giurista risponde

Annullamento con rinvio erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso Deve disporsi l’annullamento con rinvio ex art. 105 c.p.a. della sentenza del giudice di primo grado che abbia erroneamente dichiarato l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, deve disporsi l’annullamento con rinvio ex art. 105 c.p.a. della sentenza di primo grado che abbia erroneamente dichiarato l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse (Consiglio di Stato, sez. IV, 9 aprile 2025, n. 3009).

I Giudici di Palazzo Spada evidenziano che deve disporsi l’annullamento con rinvio ex art. 105 c.p.a. della sentenza del giudice di primo grado che abbia erroneamente dichiarato l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse. In tale contesto, rileva quanto stabilito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 20 novembre 2024, n. 16, secondo la quale le pronunce di inammissibilità che omettono l’esame del merito danno luogo ad una pronuncia di annullamento con rinvio, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., in ragione della nullità della sentenza per motivazione apparente. Tale orientamento è coerente con quanto già affermato dalle sent. 10 e 11/2018 dell’Adunanza Plenaria, le quali hanno sottolineato come anche un errore di rito manifestamente erroneo, che impedisca l’esame dei motivi di ricorso, integri i presupposti per l’annullamento con rinvio. In particolare, l’Adunanza ha chiarito che la ricostruzione del quadro normativo consente di rendere coerenti tra loro le disciplinate dall’art. 105 c.p.a., in quanto sia in caso di nullità della sentenza (per palese errore di giudizio sulle condizioni dell’azione) che in quelli di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea estinzione o perenzione, viene in rilievo non qualsiasi errore di giudizio, ma quell’errore di giudizio che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.

Questa interpretazione consente di evitare disparità di trattamento tra i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 2, c.p.a., che impongono l’annullamento con rinvio, e i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma1, c.p.a., non espressamente richiamati dall’art. 105 c.p.a. Non appare, infatti, ragionevole trattare in modo differente il ricorrente colpito da un’erronea dichiarazione di inammissibilità rispetto a quello destinatario di una corretta dichiarazione di estinzione del giudizio.

Il principio di diritto che si è consolidato prevede, dunque, che il Consiglio di Stato rimetta la causa al giudice di primo grado qualora dichiari la nullità della sentenza, anche nei casi in cui quest’ultima abbia erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso, escludendo in modo palese la legittimazione o l’interesse del ricorrente.

Nel caso di specie, il T.A.R ha erroneamente ritenuto insussistente l’interesse a ricorrere sulla base del solo rilievo del vincolo derivante dalla cauzione, omettendo tuttavia di considerare le argomentazioni della ricorrente in ordine al proprio interesse a conseguire il bene della vita oggetto delle domande azionate. Pertanto, la sentenza appellata deve essere annullata con rinvio al medesimo T.A.R. ex art. 105 c.p.a., in ragione dell’accertata erroneità della pronuncia di inammissibilità per difetto di interesse.

 

(*Contributo in tema di “Annullamento con rinvio ed erroneità della declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

assegno di inclusione

Assegno di inclusione: guida alla misura Cos'è l'assegno di inclusione, misura di sostegno economico introdotta dal 2024 dal dl n. 48/2023 convertito dalla legge n. 85/2023

Assegno di Inclusione (ADI): dal 1° gennaio 2024

L’Assegno di Inclusione (ADI) è una misura nazionale di sostegno economico introdotta a decorrere dal 1° gennaio 2024 con l’articolo 1 del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, convertito con modificazioni dalla legge 3 luglio 2023, n. 85. La misura, gestita dall’INPS, mira a contrastare la povertà e favorire l’inclusione sociale e lavorativa delle persone in situazioni di disagio economico.

In cosa consiste l’ADI

L’ADI è un beneficio economico mensile erogato alle famiglie che rispettano determinati requisiti di reddito e patrimonio. La misura sostituisce il Reddito di Cittadinanza, concentrandosi su politiche attive di lavoro e sul supporto personalizzato. L’importo dell’assegno varia in base alla composizione del nucleo familiare e alle specifiche condizioni economiche dei beneficiari.

Chi può richiedere l’ADI

I destinatari dell’Assegno di Inclusione sono le famiglie che soddisfano i seguenti requisiti:

  • Requisiti economici: Un ISEE non superiore a 10.140 euro annui, un patrimonio mobiliare non superiore a 10mila euro (per i nuclei composti da tre o più componenti, soglia aumentata di mille euro per ogni figlio a partire dal terzo; ovvero non superiore a seimila euro per i nuclei di un solo componente e a 8mila euro per i nuclei di due componenti) e immobiliare (in Italia e all’estero), spiega l’INPS, “come definito ai fini ISEE diverso dalla casa di abitazione di valore ai fini dell’imposta municipale propria (IMU) non superiore a 150.000 euro, non superiore a 30.000 euro”. A seguito dell’entrata in vigore del dpcm 13/2025, del 5 marzo 2025, da aprile 2025, inoltre, titoli di Stato, buoni fruttiferi postali e libretti di risparmio postale sono esclusi dal calcolo dell’ISEE (per un importo massimo di 50mila euro per nucleo familiare) rendendo più semplice ottenere il beneficio;
  • Residenza e cittadinanza: I richiedenti devono essere cittadini italiani, dell’Unione Europea o extracomunitari con permesso di soggiorno di lungo periodo e residenti in Italia da almeno cinque anni, di cui gli ultimi due continuativi.
  • Requisiti ulteriori: Non essere sottoposti a misure cautelari personali o di prevenzione nè avere sentenze definitive di condanna intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta; non essere disoccupati; non risiedere in strutture a totale carico pubblico; aver adempiuto all’obbligo di istruzione per i beneficiari tra i 18 e i 29 anni ovvero “essere iscritto e frequentare percorsi di istruzione degli adulti di primo livello, funzionali all’adempimento del predetto obbligo di istruzione”.

Modalità di erogazione

L’importo dell’ADI viene calcolato tenendo conto del reddito disponibile del nucleo familiare. L’accredito del beneficio avviene mensilmente su una carta di pagamento elettronica (Carta di Inclusione o Carta ADI) per un periodo continuativo non superiore a 18 mesi, che può essere rinnovato per ulteriori 12 mesi.

La carta consente non solo di effettuare acquisti di beni di prima necessità, ma anche di prelevare contante entro limiti stabiliti.

Bonus ponte luglio 2025

Abbiamo appena visto che l’assegno di inclusione, decorrente da 1° gennaio 2024 dura inizialmente 18 mesi, rinnovabili per altri 12, con una sospensione obbligatoria di un mese tra i due cicli.

Per evitare disagi ai soggetti più svantaggiati, il Ministero del Lavoro ha annunciato un “contributo straordinario” per coprire questa pausa di un mese, erogato a fine giugno o inizio luglio 2025. Si tratta di una misura “ponte”, non di una nuova rata dell’assegno e sarà resa operativa con un decreto o una circolare attuativa.

Per chiarire il funzionamento di questa misura straordinaria l’INPS ha emanato il messaggio n. 2458 dell’8 agosto 2025.

Il messaggio spiega che il decreto-legge 26 giugno 2025, n. 92, ha introdotto un contributo straordinario aggiuntivo per i nuclei familiari che beneficiano dell’Assegno di Inclusione. Questo contributo è stato pensato per supportare le famiglie che, dopo aver usufruito dell’ADI per 18 mesi, devono affrontare la sospensione del beneficio per un mese, come previsto dalla legge.

L’INPS chiarisce che la misura straordinaria spetta alle famiglie che, al termine dei primi 18 mesi di ADI, presentano la domanda per il rinnovo del beneficio e superano i controlli necessari. Il contributo è pari all’importo della prima mensilità di rinnovo dell’ADI, non può superare i 500 euro e viene pagato insieme alla prima mensilità di rinnovo dell’ADI. Per le domande di rinnovo presentate a luglio 2025, il pagamento avverrà il 14 agosto 2025. Per le domande successive, il contributo sarà erogato sempre insieme alla prima mensilità di rinnovo, ma comunque non oltre il mese di dicembre 2025. Nelle comunicazioni ufficiali, il contributo sarà identificato con la dicitura: “Contributo straordinario aggiuntivo ai sensi dell’art. 10-ter del DL n. 92/2025”.

Obblighi per i beneficiari

L’Assegno di Inclusione non è solo un aiuto economico, ma si inserisce in un percorso di reinserimento sociale e lavorativo. I beneficiari, infatti, devono sottoscrivere un Patto di Inclusione che prevede la partecipazione a programmi formativi, tirocini o attività lavorative. Sono previste esenzioni per chi non è in grado di lavorare per motivi di salute o altre condizioni specifiche.

Il beneficio decorre dal mese successivo a quello di sottoscrizione, da parte del richiedente, del Patto di attivazione digitale del nucleo familiare (PAD) all’esito positivo dell’istruttoria.

Come presentare la domanda

La richiesta dell’ADI può essere effettuata tramite il portale online dell’INPS, accedendo in via telematica con SPID, CIE o CNS, alla pagina dedicata al servizio, oppure rivolgendosi a un Centro di Assistenza Fiscale (CAF) o ancora presso i patronati.

È necessario presentare tutta la documentazione richiesta, tra cui l’ISEE aggiornato.

licenziamento dei dirigenti

Licenziamento dei dirigenti durante il Covid: è legittimo La Corte costituzionale ha dichiarato legittimo il licenziamento dei dirigenti durante l’emergenza Covid, ritenendo conforme alla Costituzione il diverso trattamento rispetto agli altri lavoratori

Licenziamento dei dirigenti durante il Covid

Licenziamento dei dirigenti: con la sentenza n. 141/2025, la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di Catania in merito al divieto di licenziamenti economici introdotto durante la pandemia da Covid-19.
La norma non includeva i dirigenti, per i quali restava possibile il licenziamento individuale, mentre veniva applicato il blocco solo in caso di licenziamenti collettivi.

Blocco dei licenziamenti individuali

La Consulta ha chiarito che il diverso trattamento non è in contrasto con l’art. 3 della Costituzione.
Il dirigente, infatti, ricopre una posizione peculiare di autonomia e rappresentanza, assimilabile a quella dell’imprenditore. Questo status giustifica l’applicazione del principio di libera recedibilità, senza le garanzie previste per gli altri lavoratori subordinati.

Il ruolo della contrattazione collettiva

Pur ribadendo la definizione legale di “dirigente” (art. 2095 cod. civ.), la Corte ha sottolineato che la contrattazione collettiva e il datore di lavoro possono attribuire tale qualifica anche come riconoscimento di miglior favore, senza che ciò incida sulla disciplina generale dei licenziamenti.

La disciplina eccezionale durante la pandemia

Il legislatore, durante l’emergenza sanitaria, ha riproposto per i dirigenti lo stesso assetto previsto in via ordinaria:

  • i licenziamenti collettivi erano bloccati,

  • i licenziamenti individuali per motivi economici restavano consentiti.

Questa scelta, secondo la Corte, rientra nella discrezionalità del legislatore e rispetta i principi di eccezionalità, temporaneità e proporzionalità, già richiamati in precedenti pronunce.

Una misura proporzionata e temporanea

Il blocco dei licenziamenti durante il Covid è stato considerato uno strumento eccezionale, legato alla durata della pandemia e adottato come extrema ratio per tutelare interessi sociali ed economici generali.
Nel caso dei dirigenti, il legislatore ha ritenuto coerente limitare la tutela al solo ambito dei licenziamenti collettivi, senza violare la Costituzione.

cittadinanza iure sanguinis

Cittadinanza iure sanguinis: nessuna censura La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sull’articolo 1 della legge 91/1992 riguardanti la cittadinanza iure sanguinis

Cittadinanza iure sanguinis: la decisione della Consulta

Con la sentenza n. 142 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili e non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da diversi tribunali italiani sull’articolo 1 della legge n. 91/1992.
La norma prevede che sia cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini italiani, senza introdurre limiti all’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis.

Le questioni sollevate dai tribunali

I giudizi erano stati avviati da discendenti di cittadini italiani nati e residenti all’estero, già in possesso della cittadinanza di altro Stato.
Secondo i giudici rimettenti, la disciplina non assicura un effettivo legame con l’ordinamento italiano, mancando ulteriori criteri idonei a stabilire tale connessione.

Il ruolo del legislatore e i limiti della Corte

La Corte ha sottolineato che la definizione dei presupposti per l’acquisizione della cittadinanza rientra nell’ampio margine di discrezionalità del legislatore.
Il suo intervento è limitato a verificare che i criteri stabiliti non siano estranei o in contrasto con i principi costituzionali.

Le censure dichiarate inammissibili

Le questioni relative agli articoli 1, 3 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo anche in riferimento al diritto dell’Unione europea e agli obblighi internazionali – sono state dichiarate inammissibili.
La Corte ha rilevato che i rimettenti non avevano individuato in modo puntuale quali norme internazionali sarebbero state violate.

Le questioni dichiarate non fondate

Sono state dichiarate non fondate le doglianze che denunciavano una disparità di trattamento rispetto ad altri meccanismi di acquisizione della cittadinanza.
Secondo la Corte, mancava la sostanziale identità delle situazioni giuridiche, condizione necessaria per configurare una violazione del principio di eguaglianza.

La nuova disciplina e i suoi limiti di applicazione

Durante la pendenza del giudizio è intervenuto il decreto-legge n. 36 del 2025, convertito nella legge n. 74 del 2025, che ha introdotto nuovi limiti all’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis.
Tuttavia, la Corte ha chiarito che tali disposizioni non trovano applicazione nei procedimenti da cui sono scaturite le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al suo esame.

sanzioni tributarie

Cassazione: le sanzioni tributarie non si ereditano Le sanzioni tributarie non si trasmettono agli eredi. La Cassazione ha ribadito che la morte del contribuente estingue il credito erariale derivante da violazioni fiscali

Sanzioni tributarie: il principio affermato dalla Cassazione

Con l’ordinanza n. 22476/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che le sanzioni tributarie hanno natura personale e, in caso di decesso del contribuente, non possono essere trasmesse agli eredi.
Una volta documentata la morte del soggetto destinatario della sanzione, viene meno la materia del contendere.

La vicenda processuale

Il caso riguardava un contribuente che deteneva investimenti non dichiarati all’estero. Dalla documentazione acquisita risultavano sanzioni calcolate in misura pari a 246.806 euro per l’anno 2008 e a 216.840 euro per l’anno 2009.
Nel corso del procedimento il contribuente è deceduto (22 giugno 2024) e la questione è giunta in Cassazione.

La normativa applicabile

La Corte ha richiamato l’articolo 8 del decreto legislativo n. 472/1997, che sancisce l’intrasmissibilità agli eredi delle sanzioni tributarie. Tale previsione discende dal principio di responsabilità personale, già contenuto nell’articolo 2 dello stesso decreto.
In altre parole, la sanzione riguarda esclusivamente la condotta dell’autore della violazione e non può gravare sui suoi successori.

Effetti del decesso: estinzione del credito erariale

Secondo la Cassazione, il credito dell’erario derivante da violazioni tributarie riferibili a persone fisiche si estingue con la morte dell’autore.
Pertanto, una volta accertato il decesso, l’Amministrazione finanziaria non può più pretendere il pagamento e il giudizio deve dichiararsi estinto.

Nessuna condanna alle spese

I giudici hanno inoltre chiarito che non vi è luogo a provvedere sulle spese di giudizio. Richiamando l’orientamento già espresso in materia di sanzioni amministrative (Cass. n. 29577/2021), la Corte ha precisato che la morte del destinatario rende superfluo l’esame dei motivi di ricorso e impedisce l’applicazione del criterio della “soccombenza virtuale”.

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giurista risponde

Il contratto di locazione ispirato a finalità distrattive Un contratto di locazione può essere dichiarato nullo per contrarietà a norma imperativa ove ispirato a finalità distrattive?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Davide Venturi

 

Un contratto di locazione può essere dichiarato nullo per contrarietà a norma imperativa ove ispirato a finalità distrattive. – Cass., sez. I, ord. 9 aprile 2025, n. 9357.

Nell’ordinanza in esame la Suprema Corte ha specificato che in linea di principio, in assenza di una norma che vieti in via generale di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, un contratto lesivo dei diritti e delle pretese satisfattorie dei creditori non è di per sé illecito. Ne deriva che non può essere dichiarato nullo per illiceità della causa, né per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alle parti (se il contratto è stipulato con finalità vietata dall’ordinamento perché contraria norma imperativa, all’ordine pubblico o al buon costume), in quanto l’ordinamento appresta, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione di inefficacia.

Qualora però, oltre al pregiudizio dei creditori, un contratto violi anche una norma imperativa penale, l’atto negoziale è nullo ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.

Trattasi delle ipotesi c.d. di reato-contratto (come la vendita di sostanze stupefacenti, la ricettazione, il commercio di prodotti con segni falsi, il trasferimento di un bene in pagamento di un debito usurario) ove il contratto collide così gravemente con interessi di indole generale da assurgere di per sé alla qualificazione di reato.

Allo stesso modo, anche gli atti attraverso cui la società, poi assoggettata a procedura concorsuale, abbia determinato il trasferimento in favore di terzi di beni propri, così distraendoli alla soddisfazione della massa dei creditori, risultano assoggettati alla sanzione di nullità in quanto compiuti in violazione di norme incriminatrici, in materia di bancarotta (oggi liquidazione coatta amministrativa), norme altresì applicabili anche all’amministrazione straordinaria di una grande impresa dichiarata insolvente a norma dell’art. 95, comma 1 del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270.

Ciò rende evidente che l’area delle norme inderogabili la cui violazione può determinare la nullità del contratto è più ampia e non comporta di far riferimento al solo contenuto del contratto medesimo, ma ricomprende anche tutte quelle norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni, oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto.

Tuttavia, se al momento della dichiarazione giudiziale di insolvenza non sussiste più alcun pericolo concreto di per le ragioni dei creditori, essendosi posto effettivo rimedio agli atti distrattivi precedentemente compiuti (la c.d. bancarotta “riparata”), non sussisterebbe più l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, con la conseguenza che è da escludersi la nullità dei contratti in essere.

Ebbene, un contratto di locazione, dedotto a sostegno della domanda di ammissione al passivo del credito dell’imposta di registro sostenuta, non può essere considerato nullo poiché elemento concorrente alle operazioni distrattive volte a depauperare parte del patrimonio societario (la cui integrità è il bene giuridico tutelato dal precetto penale quale norma imperativa di riferimento) se dall’operazione distrattiva compiutamente realizzata per effetto di precedenti delibere assembleari ormai definitive non risulti il collegamento funzionale del contratto di locazione medesimo con le operazioni societarie distrattive stesse di cessione degli immobili sociali al creditore che vanta il credito stesso. Per la Suprema Corte, il collegamento, invero, può risultare da dati fattuali quali la misura abnorme dei canoni pattuiti, altrimenti il contratto è valido.

 

(*Contributo in tema di “Il contratto di locazione ispirato a finalità distrattive”, a cura di Valentina Riente e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

assegno divorzile

Assegno divorzile: nessuna riduzione per il mancato pagamento delle spese straordinarie La Cassazione chiarisce che l’inadempimento dell’ex coniuge alle spese straordinarie per i figli non incide sul diritto all’assegno divorzile. La Corte precisa inoltre i limiti del principio di non contestazione tra le parti

Assegno divorzile: la questione portata in Cassazione

Un ex marito aveva impugnato la decisione della Corte d’appello, chiedendo la riduzione dell’assegno divorzile da 1.500 a 250 euro mensili.
Secondo il ricorrente, la ex moglie – beneficiaria dell’assegno – non aveva rispettato l’obbligo di contribuire alle spese straordinarie del figlio nella misura del 30%. Inoltre, egli sosteneva di aver sostenuto di tasca propria ulteriori spese “voluttuarie” a favore del figlio, elemento che, a suo avviso, avrebbe dovuto incidere sul diritto della donna a percepire l’assegno.

La posizione della Suprema Corte

La Cassazione, con la sentenza n. 19670/2025, ha respinto questo motivo di ricorso, precisando che:

  • le spese straordinarie rappresentano obblighi autonomi, distinti dal diritto all’assegno divorzile;

  • l’eventuale inadempimento della madre può essere fatto valere come violazione del provvedimento di divorzio, ma non comporta automaticamente la riduzione o la perdita dell’assegno;

  • le spese ulteriori sostenute volontariamente dal padre per il figlio sono irrilevanti rispetto alla posizione giuridica della madre.

L’errore sul principio di non contestazione

La Corte ha però accolto gran parte delle doglianze dell’ex marito (sei motivi su otto), evidenziando che i giudici di merito avevano applicato in maniera errata il principio di non contestazione.
Il giudice di primo grado e quello di appello avevano ritenuto che il ricorrente non avesse specificamente contestato i presupposti perequativi e compensativi dell’assegno divorzile, considerandoli così non contestati.
La Cassazione ha invece rilevato che l’uomo aveva sempre messo in discussione la parte perequativa dell’assegno, sottolineando che entrambi i coniugi avevano lavorato a tempo pieno durante il matrimonio, senza scelte condivise che avessero penalizzato la moglie nella carriera.

Funzione dell’assegno divorzile

La Suprema Corte ha ribadito che l’assegno divorzile ha una duplice funzione:

  • assistenziale, a favore del coniuge economicamente più debole;

  • perequativo-compensativa, che richiede un’attenta verifica delle scelte di vita condivise durante il matrimonio e dei sacrifici eventualmente sostenuti da uno dei coniugi.

Se, come nel caso esaminato, entrambi hanno mantenuto un’attività lavorativa stabile e autonoma, non può essere riconosciuta una funzione perequativa automatica.

La contestazione sulla capacità reddituale della ex moglie

L’ex marito aveva anche contestato la presunta inattività della ex moglie nel migliorare la propria condizione economica.
La Cassazione ha respinto tale motivo, osservando che la donna aveva sempre esercitato la professione di infermiera a tempo pieno, circostanza che escludeva qualsiasi addebito di inerzia o scarsa diligenza.

conduttore condannato

Conduttore condannato: negare le visite all’immobile costa il risarcimento l Tribunale di Roma ha condannato un conduttore al pagamento di sei mensilità di canone per aver impedito al locatore le visite all’immobile dopo il recesso dal contratto

Conduttore condannato: il caso portato in Tribunale

Conduttore condannato al risarcimento per aver negato le visite all’immobile. La controversia nasce dal recesso esercitato da un conduttore, il quale aveva comunicato l’intenzione di lasciare l’immobile il 30 settembre 2021, ma lo aveva riconsegnato solo il 21 ottobre 2021.
Durante questo periodo, nonostante l’espresso obbligo contrattuale, il conduttore aveva negato le visite all’immobile richieste dal locatore per reperire nuovi inquilini.

La domanda del locatore

Il proprietario chiedeva il risarcimento pari a sei mensilità di canone (1.600 euro ciascuna) per l’impossibilità di locare tempestivamente l’appartamento, oltre al rimborso di ulteriori danni agli interni dell’immobile.

La decisione del Tribunale di Roma

Il giudice, dott.ssa Chiara Salvatori della VI sezione civile, ha ritenuto fondata la domanda del locatore.
In particolare, è stato accertato che:

  • il contratto di locazione, regolarmente sottoscritto dalle parti, prevedeva all’art. 13 l’obbligo del conduttore di consentire due visite settimanali;

  • il documento prodotto dal conduttore, privo di firme e con clausole diverse, non poteva essere considerato;

  • il rifiuto del conduttore non poteva essere giustificato né dall’emergenza sanitaria, né dall’invio di video parziali dell’immobile, che non sostituivano le visite in presenza.

La condanna del conduttore

Il Tribunale ha quindi stabilito che:

  • al conduttore non spettava la restituzione del deposito cauzionale, già rimborsato in via monitoria;

  • l’inadempimento contrattuale giustificava la condanna al risarcimento pari a sei mensilità di canone;

  • il conduttore doveva inoltre farsi carico delle spese di lite.

Il principio ribadito dal giudice

La sentenza sottolinea che il conduttore non può sottrarsi all’obbligo di consentire le visite, trattandosi di una clausola contrattuale vincolante volta a tutelare l’interesse del locatore a non subire vuoti locativi.
Il mancato rispetto di tale obbligo costituisce un inadempimento contrattuale che legittima il risarcimento dei danni.

cubo di rubik

Cubo di Rubik è opera dell’ingegno La Cassazione ribadisce che il cubo di Rubik resta protetto dal diritto d’autore come opera dell’ingegno, anche dopo l’annullamento del marchio 3D da parte della Corte Ue

Cubo di Rubik: la vicenda giudiziaria

La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 27641/2025, ha confermato la condanna di una donna per violazione della legge sul diritto d’autore (art. 171, comma 1, lett. a), legge n. 633/1941).
L’imputata era stata riconosciuta responsabile della riproduzione e della commercializzazione di 21 cubi di Rubik e oltre 63.000 stickers raffiguranti personaggi Disney.

La difesa aveva sostenuto che, a seguito della decisione della Corte di giustizia europea che aveva escluso la registrazione del marchio tridimensionale del cubo, non vi fosse più alcuna tutela.

La posizione della Cassazione

La Suprema Corte ha respinto l’argomento difensivo, chiarendo che l’impossibilità di registrare il marchio non incide sulla protezione accordata dal diritto d’autore.
Il cubo di Rubik è qualificabile come opera dell’ingegno ai sensi della legge n. 633/1941, la quale tutela la creatività e lo sfruttamento economico delle opere, indipendentemente da formalità legate a marchi o brevetti.

Il Collegio ha richiamato precedenti giurisprudenziali in materia, come:

  • Cass. n. 45735/2016 (magliette con personaggi animati);

  • Cass. n. 17218/2011 (portacellulari con immagini di cartoni animati).

Il rapporto con le decisioni europee

La Cassazione ha giudicato “inconferente” il richiamo della difesa all’annullamento del marchio da parte della Corte Ue.
In linea con questo orientamento, anche il Tribunale Ue (sentenza 9 luglio 2025, C-1170/23, Spin Master v. EUIPO) e il Tribunale di Venezia (ordinanza 30 aprile 2025) hanno riconosciuto che il cubo può essere tutelato come opera di design industriale.

La valutazione sugli stickers Disney

Oltre al cubo di Rubik, la sentenza affronta la questione della riproduzione di stickers raffiguranti personaggi Disney. La Corte ha ritenuto provata la violazione sulla base della testimonianza degli operanti, evidenziando come la riproduzione fosse fedele e idonea a integrare il reato.

Esclusa la tenuità del fatto

La Cassazione ha infine respinto la richiesta di proscioglimento per particolare tenuità del fatto. Il numero considerevole dei prodotti sequestrati è stato ritenuto sufficiente per escludere tale possibilità.

La sentenza n. 27641/2025 ribadisce un principio fondamentale: la tutela penale del diritto d’autore non dipende dalla registrazione di un marchio o da un brevetto, ma dalla qualificazione dell’opera come frutto della creatività intellettuale.
Il cubo di Rubik, pur privo di marchio tridimensionale registrabile, resta dunque protetto come opera dell’ingegno.

Allegati

curriculum

Gonfiare il curriculum non è falso innocuo Il Consiglio di Stato stabilisce che dichiarare dati non veritieri nel curriculum equivale a falsa autocertificazione, con conseguente esclusione dalla procedura e segnalazione alla Procura

Autodichiarazioni curriculum e responsabilità del candidato

Il principio di lealtà e di autoresponsabilità governa tutte le dichiarazioni sostitutive rese alla Pubblica amministrazione. Chi presenta autocertificazioni non può trarre vantaggio da informazioni non veritiere, indipendentemente dal documento in cui queste compaiono. Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5020/2025, ha ribadito che anche le dichiarazioni inserite nel curriculum vitae rientrano nella disciplina delle autodichiarazioni e possono determinare la decadenza dal procedimento in caso di falsità.

Il caso del professore universitario

La vicenda riguardava un professore che aspirava a una nomina accademica di prestigio. Nel curriculum aveva dichiarato di essere titolare di due brevetti innovativi, pur non avendone ancora conseguito il riconoscimento: risultava soltanto una domanda depositata all’Ufficio Brevetti.
Il candidato otteneva l’incarico, ma un concorrente presentava ricorso al Tar, che annullava la procedura e demandava all’Ateneo le conseguenze di legge.

La decisione del Consiglio di Stato

Il giudice amministrativo ha chiarito che il curriculum rappresenta parte integrante della documentazione valutata dall’amministrazione e, di conseguenza, deve contenere solo informazioni veritiere.
In caso di dichiarazioni mendaci, l’amministrazione non ha margini di discrezionalità: deve dichiarare la decadenza dalla procedura e segnalare i fatti alla Procura per le eventuali conseguenze penali.

Brevetti e qualificazione tecnica

Ai sensi del Testo unico sulla documentazione amministrativa, possono essere autocertificati titoli professionali e qualificazioni tecniche. I brevetti rientrano in questa categoria.
Per questo motivo, la falsa dichiarazione contenuta nel curriculum non può essere considerata un elemento irrilevante, ma assume rilievo essenziale ai fini della valutazione della candidatura.

Curriculum e domanda di partecipazione: nessuna differenza

Il Consiglio di Stato ha escluso che possa farsi distinzione tra fatti dichiarati nel curriculum vitae e quelli inseriti nella domanda di partecipazione. In entrambi i casi si tratta di autocertificazioni che devono rispettare il requisito della veridicità.
La collocazione formale della dichiarazione, dunque, non attenua le conseguenze giuridiche: dichiarare il falso in un curriculum richiesto dal bando comporta gli stessi effetti che se fosse stato inserito nella domanda.

Esclusione inevitabile

Il massimo giudice amministrativo ha concluso che le false dichiarazioni non rappresentano mai un “falso innocuo”: incidono sulla procedura sia quando servono a dimostrare il possesso dei requisiti di partecipazione, sia quando influiscono sull’attribuzione del punteggio.
Pertanto, la falsità dichiarativa determina sempre l’esclusione dalla procedura e l’attivazione delle ulteriori conseguenze previste dalla legge.