giurista risponde

Requisiti per sollevare questione di legittimità costituzionale Quali requisiti devono sussistere per sollevare una questione di legittimità costituzionale nel giudizio impugnatorio di legittimità?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato riepiloga i principi elaborati dalle plenarie n. 7, 19 e 21/2021 in tema di risarcimento del danno da responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi.  – Cons. Stato, sez. IV, 4 maggio 2023, n. 4523.

Preliminarmente, nel giudizio impugnatorio di legittimità per superare il vaglio della rilevanza, la questione di legittimità costituzionale deve non solo fare riferimento ai vizi denunciati con il ricorso, ma anche alla domanda in concreto proposta, che rispettando il principio del divieto dei nova in appello recepito dall’art. 104, comma 1, c.p.a., non può che essere quella descritta nel ricorso proposto in primo grado.

Pertanto, la necessaria corrispondenza tra petitum e decisum fissa i limiti invalicabili, nel cui rispetto deve essere esaminata la rilevanza della questione proposta dalla parte. Dunque, se è vero che non vi è un limite temporale anche nel giudizio amministrativo di secondo grado per sollevare la questione di legittimità costituzionale, non possono essere ritenute rilevanti questioni che riguardino norme la cui violazione il proponente non abbia ritualmente evidenziato in primo grado e nei limiti imposti all’effetto devolutivo dai principi di specificità e tempestività dei motivi di appello.

La funzione legislativa – salvi i limiti costituzionali – è per definizione “libera nei fini”, da ciò ne segue la naturale insussistenza di una possibile qualificazione del danno come “ingiusto”, perché – diversamente che di fronte all’azione amministrativa – davanti all’attività legislativa non vi sono situazioni soggettive dei singoli protette dall’ordinamento. Va perciò rimarcata la diversità della fattispecie della responsabilità dello Stato per inadempimento degli obblighi comunitari. Solo nel caso di ritardata o mancata attuazione di obblighi comunitari è possibile, invero, rinvenire un’adeguata base legale alla responsabilità dello Stato-legislatore, con correlato diritto del singolo attivabile direttamente dinanzi all’autorità giudiziaria. La diversità di trattamento tra legge incostituzionale e legge anti-europea ha la propria ratio nella necessità di contrastare condotte violative del diritto eurounitario perpetrate dagli Stati membri, prescindendo dalle articolazioni interne allo Stato-apparato (potere legislativo, amministrativo e giudiziario); si tratta, evidentemente, di una ragione non replicabile nel contesto della legge incostituzionale.

Dunque, i limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell’affidamento sono i seguenti: l’affidamento tutelabile deve essere ragionevole e, quindi, incolpevole; esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento o con il suo comportamento correlato al pubblico potere e in cui il privato abbia senza colpa confidato; il grado della colpa dell’amministrazione rileva sotto il profilo della riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere affetto il provvedimento; l’aspettativa sul risultato utile o sulla conservazione dell’utilità deve essere ottenuta in circostanze che obiettivamente la giustifichino; la buona fede «non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave». L’affidamento deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento o con il suo comportamento correlato al pubblico potere e in cui il privato abbia senza colpa confidato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2023, n. 4390;
Cons. Stato, sez. IV, 28 aprile 2023, n. 4288;
Cons. Stato, sez. I, 4 novembre 2022, n. 9680;
Cons. Stato, sez. IV, 2 settembre 2022, n. 7673; Id., 17 agosto 2022, n. 7157;
Cons. Stato, sez. I, 26 novembre 2015, n. 5373
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Sindacato giurisdizionale e legittimità procedimento In materia di procedimento disciplinare il sindacato giurisdizionale pur essendo “debole” deve potersi sempre estendere alla verifica della legittimità del procedimento e della sanzione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, il sindacato giurisdizionale seppur “debole” non per questo è da considerarsi nullo. – Cons. Stato, sez. IV, 5 maggio 2023, n. 4554.

I Giudici della IV Sezione evidenziano che pur dovendosi ribadire il consolidato orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato sui margini di discrezionalità insiti nell’apprezzamento dei fatti rilevanti sul versante disciplinare, della loro gravità e del rigore della risposta sanzionatoria che debba scaturirvi va altresì ribadito l’orientamento di questo Consiglio (pur non condividendosi l’uso dell’aggettivo “debole”, trattandosi semplicemente di operare il sindacato consentaneo al giudizio di legittimità), secondo cui:In materia di procedimento disciplinare il sindacato giurisdizionale è sì ‘debole’ ma non per questo nullo. Nei limiti della sua tenuità, tale sindacato deve potersi pur sempre estendere alla verifica della legittimità dell’esercizio del pubblico potere, specie sanzionatorio, quanto meno dal punto di vista dell’adeguatezza dell’iter procedimentale seguito, segnatamente per quanto attiene alla istruttoria procedimentale, e del rispetto del principio di proporzionalità tra accadimenti come effettivamente accertati e punizione comminata.” o in caso di “manifesta illogicità e irragionevolezza, evidente sproporzionalità e travisamento dei fatti”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 12 dicembre 2022, n. 10852;
Cons. Stato, sez. II, 7 novembre 2022, n. 9756;
Cons. Stato, sez. III, 4 novembre 2022, n. 9680; Id., 17 agosto 2022, n. 7157;
Cons. Stato, sez. II, 14 marzo 2022, n. 1787
giurista risponde

Cessione standard urbanistici e contributo costruzione Qual è la differenza tra la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici e il contributo di costruzione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato lo ha chiarito richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa in materia di monetizzazione di standard urbanistici. – Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2023, n. 4908.

I Giudici enunciano che, “la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici non ha la medesima natura giuridica del contributo di costruzione, atteso che non è una prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell’art. 23 Cost.; inoltre, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento. Pertanto, l’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione non esclude che sia dovuta anche la cessione di aree a standard”.

È opportuno ricordare che, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici è un beneficio di carattere eccezionale, concepito come misura di favore per il richiedente un titolo edilizio che, in base allo strumento urbanistico, deve, per l’appunto, cedere o reperire nella zona in cui intende realizzare l’intervento costruttivo aree per la realizzazione di opere pubbliche, nel rispetto delle misure e secondo i criteri dettati dal D.M. 1444/1968.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 19 gennaio 2023, n. 659; Id., 10 gennaio 2022, n. 148;
Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2016, n. 4417;
Cons. Stato, sez. IV, 14 febbraio 2014, n. 1820; Id., 23 dicembre 2013, n. 6211;
Id., 4 febbraio 2013, n. 644
giurista risponde

Titolo edilizio per silentium Può formarsi titolo edilizio per silentium se sull’area interessata sussistano vincoli paesaggistici?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato evidenzia che in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio assenso, bensì per provvedimenti espliciti. Nessun titolo edilizio può formarsi per silentium ove sull’area interessata sussistano vincoli paesaggistici. – Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2023, n. 4933.

Il Collegio ha ribadito che, la normativa nazionale in materia di distanze, art. 9 del D.M. 1444/1968, ha carattere inderogabile, in quanto norma imperativa volta a predeterminare in via generale le distanze tra costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza. Queste prescrizioni sono considerate inderogabili, con conseguente illegittimità delle previsioni urbanistiche comunali che contrastano con esse.

È necessario ricordare che la distanza minima è peraltro imposta per qualsiasi forma di nuova costruzione da effettuarsi in tutto il territorio comunale, soggiacente, come tale, sia al regime di nuova costruzione (nuovi edifici, ampliamenti, sopraelevazioni, addizioni volumetriche, superficie) sia al regime ricostruttivo (demolizione e ricostruzione, integrale o parziale di edifici, traslazione volumi e area di sedime; modifiche di sagoma, anche a parità di volume, modifiche planivolumetriche).

Le uniche eccezioni sono gli interventi di risanamento conservativo; le ristrutturazioni di edifici situati nelle zone omogenee A (centri e nuclei storici), dove le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; i gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con specifiche previsioni planovolumetriche.

Ad ogni modo, in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio assenso, bensì per provvedimenti espliciti, ai sensi dell’art. 20, comma 4, L. 241/1990.

Infine, l’art. 2bis del D.P.R. 380/2001 consente, nel quadro dei principi che informano la potestà legislativa concorrente delle regioni in materia di governo del territorio, la possibilità di prevedere con normazione a livello territoriale, a determinate condizioni, disposizioni derogatorie al D.M. 1444/1968.

La sentenza del Consiglio di Stato ribadisce l’importanza della tutela dell’ambiente e del paesaggio nel diritto amministrativo, sottolineando l’inderogabilità delle norme che regolano le distanze tra costruzioni e l’impossibilità di ottenere titoli edilizi per silentium in aree paesaggisticamente vincolate.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2022, n. 9750;
Id., 19 ottobre 2021, n. 7029; Id., 23 giugno 2017, n. 3093;
Id., 8 maggio 2017, n. 2086; Id., 20 febbraio 2016, n. 856
giurista risponde

Associazione e legittimazione ad agire L’associazione che non dimostra di rappresentare una classe omogenea di utenti è legittimata ad agire?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, deve ritenersi preclusa la legittimazione a proporre l’azione. – Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2023, n. 5031. 

Preliminarmente, secondo i principi generali, la legittimazione ad agire si identifica nella titolarità dell’azione, nel senso che legittimato ad agire è quel soggetto che l’ordinamento giuridico considera essere idoneo a presentare l’azione dinanzi al giudice, sicché la legittimazione deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal medesimo provvedimento.

Nel processo amministrativo, la legittimazione ad agire in giudizio coincide con la titolarità di una posizione giuridica qualificata riconducibile ad un interesse legittimo o ad un diritto soggettivo che con il ricorso si intende tutelare.

Pertanto, la valutazione in concreto di tale legittimazione impone la verifica, a fronte di specifica eccezione di difetto della condizione dell’azione, dell’esistenza in concreto, con la conseguenza che le associazioni sono legittimate a proporre il ricorso solo quando dimostrano di rappresentare adeguatamente tale interesse, così che da diffuso si soggettivizza in capo all’associazione, trasformandosi in interesse collettivo.

I giudici di Palazzo Spada ribadiscono che deve ritenersi preclusa la legittimazione a proporre l’azione per l’efficienza di cui al D.Lgs. 198/2009 da parte di una associazione che non dimostri di rappresentare una classe determinata ed omogenea di utenti e consumatori.

Più nel dettaglio, nel caso in esame l’associazione era tenuta a dimostrare la sua legittimazione ad agire, ossia di essere titolare di un interesse giuridicamente rilevante, differenziato in capo ad una collettività di utenti, quindi la propria rappresentatività.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2022, n. 7493;
Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2010, n. 8686
giurista risponde

Inottemperanza al giudicato Quando sussiste l’inottemperanza al giudicato?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato enuncia che l’inottemperanza al giudicato sussiste non solo in caso di totale inerzia della P.A. ma anche in caso di comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato. – Cons. Stato, sez. II, 22 maggio 2023, n. 5072.

Il Consiglio di Stato ha affermato che: “l’inottemperanza al giudicato sussiste non solo in caso di totale inerzia della P.A. ma anche quando quest’ultima tenga comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato, ovvero solo formalmente tali, che ne costituiscono nella sostanza un’elusione, piuttosto che una violazione”.

Deve, dunque, ritenersi inottemperante il Comune che, dopo essere rimasto inerte per anni, riavvia da capo l’istruttoria di un procedimento, senza tenere conto né delle precedenti produzioni documentali né delle risultanze processuali.

Tra gli istituti di semplificazione si ricollega il silenzio assenso, che dovrà essere conforme ai principi generali dell’attività amministrativa e imporre che il comportamento dell’Amministrazione sia improntato alla correttezza e alla buona fede (art. 1 della L. 241/1990).

Quando la legge prevede il meccanismo del silenzio assenso, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche se la domanda non è conforme alla legge, considerato che solo un’istanza del tutto estranea al paradigma legale invocato preclude la formazione del titolo; pertanto, la decorrenza del termine entro cui provvedere non può essere procrastinata mediante reiterate richieste istruttorie, né può qualificarsi come adempimento il mero avvio del procedimento, azzerando tutto quanto in precedenza accaduto, senza individuare un termine finale per la sua definizione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746;
T.A.R. per la Campania, Salerno, sez. II 20 febbraio 2023, n. 406
Difformi:      T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 4 gennaio 2023, n. 17;
T.A.R. Sicilia, sez. II, 24 ottobre 2022, n. 2977
giurista risponde

Stalking: indici sintomatici ansia o timore Quali sono gli indici sintomatici della sussistenza in concreto dello stato d’ansia o di timore di cui all’art. 612bis c.p.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 612bis c.p. la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante e, più in generale, può essere desunta da elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata. Viceversa, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto – tra i quali lo stato d’ansia provocatole dall’ imputato o il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente. – Cass. pen., sez. V, 13 dicembre 2022, n. 47135.

La Suprema Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in ordine all’accertamento probatorio che deve essere effettuato in relazione alla sussistenza dello stato d’ansia o di paura richiesto ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 612bis c.p.

Com’è noto, l’art. 612bis c.p. prevede tre precisi elementi costitutivi: la condotta tipica del reo, la reiterazione di tale condotta e l’insorgere di un particolare stato d’animo di ansia e di paura nei confronti della vittima. La condotta, quindi, oltre che essere reiterata deve creare un determinato disagio psichico, uno stato di tensione nervosa grave e perdurante, tale da incidere sugli atti di vita quotidiana. La norma però non indica con esattezza i contorni e le dimensioni del prospettato disagio psichico, ed è proprio in questa prospettiva di analisi che si inserisce la pronuncia in esame. Invero, richiamando i precedenti giurisprudenziali in materia, il Supremo Consesso conferma che la prova del predetto stato d’ansia o di paura possa essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante. La sussistenza dei predetti elementi costitutivi della fattispecie in esame può essere desunta, altresì, da ulteriori elementi sintomatici, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.

Viceversa, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, tra i quali lo stato d’ansia provocatole dal soggetto agente o il fondato timore per la propria incolumità o per quella dei congiunti, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla stessa condotta.

In ogni caso, come già in precedenza affermato, qualora uno degli eventi previsti dall’art. 612bis c.p. sia identificato nello stato di ansia, la prova di esso può essere argomentata dal giudice anche sulla base di massime di esperienza, non essendo all’uopo necessaria la documentazione medica, nè che la vittima declini con esattezza lo stato emotivo che la caratterizza in dipendenza dell’attività persecutoria subita.

Nel caso di specie, dunque, il Giudice di legittimità mette in rilievo una serie di elementi diretti ad integrare la configurabilità degli eventi alternativi del reato, fornendo all’interprete un utile decalogo per valutare, caso per caso e in concreto, l’integrazione del delitto in esame: il ripetersi ossessivo delle molestie da parte dell’imputata in danno dell’ex coniuge e della sua attuale compagna, il coinvolgimento nelle stesse delle figlie minori, il numero ed il tenore dei contatti telefonici molesti e dei messaggi tramite Whatsapp inviati alle vittime, le incursioni in casa delle vittime improvvise e destabilizzanti, le reiterate aggressioni fisiche ai danni delle persone offese, nonché il mutamento di vita delle vittime del reato, concretizzatosi nel cambiamento di due domicili dell’ex coniuge.

Pare evidente, dunque, come l’accertamento in concreto della prova dello stato d’ansia o di timore della vittima imponga all’interprete una complessa quanto articolata valutazione di tutti gli elementi che in concreto vengono in rilievo, a conferma di come la fattispecie delittuosa in esame tuteli non solo la libertà morale della persona, ma, anche, la tranquillità della stessa, la “serenità psicologica”, quella che autorevole dottrina definisce “la pace giuridica individuale”.

Pertanto, ai fini della configurabilità del reato in esame, è sufficiente la prova di almeno uno dei plurimi eventi alternativi contemplati dalla disposizione incriminatrice, tali da determinare il mutamento, non necessariamente radicale o definitivo, delle abitudini di vita della vittima. Nel caso di specie, ad esempio, all’ imputata era stata lasciata la casa di abitazione coniugale proprio per tentare di arginare le sue condotte persecutorie nei confronti dell’ex marito e della nuova compagna, con conseguente mutamento di domicilio da parte dell’ex-coniuge.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen. 24135/2012; Cass. pen. 17795/2017; Cass. pen. 57704/2017;
Cass. pen. 17552/2021; Cass. pen. 8307/2021
Difformi:      non constano precedenti rilevanti

 

giurista risponde

Condotta ex art. 615-ter c.p. In cosa si concretizza la condotta tipica di cui all’art. 615ter c.p.? Quali sono gli indici sintomatici di riconoscimento della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

La condotta tipica del delitto di cui all’art. 615ter c.p. si concretizza nell’ accesso o nel mantenimento all’interno del sistema informatico posti in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l’accesso è consentito. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema. – Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2022, n. 47323.

Ai fini del riconoscimento della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p., non è sufficiente che il fatto sia occasionale, ma è necessario che l’offesa, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma primo, sia ritenuta di particolare tenuità e il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il richiamo a mere clausole di stile. – Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2022, n. 47323

La Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su diverse questioni di particolare rilevanza, sia sostanziale che processuale, fornisce delle soluzioni interpretative in linea di continuità con i precedenti giurisprudenziali consolidatisi in materia.

Nel pronunciarsi sulla prima questione, la Corte di Cassazione richiama il “diritto vivente”, che considera integrato il delitto di cui all’art. 615ter c.p. in presenza di una condotta concretizzatasi nell’ accesso o nel mantenimento all’interno del sistema informatico da parte di un soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l’accesso è consentito. La Corte, inoltre, sottolinea come, per l’integrazione del reato in esame, non abbiano rilevanza gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema informatico. Sul punto, tuttavia, deve rilevarsi come le Sezioni Unite nel 2017 avevano ritenuto rilevante, ai fini dell’integrazione della fattispecie in oggetto, anche la finalità perseguita in concreto dal soggetto agente che, in quell’occasione, pur non avendo violato le prescrizioni formali impartite dal titolare di un servizio informatico protetto, aveva posto in essere l’accesso per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli era stata attribuita.

Altro rilievo che la Suprema Corte adita mette in evidenza è quello inerente alla qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del soggetto attivo che non è sufficiente, ai fini dell’integrazione dell’aggravante di cui al comma 1, risultando necessario che il fatto sia commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione, di modo che la qualità soggettiva dell’agente abbia quanto meno agevolato la realizzazione del reato.

Con specifico riferimento al caso di specie, infatti, l’imputato, in qualità di appuntato dei Carabinieri, sia era abusivamente introdotto nel sistema informatico della banca dati S.D.I. (Sistema D’Indagine istituito presso il C.E.D. del Ministero dell’Interno), proprio in violazione dei doveri inerenti la funzione e contro la volontà di chi aveva il diritto di escluderlo, per effettuare delle interrogazioni non autorizzate e per finalità non istituzionali. Dalle modalità attuative poste in essere dal ricorrente in concreto, la Corte deduce, altresì, la sussistenza “in re ipsa” della volontà della condotta e dell’evento in capo al soggetto agente, in assenza di qualsivoglia elemento che consenta di ritenere l’accesso allo S.D.I. motivato dalla necessità di soddisfare esigenze di ordine pubblico o di sicurezza pubblica ovvero di prevenzione e repressione della criminalità.

La seconda questione affrontata dalla Suprema Corte riguarda l’individuazione degli indici sintomatici cui il Giudice deve riferirsi per ritenere integrata la causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. Sul punto, il Supremo Consesso ribadisce come non sia sufficiente che il fatto sia occasionale, ritenendo, invece, necessario che l’offesa, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, risulti di particolare tenuità alla luce dei parametri di cui all’art. 133, comma primo, c.p.. In tale prospettiva, pertanto, il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il mero richiamo a generiche clausole di stile. Il giudizio sulla tenuità dell’offesa, dunque, dev’essere effettuato, con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma 1, c.p., senza che ciò comporti una mera elencazione degli stessi, attraverso forme di automatismo valutativo che, viceversa, si pongono in palese contrasto con il principio di legalità sostanziale su cui si regge l’intero sistema penale.

Ed invero, la causa di non punibilità, di cui all’art. 131bis c.p., trova applicazione in presenza di fatti che, pur essendo tipici, antigiuridici e colpevoli manifestino un’offensività di scarso valore, da renderli immeritevoli di sanzione. La prospettiva che viene in rilievo è quella della proporzionalità, dell’adeguatezza e dell’extrema ratio della sanzione penale che attribuisce al giudice il potere di qualificare, in ragione della predetta valutazione, come irrilevanti fatti di minima gravità, secondo l’antico brocardo “De minimis non curat praetor”.

Pertanto, come già affermato in un precedente arresto dello stesso Giudice di legittimità, l’art. 131bis, c.p., costituisce un limite negativo alla punibilità del fatto stesso, la prova della cui ricorrenza è demandata all’imputato che, com’è noto, è tenuto ad allegare la sussistenza dei relativi presupposti mediante l’indicazione di elementi specifici. Onere che, nel caso di specie, non era stato assolto dall’imputato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., S.U., 4694/2011; Cass. pen. 50782/2019; Cass. pen. 18180/2018
Difformi:      Cass. pen., S.U., 41210/2017
giurista risponde

Abuso d’ufficio e violazione precetti urbanistici La violazione di fonti sub-primarie attuative di specifici precetti di legge, quali gli strumenti urbanistici, può rilevare ai fini della integrazione del reato di abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 cod. pen., anche a seguito della riforma attuata con il D.L. 76/2020?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Il problema della fonte normativa che deve avere il rango di legge a seguito della riformulazione del reato di abuso di ufficio è stato affrontato nel senso di confermare la rilevanza della violazione degli strumenti urbanistici di fonte subprimaria, richiamati dalla legge, perché operano quali presupposti di fatto della norma di legge violata. Secondo questa elaborazione giurisprudenziale, i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità all’indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica. – Cass. IV, 8 novembre 2022, n. 46669.

La Suprema Corte è chiamata a delineare l’ambito applicativo oggettivo della fattispecie di cui all’art. 323 cod. pen., che funge da norma di chiusura dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e che ha subito una modifica in senso restrittivo per effetto del recente D.L. 76/2020, convertito dalla L. 120/2020.

In particolare, prima della riforma l’elemento oggettivo del reato di abuso d’ufficio era costituito dalla violazione di norme di legge o di regolamento, mediante la quale l’agente intenzionalmente procurava a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecava ad altri un danno ingiusto.

Per effetto della riforma del 2020, la fattispecie non contempla più la violazione delle norme regolamentari ai fini dell’integrazione del reato, bensì esclusivamente “l’inosservanza di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Pertanto, risultano espunte dal perimetro di rilevanza penale le violazioni di atti aventi natura regolamentare e le violazioni di norme di rango legislativo che non dettino specifiche regole di condotta ovvero che dettino regole in relazione alle quali residuino spazi di discrezionalità per la pubblica amministrazione, con conseguente abolitio criminis parziale con riguardo alle suddette condotte (art. 2, comma 2, cod. pen.). Nell’ipotesi in cui sia intervenuta sentenza di condanna irrevocabile, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., è prevista la revoca della sentenza da parte del Giudice dell’esecuzione, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, e l’adozione dei provvedimenti conseguenti volti a disporre la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna.

Nonostante il rigore lessicale del testo risultante dalla riforma, volta a restringere l’ambito oggettivo della fattispecie di reato, la giurisprudenza in alcune pronunce ha inteso in senso ampliativo la nozione di violazione di legge, comprendendovi l’ipotesi di inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), che sarebbe dotato di precettività nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.

Nella stessa direzione, un orientamento della giurisprudenza formatosi immediatamente dopo l’entrata in vigore della riforma ha tentato di ricondurre alla nozione di violazione di legge lo sviamento di potere, che costituisce un vizio di legittimità collegato necessariamente all’esercizio di un’attività discrezionale e che, dunque, dovrebbe collocarsi al di fuori del perimetro della fattispecie, stando al tenore letterale della norma. Lo sviamento di potere, che consiste nel potere esercitato per un fine diverso da quello stabilito dalla legge e, dunque, per uno scopo egoistico o comunque estraneo ai fini che la pubblica amministrazione è chiamata a perseguire, secondo tale orientamento, si pone al di fuori dello schema della legalità e determina la lesione dell’interesse tutelato dalla norma che incrimina l’abuso d’ufficio. La violazione di legge rilevante ai fini dell’integrazione dell’art. 323 cod. pen. riguarda, difatti, non soltanto la condotta del pubblico ufficiale che contrasta con le norme di legge che disciplinano l’esercizio del potere, ma anche le condotte dirette a realizzare un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito, realizzando una violazione dello schema normativo che legittima l’attribuzione.

Nella medesima prospettiva anti-formalistica, in cui si colloca la pronuncia in esame, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto integrati gli estremi dell’abuso d’ufficio anche a fronte di violazioni di fonti subprimarie attuative di specifici precetti di legge e, in alcuni casi, anche nell’ipotesi di violazioni di norme regolamentari che si risolvano nella specificazione tecnica di un precetto comportamentale già compiutamente definito nella norma primaria, a condizione che quest’ultima risulti conforme ai canoni della tipicità e della tassatività.

La Suprema Corte ha affermato, difatti, come non possa ritenersi dirimente il carattere formale del tipo di norma violata ogni volta che questa costituisca, quanto al contenuto, diretta applicazione di un precetto legislativo dal quale non residuino margini di discrezionalità e risulti, dunque, riconducibile a un’attività vincolata, interamente disciplinata dalla norma di fonte primaria.

Alla luce delle presenti considerazioni, la Sezione IV della Suprema Corte ha fornito risposta positiva al quesito, confermando la rilevanza della violazione degli strumenti urbanistici di fonte subprimaria richiamati dalla legge, in quanto operano come presupposti di fatto della norma di legge violata (così anche Cass. 8 marzo 2022, n. 13148).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen. 33240/2021; Cass. pen. 13148/2022
Difformi:      Cass. pen. 28402/2022
giurista risponde

Sanzione accessoria revoca patente: è automatica? Può ritenersi costituzionalmente legittima l’automatica applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, prevista dal comma 8 dell’art. 213 Cds, in caso di circolazione del custode con un’autovettura oggetto di sequestro?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

La sanzione accessoria della revoca della patente del custode che abbia posto in circolazione il veicolo sequestrato, a lui affidato, non può essere automatica conseguenza accessoria della sanzione principale, dovendo consentirsi all’autorità amministrativa preposta di valutare le complessive circostanze del caso concreto, affinché tale sanzione non risulti essere sproporzionata rispetto al fatto di cui all’art. 213, comma 8, cod. strada. – Corte Cost. 9 dicembre 2022, n. 246. 

La Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della disposizione del comma 8 dell’art. 213 del Codice della Strada, nella parte in cui prevede un automatismo nell’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida a fronte della circolazione del custode con un veicolo sottoposto alla misura del sequestro.

In particolare, la Corte è chiamata a valutare se l’introduzione del suddetto automatismo rientri nella discrezionalità del legislatore ovvero se si ponga in contrasto con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza della risposta sanzionatoria.

La Consulta, dopo aver ripercorso l’evoluzione normativa della norma oggetto del sindacato di costituzionalità, che ha visto notevolmente inasprire il relativo trattamento sanzionatorio per effetto del decreto sicurezza del 2018 (D.L. n. 113), in ragione della sostituzione della sanzione accessoria della sospensione del titolo abilitativo alla guida da uno a tre mesi con quella della revoca della patente, ha ribadito come il principio di necessaria proporzionalità della sanzione alla condotta illecita trovi applicazione anche con riguardo al trattamento sanzionatorio di natura amministrativa.

Il principio di proporzionalità delle sanzioni amministrative deriva dal combinato disposto tra l’art. 3 Cost. e le norme costituzionali poste a tutela dei diritti compressi dalla sanzione nel caso concreto.

A tal proposito, la giurisprudenza costituzionale, in diverse occasioni, ha evidenziato come un indifferenziato automatismo sanzionatorio costituisca un possibile indice di disparità di trattamento e di irragionevolezza intrinseca.

La discrezionalità del legislatore risulta legittimamente esercitata e sfugge al sindacato di costituzionalità, costituendo espressione di scelte di politica sanzionatoria, nell’ipotesi in cui introduca una sanzione accessoria, in aggiunta a quella principale, nel complessivo trattamento sanzionatorio dell’illecito amministrativo. La sanzione della revoca della patente, inoltre, si caratterizza per una spiccata funzione deterrente, data la notevole carica di afflittività, e consente di contrastare comportamenti pericolosi al fine di garantire la sicurezza della circolazione stradale.

Risulta censurabile, tuttavia, la scelta del legislatore di applicare la suddetta sanzione accessoria in via indifferenziata, a fronte di qualsiasi condotta di messa in circolazione di un veicolo assoggettato al vincolo del sequestro per effetto di una precedente violazione del codice della strada, mediante la previsione di un indifferenziato automatismo della revoca della patente di guida, che si aggiunge alla sanzione pecuniaria principale, prescindendo dalla gravità del fatto concreto.

La sanzione accessoria che caratterizzava l’originaria formulazione dell’art. 213 è consistita per lungo tempo nella sospensione della patente di guida, che si caratterizzava per un’intrinseca flessibilità quanto alla durata, in quanto compresa tra un minimo di un mese e un massimo di tre mesi, e consentiva la graduazione della risposta sanzionatoria in relazione alle circostanze del caso e alla gravità della condotta.

La sanzione della revoca della patente, introdotta con la riforma del 2018, non presenta la medesima flessibilità, bensì impone all’autorità amministrativa competente un automatismo nella relativa applicazione, prescindendo da ogni valutazione del caso concreto. Si tratta, inoltre, di una sanzione notevolmente più gravosa della precedente, in quanto il destinatario risulta inabilitato alla guida per lungo tempo, potendo richiedere nuovamente la patente soltanto dopo due anni, con conseguente possibile compromissione di esigenze lavorative, personali e sociali, potendo anche incidere sull’esercizio di diritti fondamentali.

La Corte Costituzionale, pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 8 dell’art. 213 del codice della strada, per violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo del difetto di necessaria proporzionalità della sanzione amministrativa, nella parte in cui prevede l’automatica applicazione della sanzione accessoria della revoca della patente, precludendo all’autorità competente, il prefetto, di considerare la gravità della violazione dei doveri di custodia nel caso specifico, nonché le ripercussioni della misura in questione sugli aspetti essenziali della vita dell’individuo. L’automatismo, per effetto della declaratoria di incostituzionalità parziale della disposizione, è sostituito, dunque, con la possibilità di applicare la sanzione della revoca della patente ove si riveli misura proporzionata al caso concreto, a seguito della valutazione dell’autorità amministrativa.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 22/2018; Corte Cost. 99/2020; Corte Cost. 24/2020