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Sindacato giudiziale e legittimazione processuale associazioni Qual è l’ubi consistam della legittimazione processuale delle associazioni collettive? E in che termini si estende il sindacato giudiziale sui provvedimenti amministrativi espressione di potere discrezionale tecnico?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

La legittimazione processuale delle organizzazioni collettive si fonda su un processo di differenziazione dell’interesse diffuso mediante l’attribuzione della sua titolarità ad un ente collettivo. Questo avviene attraverso un riconoscimento legislativo espresso ovvero alla stregua di una previsione legislativa implicita (cd. doppio binario), la quale postula la ricorrenza dei seguenti requisiti cumulativi, sintomatici della concreta rappresentatività: i) l’ente persegua il soddisfacimento dell’interesse ambientale che sia stabilito dallo statuto; ii) l’ente presenti un’organizzazione stabilmente finalizzata a tutelare tale interesse; iii) l’interesse diffuso abbia connotati di sostanziale “omogeneità” tra i soggetti che compongono la “comunità, attraverso l’incidenza su una certa area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso.

Il sindacato giudiziario sui provvedimenti amministrativi espressione di discrezionalità tecnica non può spingersi fino ad individuare, tra quelle egualmente opinabili, la soluzione adatta al caso concreto e deve limitarsi a valutare gli apprezzamenti dell’amministrazione sotto i profili dell’illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento dei fatti. – TAR Firenze, sez. II, 14 novembre 2022, n. 1303.

Con la pronuncia n. 1303 dello scorso 14 novembre, il TAR Firenze ha affermato che non sussiste il difetto di giurisdizione allorché si faccia valere non un diritto soggettivo alla tutela della salute, bensì il loro interesse legittimo al corretto esercizio del potere da parte delle Amministrazioni intimate nella fattispecie in esame.

La contestazione non cade su un agire amministrativo direttamente impattante su un diritto soggettivo asseritamente leso, ma afferisce all’esercizio di attribuzioni pubblicistiche, a fronte delle quali la posizione dedotta in giudizio è quella dell’interesse legittimo.

Nel caso di specie, l’azione amministrativa si è svolta attraverso un procedimento, con spendita di discrezionalità, culminante in provvedimenti, conformativi e non meramente accertativi di una situazione fattuale, essendo essi creatori del fatto e non dichiarativi della sua esistenza, ai fini della produzione delle conseguenze legislativamente previste. Nel dettaglio, nella fattispecie in contestazione si controverte della legittimità o meno del decreto regionale di autorizzazione ambientale nonché del permesso di costruire rilasciati in favore della società controinteressata ed impugnati da un’associazione ambientalista).

In punto di legittimazione processuale delle organizzazioni collettive, poi, la Corte rileva che essa si fonda su un processo di differenziazione dell’interesse diffuso mediante l’attribuzione della sua titolarità ad un ente collettivo.

Questo avviene attraverso un riconoscimento legislativo espresso ovvero alla stregua di una previsione legislativa implicita (cd. doppio binario), la quale postula la ricorrenza dei seguenti requisiti cumulativi, sintomatici della concreta rappresentatività: i) l’ente persegua il soddisfacimento dell’interesse ambientale che sia stabilito dallo statuto; ii) l’ente presenti un’organizzazione stabilmente finalizzata a tutelare tale interesse; iii) l’interesse diffuso abbia connotati di sostanziale “omogeneità” tra i soggetti che compongono la “comunità, attraverso l’incidenza su una certa area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso.

Occorre, altresì, che l’attività del comitato si sia protratta nel tempo e che, quindi, il comitato non nasca in funzione dell’impugnativa di singoli atti e provvedimenti.

Infine, con riguardo al sindacato giudiziale in merito ai provvedimenti amministrativi espressivi di un potere discrezionale tecnico, i Giudici fiorentini, richiamando la pacifica giurisprudenza sul punto, sostengono che: “In presenza di provvedimenti espressivi di discrezionalità tecnica, che, per definizione, non implicano, una comparazione tra l’interesse pubblico e gli interessi secondari, bensì l’applicazione di scienze tecniche al caso concreto, il controllo giudiziario si estende anche all’attendibilità delle operazioni effettuate”. La valutazione riguarda sia il profilo della correttezza del criterio tecnico individuato dall’amministrazione sia quello della correttezza del procedimento seguito per la sua applicazione e si giustifica sulla base della distinzione tra la “opinabilità”, che caratterizza le valutazioni tecniche, e la “opportunità” che connota invece le scelte di merito.

La valutazione effettuata dall’Amministrazione, quindi, non può essere sostituita da quella del giudice.

Il sindacato giudiziario non può infatti spingersi fino ad individuare, tra quelle egualmente opinabili, la soluzione adatta al caso concreto e deve limitarsi a valutare gli apprezzamenti dell’amministrazione sotto i profili dell’illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento dei fatti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2022, n. 7799;
Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2022, n. 4522;
Cons. Stato, sez. V, 28 marzo 2022, n. 2269;
Cons. Stato, sez. IV, 1° marzo 2022, n. 1445;
Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2022, n. 530;
TAR Firenze, sez. II, 23 marzo 2022, n. 372;
TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 5 luglio 2021, n. 208;
TAR Liguria, sez. II, 10 febbraio 2017, n. 95;
TAR Bari, sez. I, 29 settembre 2011, n. 1665
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Sindacato giudiziale nell’anomalia dell’offerta Come si esprime il sindacato giudiziale in materia di anomalia dell’offerta?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Ciò che rileva in sede di gara è solo l’attendibilità del prezzo, tale da rendere l’offerta proposta certa e affidabile. Questo si giustifica in ragione della peculiare natura del giudizio di anomalia, il quale è espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile, come tale, solo in caso di manifesta erroneità, irragionevolezza, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, ed ha carattere globale e sintetico. – TAR Napoli, sez. I, 1° dicembre 2022, n. 7510.

Con la decisione dello scorso 1° dicembre, la I Sezione del TAR Napoli si è – ancora una volta – interrogata in merito al sindacato giudiziale in materia di anomalia dell’offerta, statuendo che nel giudizio di anomalia dell’offerta, il momento comparativo non può fondarsi sulla sola circostanza che i preventivi richiesti ad altri fornitori per i medesimi prodotti prevedano prezzi più elevati di quelli ottenuti dalla controinteressata.

La determinazione del prezzo dei materiali è anche il risultato di peculiari rapporti commerciali tra il fornitore e il cliente, il quale è in grado di spuntare condizioni particolarmente favorevoli non replicabili con altri imprenditori.

Ciò che rileva in sede di gara è solo l’attendibilità del prezzo, tale da rendere l’offerta proposta certa e affidabile; aspetto che alla luce delle verifiche della Commissione, non può essere messa in discussione.

Questo si giustifica in ragione della peculiare natura del giudizio di anomalia, il quale è espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile, come tale, solo in caso di manifesta erroneità, irragionevolezza, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, ed ha carattere globale e sintetico, sicché la sua impugnazione non può essere improntata alla “caccia all’errore” su singole voci di costo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    TAR Milano, sez. I, 6 giugno 2022, n. 558;
TAR Napoli, sez. IV, 26 aprile 2022, n. 2835
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Sindacato giudice amministrativo e potere discrezionale della PA Qual è l’ambito del sindacato del G.A. nelle ipotesi di potere discrezionale tecnico dell’Amministrazione?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a definire la fattispecie sostanziale, senza tuttavia che si possa riconoscere un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.

Allorquando difettano i parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non deduce ma valuta se la decisione pubblica rientri o meni nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di mettere seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato. – Cons. Stato, sez. VI, 5 dicembre 2022, n. 10624.

Con la presente pronuncia il Consiglio di Stato torna ad occuparsi dell’ambito del sindacato del G.A. nelle ipotesi di esercizio del potere discrezionale tecnico da parte dell’Amministrazione.

Primariamente i Giudici affermano che, a differenza delle scelte politico-amministrative (cd. discrezionalità amministrativa) – dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ragionevole ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme – le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (cd. discrezionalità tecnica) vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro della attendibilità tecnico-scientifica.

In alcune ipotesi normative, il fatto complesso viene preso in considerazione nella sua dimensione oggettiva di fatto “storico”: qui gli elementi descrittivi della fattispecie, anche quelli valutativi e complessi, vanno accertati in via diretta dal giudice amministrativo, in quanto la sussunzione delle circostanze di fatto nel perimetro di estensione logica e semantica dei concetti giuridici indeterminati costituisce un’attività intellettiva ricompresa nell’interpretazione dei presupposti della fattispecie normativa (come avviene, ad esempio, nel caso di sanzioni amministrative punitive dove, in virtù del principio di stretta legalità, spetta al giudice estrapolare la norma “incriminatrice” dalla disposizione). In altre parole, invece, la fattispecie normativa considera gli elementi che rinviano a nozioni scientifiche e tecniche controvertibili o non scientificamente verificabili, non come fatto “storico” (nel senso sopra precisato), bensì come fatto “mediato” dalla valutazione casistica e concreta delegata all’Amministrazione. In quest’ultimo caso, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a definire la fattispecie sostanziale, senza tuttavia che si possa riconoscere un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.

Infine, la Corte afferma che allorquando difettano i parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non deduce ma valuta se la decisione pubblica rientri o meni nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato – oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali strumentali alla tutela della propria posizione giuridica e gli indici di eccesso di potere – contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di mettere seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2022, n. 3570;
Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990
Difformi:      Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2022, n. 2697; Id., 27 gennaio 2022, n. 563;
Id., 11 gennaio 2022, n. 81
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Sfruttamento dei lavoratori e confisca del profitto In base a quali parametri si valuta l’applicazione della confisca del profitto derivante dal delitto di cui all’art. 603bis del Codice Penale in tema di illecito sfruttamento dei lavoratori?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Il reato di sfruttamento dei lavoratori costituisce un cd. “reato contratto” (e non “in contratto”), trattandosi di un rapporto di lavoro intrinsecamente illecito (come tale nullo e non semplicemente annullabile), con la conseguenza che, nella specie, deve trovare applicazione il condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui dal profitto confiscabile non si possono detrarre i costi derivanti dal rapporto di lavoro illecito. – Cass. pen., sez. IV, 16 novembre 2022, n. 43470.

Il delitto di cui all’art. 603bis cod. pen. punisce le condotte, distorsive del mercato del lavoro, di reclutamento e intermediazione, le quali, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, sono caratterizzate dallo sfruttamento di questi ultimi anche mediante violenza o minaccia.

Avendo come obiettivo politico-criminale la repressione del fenomeno del “caporalato”, la norma colpisce il “reclutamento”, ossia il complesso delle operazioni con le quali si provvede alla selezione di manodopera lavorativa. Il reclutatore sanzionato, id est il caporale, svolge un’attività di vera e propria intermediazione fra i prestatori d’opera e il datore di lavoro. A connotare la condotta criminosa è l’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, scegliendo per la raccolta dei prodotti agricoli nelle campagne sia immigrati talvolta irregolari sia cittadini con difficoltà economiche.

Sono molteplici gli indici presuntivi dello sfruttamento fissati dalla disposizione: sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o sproporzionato rispetto a quantità e qualità del lavoro svolto; reiterata violazione della normativa sull’orario di lavoro, riposo settimanale e ferie; inosservanza della normativa in materia di sicurezza e igiene; sottoposizione del lavoratore a condizioni particolarmente degradanti e metodi di sorveglianza.

Costituiscono, inoltre, aggravanti: il reclutamento di un numero di lavoratori superiore a tre; l’età non lavorativa dei soggetti; l’esposizione dei lavoratori a grave pericolo.

Si evince dai tratti qualificanti della fattispecie delittuosa che si tratta di un “reato contratto” in cui il “pactum sceleris” è penalmente stigmatizzato: il disvalore è concentrato sulla conclusione del contratto. Non può, dunque, rientrare nella categoria dei “reati in contratto” in cui la legge sanziona non il fatto dell’accordo, bensì il comportamento violento o fraudolento, tenuto dal reo durante la stipulazione del contratto.

Con riferimento al profitto del reato, occorre innanzitutto chiarire che esso va inteso quale “vantaggio di natura economica”, “beneficio aggiunto di natura patrimoniale, “utile conseguito dall’autore del reato in seguito alla commissione del reato”.

Per consolidata giurisprudenza, la confisca del profitto, la quale risponde a esigenze di giustizia e di prevenzione generale e speciale, può essere applicata in base al criterio discretivo della pertinenzialità al reato del profitto stesso e non, invece, secondo parametri valutativi di tipo aziendalistico.

I giudici di legittimità hanno tracciato una distinzione marcata fra profitto conseguente a un “reato contratto” e quello derivante da un “reato in contratto”.

Nel caso del profitto afferente a un “reato contratto”, qual è l’art. 603bis cod. pen., “si determina un’immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca”.

Nella diversa ipotesi del profitto del “reato in contratto”, si è stabilito invece che “è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, adita con ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame, ha annullato tale provvedimento con cui il profitto confiscabile del reato di cui all’art. 603bis cod. pen. è stato calcolato tenendo conto della nozione aziendalistica di profitto netto. Il giudice del riesame, dall’importo complessivo dei vantaggi economico-patrimoniali derivanti dal delitto commesso da un imprenditore agricolo ha, infatti, detratto l’importo totale dei presunti costi sostenuti per la retribuzione dei lavoratori assunti illecitamente.

Sicché, il Tribunale del riesame dovrà attenersi ai principi di diritto indicati dai giudici di legittimità nella determinazione del profitto confiscabile: “il profitto derivante dall’illecito sfruttamento dei lavoratori è conseguenza immediata e diretta del reato ed è, pertanto, interamente assoggettabile a confisca, indipendentemente dai costi sostenuti per la consumazione del reato, per definizione estranei alla nozione (penalistica e non aziendalistica) di profitto che qui rileva”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 9988; Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008, n. 26654; Cass. pen., S.U., 24 maggio 2004, n. 29951; Cass. pen., S.U., 25 ottobre 2005, n. 41936
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Concorso anomalo nel furto e rapina impropria Come si atteggia il concorso anomalo rispetto al furto che si sviluppa nella rapina impropria?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

L’eventuale uso di violenza o minaccia da parte di uno dei concorrenti nel reato di furto per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità costituisce il diverso reato di rapina quale logico e prevedibile sviluppo della condotta finalizzata alla commissione del furto, avendo il reo, unitamente al proprio complice, usato un’energia fisica che ha limitato la persona offesa nei propri movimenti, consentendo – quale effetto – l’impossessamento definitivo del bene alla medesima sottratto. – Cass. pen., sez. II, 15 novembre 2022, n. 43424.

Nel concorso anomalo, disciplinato dall’art. 116 del Codice penale, taluno dei concorrenti, nell’eseguire un programma criminoso o un accordo, pone in essere un reato differente da quello concordato o voluto dagli altri correi.

Dalla norma si evincono due profili. Da un lato, emergono la consapevolezza e la volontà di concorrere con altri nella realizzazione del reato che era oggetto dell’accordo; non si configura, quindi, responsabilità qualora il concorrente versi in errore sul fatto rispetto al reato stabilito inizialmente. Dall’altro lato, sussiste il nesso di causalità tra la condotta attiva od omissiva e il differente reato realizzato.

È stata, peraltro, superata quella parte di dottrina che inquadrava il concorso anomalo nell’alveo della responsabilità oggettiva, secondo cui si estendeva al concorrente la responsabilità a titolo di dolo per il reato non voluto sulla base del solo nesso materiale tra l’azione od omissione del soggetto che volle il reato meno grave e l’evento diverso posto in essere da un altro concorrente.

La tesi prevalente, al contrario, afferma che la norma in esame risponde al principio di colpevolezza in ragione della causalità psichica, la quale giustifica l’imputazione del reato diverso a coloro che non lo vollero. Si tratta di un requisito che non si ricava dalla formulazione letterale della disposizione, poiché è stato introdotto in via interpretativa.

In particolare, l’adesione psichica va intesa quale nesso psicologico in termini di prevedibilità del più grave reato commesso da parte del compartecipe: nella psiche dell’agente, cioè, il reato diverso e più grave può astrattamente rappresentarsi come sviluppo logicamente e concretamente prevedibile di quello voluto.

Occorre, pertanto, valutare la prevedibilità in concreto dell’evento diverso non voluto attraverso un giudizio ex post che analizzi sia le modalità concrete ed effettive di esecuzione del reato sia altre circostanze del fatto ritenute rilevanti. In tale prospettiva, la responsabilità è qualificata come “anomala”, in quanto il ricorrente è chiamato a rispondere a titolo di dolo sulla base di un atteggiamento che viene ricostruito come colposo.

Con riferimento alla rapina impropria di cui al comma 2 dell’art. 628 cod. pen., l’agente, immediatamente dopo la sottrazione della res, adopera la violenza o la minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso del bene sottratto o per procurare l’impunità a sé o ad altri.

Si osserva che la violenza o la minaccia possono essere esercitate sia contro la vittima sia contro un terzo che comunque potrebbe determinare la perdita del possesso della cosa sottratta, come ad esempio gli agenti della forza pubblica. Il requisito della immediatezza della violenza e della minaccia, inoltre, non va interpretato in senso rigorosamente letterale, senza l’intercorrere di alcun lasso di tempo, bensì come uno stretto legame psicologico e temporale. Infine, al concetto di impunità va attribuito un significato ampio, tale da comprendere l’attività volta a sottrarsi a tutte le conseguenze penali e processuali del reato commesso.

Nel caso di specie, l’agente, in concorso con persona rimasta ignota, immediatamente dopo aver sottratto un autocarro, speronava sia il veicolo della persona offesa sia l’auto di servizio della Polizia di Stato per assicurarsi il possesso della cosa sottratta e l’impunità. In particolare, per le circostanze di tempo e di luogo e in relazione al principio dell’id quod plerumque accidit, per i due correi risultava prevedibile l’inseguimento scaturito dal furto dell’autocarro, poiché era altamente probabile che sarebbero accorsi vigilanti o forze dell’ordine.

Sicché, la Corte di Cassazione ha statuito che il soggetto “quand’anche non avesse in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto tranquillamente rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. II, 6 ottobre 2016, n. 45446, Di Pasquale, rv. 268564;
Cass. pen., sez. II, 18 giugno 2013, n. 32644, Alic, rv. 256841;
Cass. pen., sez. II, 3 gennaio 2018, n. 49443, Jamarishvili, rv. 274467;
Cass. pen., sez. V, 18 novembre 2020, n. 306, rv. 280489;
Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2011, n. 4330, n. 2012, Camko, rv. 251849
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Turbata libertà incanti e bando di gara Il delitto di turbata libertà degli incanti presuppone il condizionamento del contenuto del bando di gara?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Il delitto di cui all’art. 353 c.p. non richiede che “il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata. È sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo, attraverso l’alterazione o lo sviamento del suo regolare svolgimento, e con la presenza di un dolo specifico qualificato dal fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della Pubblica Amministrazione”. – Cass., sez. VI, 28 ottobre 2022, n. 41094.

Nel caso in esame, gli imputati sono stati accusati di aver influito indebitamente sul procedimento amministrativo finalizzato all’aggiudicazione del servizio di gestione degli impianti sportivi comunali. Il giudice di primo ha ritenuto sussistente la responsabilità penale degli imputati, mentre la Corte di appello è pervenuta all’assoluzione.

In particolare, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che l’art. 353 c.p. delinei un reato di evento che, come tale, non punisce le mere irregolarità formali che non incidano sul contenuto del bando di gara. Il Procuratore generale presso la Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di assoluzione.

La Corte premette alcune considerazioni in tema di turbata libertà degli incanti. In primo luogo, la Cassazione precisa che “l’art. 353 cod. pen. configura un reato di evento di pericolo”.

In particolare, si tratta di un reato di evento in senso naturalistico, in quanto “è necessario accertare il verificarsi dell’impedimento della gara o del suo turbamento, e quindi la potenziale incidenza di una simile fraudolenta condotta sul futuro risultato della gara”.

Allo stesso tempo, si può definire un reato di pericolo “nel senso che il reato sussiste anche senza l’effettivo conseguimento del risultato perseguito dai soggetti agenti colludenti, essendo sufficiente che gli accordi collusivi siano idonei a influenzare l’andamento della gara”.

In altri termini, ciò che rileva è il verificarsi di un “turbamento”, cioè un disturbo del normale iter procedimentale, finalizzato ad inquinare il futuro contenuto del bando.

La Corte dunque ribadisce che il delitto in esame non richiede “un danno effettivo alla regolarità della gara”. Al contrario, è sufficiente che la condotta produca un “danno mediato e potenziale”, cioè l’idoneità degli atti ad influenzare l’andamento della gara, senza che sia necessario alternarne i risultati.

Tuttavia, l’impostazione descritta corre il rischio di attribuire rilievo penale a qualsiasi condotta in grado di perturbare lo svolgimento del procedimento. Per evitare tale rischio, la Corte precisa che “la condotta tipica deve essere idonea a ledere i beni giuridici protetti dalla norma, che si identificano non solo con l’interesse pubblico alla libera concorrenza, ma anche con l’interesse pubblico al libero gioco della maggiorazione delle offerte, a garanzia degli interessi della pubblica amministrazione”.

In conclusione, la fattispecie delineata dall’art. 353 c.p. consiste “nel turbare mediante atti predeterminati il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente. Poiché il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell’azione, è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo”.

In base alle considerazioni sopra sintetizzate, la Corte ha accolto il motivo di ricorso presentato dalla Procura generale e dunque ha annullato la sentenza di assoluzione, rimettendo la causa alla Corte di appello per un nuovo giudizio che tenga conto dei principi enunciati.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 8 marzo 2019, n. 10272; Cass., sez. II, 13 febbraio 2019, n. 7013; Cass., sez. VI, 22 gennaio 2019, n. 2989
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Ubriachezza abituale e cronica intossicazione da alcool Quale differenza sussiste tra l’ubriachezza abituale di cui all’art. 94 c.p. e la cronica intossicazione da alcool di cui all’art. 95 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Nei reati commessi dall’ubriaco abituale, “l’ubriachezza, in quanto transitoria e consapevole, non è mai causa della condotta delittuosa o di asseriti impulsi incontrollabili, ma al più è amplificatrice delle modalità e degli esiti delle violenze”. – Cass., sez. VI, 19 ottobre 2022, n. 39578.

Nel caso in esame l’imputato è stato condannato per il delitto di maltrattamenti aggravati (art. 572, comma 2, c.p.), commesso a danni della moglie e del figlio minorenne. I giudici di merito hanno ritenuto altresì sussistenti gli elementi costitutivi dell’aggravante dell’ubriachezza abituale.

La difesa dell’imputato ha presentato ricorso avverso la condanna ritenendo, tra gli altri motivi, che l’utilizzo di sostanze alcoliche da parte dell’imputato fosse indice di una cronica intossicazione da alcool, ai sensi dell’art. 95 c.p.

Nel caso in esame, dunque, la Corte è stata chiamata ad affrontare la questione della distinzione tra l’ubriachezza abituale e lo stato di cronica intossicazione da alcool. Il tema è particolarmente rilevante in quanto il legislatore associa alle due condizioni discipline opposte.

In caso di ubriachezza abituale, l’art. 94 c.p. prevede una circostanza aggravante, giustificata dalla maggiore pericolosità sociale dell’autore del reato. Al contrario, in caso di cronica intossicazione da alcool, l’art. 95 c.p. rinvia alla disciplina dettata in materia di vizio di mente, di cui agli artt. 88 e 89 c.p., che prevede l’esclusione dell’imputabilità o la diminuzione della pena.

Il legislatore definisce “ubriaco abituale” colui che “è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza”. Tuttavia, tali caratteri possono ben ricorrere anche per il soggetto in stato di intossicazione, il quale, con ogni probabilità, si trova nelle medesime condizioni dettate dall’art. 94 c.p.

La ricostruzione dei rapporti tra le due norme è stata quindi affidata alla giurisprudenza. Sul punto è consolidato l’orientamento secondo cui ricorre l’intossicazione cronica quando vi è uno stato patologico nel contesto del quale l’assunzione di alcool ha determinato irreversibili e permanenti alterazioni del sistema nervoso. Pertanto, le condizioni psichiche del soggetto sono alterate a prescindere dall’utilizzo di sostanze alcoliche.

In altri termini, si tratta di un mutamento non transitorio dell’equilibrio biochimico del soggetto, privo di prospettive di miglioramento, tale da determinare un vero e proprio stato patologico psicofisico. Ciò determina una corrispondente alterazione dei processi intellettivi e volitivi, con la conseguenza che viene meno, in tutto o in parte, l’imputabilità del soggetto. In tal senso si giustifica l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 88 e 89 c.p.

L’ubriachezza abituale, invece, non esclude né diminuisce l’imputabilità dell’agente, in quanto non collegata ad uno stato patologico ma ad una libera scelta. In questo prospettiva si giustifica l’aggravamento di pena collegato alla maggiore pericolosità sociale del soggetto, tale peraltro da comportate anche l’applicazione della misura di sicurezza (cfr. artt. 206 e 221 c.p.).

Sul punto, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la colpevolezza della persona in stato di ubriachezza deve essere indagata secondo gli ordinari criteri di valutazione dell’elemento psicologico. Di conseguenza, il giudice può accertare la sussistenza del dolo o della colpa al momento del fatto, nonostante lo stato di alterazione alcolica (Cass., sez. IV, 7 luglio 2021, n. 25758). Tale assetto normativo è stato positivamente vagliato dalla Corte costituzionale in un’ottica di prevenzione generale.

Peraltro, nell’impostazione originaria del codice, la maggiore pericolosità sociale dell’ubriaco abituale era frutto di una presunzione, oggi sostituita ad un accertamento da effettuarsi in concreto in conformità all’art. 27 Cost.

In applicazione dei principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha dichiarato manifestamente infondato il motivo di ricorso presentato dall’imputato, confermando la sentenza di condanna.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 14 luglio 2016, n. 45997; Cass., sez. IV, 22 maggio 2008, n. 38513
Difformi:      non constano precedenti rilevanti

 

giurista risponde

Reato di riciclaggio e occultamento del bene Vi è reato di riciclaggio se l’operazione di occultamento del bene è evidentemente ed immediatamente tracciabile?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

 

Il reato di riciclaggio è integrato in presenza di operazioni volte anche solo ad ostacolare la tracciabilità dei beni proventi di attività illecita, non essendo necessario il definitivo impedimento della stessa tracciabilità. In ciò esso si differenzia dal reato di ricettazione, il quale punisce la condotta di chi si limita a ricevere il bene provento di delitto senza modificarlo né ripulirlo delle tracce della propria provenienza. – Cass. 3 novembre 2022, n. 43420. 

La Suprema Corte si è pronunciata in merito all’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 648bis c.p., con riferimento alla condotta di un imputato che in qualità di dipendente di una società addetta ai servizi postali, sostituiva n. 25 buoni postali fruttiferi di vecchio tipo, proventi di furto, con n. 3 buoni postali di nuovo tipo, apponendo falsamente sui medesimi la firma della vittima del furto ed intestandoli a sé stesso.

I ricorrenti adducevano l’inapplicabilità della fattispecie di riciclaggio alla luce della evidente tracciabilità dell’operazione, peraltro confermata dalle testimonianze che avevano agevolmente ricostruito la vicenda delittuosa mediante una semplice consultazione del sistema informatico della società, che confermava che i buoni erano stati anche incassati dall’imputato. Dunque, a parere della difesa, non vi sarebbe un occultamento della provenienza del bene, ma un semplice incasso del provento del diverso delitto di truffa, per il quale, tuttavia, il Tribunale aveva già dichiarato il “non doversi procedere”.

Il Collegio giudicante, nel ritenre il ricorso inammissibile, ha rammentato che il delitto di riciclaggio si connota di un elemento oggettivo consistente nell’idoneità ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene e all’elemento soggettivo costituito dal dolo generico di trasformare il bene per impedirne l’identificazione. A parere della Corte non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso del provento di reato, ma è ben sufficiente che essa sia solo ostacolata.

Infatti, in relazione a casi analoghi, la giurisprudenza di ultimo grado ha ritenuto integrato il delitto di riciclaggio finanche nella condotta di chi deposita in banca denaro di provenienza illecita poiché, stante la natura fungibile del bene, in tal modo esso viene automaticamente sostituito con “denaro pulito”.

Pertanto, nel caso in oggetto, la condotta del reo è stata correttamente ritenuta punibile ex art. 648bis in quanto essa configurava un ostacolo all’identificazione del provento di reato.

Infine, la Corte ha ritenuto di dover perimetrare il reato di riciclaggio rispetto a quello di ricettazione, evidenziando che quest’ultimo si compendia nella diversa condotta di chi si limiti a ricevere il provento di illecito senza modificarlo né ripulirlo delle tracce della sua provenienza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass., sez. VI, 3 ottobre 2018, n. 13085
Difformi:      Cass., sez. VI, 22 marzo 2018, n. 24941
giurista risponde

Desistenza volontaria In quali casi la desistenza di cui all’art. 56, comma terzo, c.p. può dirsi “volontaria”?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Per applicarsi l’ipotesi della desistenza volontaria è necessario che la mancata consumazione del delitto dipenda dalla libera volontà dell’agente. La scelta è volontaria quando non imposta da circostanze esterne che rendano irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’attività quali, ad esempio, la resistenza della vittima, l’intervento o la presenza della polizia giudiziaria o l’esistenza di difficoltà in executivis dell’azione criminosa. – Cass. 3 novembre 2022, n. 41345

I ricorrenti hanno sollecitato il Collegio in merito alla sussistenza della volontarietà nella condotta del reo che, nell’intento di commettere un furto in abitazione, aveva desistito dall’azione criminosa per l’assenza di strumenti idonei all’effrazione delle grate poste a presidio delle unità abitative individuate per l’attività delittuosa.

La Suprema Corte, nel giudicare prive di pregio le istanze di parte, ha rammentato che l’applicabilità dell’ipotesi della desistenza volontaria richiede che la mancata consumazione del delitto sia dipendente dalla volontà dell’agente. Non è necessario che la rinuncia all’azione criminosa sia espressione di un intimo ravvedimento ma è essenziale che la scelta sia volontaria, cioè non imposta da circostanze esterne che rendano irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’attività quali, ad esempio, la resistenza della vittima, l’intervento o la presenza della polizia giudiziaria o l’esistenza di difficoltà in executivis dell’azione criminosa.

In tal senso, la Corte ha richiamato il dictum di un’altra Sezione giudicante in materia di tentato furto,

nel qual caso era stata esclusa la desistenza volontaria nella condotta degli imputati che, dopo aver compiuto atti idonei e diretti a commettere il delitto, si erano allontanati a causa della presenza di una lastra di metallo che impediva lo sfondamento del muro e dal sopraggiungere degli agenti di polizia.

La Corte ha ravvisato che l’idoneità degli atti richiesta per la configurabilità del reato tentato deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione; invece, la desistenza volontaria presuppone la costanza della possibilità di consumazione del delitto, per cui, qualora tale possibilità non vi sia più, può ricorrere unicamente l’ipotesi di tentativo, purché ne sussistano i presupposti.

Per tali ragioni, il Collegio ha escluso la volontarietà della scelta del reo di rinunciare alla condotta criminosa ritenendola, invece, imposta da una circostanza esterna quale la difficoltà in executivis dell’azione furtiva caratterizzata dall’indisponibilità di strumenti in grado di vincere la resistenza opposta dalle grate volte a presidiare le abitazioni individuate ai fini del delitto, ritenendo non sussistente la fattispecie di cui all’art. 56, comma 3, c.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass. 28 novembre 2018, n. 17518; Cass. 13 febbraio 2018, n. 12240
Difformi:      non constano precedenti rilevanti
giurista risponde

Crisi rapporto coniugale e caratteri dei crediti I crediti afferenti agli assegni che traggono origine dalla crisi del rapporto coniugale possiedono tutti indistintamente i caratteri della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità propri dei crediti alimentari?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere: a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione “del richiedente o avente diritto”, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, “delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)”, sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità. – Cass. S.U. 8 novembre 2022, n. 32914.

Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si pronuncia sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di mantenimento dell’ex coniuge, nel caso in cui una successiva decisione giudiziale modifichi le condizioni economiche già stabilite da una pregressa pronuncia.

Il ricorso è stato promosso avverso la decisione con cui la Corte d’Appello di Roma, nell’accogliere il ricorso incidentale promosso dall’ex marito, aveva condannato la moglie alla restituzione delle somme ricevute a titolo di assegno di mantenimento in esecuzione dei provvedimenti provvisori adottati in sede di procedimento ex art. 710 c.p.c.

In particolare, con il quinto motivo di ricorso viene evidenziata la natura alimentare dell’assegno in questione, da cui deriverebbe l’irripetibilità delle somme previamente versate.

La Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ricostruito il panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento, hanno respinto il suddetto motivo di ricorso, confermando la condanna della ricorrente alla ripetizione in favore dell’ex coniuge delle somme percepite a titolo di mantenimento in virtù di provvedimenti provvisori del presidente del tribunale.

Dopo aver ricostruito i caratteri e le diverse funzioni dell’assegno di mantenimento in sede di separazione e di quello divorzile, i giudici di legittimità si soffermano sulla disciplina degli alimenti, chiarendo che tale obbligazione serve a soddisfare i bisogni essenziali alla persona per condurre una vita dignitosa.

In particolare, ne sono presupposti lo stato di bisogno del richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato.

La Suprema Corte rileva poi come si registri un non pieno “collimare” delle soluzioni proposte dalla giurisprudenza sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di assegno di mantenimento in favore del coniuge separato o divorziato o in favore dei figli, per effetto di provvedimenti provvisori poi modificati o per effetto di una sentenza di primo grado poi riformata.

Un primo orientamento, infatti, sostiene che la pronuncia, che riveda in diminuzione o escluda l’assegno corrisposto in base al provvedimento presidenziale o a quello del giudice istruttore, non possa disporre per il passato, ma solo per il futuro.

Corollario di tale interpretazione è la non ripetibilità delle maggiori somme corrisposte dal coniuge sulla base di un titolo giudiziale valido ed efficace “ratione temporis”.

Nell’ambito di tale tesi, vi sono state alcune pronunce che hanno specificato che la retroattività della decisione relativa all’assegno di mantenimento può operare solo a favore del beneficiario.

Uno degli argomenti principali a sostegno di tale tesi è il riconoscimento del carattere alimentare delle somme corrisposte dall’ex coniuge a titolo di mantenimento.

Altra parte della giurisprudenza ammette invece la retroattività della sentenza che determina in diminuzione l’assegno, ma la esclude nel caso in cui l’ammontare dell’assegno, successivamente ridotto, sia tale da evidenziarne una funzione sostanzialmente alimentare.

Infine, vi è un’ultima impostazione che, sottolineando le differenze sul piano ontologico tra l’assegno di mantenimento e quello alimentare, esclude che il primo abbia gli stessi caratteri dell’obbligazione alimentare.

Nel comporre il suddetto contrasto interpretativo, le Sezioni Unite svolgono alcune preliminari considerazioni sula supposta natura “para-alimentare” dell’assegno divorzile e di quello stabilito in sede di separazione e, dopo aver evidenziato le differenze strutturali e funzionali sussistenti tra i suddetti assegni e l’obbligazione alimentare, evidenziano che tali assegni hanno in comune con l’obbligo di alimenti la finalità “assistenziale”.

Premesse tali considerazioni, i giudici di legittimità affrontano la questione della ripetibilità delle prestazioni alimentari, rilevando a tal proposito come non vi sia nel nostro ordinamento una disposizione che, sul piano sostanziale, sancisca la irripetibilità dell’assegno alimentare.

Pertanto, non vi sarebbero ostacoli nel ritenere sussistente l’obbligo di restituzione di somme versate sulla base di un supposto e inesistente diritto al mantenimento, oppure di parziale restituzione di somme versate in base a un supposto e parzialmente esistente diritto al mantenimento.

Tuttavia, secondo i giudici della Suprema Corte, ragioni equitative e il principio di solidarietà umana e familiare giustificano l’apposizione di un temperamento alla regola della piena ripetibilità.

Si suppone, infatti, che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state utilizzate per far fronte alle essenziali esigenze di vita.

La soluzione interpretativa, affermata con la sentenza in commento, è volta a operare un bilanciamento tra l’esigenza di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza solidaristica di tutela del soggetto debole.

Ne deriva che, ove la sentenza di merito escluda in radice e “ab origine” il diritto al mantenimento, ovvero si addebiti la separazione al coniuge, che nelle more abbia ricevuto l’assegno, opererà l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite ai sensi dell’art. 2033 c.c.

Non sussiste invece il diritto alla ripetizione delle maggiori somme versate, laddove si proceda alla rivalutazione ex tunc delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto ovvero nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale venga ridotto. Tali considerazioni valgono purché l’assegno corrisposto non superi la misura necessaria a una persona media per far fronte alle normali esigenze di vita. Solo in tali casi si può infatti ritenere che la somma ricevuta sia stata consumata dal coniuge più debole nel periodo in cui è stata corrisposta per fini di sostentamento.

La soluzione adottata viene giustificata dalla Corte di Cassazione richiamando la tutela della solidarietà post-familiare sottesa a tutta la disciplina sulla crisi della famiglia.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. I, 28 maggio 2004, n. 10291; Cass. I, 20 marzo 2009, n. 6864
Difformi:      Cass. I, 25 giugno 2004, n. 11863; Cass. I, 12 giugno 2006, n. 13593;
Cass. I, 10 dicembre 2008, n. 28987