aspettativa retribuita

Aspettativa retribuita: cos’è e come si ottiene Aspettativa retribuita: cos'è, normativa, quando spetta, come ottenerla, differenze con l'aspettativa non retribuita e settore pubblico

Aspettativa retribuita: cos’è?

L’aspettativa retribuita è un istituto previsto dall’ordinamento italiano che consente al lavoratore di sospendere temporaneamente la prestazione lavorativa continuando a percepire la retribuzione. Si distingue dall’aspettativa non retribuita proprio perché comporta il mantenimento del diritto al salario durante il periodo di assenza dal lavoro.

Questo strumento si applica in specifiche situazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, e rappresenta un importante mezzo di conciliazione tra esigenze personali o familiari e la continuità del rapporto di lavoro.

Normativa di riferimento

Non esiste una disciplina unitaria dell’aspettativa retribuita nel settore privato: le ipotesi sono tipizzate da singole norme di legge o da contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL), che possono prevedere condizioni più favorevoli. Nel settore pubblico, invece, l’istituto è regolato più organicamente dal Testo unico del pubblico impiego (d.lgs. n. 165/2001).

Altri riferimenti normativi generali includono:

  • Legge n. 104/1992 (assistenza a familiari disabili);
  • D.lgs. n. 151/2001 (congedi parentali e maternità/paternità);
  • Legge n. 53/2000 (congedi per formazione o gravi motivi familiari).

Quando spetta: i principali casi

L’aspettativa retribuita non è un diritto generalizzato ma si applica solo in presenza di specifiche condizioni previste dalla legge o dal contratto di lavoro. Ecco i principali casi in cui può essere concessa:

1. Assistenza a familiari con disabilità grave (Legge 104/1992)

Il lavoratore ha diritto a permessi retribuiti pari a 3 giorni al mese, anche frazionabili, per assistere familiari con handicap riconosciuto ai sensi dell’art. 3, comma 3 della legge 104.

2. Congedo parentale o per maternità/paternità

Previsto dal d.lgs. 151/2001, consente ai genitori di assentarsi per assistere i figli nei primi anni di vita, mantenendo il diritto a una indennità INPS in sostituzione del salario.

3. Aspettativa per cariche pubbliche o sindacali

I lavoratori che ricoprono cariche elettive in enti pubblici o sindacati possono ottenere aspettativa retribuita, o in alcuni casi indennizzata dallo Stato o dall’ente di riferimento.

4. Aspettativa per formazione o studio (se prevista dal CCNL)

Alcuni contratti collettivi, in particolare nel settore pubblico o scolastico, prevedono la possibilità di chiedere aspettativa retribuita per partecipare a corsi di aggiornamento o attività formative riconosciute.

Come richiederla

La procedura per la richiesta varia in base alla tipologia di aspettativa e alla disciplina applicabile nel singolo caso. Tuttavia, alcuni passaggi sono comuni:

  1. Presentare domanda scritta al datore di lavoro, specificando la motivazione e il periodo richiesto;
  2. Allegare la documentazione necessaria (es. certificati medici, autorizzazioni INPS, attestati formativi);
  3. Attendere l’approvazione del datore di lavoro, nei casi in cui non si tratti di un diritto automatico (come per i permessi 104 o il congedo parentale).

In genere, per le aspettative regolate da legge, il datore di lavoro non può opporsi se sono rispettate tutte le condizioni previste.

Differenza con l’aspettativa non retribuita

L’aspettativa non retribuita è più ampia e può essere concessa anche per motivi personali, viaggi, studio o esigenze familiari, ma non prevede la corresponsione dello stipendio. In molti casi può essere accordata discrezionalmente dal datore di lavoro o regolata dal contratto collettivo.

L’aspettativa retribuita, invece, è riconosciuta solo in ipotesi tassative, con precise condizioni e finalità che giustificano il mantenimento del trattamento economico.

Aspettativa retribuita nel settore pubblico

Nel pubblico impiego, l’aspettativa retribuita è disciplinata in modo più organico e si applica, tra gli altri casi:

  • per gravi motivi familiari;
  • per attività formative riconosciute;
  • per ricoprire cariche pubbliche elettive.

Il lavoratore mantiene il posto e il trattamento economico, salvo quanto diversamente previsto nei singoli contratti o leggi di settore.

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delibera annullabile

Condominio: delibera annullabile se i contrari pesano di più Per il tribunale di Lecce, una delibera è annullabile se i condòmini contrari rappresentano più millesimi, anche se i quorum minimi sono rispettati

Delibera annullabile e millesimi

Delibera annullabile se i contrari hanno più millesimi. Nel condominio, infatti, non basta rispettare i quorum previsti dall’art. 1136 c.c. per la validità delle delibere assembleari, se i voti contrari esprimono una maggioranza millesimale superiore. Questo il principio affermato dal Tribunale di Lecce con la sentenza n. 1620/2025, che ha accolto l’impugnazione di una delibera adottata in seconda convocazione per l’approvazione del rendiconto annuale.

Quorum rispettati ma contrari con più millesimi

La controversia nasce dalla delibera approvata da 30 condòmini (421 millesimi), contro cui si erano opposti 18 condòmini rappresentanti 539,91 millesimi. Nonostante il rispetto formale dei quorum minimi previsti dall’art. 1136, comma 3, c.c. (ossia maggioranza dei presenti e almeno un terzo del valore dell’edificio), il giudice ha ritenuto la delibera viziata e annullabile, poiché la volontà della maggioranza reale dei proprietari risultava sovrastata da una minoranza numericamente prevalente in millesimi.

Principio maggioranza: oltre il dato aritmetico

Il cuore della decisione risiede nell’applicazione del principio della maggioranza comparativa, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (tra cui le sentenze n. 25558/2020 e n. 16338/2020). Tale principio impone che, oltre al rispetto formale dei quorum, si valuti la comparazione tra voti favorevoli e contrari, sia sotto il profilo numerico, sia in termini di valore millesimale.

Questa interpretazione ha lo scopo di evitare che una minoranza, pur numericamente superiore, imponga decisioni alla maggioranza dei proprietari in termini di quote. È una garanzia sostanziale di democrazia condominiale, che tutela la reale volontà collettiva e l’equità nei processi deliberativi.

Invalidità della delibera

La delibera condominiale adottata in violazione della maggioranza comparativa non è nulla, ma annullabile, poiché affetta da un vizio sul procedimento di formazione della volontà assembleare. Si tratta di una lesione dell’equilibrio tra forma e sostanza nella rappresentanza condominiale, in cui il peso millesimale dei consensi diventa elemento centrale per la validità effettiva delle deliberazioni.

Il Tribunale salentino, seguendo una lettura funzionale e sistematica dell’art. 1136 c.c., ha posto l’accento sull’importanza di armonizzare i criteri numerici e patrimoniali, per evitare che il formalismo aritmetico si traduca in distorsioni antidemocratiche.

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recidiva semplice

Recidiva semplice: la Consulta limita aumento automatico pena Stop all’aumento automatico della pena per recidiva semplice. La Consulta dichiara incostituzionale l’art. 63 co. 3 c.p. in caso di concorso con attenuanti

Recidiva: l’intervento della Consulta

Con la sentenza n. 74 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 63, comma 3, del codice penale, nella parte in cui consente l’aumento obbligatorio di un terzo della pena in presenza di recidiva semplice e di un’altra circostanza aggravante autonoma o a effetto speciale.

Automatismo irragionevole

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Tribunale di Firenze, in un procedimento per minaccia aggravata commessa con armi, dove all’imputato era stata contestata anche la recidiva semplice ai sensi dell’art. 99, primo comma, c.p. In base alla norma censurata, la pena – già aumentata per l’aggravante a effetto speciale – avrebbe dovuto essere automaticamente incrementata di un terzo per effetto della recidiva.

La Consulta ha invece affermato che tale automatismo viola il principio di ragionevolezza e proporzionalità sancito dall’articolo 3 della Costituzione, evidenziando come l’aumento obbligatorio della pena, previsto per la recidiva semplice, risulti più gravoso rispetto alla disciplina più favorevole applicabile nei casi di recidiva aggravata o qualificata, che consente al giudice di aumentare la pena solo fino alla metà e in via facoltativa.

Le motivazioni della Corte costituzionale

Pur riconoscendo l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale e nella determinazione delle pene, la Corte ha ribadito che le norme sanzionatorie devono comunque essere sottoposte al controllo di legittimità costituzionale, specialmente quando incidono sulla libertà personale.

Secondo la Corte, la disciplina censurata determinava un trattamento sanzionatorio sproporzionato e non coerente con il disvalore effettivo della condotta. In particolare, si veniva a creare una irragionevole disparità: mentre in presenza di recidiva aggravata il giudice può decidere se aumentare la pena, nel caso di recidiva semplice tale aumento era obbligatorio, anche se la condotta non era più grave.

guida senza patente

Guida senza patente: multa al genitore che non vigila sul figlio Cassazione: genitore multato (con sanzione da oltre 5mila euro) per omessa vigilanza sul figlio minorenne che guida una moto senza patente

Guida senza patente

Guida senza patente: con l’ordinanza n. 14000/2025, la Seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio chiave in materia di responsabilità genitoriale per illecito amministrativo: quando un minore guida un motociclo senza patente, il genitore può essere sanzionato per culpa in vigilando, a meno che non dimostri di aver fatto tutto quanto possibile per impedire la condotta.

Minorenne alla guida di una moto senza patente

Il caso trae origine da un ricorso proposto da un genitore, destinatario di una sanzione amministrativa da 5.110 euro per la violazione dell’art. 116, commi 15 e 17, del Codice della Strada. Il verbale era stato elevato dalla Polizia Stradale di Lecce, dopo aver accertato che il figlio minorenne aveva condotto una Honda 150 cc pur essendo privo di patente, mai conseguita.

Secondo gli agenti, il genitore, pur non autorizzando esplicitamente il comportamento del figlio, non avrebbe esercitato una vigilanza adeguata, incorrendo così nella responsabilità diretta prevista dall’articolo 2 della legge n. 689/1981.

Il percorso giudiziario

La contestazione è stata inizialmente respinta dal Giudice di Pace di Lecce (sentenza n. 2772/2020) e successivamente confermata dal Tribunale, che ha ribadito come il genitore fosse tenuto a impedire materialmente al minore di mettere in atto la condotta illecita. Non è sufficiente, infatti, una vigilanza astratta o generica: è richiesta una condotta attiva e preventiva, volta ad evitare ogni rischio di infrazione.

Cassazione: responsabilità salvo prova contraria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14000 del 2025, ha confermato integralmente le decisioni di merito, specificando che la responsabilità genitoriale per le sanzioni pecuniarie comminate ai figli minorenni è presunta, personale e diretta, e può essere esclusa solo se si fornisce una prova rigorosa dell’impossibilità di impedire l’evento.

In altre parole, il genitore può evitare la multa solo se dimostra, con elementi concreti, di avere:

  • esercitato un controllo continuo e adeguato sul figlio;

  • adottato tutte le misure ragionevoli per impedirgli l’uso del veicolo;

  • non avuto in alcun modo la possibilità concreta di impedire l’infrazione.

Nel caso di specie, tali requisiti non risultavano soddisfatti, e la multa è stata ritenuta legittima.

Culpa in vigilando

La decisione si fonda su un principio consolidato: in caso di illeciti stradali commessi da minorenni, i genitori rispondono non come meri garanti astratti, ma in quanto obbligati a una vigilanza attiva e continua, soprattutto in situazioni ad alto rischio come l’utilizzo di veicoli a motore. La culpa in vigilando, in ambito amministrativo, comporta dunque una responsabilità autonoma, che può derivare anche da comportamenti omissivi.

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sospensione condizionale della pena

Sospensione condizionale della pena: ok anche con un precedente La Cassazione stabilisce che la sospensione condizionale della pena può essere concessa anche quando l'imputato risulta gravato da un solo precedente penale

Sospensione condizionale della pena

Con la sentenza n. 19426/2025, depositata il 27 maggio 2025, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio di equilibrio tra repressione e rieducazione, stabilendo che la sospensione condizionale della pena può essere concessa anche quando l’imputato risulta gravato da un solo precedente penale iscritto nel casellario giudiziale.

Il caso concreto

Nel caso di specie, l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309 e aveva chiesto la concessione del beneficio della sospensione condizionale, previsto dal codice penale quando la pena inflitta non supera i due anni di reclusione.

Tuttavia, il giudice di merito aveva rigettato la richiesta, sostenendo che l’imputato non poteva beneficiarne in quanto già gravato da precedenti penali. 

Il principio sancito dalla Cassazione

La S.C. osserva che dal certificato del Casellario giudiziale allegato al ricorso e presente nel fascicolo processuale emerge, come evidenziato dal ricorrente, una sola condanna, per reato della stesa indole, a pena sospesa in astratto non ostativa alla concessione una seconda volta del beneficio in oggetto (quattro mesi di reclusione ed euro 600,00 di multa).

Secondo la Cassazione, infatti, la mera esistenza di un precedente penale non esclude automaticamente la possibilità di ottenere la sospensione condizionale della pena, salvo che ricorrano circostanze che rendano inconciliabile la concessione del beneficio con la finalità rieducativa della pena.

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soccida

La soccida La soccida: guida al contratto regolato dal codice civile, che disciplina la gestione condivisa degli animali tra soccidante e soccidario

Contratto di soccida: cos’è, come funziona

Il contratto di soccida è uno strumento giuridico tipico dell’impresa agricola, finalizzato alla gestione e all’allevamento di animali in forma condivisa tra due soggetti: il concedente (o soccidante) e il soccidario. Tale istituto è disciplinato dal codice civile agli articoli 2170 e seguenti, ed è tuttora utilizzato, seppur con modalità moderne, in particolare nel settore zootecnico e lattiero-caseario.

Normativa: articoli 2170- 2186 del codice civile

La disciplina della soccida è contenuta nel capo II, sezione IV, titolo II, libro V del codice civile. In sintesi:

  • Art. 2170 c.c. definisce la soccida come un contratto associativo mediante il quale una parte fornisce gli animali da allevare, e l’altra si impegna a curarli e condurli, con divisione degli utili e delle perdite secondo accordi.
  • Gli articoli 2171–2175 c.c. regolano le diverse forme di soccida, la ripartizione dei risultati e le modalità di cessazione del rapporto.
  • Gli articoli 2176-2186 c.c. invece disciplinano le vicende contrattuali.

Chi sono le parti del contratto di soccida

Il contratto viene stipulato tra due soggetti:

  • il soccidante: ossia colui che mette a disposizione gli animali (e talvolta i mezzi di produzione);
  • il soccidario: che è colui che si occupa invece dell’allevamento e della conduzione degli animali.

Entrambe le parti assumono rischi economici e hanno diritto a una quota dei risultati economici, che possono consistere in profitti (utili) o perdite.

Caratteristiche principali del contratto di soccida

Il contratto di soccida si distingue per le seguenti caratteristiche:

  • è un contratto associativo, non di lavoro subordinato né di appalto;
  • prevede la condivisione dei risultati, non un corrispettivo fisso;
  • riguardare sia beni mobili (animali da allevamento) sia, indirettamente, l’uso di terreni e strutture;
  • richiede forma scritta, anche per ragioni fiscali e previdenziali;
  • è soggetto a registrazione, ed è spesso monitorato dalla Pubblica Amministrazione per evitare abusi (es. interposizione fittizia di manodopera).

Tipologie di soccida

Il codice civile individua diverse forme di soccida, che si distinguono in base all’apporto delle parti.

  1. Soccida semplice: il soccidante fornisce gli animali, il soccidario li alleva.
  2. Soccida parziaria:  il bestiame viene conferito dai due contraenti nelle proporzioni convenute, e diventano comproprietari in proporzione al conferimento.

Durata e cessazione

Il contratto di soccida in genere è a termine, la durata è spesso legata al ciclo di vita o produttivo degli animali (es. ingrasso, lattazione, riproduzione). Se le parti non stabiliscono un termine la durata è di 3 anni (art. 2172 c.c.). Una volta giunto a scadenza il contratto non cessa di diritto. La parte che non vuole rinnovarlo deve comunicare però la disdetta almeno 6 mesi prima o nel termine maggiore stabilito dalla convenzione o dagli usi.  Se la parte non comunica la disdetta allora il contratto si rinnova di anno in anno.

Al termine del contratto si procede alla divisione degli animali dopo una nuova stima. Il soccidario, previo accordo don il soccidante preleva i capi nella misura corrispondente a quello apportato all’inizio tenuto conto dell’età, della razza, del sesso e del peso degli animali.

Quando conviene utilizzare il contratto di soccida

Il contratto di soccida è particolarmente utile in ambito agricolo e zootecnico, dove permette la condivisione dei rischi d’impresa tra chi ha capitale (animali, strutture) e chi offre lavoro e competenze. Il contratto però deve essere redatto con attenzione e trasparenza, evitando schemi elusivi che potrebbero essere riqualificati in sede ispettiva o fiscale.

Giurisprudenza sulla soccida 

Di seguito una serie di massime della Cassazione sulla soccida:

Cassazione n. 1146/2022: il contratto di soccida, disciplinato dagli articoli 2170 e seguenti del Codice Civile italiano, è un accordo agrario di tipo associativo. In pratica, due imprenditori collaborano per la gestione congiunta di un allevamento, con l’obiettivo di condividere gli incrementi del bestiame e i relativi profitti. Nel caso della soccida semplice, il soccidante (uno dei due imprenditori) fornisce gli animali e i mangimi necessari al loro mantenimento, occupandosi anche della direzione dell’attività di allevamento. Sia il soccidante che il soccidario (l’altro imprenditore) condividono il rischio d’impresa. In questa specifica tipologia, il regime speciale IVA per i produttori agricoli può essere applicato anche al soccidante, in quanto qualificabile come tale.

Tribunale di Parma, sentenza 11 agosto 2021: La soccida (art. 2170 c.c) è un contratto associativo agrario per la gestione del bestiame. Le parti si uniscono per un fine comune: ottenere la proprietà condivisa di prodotti e utili, non per una controprestazione. Questo scopo comune e la condivisione degli effetti la rendono simile a una società (art. 2247 c.c.), con particolare enfasi sull’acquisto della comune proprietà sul bestiame e i suoi frutti.

Cassazione n. 13739/2013: il soccidante, dirigendo l’impresa, ha responsabilità solidale per le condotte illecite del soccidario, anche per mancata vigilanza.

 

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testo unico tributi indiretti

Testo Unico Tributi indiretti: cosa prevede Approvato dal Consiglio dei ministri il nuovo testo unico tributi indiretti, su imposta di registro, successioni, donazioni e altri tributi

Tributi indiretti: approvato il nuovo Testo unico

Testo Unico Tributi indiretti: il Consiglio dei Ministri il 26 maggio 2025 ha approvato, in esame preliminare, un decreto legislativo che introduce il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di imposta di registro e di altri tributi indiretti, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti.

Questo nuovo intervento normativo, previsto nell’ambito dell’attuazione della legge delega 9 agosto 2023, n. 111, si inserisce nel più ampio processo di razionalizzazione e semplificazione del sistema tributario italiano, volto a garantire maggiore chiarezza e coerenza applicativa.

Contenuti del nuovo Testo unico sui tributi indiretti

Il provvedimento, si legge nel comunicato stampa di palazzo Chigi, ha l’obiettivo di raccogliere in un unico corpo normativo le disposizioni vigenti in materia di tributi indiretti, prevedendo contestualmente l’abrogazione dei testi frammentati attualmente in vigore.

Le disposizioni del nuovo Testo unico riguardano:

  • Imposta di registro

  • Imposta ipotecaria e catastale

  • Imposta sulle successioni e donazioni

  • Imposta di bollo

  • Imposta di bollo per le attività finanziarie oggetto di emersione

  • Imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero

  • Imposte sostitutive e agevolazioni collegate all’imposta di registro e ad altri tributi indiretti (esclusa l’IVA)

Obiettivi della riforma dei tributi indiretti

Il nuovo decreto legislativo ha una duplice finalità:

  1. Semplificare la normativa tributaria mediante la sistematizzazione delle disposizioni legislative in un Testo unico organico e coerente.

  2. Migliorare l’efficienza amministrativa e garantire maggiore certezza del diritto per contribuenti e operatori del settore fiscale.

Quadro normativo di riferimento

La riforma si inserisce nel percorso attuativo della legge delega n. 111/2023, che prevede una revisione generale del sistema fiscale, con particolare attenzione alla semplificazione normativa, alla riduzione degli oneri burocratici e all’unificazione delle fonti legislative.

congedi parentali 2025

Congedi parentali 2025: l’INPS alza l’indennità L'INPS comunica l'aggiornamento delle indennità per i congedi parentali 2025, con i primi tre mesi retribuiti all'80% in virtù delle novità previste dalla legge di bilancio

Congedi parentali 2025: chiarimenti INPS

Congedi parentali 2025: l’INPS, con la circolare n. 95 del 26 maggio 2025, ha annunciato rilevanti modifiche in materia di congedo parentale retribuito, in attuazione delle disposizioni previste dalla Legge di Bilancio 2025 (art. 1, comma 217, L. n. 213/2024).

Aumento dell’indennità: tre mesi all’80%

A partire dal 1° gennaio 2025, i genitori lavoratori dipendenti potranno beneficiare di un innalzamento dell’indennità economica per il congedo parentale, che viene così strutturata:

  • Primo mese: indennizzato all’80% della retribuzione (già introdotto con la Legge di Bilancio 2023);

  • Secondo mese: elevato anch’esso all’80% (prima al 60%);

  • Terzo mese: portato all’80% (in precedenza al 30%).

In totale, ciascun nucleo genitoriale avrà diritto a tre mesi retribuiti all’80%, da utilizzare in modo individuale o condiviso, anche alternandosi o contemporaneamente.

Condizioni e beneficiari

Per accedere al beneficio potenziato, è necessario che:

  • Il lavoratore sia dipendente del settore pubblico o privato;

  • Il congedo di maternità o paternità si sia concluso dopo il 31 dicembre 2024;

  • Il congedo parentale sia fruito a partire dal 1° gennaio 2025.

Le nuove regole valgono anche in caso di adozione o affidamento, con riferimento al minore nei primi sei anni dall’ingresso in famiglia e, comunque, entro la maggiore età.

Durata e trattamento economico dei mesi successivi

Oltre ai tre mesi con trattamento all’80%, i successivi periodi di congedo parentale restano regolati come segue:

  • Mesi successivi: indennizzo al 30% della retribuzione;

  • Ultimo mese: potrebbe non essere retribuito, salvo casi particolari legati al reddito ISEE basso.

Presentazione della domanda

La richiesta di congedo parentale deve essere inoltrata esclusivamente in modalità telematica, attraverso i seguenti canali:

  • Il portale INPS: www.inps.it

  • Il Contact Center multicanale al numero verde 803.164

  • Gli Istituti di patronato.

straniero detenuto

Espulsione straniero detenuto: la misura è amministrativa La Corte costituzionale chiarisce che l’espulsione dello straniero detenuto ha natura amministrativa e non trattamentale, escludendo automatismi e tutelando i soggetti vulnerabili

Espulsione straniero detenuto

Espulsione straniero detenuto: con la sentenza n. 73 del 2025, la Corte costituzionale ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Palermo, confermando la natura amministrativa dell’espulsione disposta nei confronti di cittadini stranieri irregolari in stato di detenzione. La norma oggetto del giudizio è l’art. 16, comma 5, del D.lgs. n. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione).

Espulsione anticipata non è alternativa alla detenzione

La Consulta ha chiarito che l’espulsione applicata durante l’esecuzione della pena – nei confronti di stranieri irregolari con pena residua inferiore a due anni per reati non gravi – non costituisce una misura trattamentale, né può essere assimilata alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario.

Si tratta, piuttosto, di un provvedimento amministrativo che anticipa l’espulsione già prevista a causa dell’irregolarità del soggiorno e che, comunque, sarebbe intervenuta al termine della pena detentiva.

Valutazione individuale e garanzie contro automatismi

La Corte ha escluso qualsiasi automatismo nell’applicazione di tale misura, sottolineando che il magistrato di sorveglianza è tenuto a valutare caso per caso, operando un bilanciamento tra l’interesse pubblico all’espulsione e le condizioni personali e familiari del soggetto. Restano salvi, in ogni caso, i divieti di espulsione previsti per situazioni di vulnerabilità oggettiva o soggettiva, ai sensi dell’art. 19 del D.lgs. 286/1998, cui rinvia espressamente anche l’art. 16, comma 9, dello stesso testo unico.

giurista risponde

Diritto di critica e diffamazione Il diritto di critica di cui all’art. 21 Cost. può comportare l’applicazione dell’istituto della scriminante di cui all’art. 51 c.p. in relazione al delitto di diffamazione qualora, fatto riferimento ad un fatto preciso, non ci si attenga al criterio di verità?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 51 c.p. quale scriminate in relazione al delitto di diffamazione è soggetta al rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva; pertanto, i fatti narrati debbono essere veri o apparire ragionevolmente come tali al soggetto agente (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2352 (Diritto di critica e diffamazione).

La sentenza impugnata, nel ricondurre la condotta dell’imputato nella sfera applicativa dell’esercizio del diritto di libera espressione del pensiero ex art. 51 c.p., ha dato continuità al più che costante orientamento del Supremo Collegio secondo cui, pur essendo sussistenti gli elementi oggettivi del diffamazione, le condotte che rappresentano esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, qualora le stesse non si risolvano in uno strumento di avvilimento della dignità delle persone o in un mezzo per perseguire altre finalità illecite, risultano essere scriminate ai sensi dell’art. 51 c.p.

Tale orientamento, inizialmente era applicato alla categoria dei giornalisti, ove però si faceva un diverso bilanciamento tra interessi costituzionalmente garantiti, essendo tale categoria assolutamente peculiare. Invero, più che il “diritto di critica”, veniva invocato il diverso “diritto di cronaca”. Tuttavia, la lettura del diritto di critica, con il mutare anche del contesto sociale è andato via via espandendosi, tale espansione ha portato il Supremo Collegio, anche recentemente ad affermare che il diritto di critica si esplica nella formulazione di un giudizio di valore ed è tutelato direttamente dall’art. 21 Cost. non solo con riferimento ai giornalisti o a chi fa informazione professionalmente, essendo riservato a ciascun individuo uti civis (ex multis Cass., sez. V, 20 marzo 2019, n. 32829).

Tuttavia, com’è noto, ogni diritto ha delle modalità a mezzo delle quali può essere esplicato oltre le quali non può debordare poiché va a confliggere con altri diritti costituzionalmente garantiti. Diversamente si sarebbe davanti a quello che in dottrina viene definito “diritto tiranno” che, come ricordato dalla Consulta con la Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85, non esiste né potrebbe esistere nell’Ordinamento. Invero, nella predetta sentenza si legge: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sent. 264/2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.” Nel caso di specie il “diritto di critica” garantito dall’art. 21 Cost. trova il proprio contraltare nel “diritto all’onore ed alla reputazione” come corollario dell’art. 2 Cost. In applicazione di questo bilanciamento il Supremo Collegio ha ritenuto che, in tema di diffamazione, il diritto di critica può essere evocato quale scriminate ex art. 51 c.p.; purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva. Pertanto, non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né trasmodare nell’invettiva gratuita, salvo che l’offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico.

In particolare, il requisito della continenza ha una duplice connotazione: continenza sostanziale che attiene alla natura dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione; continenza formale concernente il modo con cui il racconto sul fatto è reso, ovvero il giudizio critico è esternato. Tale requisito necessita di una forma espositiva corretta che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione, pur non essendo lo stesso incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti. Al tempo stesso, per delimitare il perimetro applicativo della scriminante, risulta imprescindibile contestualizzare le espressioni rectius valutarle in relazione al contesto spazio/temporale e dialettico nel quale sono state profferite, così da verificare il requisito di pertinenza. Debbono quindi essere valutati sia la diversità dei contesti, sia la differente responsabilità e natura della funzione dei soggetti ai quali la critica è rivolta. Invero, determinati ruoli possono giustificare attacchi anche violenti, se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che, nonostante le doglianze difensive sulla non verità del fatto, fossero stati rispettati tutti i requisiti per il corretto estrinsecarsi del “diritto di critica” tra cui quello di verità, di conseguenza la condotta delittuosa risulta scriminata ex art. 51 c.p.. Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata mandando assolto l’imputato.

 

(*Contributo in tema di “Diritto di critica e diffamazione”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)