creator digitali

Creator digitali: le linee guida Inps L'istituto ha pubblicato una circolare riguardante l'inquadramento previdenziale e contributivo dei creator digitali

Creator digitali: fisco e contributi

L’INPS ha pubblicato la circolare 19 febbraio 2025, n. 44 riguardante l’inquadramento previdenziale e contributivo dei creator digitali (DCC), un settore in rapida evoluzione che coinvolge soprattutto i giovani.

Il documento fornisce linee guida chiare e pratiche, per facilitare la gestione degli obblighi fiscali e contributivi legati a queste nuove professioni.

Adattare le norme alle professioni dell’economia digitale

L’obiettivo principale della circolare è quello di adattare le normative esistenti alle specifiche esigenze delle professioni legate all’economia digitale, che spesso sfuggono a schemi consolidati; essa descrive le caratteristiche distintive dell’attività di creazione di contenuti, le diverse modalità di svolgimento e remunerazione, e i vari rapporti di lavoro che possono sorgere tra i DCC, le aziende e le agenzie intermediarie.

Chi sono i creator digitali: dagli influencer ai pro gamer

Particolare attenzione è riservata alla figura del creator, che comprende influenceryoutuberstreamerpodcaster e pro gamer, con l’intento di fornire un quadro flessibile e comprensibile, che possa evolvere con il settore. La circolare non intende creare un elenco rigido di figure professionali, ma piuttosto stabilire principi comuni per inquadrare le diverse attività.

La disciplina previdenziale applicabile

La parte centrale del documento si concentra sulla disciplina previdenziale applicabile, affrontando l’inquadramento giuridico di queste professioni in mancanza di normative specifiche. L’Istituto utilizza criteri già esistenti per definire il regime previdenziale appropriato, esaminando variabili chiave come le modalità di attività e l’organizzazione del lavoro.
Inoltre, la circolare è stata elaborata con il coinvolgimento del mondo associativo di settore, garantendo che le osservazioni e le indicazioni dei professionisti siano state integrate nel testo.

esenzione ici

Esenzione ICI immobili della chiesa a “uso misto” La Consulta boccia la questione di legittimità costituzionale sull'esenzione ICI degli immobili ecclesiastici a "uso misto"

Esenzioni ICI immobili chiesa

E’ inammissibile la qlc sull’esenzione ICI degli immobili della chiesa a “uso misto”. Lo ha sancito la Consulta, con la sentenza n. 20/2025, dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo numero 504 del 1992 sollevata dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte.

La qlc

Il giudice a quo aveva censurato la norma – con riferimento al regime ICI, quindi per le annualità anteriori al 2012 – sul presupposto che essa, riguardo agli immobili ecclesiastici a “uso misto” (in parte religioso e in parte commerciale), ma unitariamente accatastati, non avrebbe consentito, ai fini dell’esenzione d’imposta, lo «scorporo delle superfici», in base alla loro effettiva destinazione.

Tale omissione, determinando la tassazione anche delle porzioni immobiliari destinate ad attività di culto, avrebbe comportato la violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 7, terzo comma, dell’Accordo del 18 febbraio 1984 di revisione del Concordato lateranense, quest’ultimo escludendo ogni imposizione tributaria per le attività religiose degli enti ecclesiastici.

La decisione della Consulta

La Corte costituzionale ha giudicato inadeguata la ricostruzione del quadro normativo operata dal rimettente e inesatta l’individuazione del parametro dallo stesso effettuata. Sotto il profilo ricostruttivo, il giudice a quo ha attribuito alla norma pattizia del 1984 una portata esonerativa immediata, come se essa si riferisse alle attività religiose in sé, mentre tale norma si limita a equiparare, per gli effetti tributari, l’attività di culto-religione a quella di beneficenza-istruzione. Inoltre, il rimettente non ha tenuto conto dell’incidenza del diritto UE, viceversa determinante nello sviluppo della normativa interna sulla tassazione immobiliare degli enti non commerciali. Infine, non ha chiarito se il fabbricato di causa fosse all’epoca frazionabile, sì da consentire lo «scorporo delle superfici».

interdittiva antimafia

Interdittiva antimafia Interdittiva antimafia: cos’è, effetti, durata e natura giuridica, come difendersi, la giurisprudenza in materia

Cos’è l’interdittiva antimafia

L’interdittiva antimafia, disciplinata dal Decreto Legislativo n. 159/2011 (noto come Codice Antimafia), è un provvedimento amministrativo adottato dal Prefetto con lo scopo di prevenire infiltrazioni mafiose nelle attività economiche. Questa misura preventiva riveste un ruolo fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata, impedendo alle imprese sospette di partecipare ad appalti pubblici e di ottenere concessioni, autorizzazioni o erogazioni pubbliche.

La norma di riferimento

Secondo l’articolo 84 del Codice Antimafia, l’interdittiva antimafia viene adottata quando emergono elementi concreti, univoci e rilevanti circa il rischio di infiltrazione mafiosa.

Questo provvedimento prefettizio possiede una finalità preventiva, ossia impedire alle organizzazioni criminali di infiltrarsi nell’economia legale attraverso società o imprese.

Quanto dura l’interdittiva antimafia

Il provvedimento ha una durata di 12 mesi, tuttavia:

  • come precisato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 8309/2023 il decorso del termine di 12 mesi non comporta automaticamente la perdita di efficacia dell’interdittiva, ma legittima il soggetto interdetto a presentare un’istanza finalizzata a ottenere il riesame del provvedimento;
  • può essere revocata su richiesta dell’impresa, se dimostra il venir meno delle condizioni che hanno portato all’emissione della misura.

Effetti delle interdittive antimafia

Gli effetti delle interdittive antimafia sono particolarmente penalizzanti per le imprese colpite:

  • esclusione dagli appalti pubblici: impossibilità di partecipare a gare pubbliche o ottenere affidamenti diretti;
  • revoca delle concessioni: decadenza automatica di autorizzazioni, licenze e contributi pubblici;
  • scioglimento di contratti in corso: inclusi appalti già aggiudicati;
  • blocco dei finanziamenti pubblici: inclusi contributi e agevolazioni.

L’interdittiva antimafia colpisce non solo l’impresa ma anche i soci, gli amministratori e le controparti contrattuali, rendendo difficile la continuità dell’attività economica.

Natura giuridica dell’interdittiva antimafia

La natura giuridica dell’interdittiva antimafia è stata oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali.

Il Consiglio di Stato, ad esempio, nella sentenza n. 8558/2022 ha chiarito che l’interdittiva antimafia è una misura di natura cautelare che mira a prevenire tempestivamente il rischio di infiltrazione mafiosa senza la necessità di una prova diretta di un fatto specifico. Per la sua adozione, è sufficiente la presenza di indizi che rendano plausibile l’esistenza di legami con la criminalità organizzata o un possibile condizionamento da parte di essa. L’accertamento si basa su un’analisi complessiva e discrezionale degli elementi a disposizione, considerati nel loro insieme e non singolarmente, al fine di valutare il pericolo di ingerenza mafiosa in modo unitario.

Come difendersi da un’interdittiva antimafia

Le imprese colpite da un’interdittiva antimafia possono:

  • chiedere la revoca alla Prefettura, dimostrando il venir meno dei presupposti.
  • impugnare il provvedimento davanti al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) e, se la sentenza è sfavorevole, proporre appello al Consiglio di Stato.

Per ottenere la revoca, l’impresa deve però adottare misure concrete, come:

  • modifica dell’assetto societario (rimozione di soci o amministratori legati a contesti mafiosi);
  • implementazione di protocolli di legalità e modelli organizzativi conformi al D.lgs. 231/2001;
  • collaborazione con le autorità e adesione a iniziative di contrasto alla criminalità organizzata.

 Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha consolidato il quadro interpretativo delle interdittive antimafia:

Corte costituzionale n. 57/2020

L’interdittiva antimafia emanata dal Prefetto nei confronti di imprese soggette a tentativi di infiltrazione mafiosa non lede il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata. Pur rappresentando una significativa limitazione – nel caso specifico, l’esclusione dall’albo delle imprese artigiane – essa è giustificata dalla gravità del fenomeno mafioso e dalla necessità di tutelare la concorrenza, nonché la dignità e la libertà delle persone.

Consiglio di Stato n. 3266/2024

La revoca del controllo giudiziario su un’impresa a rischio di infiltrazione mafiosa non comporta automaticamente l’annullamento dell’interdittiva antimafia precedentemente emessa dal Prefetto. Questo perché la valutazione prefettizia sui pericoli di condizionamento criminale resta invariata. Di conseguenza, anche se il controllo giudiziario viene meno, l’interdittiva antimafia continua a produrre effetti, legittimando l’esclusione dell’impresa dagli appalti pubblici per mancanza dei requisiti di onorabilità professionale (art. 94, comma 2, Codice Appalti, D.lgs. 36/2023).

TAR Campania n. 1343/2024

L’interdittiva antimafia può legittimamente basarsi anche su eventi passati, a condizione che l’analisi complessiva delle circostanze esaminate evidenzi un quadro indiziario tale da giustificare un giudizio attuale e concreto sul rischio di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’impresa.

 

 

 

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giuramento decisorio

Il giuramento decisorio Il giuramento decisorio: disciplina, effetti e differenze con il giuramento suppletorio ed estimatorio, guida con giurisprudenza

Cos’è il giuramento decisorio

Il giuramento decisorio è un mezzo di prova regolato dagli artt. 2736 e seguenti del Codice Civile e dagli artt. 233 e seguenti del Codice di Procedura Civile. Consiste nella dichiarazione solenne resa da una parte su fatti controversi, vincolando il giudice alla decisione conforme alla risposta ricevuta.

Ammissibilità del giuramento decisorio

Il giuramento decisorio è ammissibile solo su fatti rilevanti, controversi e non altrimenti dimostrabili.

La Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 1551/2022 ha sancito infatti l’inammissibilità dell’istituto quando, in caso di ammissione dei fatti rappresentati, la formulazione delle circostanze non conduca all’accoglimento della domanda ma richieda comunque una valutazione dei fatti da parte del giudice di merito.

Effetti del giuramento decisorio

Il giuramento decisorio, una volta reso, produce specifici effetti:

  • se confessato vincola il giudice a decidere in conformità;
  • se rifiutato, il rifiuto equivale a confessione (art. 2738 c.c.) per cui confessa su fatti a se sfavorevoli e favorevoli all’altra parte;
  • se falso: può dar luogo a responsabilità penale (art. 371 c.p.) ed è punito con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni.

Giuramento decisorio, suppletorio ed estimatorio

Il nostro ordinamento contempla tre tipi diversi di giuramento, decisorio, suppletorio ed estimatorio.

Vediamo in che cosa si distinguono:

  • Giuramento decisorio: rappresenta la prova principale ed è richiesto dalle parti su fatti controversi, può essere de scientia (o de notizia) e de veritate a seconda che i fatti per i quali viene deferito riguardino personalmente la parte o fatti altrui di cui è a conoscenza;
  • Giuramento suppletorio: viene invece disposto d’ufficio dal giudice per chiarire aspetti residui o incerti sui quali non mancano le prove, ma non risultino nemmeno pienamente provate le domande e le eccezioni delle parti;
  • Giuramento estimatorio: finalizzato a determinare l’ammontare di un credito o un valore economico (art. 2736 comma 2 c.c.). Ad esso si ricorre quando questa prova non può essere raggiunta altrimenti.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza di legittimità in particolare ha fornito negli anni importanti chiarimenti sull’istituto:

 Cassazione n. 3991/2024

“Il giuramento decisorio è una solenne dichiarazione di verità (quando si riferisce ad un fatto proprio del giurante) o di scienza (quando attiene alla conoscenza che il giurante abbia di un fatto altrui) circa lesistenza di un determinato fatto favorevole a chi lo presta, idoneo a far decidere la lite interamente o a definire un punto particolare della causa, nel caso in cui si riferisca ad uno dei momenti necessari delliter da seguire per la decisione e rispetto ai quali esso esaurisca ogni indagine”. 

Cassazione n. 14228/2023

“Il giuramento, decisorio o suppletorio che sia, non può vertere sull’esistenza o meno di rapporti o di situazioni giuridiche, né può deferirsi per provocare l’espressione di apprezzamenti od opinioni né, tantomeno, di valutazioni giuridiche, dovendo la sua formula avere ad oggetto circostanze determinate che, quali fatti storici, siano stati percepiti dal giurante con i sensi o con l’intelligenza (Cass. 25/10/2018, n.27086).”

Cassazione n. 18211/2020

“La valutazione in ordine all’ammissibilità e rilevanza del giuramento suppletorio ed estimatorio rientra nella discrezionalità del giudice di merito, e la omessa motivazione su tale discrezionale decisione non può essere invocata in sede di legittimità (Cass. n. 16157/2004; n. 9542/20 l 0)”. 

 

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falso ideologico

Il falso ideologico Falso ideologico: definizione del reato, normativa di riferimento, tipologie, aspetti procedurali e giurisprudenza

Cos’è il falso ideologico

Il falso ideologico si realizza quando un soggetto attesta in un documento, che non viene alterato dal punto di vista materiale, un contenuto che non corrisponde alla realtà.

Il falso ideologico può essere messo in atto da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio, ma anche da un privato quando si attesta no o si certificano falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, senza alterare materialmente il documento. In altre parole, il documento è autentico nella sua forma, ma contiene informazioni non veritiere.

Esempio tipico è quello di un pubblico ufficiale che redige un verbale falso, attestando la presenza di una persona a un evento cui non ha partecipato, o che certifica come avvenuto un controllo mai effettuato. Il falso ideologico è uno dei reati contro la fede pubblica disciplinato da diversi articoli del Codice Penale.

Normativa di riferimento

Il reato di falso ideologico è regolato principalmente dagli articoli 476 e seguenti del Codice Penale. Le norme più rilevanti includono:

  • 479 c.p. (Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici): quando il pubblico ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente in un atto pubblico fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.
  • 480 c.p. (Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative): riguarda la falsa attestazione in certificati o autorizzazioni.
  • 481 c.p. (Falsità ideologica commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità): punisce chi, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, attesta falsamente in un certificato fatti dei quali l’atto deve provare la verità.
  • Art 483 c.p: (Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico): punisce il privato che attesta falsamente a un pubblico ufficiale  fatti dei quali l’atto deve provare la verità.

Come si configura il reato

Perché il reato di falso ideologico si configuri, è necessario che sussistano alcuni elementi:

  • Soggetto attivo: Il reato può essere commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni e dal privato.
  • Atto pubblico: Deve trattarsi di un atto pubblico destinato a provare fatti giuridicamente rilevanti, come verbali, certificati o autorizzazioni.
  • Falsità ideologica: La falsità riguarda il contenuto dell’atto, non la sua forma o la sua esistenza materiale. Il documento è autentico, ma il contenuto è falso.
  • Dolo: Il reato richiede il dolo generico, ossia la consapevolezza e la volontà di attestare il falso.

Come viene punito il falso ideologico

La pena per il falso ideologico varia in base alla gravità e al tipo di atto falsificato:

  • Falso ideologico in atti pubblici (art. 479 c.p.): reclusione da 1 a 6 anni.
  • Falso ideologico in certificati amministrativi (art. 480 c.p.): reclusione da tre mesi a due anni.
  • Falso ideologico commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 c.p.): reclusione fino a un anno e con la multa da 51 a 516 euro.
  • Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.): reclusione fino a due anni. Se le false attestazioni riguardano gli atti dello stato civile: reclusione non inferiore a tre mesi. 

Aspetti procedurali del reato

Il reato di falso ideologico rappresenta una grave violazione della fiducia pubblica nei confronti dei documenti e degli atti ufficiali. La normativa italiana disciplina in modo rigoroso questo delitto, prevedendo pene severe per i pubblici ufficiali e i privati che commettono questo reato. La giurisprudenza ha progressivamente ampliato la definizione di falso ideologico, includendo anche le omissioni e le dichiarazioni reticenti. Essendo un reato perseguibile d’ufficio, l’azione penale si attiva automaticamente quando emergono elementi di falsità in atti pubblici.

  • Azione penale: il reato di falso ideologico è procedibile d’ufficio, quindi non è necessaria una querela da parte della vittima per l’avvio delle indagini.
  • Competenza territoriale: la competenza territoriale è generalmente del tribunale del luogo dove l’atto falso è stato redatto o ha prodotto i suoi effetti.
  • Misure cautelari: in caso di gravi indizi, possono essere applicate misure cautelari personali, come la sospensione dallesercizio della funzione pubblica.
  • Prescrizione: il termine di prescrizione per il falso ideologico segue le regole di cui all’ 157 c.p che, per l’estinzione del reato, prevede un termine non inferiore a sei anni.

Giurisprudenza sul falso ideologico

La giurisprudenza ha chiarito vari aspetti applicativi dei diversi reati di falso ideologico:

Cassazione n. 2477/2025: “il falso ideologico è configurabile anche in atti a contenuto dispositivo (ossia in quegli atti, come la sentenza, che si sostanziano non in una rappresentazione o descrizione di un fatto, ma in una manifestazione di volontà), investendo la falsità, in queste ipotesi, le attestazioni, anche implicite, contenute nel documento e i presupposti di fatto giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva dell’atto medesimo (Sez. U., n. 35488 del 28/06/2007; Sez. U, n. 1827 del 03/02/1995).

Cassazione n. 33056/2024: “integra il reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.) e non il reato di falsità ideologica in certificati amministrativi (art. 480 cod. pen.), la condotta del dipendente comunale che, in qualità di tecnico municipale e di direttore dei lavori, attesti falsamente l’ultimazione e l’esecuzione dei lavori in conformità alle prescrizioni contrattuali, considerato che dette attestazioni non costituiscono giudizio di valore, puramente soggettivo, ma giudizi del tutto oggettivi e tecnici, vincolati al progetto approvato e preordinati a controllarne la regolare e fedele esecuzione.”

Cassazione n. 45369/2024: “delitto di falso ideologico commesso da privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.) … ha natura di reato di pura condotta, sicché il relativo perfezionamento prescinde dal conseguimento di un eventuale ingiusto profitto che, anzi, qui costituisce un’aggravante.”

Cassazione n. 43299/2024: “… le false attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia (DIA) integrano il reato di falsità ideologica ex art. 481 cod. pen., in quanto detta relazione ha natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull’area o sull’immobile interessati dall’intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all’attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.”

 

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diritto di accesso

L’avvocato ha diritto di accesso alle intercettazioni La Cassazione rammenta che il difensore ha diritto di accesso ai supporti magnetici o informatici contenenti le intercettazioni telefoniche e ambientali

Diritto di accesso alle intercettazioni

L’avvocato ha il diritto di accesso ai supporti magnetici o informatici contenenti la registrazione delle conversazioni intercettate, soprattutto quando queste costituiscono la base per l’adozione di una misura cautelare. Questo quanto ribadito dalla sesta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 6529/2025.

La vicenda giudiziaria

Nel caso in esame, a seguito del rigetto da parte del tribunale di Roma della richiesta di riesame proposta da un imputato avverso l’ordinanza del Gip che aveva applicato nei suoi confronti la misura della custodia cautelare in carcere, il difensore dell’uomo proponeva ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

Il ricorso

In particolare, l’avvocato eccepiva la violazione dell’art. 273 cod. proc. pen, e la nullità dell’ordinanza impugnata, e della stessa ordinanza genetica, in ragione della lesione del diritto di difesa conseguente all’intempestiva messa a disposizione dei supporti delle intercettazioni telefoniche e ambientali. L’udienza del procedimento di riesame veniva celebrata, infatti, senza che il difensore avesse avuto la possibilità di ascoltare le intercettazioni a causa dell’ingiustificato lasso di tempo decorso tra la concessione dell’autorizzazione da parte del pubblico ministero e l’effettiva messa a disposizione dei supporti.

Ciò, a suo avviso, avrebbe leso il diritto di difesa del ricorrente, pregiudicando l’accesso alla copia dei supporti informatici delle intercettazioni eseguite. La violazione del diritto di difesa comporterebbe, a causa dell’inutilizzabilità delle intercettazioni, l’integrale caducazione dell’ordinanza cautelare, che, sulle stesse, si fonda.

L’avvocato deduceva, inoltre, la nullità e l’inutilizzabilità delle intercettazioni, in quanto le stesse non erano state tempestivamente messe a disposizione della difesa.

Diritto di accesso alle intercettazioni

La Suprema Corte, esaminando il ricorso, ritiene che vada rigettato. Innanzitutto, dalla S.C. esaminano le norme e la giurisprudenza in materia e affermano che “la Corte costituzionale, con la sentenza n. 36 del 2008, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 268 del codice di procedura penale, nella parte ni cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate”. In questa pronuncia la Consulta ha affermato che “l’ascolto diretto delle conversazioni o comunicazioni intercettate non può essere surrogato dalle trascrizioni effettuate, senza contraddittorio, dalla polizia giudiziaria – e che – la tutela del diritto di difesa, in relazione ad una misura restrittiva della libertà personale già eseguita, impone che ai difensori sia riconosciuto il diritto incondizionato ad accedere, su loro istanza, alle registrazioni poste a base della richiesta del pubblico ministero”.

L’art. 293 comma 3 c.p.p.

L’art. 293, comma 3, cod. proc. pen., nella formulazione vigente, modificata dall’art. 3, comma 1, lett. g), d.lgs. 29 dicembre 2017 n. 216, continuano gli Ermellini, sancisce che “il difensore ha diritto di esaminare e di estrarre copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate di cui all’articolo 291, comma 1. Ha in ogni caso diritto alla trasposizione, su supporto idoneo alla riproduzione dei dati, delle relative registrazioni”. In applicazione di questi principi, la giurisprudenza di legittimità, ha statuito che, “a seguito dell’adozione della misura cautelare, il difensore ha diritto di ottenere l’accesso ai supporti magnetici o informatici contenenti la registrazione delle conversazioni captate, anche mediante l’ascolto delle tracce foniche, in vista del giudizio di riesame e senza che l’istanza debba essere ulteriormente circoscritta mediante l’indicazione dei RIT di riferimento (Sez. 6, n. 26447 del 14/04/2021; Sez. 3, n. 10951 del 17/01/2019)”.

Nullità a regime intermedio

Invero, “l’illegittima compressione del diritto di difesa, derivante dal rifiuto o dall’ingiustificata omissione o ritardo del pubblico ministero nel consentire al difensore detto ascolto, dà luogo a una nullità di ordine generale a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178, lett. c), cod. proc. pen., in quanto determina un vizio nel procedimento di acquisizione della prova che, pur non inficiando li risultato probatorio, ne impedisce l’utilizzo in fase cautelare (Sez. U, n. 20300 del 22/4/2010; Sez. 6, n. 26447 del 14/04/2021)”.

La decisione della Cassazione

Nel caso di specie, tuttavia, ritengono da piazza Cavour, il Tribunale del riesame ha fatto corretta applicazione della disposizione di cui all’art. 293 cod. proc. pen., in quanto ha rilevato che il Pubblico Ministero ha autorizzato tempestivamente il difensore ad ottenere copia dei supporti informatici delle intercettazioni eseguite. Il difensore, peraltro, non ha chiarito perché, una volta autorizzato dal PM, non si sia recato prontamente presso la sede dell’ufficio, anche a mezzo di collaboratori delegati per l’incombente, e non già nel primo pomeriggio (atteso che l’udienza di riesame era fissata per il lunedì mattina successivo, il materiale informatico era copioso, e che vi era il rischio della chiusura pomeridiana dell’ufficio).

Infine, quanto alla nullità e inutilizzabilità delle intercettazioni, poiché non sono state tempestivamente messe a disposizione della difesa, anche in tal caso, il motivo è infondato, giacché “non è stato dimostrato il presupposto di tale eccezione, costituito dalla tardiva mesa a disposizione in favore del difensore dei supporti delle intercettazioni telefoniche e ambientali eseguite”.

Alla stregua di tali rilievi, il ricorso, pertanto, è rigettato.

 

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Furto d’uso: connessione internet fraudolenta L’utilizzo di una connessione ad Internet fraudolenta può essere sussunta nella fattispecie di furto d’uso?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

Integra furto d’uso la condotta di chi utilizza in modo fraudolento la connessione Internet intestata ad un altro soggetto. Nel momento in cui attraverso l’allaccio abusivo al box telefonico della persona offesa, l’imputato utilizza la connessione Internet che a tale linea fa capo, utilizza detto bene sottraendolo dalla disponibilità del titolare, il quale non riesce difatti a navigare. Pertanto, è evidente, in ragione della non riconducibilità al concetto di energia della connessione Internet, la perfetta corrispondenza del paradigma del furto d’uso di linea telefonica (Cass., sez. I, 15 novembre 2024, n. 42127).

La presente analisi della Corte di legittimità riguarda la sussunzione o meno di un utilizzo fraudolento ad una connessione Internet nelle maglie della fattispecie del furto d’uso (art. 626 c.p.).

Nel confermare la qualifica data dai precedenti gradi di giudizio, la Corte riprende la ricostruzione logico – sistematica fornita dalla Corte d’Appello; in particolare, nell’unico motivo di doglianza presentato dal difensore dell’imputato veniva contestata l’estensione della giurisprudenza in materia di peculato d’uso per l’utilizzo di apparecchiature telefoniche di servizio alla fattispecie in esame. Lo stesso contestava che la connessione Internet, connessione caratterizzata dal pagamento di un canone mensile non legato al consumo effettivo, potesse rientrare nella nozione di energia ex art. 624, comma 2 c.p. e conseguentemente essere oggetto di appropriazione, sottrazione o detenzione.

La Corte confermava la definizione fornita dalla Corte d’Appello di linea telefonica sulla base dei principi forniti nella sentenza Cass. pen., Sez. Un., 2 maggio 2013, n. 19054 (cd. Vattani) in materia di peculato d’uso e utilizzo del telefono d’ufficio per ragioni personali. La connessione Internet, infatti, non risultava per la Corte suscettibile di una condotta appropriativa e non poteva, pertanto, essere oggetto di furto, non rientrando nella nozione di energia, ma solo di furto d’uso. Si evidenziava come, nonostante non si fosse verificato alcun danno economicamente apprezzabile stante i costi in misura fissa, si fossero comunque verificati una serie di disagi, dati dall’impossibilità per la persona offesa di connettersi alla rete. In particolare, nel richiamo tratto dalla sentenza cd. Vattani, le energie suscettibili di condotta appropriativa ex art. 624 c.p. sono solo quelle possedenti una forza misurabile in denaro e che vengono captate dall’uomo mediante l’apprestamento di mezzi idonei, così da essere impiegate a fini pratici. Non è questo il caso: tali energie non possono essere oggetto di appropriazione, non preesistendo, ma vengono prodotte all’attivazione della connessione, propagandosi. Pertanto, è consequenziale la loro rispondenza al requisito previsto. Tali principi sono stati, poi, ripresi in materia di connessione a rete Internet dalle sentenze Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 2014, n. 50944 e Cass. pen., sez. VI, 2 luglio 2013, n. 34524.

Alla luce della perfetta sovrapponibilità tra le due condotte materiali e una differenza solo in merito al soggetto – agente della condotta, i principi fino ad ora descritti in materia di peculato d’uso venivano ritenuti dai giudici di merito estendibili alla fattispecie del furto d’uso. A fortiori, veniva citata testualmente la stessa sentenza Vattani “Quanto in particolare al peculato d’uso, si osserva che tale figura replica strutturalmente lo schema del furto d’uso, mirando, da un lato, ad arginare arbitrarie dilatazioni interpretative del peculato comune e, dall’altro, a reprimere condotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, con un temperamento del trattamento sanzionatorio in relazione al minor disvalore del fatto” (Cass. pen., Sez. Un., 2 maggio 2013, n. 19054). Si rammenti, inoltre, che per sua definizione codicistica il furto d’uso si contraddistingue per lo scopo di fare un uso momentaneo della cosa per poi essere immediatamente restituita, condotta perfettamente sovrapponibile a quella del peculato d’uso. Inoltre, le energie che si sviluppano da una connessione Internet non sono suscettibili di sottrazione: ad essere oggetto della condotta materiale è la linea telefonica in quanto mezzo attraverso il quale si realizza la connessione. Per questi motivi, la condotta tenuta dall’imputato veniva ritenuta perfettamente sussumibile nella fattispecie astratta del furto d’uso, considerando anche le modalità di allaccio e le conseguenze di tale condotta.

 

(*Contributo in tema di “Furto d’uso: connessione internet fraudolenta”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Rimborso spese processuali per chi chiama in giudizio ingiustamente Scatta il rimborso spese processuali per chi chiama in giudizio un soggetto non necessario. Il principio stabilito dalla Cassazione

Rimborso spese processuali

Scatta il rimborso spese processuali per chi chiama in giudizio un soggetto non necessario. Con l’ordinanza n. 28019/2024, la Corte di Cassazione, Sezione III, ha chiarito che l’ingiustificata evocazione in giudizio di un soggetto comporta l’obbligo, per la parte risultata soccombente, di rimborsare le spese sostenute da quest’ultimo per la propria costituzione e difesa.

La vicenda

La vicenda riguardava delle polizze fideiussorie delle quali si contestava la nullità delle appendici di obbligazione accessorie per falsità della firma. Parte attrice citava in giudizio la compagnia assicurativa e tutti i coobbligati, chiedendo accertarsi l’inesistenza dell’obbligazione principale nei confronti della compagnia stessa e di quella eventuale di regresso verso gli altri (asseriti) coobbligati. Si costituiva in giudizio uno dei coobbligati rilevando che le polizze, sebbene contemplassero il suo nominativo, non recavano la sua firma e chiedeva il rigetto delle domande, sollevando eccezione di difetto di legittimazione passiva.

La questione approdava innanzi al Palazzaccio dove si lamentava tra l’altro, violazione del principio di soccombenza e causalità atteso che le spese di lite avrebbero dovuto essere poste a carico di parte attrice e/o della parte convenuta, anche in solido tra di loro.

Disciplina spese processuali

La S.C., per ragioni di ordine logico, esamina prioritariamente tale doglianza ritenendola fondata e meritevole di accoglimento.

In proposito, affermano da piazza Cavour, “va richiamato in tema di disciplina delle spese processuali il principio affermato in via generale, secondo cui la soccombenza costituisce un’applicazione del principio di causalità in virtù del quale non è esente da onere delle spese la parte che, col suo comportamento antigiuridico (in quanto trasgressivo di norme di diritto sostanziale), abbia provocato la necessità del processo”. Essa prescinde, pertanto, “dalle ragioni – di merito o processuali – che l’abbiano determinata e dal fatto che il rigetto della domanda della parte dichiarata soccombente sia dipeso dall’avere il giudice esercitato i suoi poteri officiosi (Cass. n. 21823/2021)”.

Nella stessa prospettiva, è stato altresì evidenziato che “l’ingiustificata o comunque non necessaria evocazione in giudizio di un soggetto, anche se non destinatario di alcuna domanda, impone alla parte che l’abbia effettuata, ove sia risultata soccombente, di rimborsare al chiamato le spese processuali sostenute in funzione della costituzione e difesa nel giudizio medesimo”. Atteso che, “ove questi non scelga di restare contumace (assumendo il rischio di provvedimenti pregiudizievoli nei suoi confronti), la sua costituzione in giudizio a mezzo di un difensore (con i consequenziali oneri economici) trova il proprio presupposto nel fatto stesso di essere stato evocato in giudizio, e non già in quello di essersi vista indirizzare una specifica domanda (Cass. 36182/2022)”.

La decisione

La Corte d’appello, nella decisione impugnata, non si è posta in conformità ai ricordati principi, osserva la S.C.

Invero, “va precisato che a norma dell’art. 91 c.p.c. non rileva, ai fini della pronuncia sulle spese, ‘l’interesse’ ad agire evocato dalla corte di merito nella motivazione sopra riportata, bensì la soccombenza, intesa quale situazione processuale che si determina allorquando le domande proposte in giudizio da una parte non siano state accolte, totalmente o parzialmente, anche per motivi diversi dal merito”.

Pertanto, il vizio denunciato sussiste, “tenuto conto che risultano violati, nel senso sopra ricordato, il principio di soccombenza e quello di causalità, dal momento che è stata la parte attrice e la parte convenuta, attraverso le loro rispettive condotte processuali, a provocare la necessità del giudizio”.

Dall’accoglimento del secondo motivo, discende l’assorbimento del primo motivo. Il ricorso è accolto.

Allegati

apprendistato

Apprendistato: la guida Il contratto di apprendistato: definizione, normativa, funzionamento, novità della Legge 203/2024 e giurisprudenza

Il contratto di apprendistato

Il contratto di apprendistato è una forma di contratto di lavoro che combina l’attività lavorativa con la formazione professionale. Si tratta di uno strumento essenziale per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, permettendo loro di acquisire competenze specifiche attraverso un percorso formativo strutturato.

Definizione normativa

Il contratto è definito dall’art. 41 del D.Lgs. n. 81/2015, che lo inquadra come un rapporto di lavoro finalizzato alla formazione e alla qualificazione professionale del lavoratore. La peculiarità di questo contratto è la duplice natura: lavorativa e formativa. L’apprendista, infatti, svolge attività lavorative sotto la supervisione di un tutor, ma al contempo partecipa a percorsi di formazione teorica e pratica.

Normativa di riferimento

La disciplina generale del contratto è contenuta nel D.Lgs. n. 81/2015, parte integrante del Jobs Act. Tuttavia, la normativa è stata recentemente aggiornata con la Legge 203/2024, che ha introdotto novità significative per semplificare le procedure e ampliare la platea dei beneficiari.

Le principali fonti normative sono:

  • D.Lgs. n. 81/2015: disciplina organica del contratto di apprendistato.
  • Legge n. 203/2024: introduce modifiche sulla durata, sugli incentivi contributivi e sull’accesso all’apprendistato.
  • Circolari INPS e Ministero del Lavoro: forniscono chiarimenti operativi su aspetti contributivi e procedurali.

Tipologie di contratto di apprendistato

Il contratto di apprendistato si articola in tre principali tipologie:

  1. Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore
    • Rivolto ai giovani dai 15 ai 25 anni.
    • Finalizzato al conseguimento di un titolo di studio o di una qualifica professionale.
  1. Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere:
  • Destinato ai giovani dai 18 ai 29 anni (17 anni se in possesso di qualifica professionale).
  • Mira a fornire competenze tecnico-professionali specifiche.
  1. Apprendistato di alta formazione e ricerca
  • Per giovani dai 18 ai 29 anni, finalizzato al conseguimento di titoli universitari, dottorati o specializzazioni.

Come funziona l’apprendistato

Il contratto di apprendistato prevede:

  • Un piano formativo individuale che definisce le competenze da acquisire e che viene stabilito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva.
  • La presenza di un tutor o referente aziendale responsabile della formazione.
  • Una parte teorica e una parte pratica, con un bilanciamento variabile a seconda del tipo di apprendistato.

Durata

La durata minima e massima del contratto varia in base alla tipologia:

  • Apprendistato per la qualifica: fino a 3 anni (4 per il diploma quadriennale).
  • Apprendistato professionalizzante: fino a 3 anni (5 per artigianato o mestieri complessi).
  • Apprendistato di alta formazione: la durata è concordata con le istituzioni scolastiche o universitarie.

Chi può accedere al contratto di apprendistato

Requisiti per l’apprendista:

  • Età: generalmente compresa tra i 15 e i 29 anni, con alcune eccezioni per categorie particolari.
  • Titoli di studio: in alcuni casi specifici, è richiesto il possesso di una qualifica professionale o titolo di studio.

Requisiti per il datore di lavoro

  • Le imprese devono garantire un ambiente di lavoro idoneo e la presenza di un tutor qualificato.
  • È necessario rispettare i limiti numerici sugli apprendisti in rapporto ai lavoratori qualificati.

Novità introdotte dalla Legge 203/2024

La Legge 203/2024 ha apportato alcune modifiche significative al contratto di apprendistato:

  • Snellimento delle pratiche burocratiche per l’attivazione del contratto.
  • Digitalizzazione del piano formativo individuale.
  • Riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro per i primi anni del contratto.
  • Agevolazioni fiscali per le imprese che stabilizzano gli apprendisti al termine del periodo formativo.
  • Introduzione della possibilità di svolgere parte della formazione teorica tramite piattaforme digitali, con standard qualitativi certificati.

Aspetti contributivi e fiscali

Questo contratto beneficia di un regime contributivo agevolato:

  • Contributi previdenziali ridotti a carico del datore di lavoro, variabili in base alla tipologia e alla durata del contratto.
  • Incentivi fiscali per le aziende che stabilizzano gli apprendisti al termine del contratto.

Secondo l’INPS, le modifiche introdotte dalla Legge 203/2024 prevedono una ulteriore riduzione dei contributi per le piccole e medie imprese nei primi due anni di apprendistato.

Giurisprudenza rilevante sull’apprendistato

La giurisprudenza ha fornito chiarimenti su vari aspetti del contratto di apprendistato, soprattutto in merito alla sua corretta gestione e alle implicazioni in caso di irregolarità.

Cassazione n. 6704/2024: Per quanto concerne l’apprendistato (e analogamente il contratto di formazione-lavoro ex art. 3 del d.l. n. 726/1984, convertito con modifiche nella l.n. 863/19849, il quale risulta essere la forma più affine all’apprendistato professionalizzante), sia la dottrina prevalente sia la consolidata giurisprudenza di questa Corte convergono nel definire tale rapporto contrattuale come avente una causa mista. Infatti, in cambio della prestazione lavorativa, il datore di lavoro è tenuto sia a corrispondere una retribuzione sia a fornire un addestramento finalizzato all’acquisizione di una qualifica specifica.

Cassazione n. 30657/2024: Il contratto di apprendistato si fonda essenzialmente sullo scambio di formazione per una specifica mansione. Se il lavoratore non è idoneo a seguire tale percorso formativo, l’oggetto stesso del contratto perde di significato. Inoltre, il datore di lavoro, nell’ambito di un apprendistato, non può imporre all’apprendista compiti diversi da quelli stabiliti dal contratto, limitando così il proprio potere organizzativo. Diversamente dai contratti di lavoro ordinari, in cui esiste l’obbligo di ricercare mansioni compatibili con lo stato di salute del dipendente, nel contratto di apprendistato non sussiste tale dovere: il licenziamento per inidoneità fisica o psichica dell’apprendista è pertanto legittimo senza l’obbligo di procedere a una ricollocazione.

Cassazione n. 9286/2020: Nel contratto di apprendistato, l’elemento fondamentale è l’obbligo da parte del datore di lavoro di fornire un vero processo di addestramento professionale, volto all’acquisizione di una qualifica da parte del tirocinante. Di conseguenza, il valore predominante della formazione rispetto alle attività lavorative esclude che un contratto di apprendistato possa riguardare l’esecuzione di compiti meramente elementari o ripetitivi, privi di un adeguato supporto didattico sia teorico che pratico.

 

Leggi anche: Apprendistato duale: i chiarimenti Inps

diritto di superficie

Il diritto di superficie Il diritto di superficie: cos’è, come si costituisce, quando si estingue e cosa dice la giurisprudenza e differenze con l'usufrutto

Cos’è il diritto di superficie

Il diritto di superficie, disciplinato dall’articolo 952 del Codice civile, è un diritto reale che consente di costruire e mantenere una costruzione su un suolo di proprietà altrui. Si tratta di una figura giuridica molto utilizzata, soprattutto in ambito edilizio e nei piani di edilizia convenzionata.

In questo articolo vedremo cos’è, come si costituisce, quando si estingue, se è possibile vendere una casa costruita su un terreno in superficie e cosa afferma la giurisprudenza più recente in materia.

Definizione normativa: l’art. 952 del codice civile

L’art. 952 c.c. definisce il diritto di superficie: Il proprietario può costituire sul proprio suolo un diritto a costruire e mantenere al di sopra (o al di sotto) del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà”: 

In altre parole, il diritto di superficie:

  • scinde la proprietà del terreno da quella della costruzione;
  • consente al superficiario di diventare proprietario dell’edificio, pur non possedendo il suolo su cui è costruito.

Un esempio

Esempio pratico: un comune cede a un’impresa edilizia il diritto di superficie su un terreno per realizzare appartamenti in edilizia convenzionata. Gli acquirenti degli appartamenti diventano proprietari delle abitazioni, ma non del terreno, che rimane del comune.

Costituzione, vicende e peculiarità

Il diritto di superficie può essere costituito in due modi:

  1. Per atto volontario:

Contratto: tra il proprietario del terreno e il superficiario, da redigere per iscritto e da trascrivere poi nei registri immobiliari.

Testamento: il diritto può essere concesso tramite disposizioni testamentarie

  1. Per legge: In casi specifici come nei piani di edilizia convenzionata o per esigenze pubbliche.

Durata del diritto di superficie

  • A tempo determinato: in questo caso allo scadere del termine, l’edificio diventa proprietà del proprietario del suolo.
  • A tempo indeterminato: il diritto è perpetuo, salvo diversa previsione contrattuale.

Si può vendere una casa con diritto di superficie?

Sì, è possibile vendere un immobile costruito su un terreno con diritto di superficie, ma con alcune precisazioni:

  • l’acquirente acquista la proprietà dell’edificio, ma non del terreno, salvo il riscatto o l’affrancazione del diritto di superficie;
  • in caso di edilizia convenzionata, il prezzo di vendita è spesso vincolato dalle condizioni stabilite nella convenzione con il comune.

Cosa succede alla scadenza del diritto di superficie?

  • Se il diritto è stato acquisito a tempo determinato, la proprietà dell’edificio torna automaticamente al proprietario del suolo, salvo diversa pattuizione.
  • In alcuni casi, è invece possibile rinnovare il diritto o acquistare il terreno tramite affrancazione.

Quando si estingue il diritto di superficie

Il diritto può estinguersi per diverse cause.

  1. Scadenza del termine: se costituito per un periodo limitato, alla sua scadenza il terreno e la costruzione tornano al proprietario del suolo (accessione).
  2. Consolidazione: in questo caso il superficiario acquista la proprietà del terreno e il diritto di sola superficie si estingue.
  3. Rinuncia del superficiario al diritto in modo espresso o tacito.
  4. Perimento delledificio: se la costruzione cessa di esistere per eventi naturali o per demolizione, il diritto si estingue, a meno che non sia stato costituito a tempo indeterminato.

Come si trascrive

Per essere opponibile a terzi, il diritto di superficie deve essere trascritto nei registri immobiliari, con:

  • rogito notarile o atto pubblico;
  • registrazione presso l’Agenzia delle Entrate;
  • trascrizione nei Registri Immobiliari.

Come difendersi dalle contestazioni

Le principali cause di lite riguardano:

  • la durata del diritto: controversie sul termine di scadenza;
  • l’accessione: dispute sull’acquisizione della proprietà alla scadenza;
  • la vendita non conforme: contestazioni per mancata comunicazione dei vincoli.

Strategie difensive da mettere in atto:

  • dimostrare la regolarità dell’atto costitutivo;
  • verificare la trascrizione nei registri immobiliari;
  • richiedere la riduzione del prezzo in caso di vizi contrattuali (art. 1492 c.c.)

Diritto di superficie e edilizia convenzionata

A questo tipo di diritto si ricorre di frequente nei piani di edilizia convenzionata, in cui i comuni cedono il terreno per favorire la costruzione di immobili a prezzi calmierati.

Cosa sapere per acquistare un immobile in diritto di superficie:

  • controllare la convenzione: verificare i vincoli sul prezzo massimo di vendita e sull’uso dell’immobile;
  • verificare la durata: se il diritto ha una scadenza, conoscere le possibilità di rinnovo o affrancazione;
  • riscatto del diritto: alcuni comuni consentono di riscattare il terreno, trasformando il diritto di superficie in piena proprietà.

Giurisprudenza sul diritto di superficie

Negli ultimi anni, la Corte di Cassazione ha chiarito vari aspetti del diritto di superficie. Ecco alcune sentenze significative:

Cassazione n. 1752/2025

Il titolare del diritto di superficie, dopo aver ricostruito su un suolo altrui e trasferito la proprietà della costruzione, mantiene il diritto di sopraelevazione. Infatti, il nuovo lastrico resta di sua proprietà, indipendentemente dalla proprietà della costruzione stessa. Salvo eventuali limiti imposti dal titolo, il diritto di superficie non si esaurisce con la costruzione e il nuovo lastrico non diventa automaticamente condominiale. Sebbene, con la nuova costruzione, il titolare entri nel condominio per le parti comuni, il suo unico obbligo è garantire un tetto all’edificio, mantenendo comunque il diritto di sopraelevare, separato dalla proprietà della costruzione.

Cassazione n. 27293/2024

In materia di imposta di registro, la costituzione di un diritto di superficie su terreni agricoli non equivale a un trasferimento di proprietà, poiché il concedente mantiene la titolarità del fondo. Di conseguenza, non si applica l’aliquota del 15% prevista per i trasferimenti di terreni agricoli, ma quella relativa ai diritti reali di godimento, secondo la normativa vigente. La giurisprudenza conferma questa distinzione, imponendo un trattamento fiscale differenziato e escludendo l’applicazione delle norme sui trasferimenti di proprietà.

Cassazione n. 231981/2021

L’art. 952 c.c. consente al proprietario di concedere a terzi il diritto di costruire e mantenere un’opera su un suolo altrui, separandone la proprietà da quella del terreno. Il concedente deve permettere la costruzione e non pregiudicarla, mentre il superficiario acquisisce il diritto di realizzare e possedere l’opera. Il diritto può avere un termine (art. 953 c.c.), dopo il quale il proprietario del suolo riacquista la costruzione, salvo accordi diversi. In alternativa, un contratto di locazione (art. 1571 c.c.) può concedere l’uso del suolo e permettere la costruzione di manufatti, con eventuale rimozione a fine contratto.

Differenze con il diritto di usufrutto

Aspetto Diritto di superficie Usufrutto
Oggetto Facoltà di costruire e mantenere un edificio su suolo altrui Diritto di godimento di un immobile altrui
Proprietà dell’immobile Al superficiario Rimane al nudo proprietario
Durata Determinata o indeterminata Determinata o vita natural durante
Possibilità di vendita Sì, l’edificio può essere venduto separatamente Si può cedere solo l’usufrutto
Estinzione Scadenza, perimento o consolidazione Scadenza o morte dell’usufruttuario

 

 

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