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Adozione internazionale e persone singole È costituzionalmente legittima la disciplina di cui agli artt. 29bis, comma 1, e 30, comma 1, L. 184/2983 che esclude le persone singole dalla procedura di adozione internazionale?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio

 

Va dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 29bis, comma 1, L. 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui, facendo rinvio all’art. 6 della medesima legge, non include le persone singole residenti in Italia fra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità a adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere così al tribunale per i minorenni, del distretto in cui hanno la residenza, che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione (Corte cost. 21 marzo 2025, n. 33 – Adozione internazionale e persone singole).

Dinanzi alla censura di legittimità costituzionale mossa dal Tribunale fiorentino e riguardante sia l’art. 29bis, comma 1, sia l’art. 30, comma 1, L. 184/2983, la Corte costituzionale ha deciso di investire la sua attenzione solo sulla prima delle due disposizioni.

L’evoluzione storica della normativa che ha riguardato l’adottabilità dei minori e che affonda le sue radici nel periodo successivo alla prima guerra mondiale evidenzia come il legislatore abbia nel tempo sempre più precluso la possibilità di adozione da parte di persone singole. A dispetto di questo approccio legislativo, la Consulta ha ritenuto di dover richiamare e valorizzare le disposizioni previste dall’ordinamento che permettono alle persone singole di adottare dei minori. Ai sensi dell’art. 25, comma 4, L. 184/1983, si consente l’inserimento del minore in un nucleo monoparentale, e quindi l’adozione da parte di un genitore singolo, se durante l’affidamento preadottivo uno dei due coniugi muore o diventa incapace. Il medesimo effetto lo si rinviene, ex art. 25, comma 5, L. 184/1983, anche nell’ipotesi in cui nell’affidamento preadottivo intervenga la separazione tra i coniugi affidatari. Altresì, ai sensi dell’art. 44, comma 3, L. 184/1983 si consente l’adozione in casi particolari da parte di persone singole. In tutte le ipotesi citate l’obiettivo del legislatore è quello di garantire la continuità del rapporto affettivo, obiettivo che, ad avviso della Consulta, si rinviene tutt’oggi anche nelle ipotesi di adozione da parte di coppie coniugate in seguito a un prolungato periodo di affidamento, e che può sussistere anche nell’ipotesi di adottabilità da parte di una singola.

In seguito ad una ricognizione della disciplina attuale, la Consulta ha evidenziato come l’aspirazione alla genitorialità, quindi la scelta di adottare o meno un minore, sia un’estrinsecazione della libertà di autodeterminazione di ciascun individuo di cui all’art. 8 Cedu e agli artt. 2, 3, 31 Cost. (Corte EDU 27 maggio 2021, Marchi c. Italia; Corte EDU 16 gennaio 2018, Nedescu c. Romania; Corte cost. 162/2014; Corte. cost. 332/2000) e che tale libertà non è suscettibile di ingiustificate limitazioni. Non possono, infatti, sussistere irragionevoli compressioni della scelta della genitorialità sia quando una persona può accedere all’adozione di minori in quanto soddisfa i requisiti previsti dalla legge sia quando non vi può accedere perché persona singola.

Sulla scorta di questa premessa la Corte ha pertanto ritenuto che l’esclusione della persona singola dall’accesso all’adozione internazionale sia lesiva degli artt. 2 e 117, comma 1, Cost. e questo in relazione all’art. 8 Cedu. Infatti, la normativa censurata lede la persona singola che abbia aspirazioni genitoriali e contestualmente non trova legittimazione in esigenze che sociali che fondino una ragionevole esclusione di queste persone dall’accesso all’adozione di minore straniero. A sostegno dell’irragionevolezza del divieto sussistono altre due argomentazioni. Da un lato, infatti, si evidenzia come a seguito della riforma del 2013 esista un unico stato di figlio ex art. 315 c.c. e non vi sia più nemmeno la distinzione tra figlio nato in costanza o meno di matrimonio. Dall’altro lato, invece, non vi è alcuna fondata ragione di ritenere che l’esclusione aprioristica delle persone singole dall’accesso alla genitorialità garantisca maggiormente al minore un ambiente stabile e armonioso (Corte cost. 16 maggio 1994, n. 183). Infatti, l’interesse del minore è comunque preservato dal giudizio di idoneità dell’adottante da parte dell’autorità giudiziaria, la quale guarderà alla rete familiare di riferimento.

Infine, la Corte ha sottolineato come il divieto alla persona singola di accedere alla genitorialità mediante l’adozione internazionale si riverbera negativamente, oltre che sul diritto all’autodeterminazione della persona singola, sul diritto del minore ad essere accolto in un ambiente stabile e armonioso.

 

 

(*Contributo in tema di “Adozione internazionale e persone singole”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

spese condominiali anticipate

Spese condominiali anticipate? Serve la prova dell’urgenza La Cassazione chiarisce che il condomino che anticipa spese urgenti per la cosa comune ha diritto al rimborso solo se dimostra l'urgenza

Spese condominiali anticipate

Spese condominiali anticipate: con l’ordinanza n. 16351/2025, la seconda sezione civile della Cassazione ha ribadito un principio consolidato: il condomino che anticipa spese per la conservazione della cosa comune senza l’autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea ha diritto al rimborso solo se dimostra l’urgenza dell’intervento, ai sensi dell’art. 1134 c.c. 

Il caso concreto

Il caso in esame riguardava condomini dell’ultimo piano che avevano anticipato lavori urgenti per la riparazione della copertura e dell’impianto di smaltimento delle acque meteoriche, gravemente deteriorati. Le somme anticipate superavano l’importo minimo, richiedendo un rimborso dagli altri condomini. 

Urgenza, non mera necessità

La Cassazione ha confermato che non basta la necessità dei lavori: è necessario dimostrare che essi non potevano essere differiti. L’urgenza si configura quando ritardare l’intervento avrebbe potuto provocare un danno, anche potenziale, alla cosa comune o alla sicurezza delle persone.

La Suprema Corte ha ribadito che l’urgenza va valutata secondo il criterio del “buon padre di famiglia”, considerando l’indifferibilità e l’impossibilità di avviso agli altri. 

Onere della prova: a carico del condomino

Spetta al condomino che chiede il rimborso dimostrare:

  1. le condizioni pericolose o degradanti della parte comune;

  2. l’indifferibilità dei lavori;

  3. l’impossibilità di coinvolgere tempestivamente l’amministratore o l’assemblea. 

Senza tali elementi, il diritto al rimborso non sussiste.

Allegati

compensazione crediti

Compensazione crediti nel rapporto di lavoro legittima Il Tribunale di Napoli riconosce la legittimità della trattenuta operata dal datore sul TFR per compensare l’indennità di preavviso non corrisposta dal dipendente

Compensazione crediti tra datore e lavoratore

Compensazione crediti: con la sentenza n. 5476/2025, il Tribunale di Napoli – sezione lavoro – ha affrontato il tema della possibilità per il datore di lavoro di trattenere unilateralmente somme dovute dal lavoratore, a fronte di poste creditorie sorte nel corso del medesimo rapporto di lavoro. In particolare, il giudice ha confermato la legittimità della compensazione tra il trattamento di fine rapporto (TFR) e l’indennità sostitutiva del preavviso dovuta dal dipendente in caso di recesso senza preavviso.

Il principio del “dare e avere” nei rapporti di lavoro

Richiamando il consolidato orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. n. 26365/2024), il Tribunale ha ribadito che, quando i crediti reciproci di datore e lavoratore traggono origine dallo stesso rapporto contrattuale, non si configura una compensazione propria ai sensi dell’art. 1241 c.c., bensì un semplice accertamento del saldo finale tra le rispettive obbligazioni.

Tale elisione automatica tra debito e credito non richiede né domanda riconvenzionale né specifica eccezione di parte, potendo essere operata d’ufficio dal giudice nell’ambito del giudizio.

TFR trattenuto per compensare il preavviso mancante

Nel caso di specie, il lavoratore aveva diritto al TFR maturato, ma aveva risolto il rapporto in maniera unilaterale e immediata, senza rispettare il termine di preavviso. Il datore, nel liquidare le spettanze di fine rapporto, ha trattenuto l’importo corrispondente all’indennità sostitutiva del preavviso, versando al dipendente solo la somma residua.

Il Tribunale ha ritenuto pienamente legittima tale trattenuta, poiché fondata su obbligazioni reciproche derivanti dallo stesso contratto di lavoro. Il giudice ha quindi riconosciuto al datore la possibilità di operare una compensazione di fatto, subordinando il proprio intervento alla sola verifica della corretta quantificazione e dell’effettiva erogazione del saldo.

Compensazione implicita e ruolo del giudice del lavoro

La decisione ribadisce che, in presenza di contrapposte pretese patrimoniali tra datore e dipendente riconducibili al medesimo rapporto, il giudice può autonomamente accertare e liquidare le somme dovute a ciascuna parte, anche in assenza di eccezioni formali.

Tale dinamica non configura una compensazione tecnica, ma un accertamento contabile tra obbligazioni interdipendenti, volto a determinare l’importo effettivamente dovuto al termine del rapporto di lavoro.

Crediti e rimborsi nel rapporto di lavoro

Il principio affermato dal Tribunale di Napoli può trovare applicazione anche in altri contesti lavorativi. Ad esempio:

  • quando il datore ha diritto al rimborso di somme versate per danni arrecati dal dipendente a strumenti o beni aziendali;

  • nei casi di indebiti percetti da parte del lavoratore, come retribuzioni o indennità erogate in eccesso;

  • quando sussistono giustificati crediti documentati in capo al datore di lavoro, supportati da prove contabili (fatture, ricevute, perizie).

Tali situazioni rientrano nel più ampio concetto di conguaglio interno, che può essere valutato in sede giudiziale attraverso un’analisi del bilancio del rapporto, anche senza domanda specifica.

canone libero

Locazioni: canone libero non registrato, scatta l’adeguamento La Cassazione chiarisce: i contratti di locazione a canone libero non registrati prima del 2016 devono essere ricondotti a congruità solo da tale data, entro i limiti dei canoni concordati dalle associazioni

Locazioni canone libero: cosa dice la Cassazione

Con l’ordinanza n. 15891 del 2025, la Corte di Cassazione ha precisato che un contratto di locazione a canone libero, scritto ma non registrato, stipulato prima del 1° gennaio 2016, è soggetto alla cosiddetta “riconduzione a congruità” soltanto a partire da tale data.

Il canone che il giudice potrà stabilire, in sostituzione di quello pattuito, non potrà superare i limiti definiti dalle associazioni di categoria. Questo vale sia per i contratti a canone libero che per quelli a canone concordato.

Le tre ipotesi interpretative della Corte

I giudici hanno ricostruito il quadro normativo incrociando l’articolo 13, comma 6, della legge n. 431/1998 (nullità dei patti contrari alla legge) con l’articolo 2 della stessa legge (tipologie contrattuali). Le tre principali situazioni sono:

1. Contratto registrato ma con canone simulato

Se il contratto è registrato a canone libero, ma il canone effettivo supera quello dichiarato, il patto è nullo. È dovuto solo il canone risultante dal contratto registrato.

2. Contratto a canone concordato con canone eccedente

Nel caso di contratto a canone concordato, se il canone pattuito è superiore a quello stabilito dalle associazioni di categoria, il patto è nullo. Vale il canone concordato ufficialmente.

3. Contratto scritto e non simulato, ma non registrato

Questa è l’ipotesi affrontata dalla Cassazione. In mancanza di registrazione, il contratto è nullo. Il canone viene stabilito dal giudice entro il limite dei valori concordati dalle associazioni, a prescindere dal tipo di contratto (libero o concordato).

Effetti limitati al periodo post-2016

La Suprema Corte ha evidenziato che la riconduzione a congruità si applica esclusivamente a partire dal 1° gennaio 2016, data di entrata in vigore della disciplina che ha previsto tale meccanismo.

In precedenza, l’assenza di registrazione comportava l’inefficacia del contratto, senza possibilità di adeguamento ex lege.

imbrattamento di cose altrui

Imbrattamento di cose altrui: resta reato La Corte costituzionale ha ritenuto legittima la configurazione del reato di imbrattamento ex art. 639 c.p., anche nella forma più lieve, respingendo i dubbi di incostituzionalità

Reato di imbrattamento di cose altrui

Con la sentenza n. 105 del 2025, depositata il 7 luglio, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 639 del codice penale, nella parte in cui configura come reato l’imbrattamento di cose altrui anche nella sua forma base, cioè senza particolari aggravanti o gravi conseguenze.

Le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze

Il caso nasce da un giudizio pendente presso il Tribunale di Firenze, dove un imputato era accusato di aver imbrattato con materiale organico la porta e le pareti esterne di un immobile condominiale. Il giudice ha sollevato dubbi in riferimento agli articoli 3 e 27, comma 3, della Costituzione, ritenendo sproporzionata la sanzione penale rispetto alla gravità della condotta, anche considerando l’abrogazione del reato di danneggiamento semplice, ora trasformato in illecito civile.

L’orientamento della Corte: interesse collettivo al decoro urbano

La Corte ha chiarito che l’imbrattamento mantiene rilevanza penale per scelta consapevole del legislatore, volta a contrastare fenomeni di degrado urbano sempre più diffusi. Il danno non è solo al singolo proprietario ma colpisce un interesse collettivo, come il decoro dello spazio urbano, meritevole di una tutela penale autonoma.

L’introduzione del nuovo reato di deturpamento

A rafforzare tale orientamento è la recente introduzione, con il d.l. n. 48/2025 (convertito nella legge n. 80/2025), di una nuova figura di reato di deturpamento, che riorganizza e inasprisce il trattamento sanzionatorio dell’art. 639 c.p., configurando l’imbrattamento come condotta penalmente autonoma e non più meramente sussidiaria rispetto al danneggiamento.

Inammissibilità censure e limiti giudizio di costituzionalità

Secondo la Corte, intervenire su questa materia richiederebbe un riassetto complessivo della disciplina sanzionatoria, operazione non consentita al giudice delle leggi. La norma oggi tipizza un reato unitario, che tutela più beni giuridici (non solo patrimoniali), e il controllo di costituzionalità non può isolare singoli aspetti della condotta sanzionata.

compensi avvocato

Compensi avvocato: il giudice non può tagliare oltre il 50% La Cassazione ribadisce che il giudice non può ridurre i compensi dell’avvocato oltre il 50% dei parametri medi previsti, anche in caso di cause semplici

Compensi avvocato: il principio della Cassazione

Compensi avvocato: con la sentenza n. 19049 depositata l’11 luglio 2025, la Sezione lavoro della Cassazione ha stabilito un principio di diritto rilevante in materia di liquidazione delle spese processuali. In particolare, ha affermato la Corte, il giudice non può in alcun caso ridurre oltre il 50% i valori medi previsti dalle tabelle ministeriali, anche quando la causa sia ritenuta di particolare semplicità. La pronuncia conferma l’orientamento già espresso in precedenti arresti (Cass. nn. 9815/2023 e 30154/2024) e si inserisce nel quadro della disciplina dell’equo compenso.

Il caso concreto: compenso liquidato al di sotto dei minimi

La vicenda trae origine da una causa in materia previdenziale instaurata da una donna contro l’INPS per il riconoscimento di un assegno mensile di assistenza. Il Tribunale di Cosenza, pur riconoscendo il diritto della ricorrente, aveva liquidato all’avvocato difensore un compenso di appena 1.932,00 euro, motivando tale riduzione con la “particolare semplicità della controversia”.

La professionista ha impugnato la decisione, lamentando la violazione del D.M. n. 55/2014, aggiornato prima dal D.M. n. 37/2018 e poi dal D.M. n. 147/2022, i quali prevedono soglie inderogabili per la determinazione del compenso forense in assenza di specifico accordo tra le parti.

Compensi avvocato: i limiti alla discrezionalità del giudice

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ribadendo che, nel determinare le spese processuali a carico della parte soccombente, il giudice non può scendere sotto il limite del 50% dei valori medi tabellari, anche se la causa appare semplice. Tale vincolo si applica in particolare nei casi di liquidazione giudiziale, cioè in assenza di un accordo tra avvocato e cliente.

Come chiarito dalla Corte, la discrezionalità del giudice è dunque delimitata:

  • può aumentare i valori medi oltre l’80% nei casi previsti;

  • può ridurre i valori medi fino al 50%, eccezionalmente fino al 70% per la sola fase istruttoria;

  • non può mai scendere sotto i minimi, pena la violazione del principio di equo compenso.

Equo compenso e funzione pubblica della soglia minima

La sentenza richiama anche la normativa sull’equo compenso, sottolineando come i parametri ministeriali costituiscano uno strumento di garanzia dell’autonomia del professionista e della qualità della prestazione, assolvendo una funzione di interesse pubblico. In particolare, l’art. 13-bis della legge professionale forense vieta compensi inadeguati e impone al giudice, in caso di squilibrio, di rideterminare il compenso secondo i criteri regolamentari.

La Corte aggiunge che il sistema italiano non si pone in contrasto con i principi dell’Unione europea: la normativa non impone tariffe rigide tra le parti, ma soltanto nei casi di liquidazione giudiziale a danno della parte soccombente. Le parti restano libere di pattuire compensi anche inferiori ai minimi, fuori dall’ambito giudiziale.

Giurisprudenza europea e compatibilità con il diritto UE

La Suprema Corte ha infine affrontato il tema della compatibilità della normativa nazionale con il diritto dell’Unione europea, richiamando la sentenza della Corte di Giustizia del 25 gennaio 2024, causa C-438/22, in cui veniva dichiarata contraria alla concorrenza una normativa bulgara che impediva di pattuire compensi inferiori a soglie fissate per regolamento.

La Cassazione esclude analogie con il caso italiano, evidenziando tre differenze fondamentali:

  1. Le tariffe sono fissate per decreto ministeriale previa consultazione del Consiglio di Stato.

  2. La inderogabilità riguarda solo la liquidazione giudiziale, non gli accordi tra privati.

  3. L’individuazione di soglie minime è legittima perché risponde a finalità di tutela dell’interesse pubblico.

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incentivi autoimpiego

Incentivi autoimpiego: firmato il decreto per i giovani disoccupati Firmato il decreto attuativo per gli incentivi all’autoimpiego previsti dal Decreto Coesione. Destinatari i giovani 18-35 anni disoccupati o inattivi. Finanziamento da 800 milioni per avvio di attività autonome e professionali

Firmato il decreto attuativo per incentivi autoimpiego

Incentivi autoimpiego: il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha reso noto, con comunicazione del 12 luglio 2025, la firma del decreto attuativo che introduce misure concrete a sostegno dell’autoimpiego e del lavoro autonomo e professionale, come previsto dagli articoli 17 e 19 del Decreto Coesione (D.L. n. 60/2024, convertito con modificazioni dalla L. n. 95/2024).

Il provvedimento rappresenta un tassello fondamentale nell’ambito delle politiche attive del lavoro e mira a favorire l’inserimento lavorativo dei giovani tra i 18 e i 35 anni in condizioni di disoccupazione, inattività o fragilità sociale.

Obiettivi: lavoro, inclusione e imprenditorialità giovanile

Secondo quanto dichiarato dal Ministro del Lavoro Marina Calderone, il decreto si inserisce in una strategia integrata volta a rafforzare la partecipazione giovanile al mercato del lavoro, promuovendo iniziative imprenditoriali e autonome attraverso un approccio sistemico che prevede:

  • Percorsi formativi e di accompagnamento personalizzati

  • Tutoraggio qualificato

  • Contributi economici per l’avvio delle attività

Tali misure, realizzate in collaborazione con l’Ente Nazionale per il Microcredito, puntano a sostenere il talento imprenditoriale dei giovani, stimolare il ricambio generazionale e valorizzare il lavoro di qualità in tutte le forme contrattuali e societarie.

Risorse stanziate: 800 milioni di euro

Come precisato dal Ministro per gli Affari Europei e il PNRR Tommaso Foti, il decreto è finanziato con un totale di 800 milioni di euro, di cui:

  • 700 milioni dal Fondo Sociale Europeo Plus (FSE+)

  • 100 milioni dal PNRR, nell’ambito del programma GOL (Garanzia Occupabilità Lavoratori)

Si tratta di risorse significative, destinate a trasformarsi in strumenti concreti di inclusione attiva e di sostegno all’imprenditorialità giovanile, con impatto su tutto il territorio nazionale.

Destinatari: giovani 18-35 anni in condizioni di svantaggio

Il provvedimento è rivolto specificamente a giovani tra i 18 e i 35 anni che si trovano:

  • in stato di disoccupazione

  • inattivi sul mercato del lavoro

  • in condizioni di fragilità sociale

Questa platea sarà al centro di un intervento multidimensionale che combina politiche di formazione, microcredito e avvio all’impresa, con l’obiettivo di offrire reali possibilità di inserimento professionale.

Prossimi step: presentazione pubblica del decreto

Il contenuto completo del decreto sarà illustrato in occasione di una presentazione pubblica nella settimana successiva alla firma. Sarà l’occasione per conoscere in dettaglio le modalità di accesso, i criteri di selezione e le tempistiche operative previste.

cessione d'azienda

Cessione d’azienda Cessione d’azienda: come funziona secondo il Codice civile, differenze rispetto alla vendita, conseguenze per le parti e regime fiscale

Cos’è la cessione d’azienda

La cessione d’azienda è un contratto con cui un imprenditore trasferisce a terzi l’azienda, intesa come complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.). Si tratta di un atto di trasferimento oneroso o gratuito che può riguardare l’intera azienda o un singolo ramo della stessa.

L’operazione può avere diverse finalità: la ristrutturazione societaria, la liquidazione, il trasferimento dell’attività per motivi strategici o familiari.

La disciplina normativa: articoli del Codice civile

La materia è regolata principalmente dagli articoli 2556-2562 del Codice civile. In particolare:

  • Art. 2556 c.c.: stabilisce la forma scritta ad probationem per la cessione d’azienda;
  • Art. 2557 c.c.: pone un divieto di concorrenza per il cedente;
  • Art. 2558 c.c.: dispone il subentro nei contratti;
  • Art. 2559 c.c.: regola il trasferimento dei crediti;
  • Art. 2560 c.c.: disciplina il passaggio dei debiti aziendali.

È inoltre fondamentale rispettare le norme sulla pubblicità nel Registro delle imprese. L’art. 2556, al co. 2 c.c. prevede infatti che i contratti con i quali si verifica il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda, se questa è soggetta a registrazione, devono essere redatti nella forma pubblica o per scrittura privata autenticata e poi devono essere depositati presso il registro delle imprese, per procedere all’iscrizione, nel termine di 30 giorni a cura del notaio o del soggetto che ha autenticato la scrittura.

Differenza tra cessione e vendita d’azienda

Spesso si tende a usare i termini cessione e vendita d’azienda come sinonimi. Tuttavia, vi è una distinzione tecnica:

  • la cessione è un concetto diverso che comprende anche la cessione di un solo ramo dell’azienda, ossia di una parte della stessa e che si riferisce anche a trasferimenti di contratti, partecipazioni aziendali, non solo quindi dei beni o dei diritti dell’azienda;
  • la vendita d’azienda invece comporta il trasferimento del complesso aziendale nella sua interezza.

Il conferimento d’azienda p di un suo ramo è invece una forma di apporto da una società a un’altra in cambio di quote o azioni di quest’ultima.

Effetti della cessione d’azienda

Vediamo ora quali sono gli effetti principali del trasferimento aziendale.

  1. Continuità dei rapporti contrattuali: ai sensi dell’art. 2558 c.c., i contratti in corso passano al cessionario, salvo patto contrario o se intuitu personae.
  2. Trasferimento dei debiti: ex art. 2560 c.c., il cessionario risponde dei debiti anteriori se i creditori non hanno acconsentito alla sua liberazione.
  3. Crediti aziendali: la cessione dei crediti dell’azienda ceduta ha affetti nei confronti dei terzi anche in assenza di notifica o accettazione del debitore ceduto, dal momento in cui il trasferimento è stato iscritto nel registro delle imprese. Il debitore ceduto però è liberato se paga in buona fede all’alienante.
  4. Divieto di concorrenza: il cedente non può iniziare una nuova attività in concorrenza, salvo patto contrario (art. 2557 c.c.).
  5. Mantenimento dei rapporti di lavoro: ex art. 2112 c.c., i rapporti proseguono con il cessionario, che ne assume diritti e obblighi.

La cessione di ramo d’azienda

La cessione di ramo d’azienda riguarda una parte funzionalmente autonoma dell’impresa, in grado di operare in modo indipendente. Anche in questo caso si applicano le norme generali sulla cessione d’azienda, purché il ramo ceduto sia identificabile e organizzato.

Occorre che il ramo abbia un’autonomia gestionale, economica e funzionale, riconosciuta anche ai fini lavoristici e fiscali.

Aspetti fiscali 

Dal punto di vista fiscale, la cessione d’azienda genera plusvalenze tassabili per il cedente ai sensi dell’art. 86 TUIR, se il valore di cessione è superiore al valore contabile.

L’operazione è soggetta a:

  • imposta di registro: si applicano le aliquote distinte a cui sono assoggettati i diversi  beni e diritti che costituiscono l’azienda se dall’atto o dai suoi allegati risulta per ogni bene una imputazione distinta di una quota parte del corrispettivo. In assenza di tale distinzione si applica l’aliquota più alta. La base imponibile si ottiene sommando i valori delle attività e sottraendo le passività che risultano dalle scritture contabili;
  • IVA: ai sensi del comma 3 lettera b) dell’art. 2 del DPR n. 633/1972 Non sono considerate cessioni di beni le cessioni e i conferimenti in società o altri enti, compresi i consorzi e le associazioni o altre organizzazioni, che hanno per oggetto aziende o rami di azienda (ovvero un complesso unitario di attività materiali e immateriali, inclusa la clientela e ogni altro elemento immateriale, nonché di passività, organizzato per l’esercizio dell’attività artistica o professionale)”, di conseguenza non sono soggette al campo di applicazione Iva, fatte salve alcune situazioni particolari;
  • imposte ipotecarie e catastali: previste in presenza di beni immobili.

 

Leggi anche gli altri articoli di diritto civile 

giurista risponde

Esclusione vincolo partecipazione gruppo societario: parola alla Corte UE Si pone questione se il limite si applichi «oltre l’operatore economico offerente, nel caso in cui la medesima legge di gara non rechi una specifica indicazione in tal senso»; in caso di risposta positiva al quesito, si chiede di chiarire quali siano i parametri «di detta espansione soggettiva» e sulla base di quali indici l’operazione interpretativa debba essere condotta e inoltre sulla base di quali criteri debbano essere individuate «le offerte da escludere in quanto in soprannumero»

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

Ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, previa riunione dei giudizi deferiti ex art. 99, comma 1, cod. proc. amm. a questa Adunanza Plenaria, vanno rimesse alla Corte di giustizia dell’Unione europea le seguenti questioni pregiudiziali (Estensione automatica del vincolo di partecipazione):

  1. I) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 2, par. 1, n. 10), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014 (sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE), che definisce l’«operatore economico», in relazione ai considerando 1 e 2 della medesima direttiva, può essere interpretato in senso estensivo al gruppo societario di cui fa parte;
  2. II) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 46 della direttiva 2014/24/UE, relativa alla suddivisione della gara in lotti, che facoltizza le amministrazioni aggiudicatrici a suddividere la gara in lotti (par 1), a limitare la presentazione delle offerte «per un solo lotto, per alcuni lotti o per tutti» (par. 2), e a indicare «il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente» (par. 2, comma 1), possa essere applicato dando rilievo al gruppo societario di cui fa parte l’offerente;

III)  se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare i principi generali di certezza e proporzionalità, ostino ad un’esclusione dalla gara in via automatica di un offerente facente parte di un gruppo societario che in una gara suddivisa in lotti ha partecipato e presentato offerte attraverso le proprie partecipate in misura superiore ai limiti di partecipazione e di aggiudicazione previsti dal bando di gara. – Cons. Stato, Ad. Plen., 13 dicembre 2024, n. 17.

Nell’esaminare la questione a lei rimessa, la Plenaria rileva – primariamente – come la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è divisa sulla possibilità di estensione soggettiva del limite di partecipazione (e di aggiudicazione), in specie elaborando i seguenti orientamenti.

Secondo la tesi favorevole, tale possibilità sarebbe ammissibile anche in mancanza di un’espressa indicazione sul punto nel bando di gara; a sostegno si richiamano argomenti teleologici, riconducibili all’esigenza di dare al mercato degli appalti pubblici massima apertura alla concorrenza, rispetto alla quale sono strumentali la suddivisione della gara in lotti, dichiaratamente a favore degli operatori economici di minori dimensioni (art. 51, comma 1, dell’codice dei contratti pubblici 50/2016), e inoltre i limiti di partecipazione e aggiudicazione previsti dai commi 2 e 3 del medesimo articolo.

A tenore di un opposto orientamento contrario, invece, i limiti non sono estensibili a casi non previsti dalla legge o dal bando, per l’impossibilità di introdurre a posteriori cause di esclusione, che lederebbero i principi di certezza e trasparenza.

Non manca, poi, una terza più recente ricostruzione, per la quale i limiti si estendono in caso di accertato intento elusivo, equiparabile alla dichiarazione falsa o fuorviante in grado di «influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante» sulla partecipazione dell’operatore economico e l’aggiudicazione della gara, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-bis), dell’abrogato codice dei contratti pubblici.

Tanto premesso, il Collegio fa presente che le ordinanze di rimessione hanno aderito alla tesi restrittiva, sulla base del carattere discrezionale del limite di partecipazione e di una ricostruzione sistematica per cui l’interesse alla massima apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza è in posizione equiordinata e non sovraordinata rispetto all’interesse alla selezione del miglior contraente privato.

Più nel dettaglio, si precisa che con le due ordinanze di rimessione all’Adunanza Plenaria 7111 e 7112/2024, la sez. V del Consiglio di Stato – pur ribadendo la necessità di un intervento nomofilattico – ha palesato la propria preferenza per l’orientamento più restrittivo sulla base di un a doppia lettura della disciplina: letterale e sistematica.

Sotto il profilo letterale, infatti, l’(allora vigente) art. 3, comma 1, lett. p), del codice di cui al D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 l’art. 2, par. 1, n. 10), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, fanno riferimento ad una soggettività diversa rispetto a quella del singolo operatore (eventualmente raggruppato) che nel partecipare alla procedura ha «presentato un’offerta».

Sotto il differente profilo sistematico, poi, il considerando 79 della direttiva 2014/24/UE ha rimarcato il carattere discrezionale degli eventuali vincoli di partecipazione e aggiudicazione inseriti nella documentazione di gara, da intendersi quali «facoltà» delle amministrazioni aggiudicatrici, con l’obiettivo (nel caso dei limiti di partecipazione) «di salvaguardare la concorrenza o per garantire l’affidabilità dell’approvvigionamento». Pertanto, in base all’orientamento restrittivo sposato dalle due ordinanze innanzi citate, il summenzionato considerando 79 sarebbe sintomatico del fatto che l’obiettivo della massima apertura alla concorrenza (a base degli istituti della suddivisione della gara in lotti e dei vincoli di partecipazione e aggiudicazione) non avrebbe eliso quello tipico dell’evidenza pubblica alla selezione del miglior contraente, con la conseguenza che in assenza di previsioni espresse nel bando di gara i vincoli di aggiudicazione/partecipazione sarebbero inapplicabili a livello di gruppo societario.

Tanto ricostruito e premesso, la Plenaria osserva che la posizione restrittiva espressa dalla Sezione remittente potrebbe rivelarsi lesiva di uno dei valori fondanti dell’ordinamento eurounitario, consistente nel principio di massima apertura del mercato alla concorrenza (cfr. considerando 1 della direttiva 2014/24/UE).

Secondo il massimo Consesso amministrativo, tale principio, in un a quello di tutela giurisdizionale piena ed effettiva (ex art. 1, par. 3, direttiva 89/665/CEE del 21 dicembre 1989, come modificato dalla direttiva 2007/66/CE dell’11 dicembre 2007), dovrebbe sempre legittimare il giudice amministrativo – una volta investito del ricorso contro l’aggiudicazione di una gara suddivisa in lotti – a sindacare le scelte dell’amministrazione nella definizione dei limiti di partecipazione ad essa.

Ad avviso della Plenaria, pertanto, il giudice amministrativo dovrebbe sempre poter sindacare la scelta della stazione appaltante di non applicare il limite di partecipazione a livello di gruppo societario, quando essa conduca – come nel giudizio a quo – a consentire ad un solo gruppo di concorrere per 32 dei 34 lotti totali per un valore complessivo superiore al 99% di quello complessivo della gara.

L’Adunanza Plenaria sembra quindi esprimere la propria preferenza – in consapevole discostamento dalla posizione espressa dalla Sezione remittente – per un’interpretazione estensiva, secondo la quale il vincolo di partecipazione (e anche quello di aggiudicazione) – pur in mancanza di un’espressa indicazione sul punto nel bando di garasi estende automaticamente a tutte le consociate del medesimo gruppo societario, ove ciò sia necessario per rimediare a situazioni estreme nelle quali, altrimenti, la maggioranza dei lotti finirebbe per essere “preda” del medesimo gruppo societario (in patente violazione del principio di massima apertura del mercato delle commesse pubbliche alle medie e piccole imprese).

A conferma di tale lettura estensiva l’Adunanza Plenaria cita – in una logica di interpretazione evolutival’art. 58, comma 4, del D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36 (entrato in vigore dopo l’emanazione degli atti impugnati), che rispetto al previgente Codice ha disposto che le stazioni appaltanti: a) possono limitare «il numero massimo di lotti per i quali è consentita l’aggiudicazione al medesimo concorrente» tra l’altro «per ragioni inerenti al relativo mercato», e in questo specifico caso «anche a più concorrenti che versino in situazioni di controllo o collegamento ai sensi dell’art. 2359 del codice civile», ovvero in situazione di controllo societario; b) alle «medesime condizioni e ove necessario in ragione dell’elevato numero atteso di concorrenti», possono limitare «anche il numero di lotti per i quali è possibile partecipare».

Tali disposizioni possono essere considerate o innovative rispetto al previgente Codice dei contratti pubblici oppure ricognitive nel sistema nazionale dei principi europei rilevanti per verificare se l’amministrazione ha legittimamente esercitato la discrezionalità nella definizione dei limiti di partecipazione e di aggiudicazione a gare suddivise in lotti.

Fermo quanto precede, l’Adunanza Plenaria è anche pienamente consapevole del fatto che la summenzionata interpretazione estensiva – seppur sostanzialmente coerente con il principio eurounitario dell’apertura del mercato alla concorrenza (cfr. considerando 1 della direttiva 2014/24/UE) – deve essere oggetto di un vaglio pregiudiziale di compatibilità unionale ex art. 267 TFUE, atteso che il dato testuale e contestuale delle norme eurounitarie pertinenti (segnatamente degli artt. 2 e 46 della direttiva 2014/24/UE aventi ad oggetto rispettivamente la nozione di “operatore economico” e la disciplina della suddivisione in lotti) non appare affatto univoco nel senso di estendere automaticamente i vincoli di partecipazione/aggiudicazione all’intero gruppo del singolo operatore economico concorrente. Di qui la necessità dell’ordinanza in commento, secondo cui: “Previa riunione dei giudizi deferiti ex art. 99, comma 1, cod. proc. amm. a questa Adunanza Plenaria, vanno rimesse alla Corte di giustizia dell’Unione europea le seguenti questioni pregiudiziali:

  1. I) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 2, par. 1, n. 10), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014 (sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE), che definisce l’«operatore economico», in relazione ai considerando 1 e 2 della medesima direttiva, può essere interpretato in senso estensivo al gruppo societario di cui fa parte;
  2. II) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 46 della direttiva 2014/24/UE, relativa alla suddivisione della gara in lotti, che facoltizza le amministrazioni aggiudicatrici a suddividere la gara in lotti (par 1), a limitare la presentazione delle offerte «per un solo lotto, per alcuni lotti o per tutti» (par. 2), e a indicare «il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente» (par. 2, comma 1), possa essere applicato dando rilievo al gruppo societario di cui fa parte l’offerente;

III)  se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare i principi generali di certezza e proporzionalità, ostino ad un’esclusione dalla gara in via automatica di un offerente facente parte di un gruppo societario che in una gara suddivisa in lotti ha partecipato e presentato offerte attraverso le proprie partecipate in misura superiore ai limiti di partecipazione e di aggiudicazione previsti dal bando di gara”.

Non resta, dunque, che attendere il pronunciamento della Corte di Giustizia europea.

 

(*Contributo in tema di “Estensione automatica del vincolo di partecipazione all’intero gruppo societario in caso di suddivisione della gara in lotti: la parola va alla corte di giustizia dell’unione europea”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

illecito trattenere somme

Avvocati: illecito trattenere somme del cliente oltre il necessario Il CNF chiarisce che l’avvocato viola l’art. 31 CDF trattenendo somme spettanti al cliente oltre il tempo strettamente necessario

Illecito trattenere somme del cliente

Illecito trattenere somme del cliente: il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 472/2024, pubblicata il 4 luglio 2025 sul sito ufficiale del Codice Deontologico, ha affrontato la questione della gestione del denaro altrui da parte dell’avvocato, chiarendo che trattenere somme spettanti al cliente oltre il tempo strettamente necessario configura una violazione deontologica.

Il comportamento è stato ritenuto in contrasto con l’art. 31 del Codice Deontologico Forense, che impone all’avvocato obblighi di puntualità e diligenza nella gestione di denaro, beni o valori altrui.

Il principio enunciato: dovere di puntualità e diligenza

La pronuncia stabilisce che l’avvocato non può trattenere somme spettanti al cliente oltre il tempo strettamente necessario per il compimento di attività funzionali all’esecuzione del mandato o alla rendicontazione.

La violazione di questo principio integra un illecito deontologico, anche in assenza di appropriazione indebita o dolo. È sufficiente la mancanza di tempestiva restituzione a determinare una condotta disciplinarmente rilevante.

L’articolo 31 CDF e la gestione del denaro altrui

L’art. 31 del Codice Deontologico Forense stabilisce che l’avvocato deve custodire il denaro ricevuto per conto del cliente in modo distinto dal proprio e restituirlo senza ritardo. La norma mira a garantire trasparenza, affidabilità e fiducia nella relazione fiduciaria tra cliente e difensore.

Il trattenere somme indebitamente, anche solo per negligenza, lede la deontologia forense e comporta responsabilità disciplinare.