quindi, a chi ha difficoltà economiche, di accedere alla giustizia, tutelando il diritto di difesa garantito dalla Costituzione italiana all’art. 24.

Disciplina del patrocinio a spese dello Stato

Il gratuito patrocinio è un’agevolazione che permette infatti, a chi ha un reddito basso, di essere assistito in giudizio da un avvocato senza dover sostenere le spese legali. Il DPR 115/2002, noto come “Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”, disciplina le condizioni, i requisiti e le procedure per l’accesso a questo servizio.

A chi spetta il gratuito patrocinio

Il gratuito patrocinio spetta a tutti i cittadini italiani e agli stranieri residenti in Italia che si trovano in situazioni economiche disagiate. In particolare, il beneficio viene concesso a chi non è in grado di sostenere le spese per la difesa in un processo e il cui reddito non superi determinati limiti stabiliti dalla legge. Le condizioni per accedere al patrocinio sono basate principalmente sul reddito e sulla composizione del nucleo familiare.

Requisiti reddituali

I limiti di reddito sono adeguati in base alla variazione degli indici ISTAT con decreto del Ministero della Giustizia e del’Economia e delle Finanze. Tale limite è stabilito in relazione al reddito pro capite, tenendo conto anche del numero di componenti del nucleo familiare.

Nel calcolo del reddito, infatti, si tiene conto non solo di quello del richiedente, ma anche di quello di tutti i componenti del nucleo familiare, tranne in alcuni casi particolari come quando il processo riguarda diritti personali o conflitti all’interno del nucleo familiare.

Se il reddito supera la soglia stabilita, l’ammissione al gratuito patrocinio non è concessa. Nel caso in cui il richiedente abbia un patrimonio elevato, pur avendo un reddito inferiore alla soglia, il gratuito patrocinio potrebbe comunque essere negato.

Per l’anno 2024, il limite di reddito è di 12.838,01 (d.m. 10 maggio 2023 in GU n. 130 del 6 giugno 2023).

Altri casi di ammissione al patrocinio

Oltre ai requisiti di reddito, il DPR 115/2002 prevede che possano beneficiare del patrocinio gratuito:

  • le vittime di violenza domestica o di genere, che possono presentare domanda per ottenere assistenza legale gratuita, a prescindere dal reddito;
  • i minori stranieri non accompagnati e coinvolti in un procedimento giurisdizionale;
  • gli imputati in processi penali, che hanno diritto alla difesa d’ufficio se non possono permettersi un avvocato.

Procedimenti ammessi al gratuito patrocinio

Il gratuito patrocinio può essere richiesto in vari tipi di procedimenti legali:

  • penali: per difendersi in caso di accusa di reato;
  • civili: per cause civili, separazioni, divorzi, cause di famiglia o in ambito lavorativo.
  • amministrativi: in caso di controversie con enti pubblici;
  • processi contabili, tributari e negli affari di volontaria giurisdizione

Beneficiari e limitazioni

Il gratuito patrocinio può essere esteso a chiunque sia parte in un processo, ma ci sono alcune limitazioni. Per esempio, in ambito penale, il beneficio non viene concesso a chi ha già una condanna penale per determinati reati, come quelli legati alla mafia o al terrorismo, o se il processo riguarda un reato di grande gravità. In ambito civile, la domanda di gratuito patrocinio può essere rigettata se il processo è manifestamente infondato o se riguarda questioni di difficile risoluzione giuridica.  

Come richiedere il gratuito patrocinio

Per richiedere il gratuito patrocinio, è necessario seguire una procedura specifica.

La domanda deve essere presentata al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del tribunale competente. È possibile richiedere l’assistenza di un avvocato per compilare correttamente la documentazione.

La domanda prevede la compilazione di moduli disponibili presso il Consiglio dell’ordine competente a cui allegare il documento di identità del richiedente. Il modulo presentato dal difensore richiede l’autentica da parte di questo soggetto della firma dell’istante.

Documentazione necessaria

Occorre fornire la copia dell’ultima dichiarazione dei redditi e, in alcuni casi, altri documenti che dimostrino la situazione economica del richiedente e del suo nucleo familiare.

Esame della domanda

Il Consiglio dell’Ordine verifica i requisiti economici e decide se concedere il patrocinio gratuito. La decisione viene comunicata al richiedente entro un periodo di tempo stabilito. In caso di rigetto la richiesta può essere fare richiesta al giudice competente per il giudizio.

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Antitrust Ryanair

Antitrust: Ryanair rimborserà i costi del check-in Chiusa dall'AGCM l'istruttoria nei confronti della compagnia irlandese che si è impegnata a rimborsare oltre un milione e mezzo di euro per i costi extra del check-in

L’Antitrust, L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha concluso l’istruttoria nei confronti di Ryanair D.A.C., risolvendo la questione con impegni concreti da parte della compagnia aerea. L’indagine era stata avviata per una presunta pratica commerciale scorretta in violazione del Codice del Consumo, in particolare riguardo alla mancanza di trasparenza sulle condizioni di check-in online e sull’aggravio di costi per il check-in in aeroporto. Lo rende noto l’Antitrust con un comunicato stampa pubblicato sul proprio sito.

Le contestazioni dell’Antitrust

Nel corso dell’istruttoria, l’AGCM aveva rilevato che le informazioni fornite da Ryanair sui costi e sulle condizioni di check-in online erano potenzialmente ingannevoli. In particolare, la compagnia non informava adeguatamente i consumatori sulla finestra temporale in cui il check-in online fosse disponibile gratuitamente e sugli eventuali costi aggiuntivi che si sarebbero applicati qualora il check-in fosse stato effettuato in aeroporto, superando il termine di scadenza per il check-in online.

Un ulteriore problema rilevato dall’Autorità riguardava l’opzione di prenotazione di un biglietto di andata e ritorno con il servizio di priorità e bagaglio a mano. Se l’utente selezionava questa opzione per una tratta, il sistema la estendeva automaticamente anche alla tratta di ritorno, senza consentire una selezione separata per ciascun volo.

Gli impegni di Ryanair e i rimborsi ai consumatori

Per risolvere la situazione, Ryanair ha preso impegni formali di risarcimento e modifica delle sue pratiche.

In particolare, la compagnia irlandese ha accettato di rimborsare interamente i consumatori che, tra il 2021 e il 2023, hanno sostenuto costi extra per il check-in in aeroporto, a causa della scarsa chiarezza sulle condizioni del check-in online. Ogni consumatore riceverà un rimborso di 55 euro, che corrisponde all’intero costo del check-in effettuato in aeroporto.

Inoltre, tutti i consumatori che, nel medesimo periodo, hanno effettuato una prenotazione di volo e poi hanno scelto di effettuare il check-in in aeroporto, pagando il supplemento, riceveranno un ristoro pari a 15 euro. In alternativa, potranno scegliere di ricevere un voucher del valore di 20 euro da utilizzare per l’acquisto di servizi Ryanair. Questo riguarda oltre 100.000 prenotazioni, e si stima che l’importo totale da rimborsare si aggiri intorno al milione e mezzo di euro.

Modifiche alle politiche di prenotazione e trasparenza

Oltre ai rimborsi, Ryanair si è impegnata a modificare la modalità di selezione dell’opzione priorità e bagaglio a mano. D’ora in poi, i consumatori avranno la possibilità di selezionare separatamente questo servizio per ciascun volo di andata e ritorno, con la visualizzazione del relativo prezzo unitario per ogni tratta, evitando così l’estensione automatica dell’opzione all’intero viaggio.

Inoltre, la compagnia ha promesso di aggiornare il sito web, l’app mobile e il testo delle email di conferma prenotazione, per garantire che i consumatori siano adeguatamente informati sulla finestra temporale in cui è possibile effettuare il check-in online gratuitamente e sugli eventuali costi relativi al check-in in aeroporto.

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certificato carichi pendenti

Certificato carichi pendenti: cos’è e chi può richiederlo Il certificato carichi pendenti serve a conoscere se un soggetto ha procedimenti penali in corso a suo carico

Il certificato dei carichi pendenti è un documento ufficiale che attesta se un soggetto ha procedimenti penali in corso a suo carico ed eventuali relativi giudizi di impugnazione. Viene rilasciato dal Ministero della Giustizia e può essere richiesto per una serie di motivi legali, amministrativi o professionali.

Vediamo nel dettaglio cos’è il certificato carichi pendenti, come si richiede e chi può farne richiesta.

Cos’è il certificato carichi pendenti

Il certificato dei carichi pendenti è dunque un documento che certifica la presenza o meno di procedimenti penali in corso a carico di una persona. Questi procedimenti possono riguardare indagini, processi o procedimenti esecutivi che non sono ancora stati definitivi (ad esempio, una sentenza di condanna che non è ancora passata in giudicato). Il certificato, quindi, non riporta condanne definitive (distinguendosi perciò dal certificato del casellario giudiziale), ma solo quelle in corso di svolgimento.

Il certificato ha valore legale ed è spesso richiesto in ambito lavorativo, per la partecipazione a concorsi pubblici, o per altre finalità amministrative e legali.

Come si richiede il certificato carichi pendenti

La richiesta del certificato può essere fatta in vari modi, a seconda delle necessità del richiedente e della modalità che preferisce.

Il certificato viene rilasciato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale che ha giurisdizione sul luogo di residenza dell’interessato. Il documento riporta i procedimenti pendenti presso tale ufficio e quelli in corso presso le procure distrettuali antimafia (DDA), di cui si è ricevuta comunicazione.

Non risultano comunque divieti al rilascio del certificato da parte di una Procura diversa da quella di residenza.

Presso molti uffici giudiziari, inoltre, è possibile prenotare il certificato online tramite l’apposito modulo disponibile nelle procure e sul sito del ministero della Giustizia, unitamente a un documento di riconoscimento in corso di validità.

I certificati prenotati si ritirano allo sportello dell’ufficio locale del casellario selezionato, consegnando il modulo di richiesta prodotto dal sistema ovvero in alternativa il numero di prenotazione assegnato nel corso della procedura online.

Chi può richiedere il certificato

Il certificato carichi pendenti può essere richiesto da:

  • dal diretto interessato o da persona da lui delegata;
  • dalle pubbliche amministrazioni o dai gestori di pubblici servizi, quando è necessario per l’espletamento delle loro funzioni;
  • dall’autorità giudiziaria penale, che provvede direttamente alla sua acquisizione;
  • dal difensore dell’imputato, nei confronti della persona offesa o del testimone.

Quando viene richiesto il certificato dei carichi pendenti

Il certificato è spesso richiesto in numerosi contesti, tra cui:

Concorsi pubblici

Molti concorsi pubblici, soprattutto per incarichi che implicano responsabilità giuridiche o finanziarie, richiedono che i candidati presentino il certificato dei carichi pendenti per escludere soggetti con procedimenti penali in corso.

Assunzione in aziende private

Alcune aziende, soprattutto nei settori della sicurezza o in posizioni sensibili, possono chiedere il certificato dei carichi pendenti ai propri dipendenti o ai candidati per garantire che non ci siano procedimenti legali in corso.

Procedimenti legali

In caso di contenziosi legali, l’avvocato potrebbe richiedere il certificato per accertare la situazione penale del cliente o della controparte.

Cessione di immobili o altri contratti

In alcune situazioni, come la cessione di beni immobili o la firma di contratti di rilevante valore, può essere richiesto il certificato per verificare l’affidabilità della parte coinvolta.

riuso edilizio

Riuso edilizio: la pronuncia della Consulta La Corte Costituzionale boccia alcune norme della regione Sardegna in materia di riuso edilizio e aggiudicazione dei contratti pubblici

Riuso edilizio e aggiudicazione dei contratti pubblici: la Consulta, con la sentenza n. 174/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di due disposizioni della legge della Regione Sardegna n. 17 del 2023, impugnate dal Governo.

Il riuso edilizio

La prima disposizione (art. 4, comma 1, lettera a, numero 1), modificando l’art. 124, comma 2, della legge regionale n. 9 del 2023, prevede che gli interventi di riuso dei seminterrati, piani pilotis e locali al piano terra degli immobili destinati ad uso abitativo sono consentiti anche mediante il superamento degli indici volumetrici e dei limiti di altezza e numero dei piani previsti dalle vigenti disposizioni urbanistico edilizie comunali e regionali.

La Corte ha ritenuto che “una simile disciplina contrasta con la necessità che le deroghe agli indici di densità edilizia introdotte dal legislatore regionale siano connotate dall’eccezionalità e dalla temporaneità, nel rispetto del principio di pianificazione urbanistica espresso dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942”.

La norma impugnata è stata dichiarata illegittima nella parte in cui consente, in via stabile, di superare gli indici volumetrici, in violazione del suddetto principio, che limita la competenza legislativa regionale primaria in materia di «edilizia ed urbanistica» (art. 3, primo comma, lettera f, dello statuto).

Aggiudicazione contratti pubblici

La seconda disposizione (art. 7, comma 16) inserisce nell’art. 37 della legge regionale n. 8 del 2018 un nuovo comma 3-bis, prevedendo che nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa «costituisce requisito di ammissione dell’offerta tecnica il raggiungimento del punteggio minimo pari al 60 per cento del valore massimo attribuibile all’offerta tecnica stessa».

La Consulta ha ritenuto che il legislatore regionale, imponendo un inderogabile punteggio minimo dell’offerta tecnica, abbia leso l’autonomia di scelta delle stazioni appaltanti, precludendo ad esse una diversa ponderazione dei criteri di valutazione delle offerte, in contrasto con l’art.108 del vigente codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36 del 2023).

Conseguentemente, “la disposizione impugnata ha superato i limiti che le norme di tale codice sulla scelta del contraente, adottate dallo Stato in nome della tutela della concorrenza, pongono alla potestà legislativa regionale primaria in materia di «lavori pubblici di esclusivo interesse della Regione» (art. 3, primo comma, lettera e, dello statuto)”.

Il giudice delle leggi ha osservato, inoltre, che la garanzia di un confronto concorrenziale effettivo necessita dell’autonomia delle stazioni appaltanti nella valutazione caso per caso della migliore offerta. Ha sottolineato, inoltre, che tale autonomia – anche al fine di favorire la concorrenza – è stata rafforzata dal nuovo codice dei contratti pubblici del 2023 rispetto alle precedenti sue versioni, come è chiaramente dimostrato dalle importanti norme contenute nei primi tre articoli del codice, dedicate ai «principi generali» che regolano la contrattualità pubblica: principio del risultato (art. 1), principio della fiducia (art. 2) e principio dell’accesso al mercato (art. 3). L’autonomia delle stazioni appaltanti, dunque, risulta potenziata: limitarla significherebbe pregiudicare la competizione tra le imprese che aspirano all’aggiudicazione del contratto.

autotutela tributaria

Autotutela tributaria: le linee guida del fisco I chiarimenti dell'Agenzia delle Entrate in una circolare dopo le modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 219/2023

Nuova autotutela tributaria

L’Agenzia delle Entrate ha recentemente fornito chiarimenti sul nuovo regime dell’autotutela tributaria, in seguito alle modifiche introdotte dal Decreto Legislativo n. 219/2023. Con la Circolare n. 21/E, l’Amministrazione Finanziaria ha definito con maggiore precisione il perimetro del nuovo istituto e le modalità con cui i contribuenti possono presentare le richieste di autotutela.

Autotutela obbligatoria

La riforma ha profondamente modificato l’istituto dell’autotutela tributaria, introducendo una distinzione fondamentale tra autotutela obbligatoria e facoltativa. In particolare, il nuovo articolo 10-quater dello Statuto dei diritti del contribuente impone all’Amministrazione finanziaria di annullare, anche senza una specifica istanza da parte del contribuente, gli atti di imposizione che presentano manifesta illegittimità. Questo obbligo sussiste anche in pendenza di giudizio o in presenza di atti definitivi, qualora ricorrano uno dei vizi tassativamente previsti dalla legge, tra cui:

  • Errore di persona o di calcolo
  • Errore nell’individuazione del tributo
  • Errore materiale facilmente riconoscibile dall’Amministrazione
  • Errore sul presupposto di imposta
  • Mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente effettuati
  • Mancanza di documentazione che è stata successivamente sanata entro i termini previsti

Tuttavia, l’obbligo di autotutela non si applica in caso di sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione finanziaria, né se è trascorso più di un anno dalla definitività dell’atto viziato senza che il contribuente abbia impugnato l’atto.

Autotutela facoltativa

L’articolo 10-quinquies dello Statuto dei diritti del contribuente regola invece l’autotutela facoltativa. In questo caso, se l’illegittimità dell’atto di imposizione non è evidente e non ricorrono i vizi specifici elencati nell’articolo 10-quater, l’Amministrazione finanziaria ha comunque la facoltà di annullare l’atto, anche senza richiesta da parte del contribuente. Tale annullamento può avvenire se l’ente impositore riconosce che l’atto o l’imposizione sono illegittimi o infondati, anche se l’atto è già definitivo o in pendenza di giudizio.

Modalità di presentazione della richiesta di autotutela

La richiesta di autotutela deve essere indirizzata all’Ufficio che ha emesso l’atto oggetto della contestazione. Il contribuente deve presentare l’istanza in modo dettagliato, indicando tutti gli elementi che giustificano la richiesta di annullamento, e allegare la documentazione pertinente. Per la presentazione, è necessario utilizzare modalità che certifichino l’invio, come i servizi telematici (SPID, CIE o CNS), la posta elettronica certificata (PEC) o la consegna diretta dell’istanza allo sportello dell’ufficio competente.

In sintesi, il Decreto Legislativo n. 219/2023 ha introdotto importanti novità sulla procedura di autotutela tributaria, migliorando l’accesso e l’efficienza del sistema, a beneficio tanto dei contribuenti quanto dell’Amministrazione finanziaria

giurista risponde

Rifiuto ingiustificato del paziente e concorso nel danno Il rifiuto ingiustificato del paziente di un intervento emendativo di un errore medico configura un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

Il paziente ha il diritto di rifiutare il trattamento medico, ma se il rifiuto è ingiustificato, perché non correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici, può integrare un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c, ove emerga che il completamento clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente compiutamente consentito (Cass., sez. III, 11 dicembre 2023, n. 34395 (rifiuto ingiustificato del paziente).

La decisione in commento si pone in frontale contrasto con i precedenti della Cassazione, i quali hanno sostenuto che il rifiuto del paziente di sottoporsi ad un trattamento medico non può considerarsi una condotta idonea a ridurre il quantum del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.

Funzionale all’attribuzione della responsabilità civile è il nesso di causalità nella sua doppia veste di causalità materiale e giuridica:

  • la prima necessaria per stabilire se vi sia responsabilità e a quale condotta vada imputata;
  • la seconda necessaria per delineare l’area del danno risarcibile e determinare la misura del risarcimento.

Tale distinzione assume notevole peso in particolar modo nell’indagine su eventi ad eziologia multifattoriale: in conseguenza della infrazionabilità del nesso eziologico, coerente con l’orientamento maggioritario della Cassazione che non aderisce al modello nord-americano della causalità proporzionale (così, tra gli altri precedenti, Cass. 21 luglio 2011, n. 15991), l’accertamento di questo si risolve nella dicotomia tra sussistenza ed insussistenza.

L’infrazionabilità del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è indirettamente confermata dall’art. 1227 c.c., che circoscrivendo la riduzione di responsabilità al solo caso di concorso causale fornito dalla vittima, esclude la frazionabilità nel caso in cui la condotta del responsabile concorra con cause naturali o condotte non colpevoli.

La materia della responsabilità medica è tipicamente teatro di eventi dall’eziologia complessa. Qui, in virtù del nuovo regime di responsabilità a doppio binario introdotto dalla L. 22 dicembre 2017, n. 219, l’istituto di cui all’art. 1227 c.c. trova rilevanza sia nel caso di responsabilità contrattuale tipico del rapporto tra paziente e struttura sanitaria sia, in forza dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2056 c.c., in quello di responsabilità extracontrattuale che interviene tra il primo e l’esercente la professione sanitaria.

Il caso concretamente oggetto della pronuncia in commento ha dato l’occasione alla Cassazione per esprimersi nuovamente sulla possibilità di considerare il rifiuto del paziente di sottoporsi a un trattamento medico rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 1227, comma 2, c.c. Questo presuppone che l’evento dannoso sia interamente ascrivibile alla responsabilità del debitore fungendo da criterio selettivo del danno risarcibile: si escludono i danni che il creditore avrebbe potuto evitare attraverso una condotta diligente.

L’analisi, rispetto al primo comma del medesimo articolo, si sposta pertanto sul piano della causalità giuridica, sul presupposto che il danno che taluno arreca a sé stesso non può essere traslato sull’autore della causa concorrente. Altra lettura individua in questa norma una portata causalistica, incentrata sull’esclusione dall’area del danno risarcibile le conseguenze non immediatamente e direttamente riconducibili alla condotta del danneggiante sulla base del fatto che la condotta del danneggiato interromperebbe il nesso di causalità giuridica già innescato, viene preferita una lettura solidaristica.

La tesi prevalente reputa, infatti, che alla regolazione della causalità sia esaustivamente demandato l’art. 1223 c.c. L’art. 1227, comma 2, va infatti letto quale norma comportamentale che addossa un dovere di autoresponsabilità al creditore. Alla luce del principio solidaristico che permea il Codice Civile ove letto attraverso il filtro dei dettami costituzionali si sancisce una regola etico-giuridica di condotta che impone doveri comportamentali ex art. 1176 c.c. anche al creditore. Così non si risarcisce il danno che sarebbe stato evitabile attraverso una condotta doverosa di quest’ultimo.

Di questo aspetto la Corte si è già occupata in un intervento del 2020 (Cass. 15 gennaio 2020, n. 515). In tale sede la Cassazione ha ricordato che il rifiuto di sottoporsi a determinate cure mediche, sia per motivi religiosi che per altra natura non può essere considerato un fattore anomalo e imprevedibile ma è espressione di un diritto di rango costituzionale.

Sul punto, tale pronuncia ribadisce l’orientamento in tema: nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario senza consenso e non può essere configurato alcun obbligo a carico della vittima di sottoporsi al trattamento sanitario in quanto si tratterebbe di incidere surrettiziamente sull’intensità e sulla qualità del pieno riconoscimento del diritto di un soggetto di rifiutare un trattamento sanitario.

Il rifiuto ingiustificato del paziente non è quindi inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore previsto dall’art. 1227 c.c., intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1227, comma 2, c.c., soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (così anche Cass. 5 luglio 2007, n. 15231; Cass. 10 maggio 2001, n. 6502). In sostanza, i danni derivanti dalla condotta pregiudizievole del medico che il paziente abbia omesso di mitigare mediante un trattamento sanitario non sono da considerarsi “danni evitabili” secondo quanto disposto dall’art. 1227, comma 2, c.c.

La vicenda di cui si occupa la Cassazione nella sentenza in commento trae origine dalla domanda di risarcimento derivante da un intervento chirurgico negligente dal quale era poi scaturito il rifiuto del paziente-creditore di un ulteriore trattamento.

In questa occasione la Corte, in contrasto con i precedenti sopra citati, ammette che dal rifiuto del paziente di sottoporsi a trattamenti sanitari possano derivare conseguenze sul piano risarcitorio. Recuperando il nucleo centrale del principio solidaristico, la Cassazione concepisce l’art. 1227, comma 2 c.c. come un modo per ripartire i costi dell’esercizio del diritto di autodeterminazione del creditore. Non si tratta, infatti, di sanzionare l’esercizio di un diritto quanto di impedire che dei danni conseguenti a questo possa rispondere un soggetto che, effettivamente, non li ha cagionati. Attraverso il riferimento al rifiuto “ingiustificato”, poi, si introduce la necessità di un vaglio in concreto sulle ragioni del rifiuto dell’attività medica, tenendo in considerazione le relazioni tra i rischi derivanti dall’intervento e quelli derivanti dalla non sottoposizione allo stesso. È qui che si inserisce la valutazione (e la prova) sulla probabilità che l’intervento non voluto fosse determinante per l’evoluzione in senso migliorativo delle condizioni di salute del danneggiato e che non rischiasse di introdurre nel quadro clinico ulteriori e inaspettati pericoli.

Così la pronuncia in commento armonizza, nell’ambito dell’art. 1227, comma 2 c.c., la lettura solidaristica attraverso l’aggancio al principio di solidarietà e buona fede nel sindacato sulle ragioni del rifiuto, con quella causalistica mediante il rinvio al giudizio controfattuale ipotetico sul peso che l’intervento medico non accettato avrebbe avuto sul decorso causale che ha portato alle conseguenze dannose di cui il paziente-creditore si duole.

 

Contributo in tema di “Rifiuto ingiustificato del paziente e concorso nel danno”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

decreto sud

Decreto Sud legittimo La Consulta decidendo il ricorso della regione Campania sui fondi di coesione e sulla Zes unica del decreto Sud ha ritenuto non fondati i dubbi di costituzionalità

Il Decreto Sud è legittimo. La Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 175/2024, sul ricorso con cui la regione Campania ha impugnato diverse disposizioni contenute nel dl. n. 124/2023 (meglio noto come Decreto Sud).

Nessuna lesione all’autonomia regionale

Il ricorso della regione lamentava, in primo luogo, che alcune disposizioni contenute nel “decreto Sud” in materia di programmazione e utilizzazione delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione ledessero, per più aspetti, l’autonomia regionale.

Fondi di coesione

Con la sua pronuncia, la Corte ha ritenuto, innanzitutto, non fondati i dubbi di costituzionalità della previsione secondo cui la stipula dell’Accordo per la coesione tra Stato e Regione possa intervenire solamente una volta «dato atto dei risultati dei precedenti cicli di programmazione» (art. 1, comma 178, lettera d, della legge n. 178 del 2020, come sostituito dall’art. 1 del d.l. n. 124 del 2023).

Secondo la sentenza, il riferimento ai risultati dei precedenti cicli di programmazione non impone alla Regione destinataria dei fondi di dare prova dell’avvenuto completamento dei progetti, ma si traduce in un «adempimento istruttorio nel corso del quale viene operata una ricognizione dei progetti in essere al fine di verificare la maggiore o minore fattibilità di quelli rientranti nel ciclo di programmazione futuro».

Nel complesso, la sentenza ha ritenuto che la disciplina del Fondo per lo sviluppo e la coesione rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato perché è finalizzata a «rimuovere gli squilibri economici e sociali» e assolve, pertanto, “a finalità perequative, secondo quanto previsto dagli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119, quinto comma, Cost.

Accanto a ciò, la Corte ha chiarito che, secondo un ordinato assetto dei rapporti finanziari tra Stato e regioni, è necessario tenere distinte le risorse destinate a «finanziare integralmente le funzioni pubbliche» attribuite alle regioni medesime e agli enti locali e le risorse aggiuntive di cui all’art. 119, quinto comma, Cost., «la cui finalità resta quella di sostenere interventi di natura diversa dall’esercizio delle funzioni ordinarie, in quanto connessi a obiettivi di natura strutturale rivolti al necessario riequilibrio tra le diverse aree del Paese e la cui realizzazione è demandata a progetti specifici»”.

Zes unica

Con un secondo gruppo di doglianze, la Regione Campania ha impugnato l’insieme degli articoli con cui, nel “decreto Sud”, vengono disciplinati l’istituzione e il funzionamento della Zona economica speciale per il Mezzogiorno.

In relazione all’art. 9 del d.l. n. 124 del 2023, che istituisce la ZES unica, è stata dichiarata la cessazione della materia del contendere, alla luce della rinuncia al ricorso avanzata dalla Regione.

Ape social

Ape Social: verifica requisiti entro il 30 novembre L'Inps pubblica avviso sulla scadenza del termine per la presentazione della domanda di verifica delle condizioni di accesso all'anticipo pensionistico

Ape Sociale termine domanda

Ape Sociale: scade il 30 novembre 2024 il termine per la presentazione della domanda di verifica delle condizioni di accesso all’anticipo pensionistico. Lo rammenta l’Inps con un avviso pubblicato sul sito istituzionale, rammentando condizioni e presupposti dell’Ape social.

Ape Social: a chi spetta

L’indennità, rammenta l’istituto, “spetta ai lavoratori iscritti all’Assicurazione Generale Obbligatoria dei lavoratori dipendenti, alle forme sostitutive ed esclusive della stessa, alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi e alla Gestione Separata che si ritrovano in determinate condizioni lavorative, personali e familiari”.

Per verificare condizioni e requisiti di accesso l’Inps rinvia all’apposita pagina “APE Sociale – Anticipo pensionistico – Verifica Requisiti”.

Requisiti

Per ottenere l’indennità è necessario che i soggetti in possesso delle condizioni indicate dalla legge abbiano, al momento della domanda di accesso, i seguenti requisiti:

  • almeno 63 anni e 5 mesi di età;
  • almeno 30 anni di anzianità contributiva; per i lavoratori che svolgono le attività gravose, l’anzianità contributiva minima richiesta è di 36 anni (o almeno 32 anni, per le categorie di gravosi illustrate nella pagina APE Sociale). Ai fini del riconoscimento dell’indennità, i requisiti contributivi richiesti sono ridotti, per le donne, di 12 mesi per ogni figlio, nel limite massimo di due anni;
  • non essere titolari di alcuna pensione diretta.

L’accesso al beneficio è inoltre subordinato alla cessazione di attività di lavoro dipendente, autonomo e parasubordinato svolta in Italia o all’estero.

Incompatibilità

L’indennità non è compatibile con i trattamenti di sostegno al reddito connessi allo stato di disoccupazione involontaria, con l’assegno di disoccupazione, nonché con l’indennizzo per la cessazione dell’attività commerciale.

Ape social anche nel 2025

La misura, in vigore dal 1° maggio 2017 e già prorogata fino al 31 dicembre 2024, sarà oggetto di ulteriore proroga al 31 dicembre 2025, come previsto dall’articolo 24 del Disegno di legge di bilancio 2024, già approvato dalla Camera e in via di definizione al Senato.

Per approfondimenti leggi anche la nostra guida all’Ape Social

messa alla prova

Messa alla prova e domiciliari sono compatibili I due istituti, chiarisce la Cassazione, possono coesistere ed anzi ammesse tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni

Messa alla prova e domiciliari

La messa alla prova non è impedita dalla mera circostanza che la persona sia ai domiciliari, in quanto le due misure in linea di massima sono compatibili. Questo in sintesi quanto affermato dalla prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41185/2024.

La vicenda

Nella vicenda giunta all’attenzione della S.C., un detenuto era autorizzato dal magistrato di sorveglianza di Catania ad assentarsi dal domicilio, due giorni a settimana, per svolgere, in relazione ad un processo penale pendente a suo carico, il programma di messa alla prova.
In costanza di esperimento sopraggiungeva il provvedimento adottato d’ufficio, con il quale il magistrato di sorveglianza dava atto della diversità ontologica esistente tra la detenzione domiciliare e la sospensione del procedimento con messa alla prova, riteneva l’impossibilità di applicazione congiunta dei due regimi (dovendo il secondo essere postergato alla conclusione del primo) e revocava le autorizzazioni già concesse.
L’uomo, perciò, ricorreva innanzi al Palazzaccio con il ministero del suo difensore di fiducia. Nell’unico motivo deduceva l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, e processuale penale, sostenendo non esservi alcuna rigida preclusione alla concessione della messa alla prova in pendenza di una misura alternativa alla detenzione e rimarcando l’assenza di circostanze sopravvenute, ostative al mantenimento delle autorizzazioni già concesse.

Presupposti della messa alla prova

La Cassazione concorda. “L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova,
esteso dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, agli imputati maggiorenni – spiegano infatti i giudici di legittimità – si caratterizza quale modalità alternativa di definizione del procedimento penale,  attivabile nella fase delle indagini preliminari o nei prodromi dell’udienza preliminare o del giudizio, mediante la quale è possibile pervenire, in presenza di determinati presupposti normativi, ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato all’esito di un periodo di prova, destinato a saggiare l’avvenuto reinserimento sociale del condannato”.
Si tratta, aggiungono, “di un meccanismo che, su base consensuale e in funzione della riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato, innesta nel procedimento una vera e propria fase incidentale ni cui si svolge l’esperimento trattamentale, il cui esito positivo determina l’effetto estintivo”.

Portata rieducativa e afflittiva

L’istituto riveste una portata rieducativa e afflittiva al tempo stesso, in quanto l’esperimento è accompagnato, tra l’altro, dall’obbligo di prestare lavoro di pubblica utilità, nonché dall’imposizione di prescrizioni, concordate all’atto dell’ammissione al beneficio e modulate sullo schema dell’affidamento in prova al servizio sociale, incidenti in maniera significativa, nel corso del procedimento penale, sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto (cfr. Cass. Sez. U, n. 14840 del 27/10/2022).
L’art. 298 cod. proc. pen. regola il concorso di titoli esecutivi e misure cautelari processuali.
Tale disposizione, nel suo comma 1, risolve l’interferenza tra ordine di carcerazione e cautela processuale, accordando rilievo poziore al primo, salvo che gli effetti della misura cautelare disposta siano compatibili con l’espiazione della pena.
“In base al suo comma 2, è da ritenere viceversa possibile, in linea di principio – proseguono i giudici – la contestuale esecuzione della misura alternativa alla detenzione e di una misura cautelare, dovendosi poi solo verificare, in concreto, avuto riguardo alle limitazioni connaturali alle due misure anzidette, l’effettiva compatibilità fra l’una e l’altra, nel rispetto, dalla legge ritenuto preminente, della misura cautelare”.
Pertanto, “la natura di misura endoprocessuale, sostanzialmente limitatrice della libertà personale, che, come osservato, deve essere riconosciuta alla messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen., rende analogicamente applicabile l’art. 298, comma 2, cod. proc. pen.”

La coesistenza di una misura alternativa alla detenzione, anche restrittivamente conformata, quale la detenzione domiciliare, con il regime della messa alla prova, anteriormente o successivamente disposta, “non solo, dunque, non è da escludere in linea di principio, ma deve essere ammessa tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni”.

Le autorizzazioni in costanza di detenzione domiciliare

In materia di detenzione domiciliare, spiegano infine dal Palazzaccio, “il condannato può essere autorizzato a lasciare il domicilio non solo per il soddisfacimento delle proprie indispensabili esigenze di vita, o per svolgere l’attività lavorativa necessaria per il sostentamento, a norma dell’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., ma per ogni diversa esigenza connessa agli interventi del servizio sociale, anche relativi ad una procedura giudiziaria diversa da quella esecutiva in atto, o, più in generale, per altre finalità di giustizia penale; le prescrizioni della detenzione domiciliare possono essere, a tal fine, sempre modificate dal magistrato di sorveglianza, come consentito dall’art. 47-ter, comma 4, Ord. pen.”.
Il criterio, dunque, che deve orientare la discrezionalità di quest’ultimo organo giudiziario, e che funge da limite esclusivo alla concessione di tali autorizzazioni, “è che quest’ultima non alimenti realmente il pericolo che il condannato commetta, suo tramite, altri reati, essendo la detenzione domiciliare costruita sul presupposto che la misura risulti idonea a scongiurare la recidiva delittuosa”.

La decisione

Pertanto, il provvedimento impugnato non è conforme agli esposti principi di diritto, poichè muove dal presupposto errato dell’ontologica inconciliabilità tra le misure giudiziarie di causa, e deve essere annullato senza rinvio.

Allegati

parcheggio non pagato

Parcheggio non pagato: non è valido il verbale dell’agente ATM Per la Cassazione, gli ispettori dell'azienda di trasporto pubblico non hanno il potere di accertare le violazioni del Cds nell'intero territorio comunale

Parcheggio non pagato

Parcheggio non pagato: non è valido il verbale dell’agente ATM. Ciò perchè l’ispettore dell’azienda di trasporto pubblico non ha il potere di accertare le violazioni del Cds nell’intero territorio comunale. E’ quanto ha ribadito la Cassazione nell’ordinanza n. 19244/2024.

La vicenda

Un uomo proponeva opposizione avverso tre verbali di accertamento del 2019, con i quali gli veniva contestata la violazione dell’art. 157, comma 8, c.d.s., per sosta del veicolo di sua proprietà in località prossima alla stazione della metropolitana, senza avere azionato il dispositivo di controllo del pagamento della tariffa.
Il Giudice di pace, nel contraddittorio del Comune di Milano ha accolto l’opposizione, in ragione dell’assenza di parchimetri e ha annullato le sanzioni.
Il comune proponeva impugnazione e il tribunale di Milano riformava la pronuncia di primo grado rilevando, da un lato, che, al contrario di quanto affermato dal primo giudice, l’art. 157, comma 6, c.d.s., non implica che il parchimetro debba essere collocato nella stessa via in cui avviene il parcheggio del veicolo; dall’altro lato, che, posto che è possibile pagare la sosta in diversi modi, è persino ultronea la possibilità di provvedere al pagamento a mezzo dei parchimetri situati nelle vie adiacenti.
Il giudice d’appello, inoltre, ha richiamato l’orientamento dello stesso Tribunale per cui sussiste il potere sanzionatorio in capo agli agenti accertatori dell’ATM, come si desume dalle disposizioni di riferimento (art. 17, commi 132 e 133, legge n. 127 del 1997).
L’uomo proponeva ricorso per cassazione, denunciando, innanzitutto, la violazione dell’art. 17, commi 132 e 133, legge n. 127 del 1997, per avere il Tribunale erroneamente affermato che agli ispettori delle aziende di trasporto pubblico siano conferite le funzioni di accertamento delle violazioni in materia di sosta dei veicoli nell’intero territorio comunale e non limitatamente alle aree in concessione alle aziende medesime.

La decisione

Per la Cassazione, iil primo motivo è fondato, il che comporta l’assorbimento degli altri motivi.
Gli Ermellini affermano infatti che va data continuità al precedente sezionale – Cass. n. 30288 del 2022 – relativo a controversia, tra le stesse parti, avente ad oggetto la medesima fattispecie, che interpreta l’art. 17, commi 132 e 133, legge n. 127 del 1997, nel senso che “il legislatore abbia inteso conferire agli ausiliari del traffico, ai fini di semplificazione dell’attività amministrativa, il potere di prevenire ed accertare infrazioni al codice della strada in ipotesi tassative. In presenza ed in funzione di particolari esigenze del traffico cittadino, quali quelle connesse alla gestione delle aree da riservare a parcheggio e l’esercizio del trasporto pubblico di persone, la disciplina ha previsto che determinate funzioni, obiettivamente pubbliche, possano essere eccezionalmente svolte anche da soggetti privati i quali abbiano una particolare investitura da parte della pubblica amministrazione, in relazione al servizio svolto, in considerazione ‘della progressiva rilevanza dei problemi delle soste e parcheggi’ (Cass. 551/2009)”.
La tesi secondo cui gli ispettori delle aziende di trasporto sarebbero però titolari di un potere di controllo limitato alle aree date in concessione alle aziende da cui dipendono, proseguono dal Palazzaccio, “appare confortata dal tenore letterale del comma 133, il quale, nel prevedere la possibilità di conferimento delle funzioni di cui al precedente comma 132 (accertamento delle violazioni in materia di sosta, limitatamente alle aree oggetto di concessione), chiarisce che le funzioni di prevenzione e di accertamento attengono alla materia della circolazione e sosta sulle sole corsie riservate al trasporto pubblico”.
“La natura derogatoria delle norme in oggetto rispetto alla regola generale secondo cui la prevenzione e l’accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale compete ai soggetti di cui all’articolo 12, comma 3, c.d.s., non consente di ampliare in via interpretativa il novero delle funzioni attribuite a soggetti privati (Cass. 551/2009; Cass. 2973/2016; Cass. 3494/2019)”.
Quindi, mentre i dipendenti delle imprese gestrici di pubblici posteggi hanno poteri di accertamento e contestazione soltanto per le “violazioni in materia di sosta” e “limitatamente alle aree oggetto di concessione”, per i soggetti di cui al comma 133 le funzioni di prevenzione e accertamento devono intendersi limitate alla “sosta nelle aree oggetto di concessione” alle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone, ed “inoltre” alle ipotesi di circolazione e sosta sulle corsie riservate al trasporto pubblico”, attribuite al personale ispettivo di dette aziende”.
Per cui, il Tribunale di Milano, discostandosi dalla giurisprudenza di legittimità, “ha erroneamente affermato che gli ispettori delle aziende di trasporto pubblico urbano hanno il potere di accertare le violazioni del c.d.s. ‘nell’intero territorio comunale'”.
Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata.

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