giurista risponde

Contratto pubblico e affidamento: la motivazione della decisione di non aggiudicare La decisione di non aggiudicare un appalto deve essere motivata anche nella fase antecedente all’aggiudicazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, la decisione di non aggiudicare un appalto deve essere motivata anche prima dell’aggiudicazione, sussistendo un affidamento dell’operatore economico (T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 7 novembre 2024, n. 3683).

Preliminarmente, in base all’art. 90 del D.Lgs. 36/2023, la decisione di non aggiudicare un appalto deve essere necessariamente comunicata e la medesima decisione deve essere, senza alcuna attenuazione, espressamente motivata anche nella fase antecedente alla aggiudicazione.

Inoltre, alla luce dell’art. 5 del codice dei contratti pubblici, per il principio di buona fede, anche prima dell’aggiudicazione sussiste un affidamento dell’operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al detto principio.

Pertanto, la caducazione della procedura, per altro a fronte di una posizione comunque differenziata relativa al partecipante alla selezione, la cui offerta, seppur in via provvisoria, è stata ritenuta migliore, deve trovare una solida motivazione.

Il principio della reciproca fiducia non può non confluire nel principio di trasparenza ed efficienza. Il comportamento delle stazioni appaltanti va relazionato all’assoluta rappresentazione, in qualunque fase, delle motivazioni che ne determinano l’operato e ciò ancor più laddove viene messa nel nulla una procedura avviata dalla medesima amministrazione, senza che la stessa, per altro, venga definitivamente caducata, ma eventualmente riproposta emendata da asseriti errori procedurali, che devono essere tali da dover necessariamente determinare l’impossibilità di concludere l’originario procedimento.

 

(*Contributo in tema di “Contratto pubblico e affidamento: la motivazione della decisione di non aggiudicare”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

sequestro del coniuge

Sequestro del coniuge: ok alla procedibilità d’ufficio Per la Consulta non è in contrasto con la Costituzione la procedibilità d'ufficio del sequestro di persona in danno del coniuge

Sequestro del coniuge e procedibilità del reato

Sequestro del coniuge: non è manifestamente irragionevole, né viola le indicazioni della legge delega, la scelta della “riforma Cartabia” di mantenere la procedibilità d’ufficio del sequestro di persona, quando sia commesso in danno del proprio coniuge. E’ quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 9/2025, ritenendo non fondata la questione sollevata dal Gup del Tribunale di Grosseto.

La qlc

Il giudice doveva decidere della responsabilità di un uomo che aveva aggredito la propria moglie, dalla quale si era separato di fatto da qualche mese, e il nuovo compagno di lei. Per la ricostruzione del pm, l’imputato avrebbe puntato una pistola contro di loro, costringendoli a entrare nella casa del nuovo compagno. Qui avrebbe chiuso la porta alle proprie spalle, minacciando entrambi di morte e colpendoli alla testa con il proprio casco. La donna e il compagno avevano rimesso la querela presentata contro l’imputato, che nel frattempo aveva risarcito loro i danni.

Tuttavia, la remissione della querela non aveva prodotto effetto, tra l’altro, rispetto al reato di sequestro di persona commesso in danno della moglie dell’imputato. Mentre, infatti, il decreto legislativo n. 150 del 2022 (riforma Cartabia) ha reso in via generale il sequestro di persona procedibile a querela di parte, la procedibilità d’ufficio è stata mantenuta in una serie di ipotesi aggravate, tra cui quella di specie.

Il GUP di Grosseto aveva, quindi, chiesto che tale disciplina fosse dichiarata incostituzionale. Secondo il giudice, le ragioni che hanno indotto il legislatore del 2022 a subordinare la punibilità del sequestro di persona alla querela della persona offesa varrebbero a maggior ragione nell’ipotesi in cui autore e vittima siano uniti in matrimonio. E ciò anche a garanzia del valore dell’unità familiare, riconosciuto come tale dall’articolo 29 Cost.

La decisione della Consulta

La Corte non ha condiviso questa prospettazione. La Consulta ha sottolineato che il legislatore ha mantenuto il regime di procedibilità d’ufficio di alcune ipotesi aggravate di sequestro di persona in cui vi siano particolari esigenze di tutela della vittima nelle relazioni familiari. Nell’ambito di queste relazioni esiste un concreto rischio che i soggetti più vulnerabili siano esposti a pressioni indebite, affinché non presentino querela o la rimettano.

Proprio per tale ragione, ha affermato la Corte, “la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia nel 2013, vieta agli Stati che ne sono parte di subordinare alla querela della parte i procedimenti penali per i reati di violenza fisica contro questa tipologia di persone offese”. E stabilisce “che il processo penale debba continuare anche quando la vittima ritiri la propria denuncia”.

“L’interesse alla conservazione dell’unità del nucleo familiare – ha concluso il giudice delle leggi – non può prevalere rispetto alla necessità di tutelare i diritti fondamentali delle singole persone che ne fanno parte”.

gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: l’Ocf denuncia il blocco dei pagamenti L'Organismo Congressuale Forense denuncia il blocco dei pagamenti ai difensori che hanno garantito assistenza legale ai cittadini beneficiari del gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: la denuncia dell’Ocf

Gratuito patrocinio: “Da mesi gli avvocati attendono di essere pagati per il lavoro svolto, mentre il Ministero della Giustizia resta immobile. I fondi destinati a questi compensi sono esauriti da ottobre, e in molti Fori la crisi era già evidente da tempo. Avvocati che hanno emesso fattura in autunno confidando in un pagamento dovuto per legge sono ancora in attesa, senza alcuna certezza su quando e se riceveranno il compenso”. E’ quanto denuncia l’Organismo Congressuale Forense, in merito allo stallo nei pagamenti ai difensori che hanno garantito assistenza legale ai cittadini beneficiari del patrocinio a spese dello Stato.

Qui il documento predisposto dall’Ocf

La denuncia

“Questa situazione non è solo il risultato di uno stanziamento insufficiente, ma l’ennesima dimostrazione di una gestione politica e amministrativa non responsabile. Il Ministero della Giustizia continua a ignorare un problema strutturale, mescolando i fondi destinati al patrocinio gratuito all’interno della voce di bilancio 1360, insieme a spese completamente diverse e non rinunciabili, come trasferte di funzionari, indennità per periti e testimoni, costi di estradizione e notifiche di atti esenti. Un vero e proprio caos contabile che impedisce di garantire il diritto alla difesa per chi non ha mezzi economici, violando l’articolo 24 della Costituzione” prosegue la nota.

Le richieste

“In questo modo – scrive ancora l’Ocf – si mette in ginocchio la giustizia per i più deboli. Sempre più avvocati, esasperati da questa situazione, si stanno cancellando dagli elenchi dei difensori per i non abbienti e perfino dalle liste dei difensori d’ufficio. Questo vuoto rischia di privare le persone più vulnerabili della tutela legale a cui hanno diritto, con conseguenze gravissime per l’intero sistema giudiziario”.

Da qui la richiesta di un intervento celere: “il pagamento immediato degli arretrati, la separazione dei fondi destinati al patrocinio da altre voci di bilancio e un’adeguata previsione di risorse nel bilancio del Ministero della Giustizia”.

difensore civico

Difensore civico: chi è e cosa fa Difensore civico: una breve guida all’organo indipendente che tutela i cittadini fungendo da intermediario con la Pubblica Amministrazione

Chi è il difensore civico?

Il difensore civico è un organo indipendente che opera a tutela dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione, garantendo trasparenza, legalità ed efficienza nell’azione amministrativa. Questa figura, presente a livello comunale, provinciale e regionale, funge da intermediario tra i cittadini e l’amministrazione, raccogliendo segnalazioni, reclami o suggerimenti e promuovendo soluzioni a favore del buon andamento della pubblica amministrazione.

Qual è la normativa di riferimento?

L’importante figura trova il suo fondamento nella Costituzione italiana e nella legislazione ordinaria.

Articolo 97 della Costituzione: prevede il principio di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione, valori che il difensore è chiamato a garantire.

Legge n. 142/1990: ha introdotto per la prima volta il difensore civico come organo previsto dagli statuti comunali e provinciali.

Decreto legislativo n. 267/2000 (TUEL): conferma la possibilità per gli enti locali di istituire questa figura nei propri statuti, delineandone le competenze e le modalità operative.

Leggi regionali: ogni Regione può disciplinare l’istituzione e il funzionamento del difensore a livello territoriale, definendo compiti specifici e ambiti di intervento.

Quali sono le funzioni del difensore civico?

Il difensore civico ha il compito principale di vigilare sull’attività amministrativa, verificando che essa sia conforme ai principi di legalità ed equità. I suoi compiti principali sono:

  • raccogliere segnalazioni da parte dei cittadini su presunti abusi o disfunzioni amministrative;
  • proporre soluzioni o mediazioni per risolvere controversie tra i cittadini e la Pubblica Amministrazione;
  • promuovere trasparenza e accesso agli atti amministrativi, garantendo il diritto di informazione e partecipazione;
  • segnalare criticità sistemiche nell’amministrazione ai responsabili degli enti pubblici.

Giurisprudenza sul difensore civico

La giurisprudenza ha contribuito a chiarire sia suoi i limiti che le su prerogative.

  • Consiglio di Stato: ha ribadito che il difensore civico non ha poteri decisionali vincolanti, ma può esercitare un’importante funzione di moral suasion nei confronti della Pubblica Amministrazione, favorendo la risoluzione delle controversie.
  • Corte costituzionale: in diverse sentenze ha sottolineato l’importanza di questo organo come strumento di tutela dei diritti dei cittadini, integrando il sistema di garanzie previsto dall’articolo 97 della Costituzione.
  • Tar: ha riconosciuto il ruolo del difensore nell’accesso agli atti amministrativi, chiarendo che le sue segnalazioni possono spingere l’amministrazione a rivedere le proprie decisioni per rispettare i principi di trasparenza e legalità.

Criticità e prospettive del difensore civico

Nonostante la sua rilevanza, la figura del difensore civico non è presente in tutti gli enti locali, con una distribuzione territoriale disomogenea. Le risorse limitate e la mancanza di obbligatorietà nella sua istituzione rappresentano sfide significative. Il suo ruolo tuttavia è sempre più riconosciuto come fondamentale per garantire un’amministrazione pubblica più accessibile e responsabile.

 

Leggi anche gli altri articoli di diritto amministrativo

reati societari

Reati societari: sproporzionato l’obbligo di confisca dei beni Per la Consulta, l'obbligo di confiscare i beni usati per commettere i reati societari può condurre a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati

Reati societari e confisca beni

Nei reati societari, l’obbligo di disporre la confisca di tutti beni utilizzati per commetterli, anche nella forma della confisca di beni di valore equivalente, può condurre a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati, ed è pertanto incompatibile con la Costituzione.

Questo quanto stabilito dalla Corte costituzionale nella sentenza numero 7/2025, con la quale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 2641, primo e secondo comma, del codice civile, che prevedeva questo obbligo.

La qlc

La questione è stata sottoposta alla Consulta dalla Corte di cassazione nell’ambito del processo relativo alla crisi della Banca popolare di Vicenza.

In primo grado, il Tribunale di Vicenza aveva disposto, a carico di quattro imputati, la confisca dell’importo di 963 milioni di euro, ritenuto corrispondente alle somme di denaro utilizzate per la commissione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia e della Banca Centrale Europea, dei quali gli imputati erano stati ritenuti responsabili.

Il Tribunale aveva calcolato l’importo da confiscare sommando tutti i finanziamenti concessi a terzi dalla Banca popolare affinché acquistassero azioni della stessa Banca, senza poi dichiarare tali finanziamenti secondo le modalità previste dalla legge.

In secondo grado, la Corte d’appello di Venezia aveva confermato in parte la responsabilità penale degli imputati, ma aveva revocato la confisca, giudicandola in contrasto con il principio di proporzionalità delle pene sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La Cassazione

Il Procuratore generale aveva quindi proposto ricorso alla Corte di cassazione, sostenendo che la Corte d’appello avesse erroneamente disapplicato l’articolo 2641 del codice civile, che impone al giudice di confiscare i beni utilizzati per commettere, tra gli altri, i reati di aggiotaggio e di ostacolo alle funzioni di vigilanza, o comunque beni o somme di valore equivalente.

La Corte di cassazione, condividendo i dubbi della Corte d’appello circa la possibile sproporzione di una confisca di quasi un miliardo di euro a carico di quattro persone fisiche, ha sollevato questione di legittimità costituzionale sull’articolo 2641 del codice civile, ritenendo necessario l’intervento della Corte costituzionale per statuire definitivamente sulla compatibilità o incompatibilità della norma con i principi costituzionali e, al tempo stesso, con i diritti stabiliti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.

La decisione

La Corte costituzionale ha, anzitutto, osservato che la confisca dei beni utilizzati per commettere il reato ha natura di vera e propria pena di carattere patrimoniale, che – in quanto tale – deve rispettare il principio di proporzionalità. “Questo principio vieta, in particolare, che le pene patrimoniali risultino sproporzionate rispetto alle condizioni economiche dell’interessato, e in ogni caso alla sua capacità di far fronte al pagamento richiesto. Una legge che, come l’articolo 2641 del codice civile, impone in ogni caso di confiscare agli autori del reato l’intero importo corrispondente ai beni utilizzati per commettere un reato, anche quando i beni appartenevano ad una società, è strutturalmente suscettibile di produrre risultati sanzionatori sproporzionati, perché non consente al giudice di adeguare l’importo alle reali capacità economiche e patrimoniali delle singole persone fisiche colpite dalla confisca. La norma è stata così dichiarata parzialmente incostituzionale” ha affermato la Consulta.

Spetterà al legislatore, hanno proseguito i giudici, “valutare se introdurre una nuova disciplina della confisca dei beni strumentali e delle somme di valore equivalente, nei limiti consentiti dal principio di proporzionalità, così come previsto in altri sistemi giuridici e nella stessa legislazione dell’Unione europea. Resta invece in vigore l’obbligo di confiscare integralmente i profitti ricavati dal reato, in forma diretta e per equivalente, a carico di qualunque persona – fisica o giuridica – che risulti effettivamente avere conseguito le utilità derivanti dal reato”.

Resta ferma, inoltre, “la facoltà per il giudice di confiscare i beni utilizzati per commettere il reato prevista in via generale dell’articolo 240 del codice penale, nel rispetto del principio di proporzionalità”.

decreto caivano

Decreto Caivano: esclusione messa alla prova minorile irretroattiva La Corte Costituzionale dichiara che l'esclusione della messa alla prova minorile introdotta dal decreto Caivano non è applicabile retroattivamente

Decreto Caivano e messa alla prova minorile

Decreto Caivano ed esclusione della messa alla prova minorile: la Corte costituzionale, con la sentenza numero 8/2025, si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Bari, aventi ad oggetto la nuova disciplina della sospensione del processo per messa alla prova del minore, introdotta in sede di conversione del decreto-legge numero 123 del 2023.

La qlc

Il giudice rimettente, in particolare, lamentava il contrasto con l’articolo 31, secondo comma, della Costituzione, del comma 5-bis, inserito nell’articolo 28 del decreto del Presidente della Repubblica numero 448 del 1988, che ha precluso la messa alla prova, nel processo minorile, per gli imputati di alcuni delitti, tra i quali la violenza sessuale e la violenza sessuale di gruppo aggravate.

Al giudice a quo era indirizzata la richiesta di ammissione alla prova avanzata da due minorenni, chiamati a rispondere di reati sessuali commessi prima dell’entrata in vigore della nuova norma, quando non erano previste preclusioni fondate sul titolo di reato.

La previsione ostativa, a suo avviso, era di immediata applicazione, secondo il principio tempus regit actum, perché connotata da una natura prevalentemente processuale.

La decisione

La Consulta ha ritenuto, tuttavia, non condivisibile l’interpretazione del giudice a quo, perché all’istituto della messa alla prova, che costituisce un tratto qualificante del processo penale minorile, deve essere riconosciuta una dimensione sostanziale, che ne attrae la disciplina nell’alveo dell’articolo 25, secondo comma, della Costituzione e dell’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), riconducendola al principio di irretroattività della norma penale sfavorevole.

“L’articolo 28, comma 5-bis, del d.P.R. numero 448 del 1988 impedisce, infatti, per i reati ivi considerati, che l’imputato minorenne possa essere sottratto al circuito penale, senza che abbiano rilievo le circostanze concrete della sua condotta e le effettive possibilità del suo reinserimento sociale. Tale previsione – ha concluso la Corte – incide quindi direttamente sulla disciplina sostanziale, introducendovi un contenuto deteriore rispetto alla previgente, e pertanto, nel rispetto degli articoli 25, secondo comma, della Costituzione e 7 della CEDU, non può essere applicata ai fatti commessi anteriormente al 15 novembre 2023, data di entrata in vigore della nuova norma”.

la risoluzione del contratto

La risoluzione del contratto La risoluzione del contratto, legale o giudiziale, è un istituto che mette fine agli effetti di un accordo per cause diverse

Risoluzione contrattuale nel codice civile

La risoluzione del contratto è un istituto giuridico che consente di porre fine agli effetti di un contratto valido a seguito dell’inadempimento, dell’impossibilità sopravvenuta, della eccessiva onerosità o di cause previste dalla legge. Questo strumento è disciplinato dagli articoli 1453 e seguenti del Codice Civile e rappresenta una tutela per la parte che subisce un pregiudizio contrattuale.

Cos’è la risoluzione del contratto

La risoluzione è un rimedio a disposizione della parte non inadempiente per ottenere la cessazione del vincolo contrattuale e, in molti casi, il risarcimento del danno.

La risoluzione può essere:

  • legale: opera automaticamente in base alla legge, senza necessità di intervento giudiziale e in casi specifici, come la diffida ad adempiere o la clausola risolutiva espressa. Non è necessario quindi l’intervento del giudice, salvo contestazioni.
  • giudiziale: richiede una pronuncia del giudice per accertare e dichiarare la risoluzione quando l’inadempimento non è chiaramente riconoscibile o le parti non hanno previsto un meccanismo automatico.

Cause di risoluzione del contratto

Il Codice Civile individua le principali cause di risoluzione in alcuni articoli.

  • Inadempimento (art. 1453 c.c.): si verifica quando una delle parti non esegue la prestazione dovuta. In questo caso, la parte non inadempiente può chiedere la risoluzione o l’esecuzione, oltre al risarcimento del danno.
  • Impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.): il contratto si risolve se la prestazione diventa impossibile per cause non imputabili alla parte obbligata.
  • Eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.): si applica ai contratti a esecuzione continuata o periodica quando eventi straordinari e imprevedibili rendono eccessivamente onerosa una delle prestazioni.
  • Clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.): le parti possono concordare che il contratto si risolva automaticamente al verificarsi di specifiche inadempienze.
  • Diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.): la parte non inadempiente può intimare alla controparte di adempiere entro un termine, decorso il quale il contratto si intende risolto.

Effetti della risoluzione

La risoluzione contrattuale produce alcuni importanti e effetti.

Scioglimento del vincolo contrattuale: le parti non sono più obbligate a eseguire le prestazioni future.

Restituzioni: le prestazioni già eseguite devono essere restituite, salvo il diritto al risarcimento del danno.

Risarcimento del danno: la parte non inadempiente può richiedere un risarcimento per il pregiudizio subito.

Giurisprudenza sulla risoluzione del contratto

La giurisprudenza ha chiarito vari aspetti della risoluzione del contratto.

Cassazione n. 19579/2021: Per valutare la gravità dell’inadempimento contrattuale (art. 1455 c.c.), vanno distinte le violazioni delle obbligazioni essenziali, rilevanti ai fini della gravità, da quelle accessorie, che da sole non bastano.

Cassazione n. 18292/2022: Dopo la risoluzione del contratto per diffida ad adempiere, il recesso è precluso. La parte non inadempiente, se chiede solo la caparra o il doppio, deve abbinarvi una domanda di accertamento della risoluzione.

Cassazione n. 2047/2018: Nei contratti sinallagmatici, chi subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta può solo chiedere la risoluzione (art. 1467 c.c.), se non ha già eseguito la prestazione, ma non la modifica del contratto, che spetta solo alla parte convenuta in giudizio.

Cassazione n. 22725/2021: Per la clausola risolutiva espressa, le parti devono prevedere la risoluzione automatica per inadempimento di obbligazioni specifiche indicate nel contratto o in documenti espressamente richiamati.

 

Leggi anche: Risoluzione per impossibilità sopravvenuta e caparra

il tribunale dei ministri

Il Tribunale dei Ministri Cos’è il Tribunale dei Ministri, qual è la sua disciplina, come funziona e quali sono le sue competenze specifiche

Cos’è il Tribunale dei Ministri

Il Tribunale dei Ministri è una sezione speciale del Tribunale ordinario del distretto di Corte d’Appello competente per territorio, composta da tre magistrati estratti a sorte tra quelli appartenenti al tribunale stesso. Esso è stato istituito per garantire che i membri del Governo rispondano penalmente delle proprie azioni compiute nell’esercizio delle loro funzioni. Questa sezione giudica sulle eventuali responsabilità penali dei membri del governo (presidente del Consiglio dei ministri e ministri) per atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni. Si tratta infatti di una deroga al principio generale di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giustificata dalla delicatezza e dalla specificità del ruolo dei ministri. La sua disciplina è affidata alla legge costituzionale n. 1/1989 che ha modificato, tra gli altri, l’art. 96 Cost.

Come funziona il procedimento

Il procedimento che si svolge davanti a questa autorità segue un iter ben definito:

  1. Indagini preliminari: la competenza a svolgere le indagini spetta alla Procura della Repubblica del tribunale ordinario competente per territorio. Se emergono elementi di reato, il fascicolo viene trasmesso al Tribunale dei Ministri.
  2. Valutazione preliminare: il Tribunale esamina il caso per stabilire se sussistano i presupposti per procedere. Se ritiene che vi siano elementi sufficienti, trasmette la richiesta alla Camera di appartenenza del ministro interessato per l’autorizzazione a procedere.
  3. Autorizzazione parlamentare: l’autorizzazione a procedere è un passaggio fondamentale. Il Parlamento valuta se il reato contestato sia connesso all’esercizio delle funzioni governative e decide se concedere o meno l’autorizzazione alla prosecuzione del processo.
  4. Giudizio: in caso di autorizzazione, il Tribunale dei Ministri procede secondo le normali regole del processo penale.

Le competenze del Tribunale dei Ministri

Il Tribunale dei Ministri è un organo di garanzia della legalità dell’azione di governo. La sua esistenza testimonia l’importanza di assicurare che anche i membri del Governo siano responsabili delle proprie azioni e che non godano di impunità.

Il Tribunale dei Ministri per questo ha competenza esclusiva sui reati commessi dai membri del Governo nell’esercizio delle loro funzioni. Le principali tipologie di reati su cui può pronunciarsi sono:

  • abuso di potere
  • corruzione
  • concussione
  • omissioni di atti d’ufficio

L’autorità giudiziaria non ha invece competenza su reati comuni commessi dai ministri al di fuori delle loro funzioni governative, i quali restano di competenza della giustizia ordinaria.

 

Leggi anche gli arti articoli materia di diritto penale

rubare per fame

Rubare per fame è sempre furto In presenza di una situazione di indilazionabile necessità può scattare l'ipotesi del furto lieve per bisogno

Furto lieve per bisogno

Rubare per fame è sempre furto, anche se commesso da un senzatetto per bisogno e se i beni sottratti sono di basso valore e servono a soddisfare un bisogno urgente, ossia come nella fattispecie, procurarsi del cibo per sopravvivere. Tuttavia, può scattare l’ipotesi del furto lieve in presenza di una situazione di indilazionabile necessità. Lo ha chiarito la quarta sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 40685/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’Appello di Milano, confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Monza, che, riconosciute le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata recidiva, aveva condannato una senzatetto alla pena di mesi quattro di reclusione ed €.100,00 di multa per il reato di tentato furto di 4 pezzi di parmigiano, 3 pezzi di soppressa veneta, una confezione di bastoncini di cotone e una confezione di detersivo liquido, furto commesso all’interno di un supermercato.

La Corte territoriale aveva disatteso i motivi di gravame, confermando la valutazione del primo giudice quanto alla ritenuta inconfigurabilità dello stato di necessità e dell’ipotesi lieve di furto per bisogno, di cui all’art. 626 n. 2 cod pen.

Il ricorso

L’imputata adiva il Palazzaccio lamentando innanzitutto violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e) cod.proc.pen, in relazione all’art. 54 cod. pen. poichè la Corte non aveva valutato le oggettive circostanze del fatto, e in particolare le sue condizioni. La donna era stata descritta dagli inquirenti come malnutrita ed estremamente debole; elemento confermato dalle risultanze della annotazione di servizio in cui dava atto che gli stessi operanti avevano provveduto all’acquisto di pane presso il supermercato per sfamarla.

Inoltre, si doleva di illogica ed errata argomentazione resa dalla Corte di merito, secondo cui il cibo che aveva tentato di sottrarre non era di eseguo valore né sussisteva lo stato di bisogno, potendo la stessa rivolgersi ad enti assistenziali: era infatti emerso che l’imputata è una senzatetto e la merce sottratta, per sua natura scarsamente deperibile, le avrebbe permesso di sostentarsi vivendo per strada; né era possibile discriminare, sotto il profilo del bisogno, tra chi asporta dal supermercato cibi più economici e chi cibi più costosi.

Lo stato di necessità

I giudici della S.C., quanto alla prima doglianza, convengono però con quelli di merito, nelle cui decisioni si è esclusa la sussistenza di una situazione di vera e propria costrizione, dovuta al pericolo attuale di un danno grave alla persona, non volontariamente causato e non altrimenti evitabile (ciò che avrebbe scriminato l’azione: art. 54 cod. pen.), mentre si è ritenuto sussistente un generale stato di indigenza e condizioni di salute della donna tali da rendere difficile provvedere agli elementari bisogni di vita ma, comunque, stimando evitabile l’azione furtiva (qualificando conseguentemente l’agire ex art. 626, comma 1, num. 2,cod. pen).

Per la S.C. dunque non trova applicazione la scriminante dello stato di necessità, che postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non volontariamente causato e non altrimenti fronteggiabile (cfr anche Sez. 3, n. 35590 del 11/05/2016, Mbaye, Rv. 267640 – 01); mentre configura il delitto di furto lieve per bisogno, di cui all’art. 626, comma primo, n. 2, cod. pen., la condotta del soggetto malnutrito e in generale stato di indigenza che si impossessi di generi alimentari di ridotto valore economico.
Nella vicenda, non ricorrono, secondo piazza Cavour, i presupposti della inevitabilità del pericolo e della sua involontaria causazione, non potendosi sovrapporre, come rilevato dalla Corte territoriale, uno stato di bisogno determinato dalle condizioni di indigenza e di assenza di stabile dimora con i precisi requisiti di cui all’art. 54 cod pen.

Riconoscimento del furto lieve per bisogno

Fondato invece il motivo sul mancato riconoscimento del furto lieve per bisogno che, secondo il consolidato orientamento di legittimità, proseguono i giudici, “è configurabile nei casi in cui la cosa sottratta sia di tenue valore e sia effettivamente destinata a soddisfare un grave ed urgente bisogno; ne consegue che, per far degradare l’imputazione da furto comune a furto lieve, non è sufficiente la sussistenza di un generico stato di bisogno o di miseria del colpevole, occorrendo, invece, una situazione di grave ed indilazionabile bisogno alla quale non possa provvedersi se non sottraendo la cosa (Sez. 5, n.32937del 19/05/2014, Rv. 261658, Sez. 2, n.42375 del 05/10/2012)”.
Nel caso in esame la ricorrente ha allegato elementi dai quali risulta il grave stato di
malnutrizione ed estrema debolezza tali da poter essere valutati come situazione di indilazionabile bisogno di provvedere a nutrirsi e la Corte milanese non ha argomentato in ordine a tali elementi di fatto ed ha svolto considerazioni di carattere congetturale, quali il fatto che la merce, di valore di poco superiore ai 100 euro, fosse destinata ad essere rivenduta, non per sfamarsi e lavarsi, ma per trarne guadagno.

Da qui l’annullamento della sentenza con rinvio per nuovo esame.

 

Leggi gli altri articoli di diritto penale

Allegati

garante disabili

Garante delle persone con disabilità Operativo dal 1° gennaio 2025 il Garante delle persone con disabilità istituito con il decreto legislativo n. 20/2024

Garante disabili: chi è e cosa fa

Garante disabili: in data 5 marzo 2024, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.lgs. n. 20/2024 che istituisce il Garante nazionale delle persone con disabilità, in attuazione della delega conferita al governo e dopo l’approvazione in via definitiva del provvedimento da parte del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2024.

L’autorità “Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità” è operativa a decorrere dal 1° gennaio 2025 ed esercita “le funzioni e i compiti ad essa assegnati dal decreto con poteri autonomi di organizzazione, con indipendenza amministrativa e senza vincoli di subordinazione gerarchica”.

Il Garante costituisce un’articolazione del sistema nazionale per la promozione e la protezione dei diritti delle persone con disabilità, in attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18.

Composizione Autorità Garante

Il Garante ha sede in Roma ed è un organo collegiale, composto dal presidente e da due componenti, “scelti tra persone di notoria indipendenza e di specifiche e comprovate professionalità, competenze o esperienze nel campo della tutela e della promozione dei diritti umani e in materia di contrasto delle forme di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità”.

Il presidente e i componenti del collegio non possono essere scelti tra persone che rivestono incarichi pubblici elettivi o cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano rivestito tali incarichi e cariche nell’anno precedente la nomina e, in ogni caso, non devono essere portatori di interessi in conflitto con le funzioni del Garante.

Per tutta la durata dell’incarico, inoltre, il presidente e i componenti del collegio non possono esercitare, a pena di decadenza, attività professionale, imprenditoriale o di consulenza, non possono svolgere le funzioni di amministratori o dipendenti di enti pubblici o privati, ricoprire uffici pubblici di qualsiasi natura o rivestire cariche elettive, assumere cariche di governo o incarichi all’interno di partiti politici o movimenti politici o in associazioni, organizzazioni, anche sindacali, ordini professionali o comunque organismi che svolgono attività nel campo della disabilità.

Il presidente e i componenti del collegio durano in carica di quattro anni e il loro mandato e’ rinnovabile una sola volta.

Attualmente, l’avv. Maurizio Borgo è stato nominato Garante delle Persone con disabilità; gli altri membri del Collegio Garante sono il Dott. Antonio Pelagatti e il prof. Francesco Vaia.

Ufficio del Garante

Per lo svolgimento dei propri compiti istituzionali è istituito l’Ufficio del Garante, il cui funzionamento è affidato ad un regolamento adottato dal garante stesso, con una dotazione organica costituita da due unità dirigenziali e 20 unità di persone non dirigenziale, in possesso delle competenze e dei requisiti di professionalità necessari in relazione alle funzioni e alle caratteristiche di indipendenza e imparzialità del Garante.

L’assunzione del personale avviene per pubblico concorso.

L’Ufficio del Garante può avvalersi di esperti, fino ad un massimo di otto, di elevata competenza in ambito giuridico, amministrativo, contabile o di comprovata esperienza in materia di disabilità. Gli esperti possono prestare la propria opera professionale a titolo gratuito.

Funzioni e prerogative del Garante

Il Garante esercita moltissime funzioni, tra cui:

  • vigila sul rispetto dei diritti e sulla conformità ai principi stabiliti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e dagli altri trattati internazionali dei quali l’Italia è parte in materia di protezione dei diritti delle persone con disabilita’, dalla Costituzione, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti nella medesima materia;
  • contrasta i fenomeni di discriminazione diretta, indiretta o di molestie in ragione della condizione di disabilita’ e del rifiuto dell’accomodamento ragionevole di cui all’articolo 5, comma 2;
  • promuove l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone con disabilita’, in condizione di eguaglianza con gli altri cittadini, anche impedendo che esse siano vittime di segregazione;
  • riceve le segnalazioni presentate da persone con disabilità, dai loro familiari, da chi le rappresenta, dalle associazioni e dagli enti legittimati ad agire in difesa delle persone con disabilita’, da singoli cittadini, da pubbliche amministrazioni, nonché dall’Autorità politica delegata in materia di disabilità. Il Garante stabilisce, nei limiti della propria autonomia organizzativa, le procedure e le modalita’ di presentazione delle segnalazioni, anche tramite l’attivazione di un centro di contatto dedicato, assicurandone l’accessibilita’. Il Garante all’esito della valutazione e verifica delle segnalazioni pervenute, previa audizione delle persone con disabilita’ legittimate, esprime con delibera collegiale pareri motivati;
  • svolge verifiche, d’ufficio o a seguito di segnalazione, sull’esistenza di fenomeni discriminatori;
  • formula raccomandazioni e pareri inerenti alle segnalazioni raccolte alle amministrazioni e ai concessionari pubblici interessati, anche in relazione a specifiche situazioni e nei confronti di singoli enti, proponendo o sollecitando, anche attraverso l’autorita’ di settore o di vigilanza, interventi, misure o accomodamenti ragionevoli idonei a superare le criticita’ riscontrate;
  • promuove la cultura del rispetto dei diritti delle persone con disabilita’ attraverso campagne di sensibilizzazione, comunicazione e progetti, iniziative ed azioni positive, in particolare nelle istituzioni scolastiche, in collaborazione con le amministrazioni competenti per materia;
  • agisce e resiste in giudizio a difesa delle proprie prerogative;
  • definisce e diffonde codici e raccolte delle buone pratiche in materia di tutela dei diritti delle persone con disabilita’ nonche’ di modelli di accomodamento ragionevole.

Pareri del Garante

Come dispone l’art. 5 del decreto, il Garante valuta le segnalazioni ricevute e verifica l’esistenza di discriminazioni comportanti lesioni di diritti soggettivi o di interessi legittimi negli ambiti di competenza. All’esito della valutazione e verifica, previa audizione dei soggetti destinatari delle proposte nel rispetto del principio di leale collaborazione, ad eccezione dei casi di urgenza di cui al comma 4, esprime con delibera collegiale pareri motivati.

Nel caso in cui un’amministrazione o un concessionario di pubblico servizio adotti un provvedimento o un atto amministrativo generale in relazione al quale la parte lamenta una violazione dei diritti della persona con disabilita’, una discriminazione o lesione di interessi legittimi, il Garante emette un parere motivato nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate nonche’ una proposta di accomodamento ragionevole, come definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita’ e dalla disciplina nazionale, nel rispetto del principio di proporzionalita’ e adeguatezza.

Quando le verifiche hanno ad oggetto il mancato adeguamento a quanto previsto dai piani per l’eliminazione di barriere architettoniche dagli edifici pubblici e aperti al pubblico e da quelli privati che forniscono strutture e servizi aperti o forniti al pubblico, nonche’ l’eliminazione delle barriere sensopercettive e di ogni altra barriera che impedisce alle persone con disabilita’ di potervi accedere in condizione di pari opportunita’ con gli altri cittadini o ne limiti la loro fruizione in modo significativo, il Garante puo’ proporre all’amministrazione competente un cronoprogramma per rimuovere le barriere e vigilare sugli stati di avanzamento.

Nei casi di urgenza dovuta al rischio di un danno grave e irreparabile per i diritti delle persone con disabilita’, ove non sia stata promossa azione giudiziaria, il Garante puo’, anche d’ufficio, a seguito di un sommario esame circa la sussistenza di una grave violazione del principio di non discriminazione in danno di una o piu’ persone con disabilita’, proporre l’adozione di misure provvisorie. La proposta e’ trasmessa senza indugio alle pubbliche amministrazioni procedenti.

Trascorsi novanta giorni dal parere motivato, constatata l’inerzia da parte delle amministrazioni e concessionari di pubblici servizi, il Garante può proporre azione ai sensi dell’articolo 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Entro centottanta giorni dall’adozione del provvedimento da parte delle amministrazioni e concessionari di pubblici servizi, sulla base delle proposte o del parere motivato, il Garante può agire per il solo accertamento delle nullita’ previste dalla legge.