pensione integrativa vantaggi

Pensione integrativa: cos’è, come funziona e quali vantaggi La pensione integrativa si ottiene aderendo a una delle varie forme di previdenza complementare disciplinate dal decreto legislativo n. 252/2005

Pensione integrativa: cos’è?

La pensione integrativa è una forma di previdenza complementare privata che si va ad aggiungere a quella obbligatoria. La caratteristica principale della previdenza complementare è che l’adesione è del tutto libera e volontaria.

Normativa di riferimento

La normativa di riferimento per comprendere le regole e il funzionamento della pensione integrativa è il decreto legislativo n. 252 del 5 dicembre 2005, contenente la disciplina delle forme pensionistiche complementari.

A cosa serve?

La pensione integrativa consente di aumentare il proprio trattamento pensionistico per fare fronte ai problemi e alle necessità future con maggiore tranquillità La pensione integrativa serve infatti a garantire un tenore di vita adeguato anche nel momento in cui si smette di lavorare e che il solo trattamento pensionistico obbligatorio potrebbe non garantire.

Il comma 1 dell’articolo 1 del Decreto legislativo n. 252/2005 stabilisce che la previdenza complementare eroga trattamenti pensionistici che vanno a integrare quello obbligatorio per assicurare dei livelli di copertura previdenziali più elevati.

I fondi pensione

Le forme pensionistiche complementari si attuano attraverso la costituzione di fondi o patrimoni distinti separati, che nella denominazione devono contenere il termine “fondo pensione” e che non possono essere utilizzati da altri soggetti.

Le forme pensionistiche possono essere istituite tramite contratti e accordi collettivi, accordi tra lavoratori autonomi o tra liberi professionisti, regolamenti di enti o aziende, accordi tra i soci lavoratori di cooperative, da enti di diritto privato, dalle regioni, ecc.

Le fonti che istituiscono le forme pensionistiche complementari devono disciplinare le modalità di partecipazione, senza obbligare tuttavia nessuno ad aderirvi.

Chi può aderire alla previdenza complementare?

I soggetti che possono aderire e quindi beneficare dei frutti dei fondi pensione sono i lavoratori dipendenti del settore pubblico e di quello privato, i lavoratori autonomi, i liberi professionisti, i soci lavoratori delle società cooperative di produzione e lavoro, i soggetti che svolgono attività non retribuite a causa di responsabilità familiari, ma anche lavoratori occasionali o i lavoratori a progetto.

Ai fondi pensione possono aderire inoltre gli studenti e i soggetti che risultano fiscalmente a carico di qualcun altro, siano essi maggiorenni o minorenni.

Come si finanzia la pensione integrativa

Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari, come specificato dall’articolo 8 del decreto legislativo n. 252/2005, può essere attuato in modi diversi:

  • con il versamento dei contributi che sono a carico del lavoratore;
  • con il versamento dei contributi che devono essere sostenuti dal datore di lavoro o dal committente;
  • tramite il conferimento del TFR

L’integrazione pensionistica dei lavoratori e dei liberi professionisti è invece totalmente a loro carico.

Pensione integrativa: come funziona?

Da quanto detto emerge che la pensione integrativa si snoda attraverso tre fasi ben distinte anche dal punto di vista temporale:

  • adesione: in questa prima fase il lavoratore decide di aderire a una forma di previdenza complementare;
  • contribuzione: quando il lavoratore ha deciso a quale forma di previdenza integrativa o complementare aderire l’istituto che la gestisce apre una posizione individuale a suo nome che viene alimentata dai contributi versati (o anche dal TFR) e dai rendimenti maturati dalla gestione stessa;
  • acquisizione del diritto alla pensione integrativa: l’ultima fase, che si verifica quando il soggetto matura i requisiti contributivi e anagrafici per la pensione pubblica e quando partecipa da almeno 5 anni a una forma pensionistica complementare consiste nella “riscossione” della rendita maturata. Del diritto alla pensione integrativa il titolare può richiederne la liquidazione sotto forma di capitale nella percentuale massima del 50%.

Pensione integrativa: vantaggi

I vantaggi derivanti dall’adesione a una forma di previdenza complementare per ottenere una pensione integrativa sono molteplici, anche perché, a causa delle ultime riforme, i trattamenti pensionistici saranno comunque inferiori alle retribuzioni percepite durante l’attività lavorativa.

Diverse le ragioni per le quali conviene crearsi una pensione integrativa.

  • Agevolazioni fiscali: come previsto dall’articolo 8 del decreto legislativo n. 252/2005 “I contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro o committente, sia volontari sia dovuti in base a contratti o accordi collettivi, anche aziendali, alle forme di previdenza complementare, sono deducibili, ai sensi dell’articolo 10 TUIR dal reddito complessivo per un importo non superiore ad euro 5.164,57”. L’articolo 17 del dlgs n. 252/2005 che disciplina il regime tributario prevede che i fondi pensione siano soggetti “ad imposta sostitutiva delle imposte sui redditi nella misura dell’20 per cento, che si applica sul risultato netto maturato in ciascun periodo d’imposta” che è una percentuale più favorevole rispetto a quelle applicate alla maggior parte del risparmio finanziario. Se poi una parte del rendimento è frutto di un investimento in titoli di Stato la tassazione scende al 12,5%. La posizione non è soggetta al pagamento dell’imposta di successione. I prodotti sono esentati dal pagamento dell’imposta di bollo.
  • Impignorabilità: l’art. 11 del decreto legislativo n. 252/2005 al comma 10 dispone che “Ferma restando l’intangibilità delle posizioni individuali costituite presso le forme pensionistiche complementari nella fase di accumulo, le prestazioni pensionistiche in capitale e rendita, e le anticipazioni (…), sono sottoposti agli stessi limiti di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità in vigore per le pensioni a carico degli istituti di previdenza obbligatoria”.
  • Flessibilità: le forme di previdenza complementare sono molto elastiche, perché è possibile modificare l’entità delle somme da versare, così come la loro frequenza. E’ consentito inoltre sospendere i versamenti e poi riattivarli senza subire conseguenze negative. E’ possibile inoltre chiedere un’anticipazione della propria posizione nei casi e nei tempi stabiliti dal comma 7 dell’articolo 11 del decreto legislativo n. 252/2005.
reddito di emergenza rem

Reddito di emergenza: la guida Il Reddito di emergenza (REM) concesso in piena pandemia ha rappresentato un sostegno economico importante per le famiglie in maggiore difficoltà

Reddito di emergenza: cos’è

Il Reddito di emergenza (REM), ad oggi non più in vigore,  ha rappresentato un’importante forma di sostegno economico in epoca Covid per aiutare i nuclei familiari in difficoltà a causa della pandemia. Il REM è stato introdotto dal decreto legge n. 34/2020. Il decreto legge n. 104/2020 ha previsto poi la possibilità di poter richiedere una mensilità ulteriore di REM. Il successivo decreto n. 137/2020 ha previsto infine la possibilità di ottenere due quote ulteriori di REM per le mensilità di novembre e dicembre 2020.

Quest’ultima tranche di reddito di emergenza è stata riconosciuta:

  • d’ufficio ai nuclei familiari che avevano già beneficiato della misura in base al decreto legge n. 104/2020;
  • su domanda di parte per quei nuclei familiari che non avevano mai ottenuto il REM o che lo avevano ottenuto solo in virtù del primo decreto legge n. 34/2020.

La misura del beneficio prevista dai decreti n. 134/2020 e n. 137/2020 è stata riconosciuta in favore di quei nuclei familiari titolari di un reddito inferiore all’ammontare del beneficio.

Requisiti soggettivi ed economici dei beneficiari

Il reddito di emergenza è stato riconosciuto a quei nuclei familiari che, nel momento di presentazione  della domanda, presentavano i seguenti requisiti soggettivi, reddituali e patrimoniali:

  • residenza in Italia verificata in relazione al soggetto richiedente;
  • reddito familiare nei mesi di aprile, maggio e settembre 2020 inferiore all’importo del beneficio potenziale riconosciuto;
  • patrimonio immobiliare familiare riferito al 2019 inferiore a 10.000 euro, soglia che saliva di 5000 euro in presenza di un componente aggiuntivo rispetto al primo (fino a un massimo di 20.000 euro) o in presenza di un componente familiare affetto da disabilità grave o non autosufficiente;
  • ISEE documentato da DSU valida inferiore a 15.000 euro.

I primi tre requisiti potevano essere autocertificati all’interno della domanda, la veridicità di quanto dichiarato comportava la revoca del REM o la restituzione di quanto già percepito. Il requisito dell’ISEE era invece oggetto di verifica da parte dell’INPS nella DSU.

REM: modalità di presentazione della domanda

La domanda per la prima tranche di REM, prevista dal decreto legge n. 34/2020, poteva essere presentata entro il 30 giugno 2020, termine poi prorogato al 31 luglio 2020. La domanda per la mensilità prevista dal decreto legge 104/2020 poteva essere presentata dal 15 settembre al 15 ottobre 2020. La domanda per il REM prevista dal decreto legge n. 137/2020 poteva essere presentata infine dal 10 al 30 novembre 2020.

Le modalità di presentazione della domanda erano le seguenti:

  • in modalità telematica dal sito ufficiale dell’INPS, dopo essersi autenticati con il Pin, lo SPID almeno di livello 2, la Carta Nazionale dei Servizi o la Carta d’Identità Elettronica,
  • avvalendosi dei servizi offerti dai CAF e dai Patronati.

Importo del Reddito di emergenza

Per il calcolo del reddito di emergenza mensile si doveva moltiplicare l’importo di 400 euro per il valore della scala di equivalenza. La scala di equivalenza presentava i seguenti valori di riferimento:

  • 1 per il primo componente del nucleo familiare, con un incremento:
  • di 0,4 per ogni altro componente oltre il primo purché maggiore di anni 18;
  • di 0,2 per ogni componente minore di età, fino a un massimo di 2, o di 2,1 in presenza di componenti familiari gravemente disabili o non autosufficienti.

L’importo massimo in ogni caso non poteva superare gli 800,00 euro mensili, che potevano salire a 840 euro, solo se nel nucleo familiare erano presenti disabili gravi o non autosufficienti.

Facciamo un esempio per comprendere meglio il funzionamento. In presenza di un nucleo familiare composto da due adulti e da un minore la scala di equivalenza è pari a 1,6, risultato che si ottiene sommando al primo componente familiare di valore 1, il secondo componente maggiorenne di valore 0,4 e il terzo componente familiare minorenne di valore 0,2. Moltiplicando l’importo base di 400 euro per il valore della scala di equivalenza di 1,6 l’importo  del REM era pari a 640 euro.

Durata del reddito di emergenza

Il reddito di emergenza, come anticipato, ha rappresentato una misura straordinaria prevista durante il periodo della pandemia in favore delle famiglie in difficoltà. Il decreto n. 34/2020 e il decreto n. 137/2020 hanno previsto l’erogazione di due mensilità. Il decreto legge n. 104/2020 ha previsto invece il riconoscimento di tre mensilità.

Aiuti incompatibili con il REM

Il R.E.M. era incompatibile con altre forme di aiuti previsti in epoca COVID, come l’indennità per i lavoratori che erano stati danneggiati dalla dall’emergenza epidemiologica. Pertanto, se all’interno del nucleo familiare, un soggetto era già percettore della suddetta indennità, il reddito di emergenza non poteva essere concesso.

La misura inoltre era incompatibile con la titolarità di una pensione diretta o indiretta, con la titolarità di un rapporto di lavoro subordinato con retribuzione lorda superiore alla soglia massima del reddito familiare e infine con la titolarità del reddito o della pensione di cittadinanza.

reddito energetico nazionale

Reddito energetico nazionale: come ottenere il bonus Come funziona il Reddito Energetico Nazionale e a chi spetta il bonus energie rinnovabili per aiutare le famiglie in difficoltà economica a realizzare un piccolo impianto fotovoltaico

Reddito Energetico Nazionale: cos’è

Il reddito energetico nazionale è una misura introdotta dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica. Trattasi di un contributo per la copertura dei costi sostenuti per la realizzazione di impianti fotovoltaici a uso domestico da parte di famiglie in condizioni di difficoltà economica.

Riferimenti normativi

Al reddito energetico nazionale sono dedicati tre provvedimenti:

Obiettivi del bonus energie rinnovabili

Il contributo è finalizzato a incrementare la crescita delle energie rinnovabili su tutto il territorio nazionale con benefici sull’ambiente e sull’economia.

Il Fondo infatti si pone l’obiettivo di realizzare almeno 31.000 impianti fotovoltaici di piccole dimensioni per aiutare le famiglie in difficoltà, contrastare la scarsità di energia e aumentare la cultura e la diffusione delle energie rinnovabili.

Le risorse disponibili

Per la misura sono stati stanziati 200 milioni di euro ripartiti nella misura di 100 milioni di euro per ciascuna delle annualità interessate ossia il 2024 e il 2025. Ogni anno l’80% delle risorse è destinato alle regioni del sud Italia come l’Abruzzo, la Basilicata, la Campania, il Molise, la Puglia, la Sardegna e la Sicilia. Il restante 20% delle risorse è destinato alle altre regioni.

Per quanto riguarda le risorse del 2024, è bene sapere che quando è stato aperto lo sportello del Gestore dei Servizi Energetici (GSA) alle ore 12:00 del 5 luglio 2024, sono state registrate oltre 10.500 domande di accesso da parte dei cittadini delle regioni del meridione d’Italia con conseguente esaurimento delle risorse stanziate.

Limiti reddituali

Come anticipato, la misura è destinata a favorire il ricorso alle energie rinnovabili da parte delle famiglie che si trovano in una condizione di disagio economico. La misura è infatti destinata ai nuclei familiari che presentano un ISEE non superiore ai 15.000 euro; importo che sale a 30.000 euro se nel nucleo sono presenti quattro o più figli a carico.

La situazione economica viene verificata mediante il controllo della DSU dell’anno precedente. Occorre inoltre una certificazione ISEE valida in grado di confermare i requisiti reddituali richiesti prima di inoltrare la domanda per il contributo, di cui si può beneficiare una sola volta.

Titoli dei soggetti richiedenti

L’accesso al contributo è condizionato inoltre dalla titolarità di un diritto reale valido come il diritto di proprietà, superficie, usufrutto, uso, abitazione o enfiteusi su coperture o superfici di immobili, unità immobiliari e relative pertinenze o su spazi pertinenziali su cui dovrà essere realizzato l’impianto fotovoltaico.

Ovviamente il beneficiario o un altro soggetto facente parte del nucleo familiare ai fini ISEE deve essere intestatario di un contratto per la fornitura dellenergia elettrica per le utenze di consumo, che servono l’abitazione in cui ha la residenza anagrafica il nucleo familiare.

Requisiti degli impianti

Il contributo è soggetto anche a determinati requisiti degli impianti fotovoltaici, che devono essere di nuova realizzazione. Per poter accedere al contributo ogni impianto:

  • dovrà essere realizzato nel rispetto delle leggi vigenti;
  • l’attivazione potrà venire solo dopo aver avviato la domanda per ottenere l’agevolazione;
  • la potenza dell’impianto dovrà essere compresa tra i 2 e i 6 kilowatt;
  • l’impianto di produzione dovrà essere collegato a un punto di prelievo a cui non devono essere collegati altri impianti di produzione di energia;
  • l’impianto dovrà servire direttamente l’unità abitativa principale del beneficiario di categoria catastale A escluse le A1, A8, A9 e A10.

Domanda Reddito Energetico Nazionale

Dal 5 luglio, è aperto il portale per richiedere il Reddito Energetico Nazionale.

Sul sito del Gestore dei Servizi Energetici, che gestisce la misura per conto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, è possibile inviare la richiesta di accesso al contributo in conto capitale. Sul sito è possibile reperire anche un manuale e la guida rapida per la presentazione dell’istanza.

La vetrina dei realizzatori

Il Ministero e il Gestore dei Servizi Energetici (GSE) hanno realizzato una vetrina dei realizzatori, ossia un elenco degli installatori presenti sul territorio, aggiornati e formati nel rispetto degli obblighi di legge e in possesso delle qualifiche e dei requisiti necessari per effettuare sia l’installazione che la successiva manutenzione degli impianti fotovoltaici.

reato abuso ufficio

Abuso d’ufficio: addio definitivo Nel testo della riforma penale Nordio, approvata definitivamente dalla Camera il 10 luglio 2024, il reato di abuso d’ufficio scompare dal codice penale

Riforma penale Nordio: ok definitivo

Il disegno di legge Nordio sulla giustizia prevede, tra le varie novità, anche l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Il testo, approvato dal Senato, è stato sottoposto alla Commissione Giustizia della Camera, che ne ha concluso l’esame. Stante il rigetto di tutti gli emendamenti proposti il testo di legge è andato in Aula il 24 giugno 2024 nella stessa formulazione approvata dal Senato. Il 4 luglio, Montecitorio ha votato in via definitiva il primo articolo del ddl che abroga uno dei più classici reati contro la PA, l’abuso d’ufficio e il 10 luglio ha dato il via libera definitivo all’intero disegno di legge a firma del guardasigilli, che reca modifiche al codice penale, di procedura penale e all’ordinamento giudiziario, nonchè al codice dell’ordinamento militare.

Punto cardine del testo è senz’altro l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio a cui si aggiungono le altre misure.

Leggi anche Riforma penale Nordio è legge

Abuso d’ufficio: com’era

L’attuale versione letterale dell’articolo 323 del codice penale, che punisce il reato di abuso d’ufficio, prevede che, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un servizio pubblico che nello svolgimento delle sue funzioni o del suo servizio, violando specifiche regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dai quali non  residuano margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti dalla legge, procuri intenzionalmente a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale ingiusto ovvero arrechi ad altri un danno ingiusto è soggetto alla pena della reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata qualora il vantaggio o il danno presentino il carattere di rilevante gravità.

Reato plurioffensivo

Il reato di abuso d’ufficio è un reato di tipo plurioffensivo perché il bene giuridico tutelato dalla norma è rappresentato sia dal buon andamento della pubblica amministrazione che dal patrimonio del terzo che viene danneggiato a causa del comportamento del funzionario pubblico. Trattasi di un reato proprio perché è previsto solo se commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato al pubblico servizio nello svolgimento della sua attività. Oggetto del reato sono i provvedimenti amministrativi e qualunque specie di atto o di attività posti in essere dal funzionario. L’abuso d’ufficio è un reato di evento e il disvalore si configura nei momenti in cui si produce un ingiusto vantaggio patrimoniale a favore del soggetto agente o un danno ingiusto nei confronti di terzi. Il vantaggio ingiusto è di natura patrimoniale, il danno che viene commesso nei confronti del terzo non viene specificato, per cui può essere rappresentato da una ingiusta aggressione sia alla sfera personale che  patrimoniale della vittima.

Per quanto riguarda l’abusività della condotta il legislatore ha previsto che la stessa si configuri nei momenti in cui il soggetto agente violi norme di legge o di regolamento o l’obbligo di astenersi da situazioni caratterizzate da un conflitto di interessi. L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico.

Ragioni dell’abolizione dell’abuso d’ufficio

La riforma penale Nordio, nella versione definitiva (vedi fascicolo dell’iter del 16.06.2024) prevede l’abolizione del reato di abuso d’ufficio attraverso l’abrogazione dell’art. 323 c.p. che lo contiene.

Si ritiene che il reato di abuso d’ufficio abbia un’applicazione minimale. Il numero irrisorio delle condanne contrasta con il numero elevato di iscrizioni nel registro degli indagati. Si tratta di uno squilibrio costante nonostante le varie modifiche legislative, anche recenti, finalizzate a dare maggiore determinatezza alla disposizione. A questo deve aggiungersi l’elevato numero di interventi normativi finalizzati a prevenire comportamenti illeciti all’interno del settore pubblico.

Questo complesso sistema di rimedi preventivi e repressivi di natura penale, ma anche disciplinare, contabile, ed erariale, assicurano una protezione completa degli interessi pubblici. L’abolizione del reato consente il recupero di risorse, evitando che il sistema giudiziario si trovi impegnato inutilmente nel perseguire un reato con un numero di condanne irrisorie e che sia il soggetto coinvolto che la pubblica amministrazione subiscano inevitabili ripercussioni derivanti dalla persecuzione penale.

Abuso d’ufficio: pareri contrari all’abolizione

Non tutti ovviamente sono d’accordo nel procedere all’abolizione del reato di abuso d’ufficio per vari motivi. C’è chi ammette che il numero di condanne per il reato di abuso d’ufficio sia in effetti assai ridotto. Questo fenomeno si verifica anche per altri reati, questo però non comporta l’abolizione di tutte le fattispecie criminose che si concludono con un numero esiguo di condanne. Per altri invece, in relazione al reato di abuso d’ufficio, sarebbe stato più opportuno intervenire in modo più misurato, conservando il reato e apportando i correttivi necessari per conciliare la buona fede dei funzionari e dei pubblici ufficiali e il rigore in presenza di fenomeni di corruzione.

Professionisti: super sconto per chi assume In Gazzetta il decreto che prevede una super deduzione del 120% e del 130% del costo del lavoro per imprese e professionisti che assumono con contratto a tempo indeterminato

Super sconto per chi assume a tempo indeterminato

I Ministri dell’Economia e del Lavoro hanno firmato il decreto del 25 giugno 2024, pubblicato sul sito del Ministero dell’Economia, che attua una parte della riforma IRPEF. Il decreto attua in particolare l’articolo 4 del decreto legislativo n. 216 del 30 dicembre 2023 e introduce una “super deduzione” per le nuove assunzioni a tempo indeterminato.

La maggiorazione spetta per le assunzioni di lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato qualora il contratto sia in essere a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, ossia relativo periodo di imposta 2024, se al termine del 2024 il numero di lavoratori occupati risultano superiori a quelli occupati mediamente nel periodo di imposta precedente.

Il decreto sulla maxideduzione 2024 per le nuove assunzioni è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 154 del 3 luglio 2024.

Determinazione delle nuove assunzioni

Al fine di determinare le nuove assunzioni e calcolare l’incremento occupazionale, non rilevano i lavoratori dipendenti con contratti ceduti dopo trasferimenti di aziende rami di aziende, quelli assunti a tempo indeterminato ma destinati a un’organizzazione stabile localizzata all’estero di un soggetto residente, quelli assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato precedentemente in forza presso una società del gruppo, il cui rapporto di lavoro con questa sia stato interrotto a partire dal 30 dicembre 2023.

Si tiene invece conto, ai fini del calcolo dell’incremento, dei lavoratori dipendenti assunti inizialmente con contratto a tempo determinato convertito in un contratto a tempo indeterminato durante il 2024 e dei soci lavoratori di società cooperative, che sono assimilati ai lavoratori dipendenti. Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti con contratto part-time essi rilevano ai fini dell’incremento occupazionale in misura proporzionale alle ore di lavoro prestate rispetto a quelle contemplate dal contratto nazionale di categoria.

Ai fini del calcolo dell’incremento occupazionale rilevano anche per l’impresa che li utilizza i dipendenti con contratto di somministrazione.

Beneficiari dello sconto

Possono beneficiare del bonus le società di capitali e gli enti, gli enti non commerciali, le società e gli enti non residenti, le società di persone e le equiparate, le imprese individuali, gli esercenti arti e professioni, ma alle seguenti condizioni:

  • purché provvedano ad aumentare il numero dei dipendenti a tempo indeterminato rispetto all’anno precedente;
  • purché i nuovi contratti siano a tempo indeterminato e in essere alla fine dell’anno d’imposta.

Sono invece escluse dal beneficio le imprese in liquidazione ordinaria, in concordato preventivo o sottoposte ad altre procedure concorsuali.

Le percentuali della detrazione

Il decreto consente alle imprese di detrarre un importo pari al 120% del costo del lavoro dei nuovi dipendenti assunti a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda invece le assunzioni dei soggetti appartenenti alle categorie considerate “fragili”, come le mamme, gli under 30, i percettori di reddito di cittadinanza e le persone con invalidità, la detrazione sale addirittura al 130%. Il beneficio però è valido per le assunzioni che effettuate a decorrere dal 1° gennaio 2024.

Come funziona in concreto la detrazione?

La detrazione viene effettuata in sede di dichiarazione dei redditi. Il costo del lavoro su cui viene calcolata la detrazione è quello sostenuto per gli stipendi e i contributi previdenziali, per il TFR, trattamento di quiescenza e simili e per quei costi che sono strettamente collegati all’assunzione.

tappi attaccati bottiglie

Tappi attaccati alle bottiglie: al via l’obbligo Dal 3 luglio 2024 in base alla Direttiva UE SUP i tappi "solidali" dovranno restare attaccati ai contenitori di plastica per ridurre la dispersione e favorire il riciclo

Tappi “solidali: dal 3 luglio in vigore l’obbligo della Direttiva UE

Dal 3 luglio 2024 tutte le aziende che producono bevande contenute nelle bottiglie di plastica devono rispettare l’obbligo del “tappo solidale”. Lo ha stabilito la Direttiva UE 2019/904 sulla plastica monouso finalizzata a ridurre l’incidenza dei prodotti di plastica sull’ambiente.

L’articolo 17 della Direttiva, dedicato al recepimento, prevede che gli Stati debbano applicare le disposizioni necessarie per conformarsi all’obbligo previsto dall’articolo 6, relativo ai tappi “solidali” a partire dal 3 luglio 2024.

Quest’obbligo è solo una delle tante misure adottate dalla Direttiva SUP (Single Use Plastics Direttive) per contrastare l’inquinamento delle acque da parte delle bottiglie di plastica, troppo spesso gettate ovunque, soprattutto in mare e sulla spiaggia, con conseguenze estremamente dannose sulla vegetazione e sugli animali.

Divieto plastica monouso

La Direttiva, lo ricordiamo, ha già posto il divieto di vendita dei prodotti di plastica monouso come i piatti, le posate, le cannucce e i cotton-fioc, a partire dal 2021.

Il 2024 invece è l’anno di entrata in vigore dei tappi “solidali, vediamo cosa dice la normativa europea al riguardo.

Lotta alla dispersione dei tappi di plastica

Nel considerando n. 17 la Direttiva fa presente come i tappi e i coperchi di plastica dei contenitori delle bevande siano tra gli oggetti di plastica maggiormente rinvenuti sulle spiagge dell’Unione Europea.

I contenitori delle bevande di plastica monouso dovrebbero quindi essere immessi sul mercato solo se sono in grado di soddisfare certi requisiti di progettazione in grado di ridurre significativamente la dispersione nell’ambiente dei tappi di plastica.

Nell’articolo 6 invece, dedicato ai requisiti dei prodotti in plastica, la Direttiva stabilisce specificamente che gli Stati membri devono provvedere a che i prodotti in plastica monouso indicati nella parte C dell’allegato, con i relativi tappi plastica “possano essere immessi sul mercato solo se i tappi e i coperchi restano attaccati ai contenitori per la durata delluso previsto del prodotto”. 

L’allegato C specifica infatti quali sono i prodotti di plastica monouso indicati nell’articolo 6, che devono presentare i requisiti sopra descritti, ossia i contenitori per bevande con una capacità massima di 3 litri, ossia i recipienti che contengono liquidi, come bottiglie per bevande con i relativi tappi, nonché gli imballaggi compositi di bevande con i relativi tappi e coperchi.

Tappi attaccati alle bottiglie: quali vantaggi?

L’obbligo di produrre contenitori di plastica con i tappi di chiusura progettati in modo tale da restare attaccati alle bottiglie mirano a realizzare due obiettivi fondamentali della Direttiva:

  • ridurre la dispersione dei piccoli pezzi di plastica. I tappi di plastica dei contenitori, infatti sono molto piccoli e leggeri, per cui possono essere trasportati facilmente dal vento e, aspetto ancora più pericoloso, possono essere ingeriti dagli animali;
  • facilitare la fase del riciclo: se il tappo resta ben attaccato al suo contenitore questi due componenti possono essere riciclati insieme. In questo modo la quantità di plastica riciclata aumenta e il procedimento di riciclo risulta senza dubbio più efficiente.

Le altre misure della Direttiva SUP per ridurre la plastica

Come anticipato, la misura che riguarda i tappi di plastica è solo una delle iniziative intraprese a livello europeo per ridurre la quantità di plastica immessa nell’ambiente.

La Direttiva SUP prevede infatti interventi finalizzati a ridurre il consumo dei prodotti di plastica monouso, dispone restrizioni all’immissione sul mercato di certi prodotti in plastica, stabilisce, come appena visto per i tappi, determinanti requisiti di costruzione dei prodotti in plastica, introduce precisi requisiti di marcatura dei prodotti, estende la responsabilità del produttore, impone agli Stati di adottare le misure necessarie per attuare in modo efficace la raccolta differenziata e stabilisce che gli Stati debbano adottare anche misure di sensibilizzazione per informare i consumatori e incentivare condotte più responsabili per la tutela dell’ambiante e la salute.

Allegati

contributo unificato cause

Contributo unificato: cos’è e quando si paga Cos’è il contributo unificato, quando si applica e a quali procedimenti, in che misura e cosa accade in caso di pagamento omesso o insufficiente

Contributo unificato: che cos’è

Il contributo unificato è una somma che deve essere versata allErario nel momento in cui si procede all’iscrizione a ruolo di una causa. Sono soggetti al pagamento del contributo unificato per ogni grado di giudizio il processo civile, le procedure concorsuali, i procedimenti di volontaria giurisdizione, il processo amministrativo e il processo tributario.

Riferimenti normativi

La disciplina del contributo unificato è contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, contenente il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di Giustizia.

Il decreto dedica al contributo unificato il titolo I della parte II, intitolato “Contributo unificato nel processo civile, amministrativo e tributario”. La disciplina del contributo unificato è contenuta nello specifico nell’articolo 9 e seguenti fino all’articolo 18.

Contributo unificato controversie lavoro, previdenza e assistenza

Nei processi relativi alle controversie di previdenza e assistenza obbligatoria, alle cause individuali di lavoro o relative ai rapporti di pubblico impiego, le parti che risultino titolari dall’ultima dichiarazione di un reddito imponibile ai fini Irpef superiore a tre volte l’importo previsto per beneficiare del gratuito patrocinio (pari ad oggi a Euro 12.838,01) sono soggette rispettivamente  al contributo unificato di iscrizione a ruolo nella misura prevista:

  • dall’articolo 13 comma 1 lettera a) ossia di Euro 43,00;
  • e dal comma 3 dell’art. 13, ossia ridotto alla 1/2, fatta eccezione per i processi che si tengono davanti alla Corte di Cassazione, per i quali il contributo deve essere corrisposto nella misura indicata dall’articolo 13 comma 1 ossia nella misura ordinaria.

Esenzioni dal pagamento del contributo unificato

Ai sensi dell’articolo 10 del d.p.r. 115/2002 non è soggetto al  pagamento del contributo unificato il processo che ne sia già esente in base a una specifica previsione di legge, il processo di rettificazione dello stato civile, il processo in materia tavolare, il processo in materia di integrazione scolastica in relazione ai ricorsi amministrativi per il sostegno degli alunni con handicap fisici e sensoriali e il processo per l’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo.

Il contributo unificato non è dovuto neppure per il processo anche esecutivo, di opposizione, e cautelare, in materia di assegni per il mantenimento della prole e riguardante la stessa. Non sono soggetti al pagamento del contributo unificato neppure determinati processi in materia di diritto di famiglia.

I motivi dell’esenzione devono essere dichiarati dalla parte nelle conclusioni dell’atto che introduce la causa.

Contributo unificato nel processo penale

Il contributo unificato, in base alla previsione dell’articolo 12 del DPR n. 115/2010, non è dovuto neppure quando viene esercitata lazione civile nel processo penale nel caso in cui venga richiesta la condanna generica del responsabile. Se invece è richiesta, anche in via provvisionale, la condanna al pagamento di una somma a titolo di risarcimento e la domanda venga accolta, il contributo unificato deve essere corrisposto in base al valore dell’importo liquidato e nel rispetto degli scaglioni di valore previsti dall’articolo 13.

Importi del contributo unificato

L’indicazione degli importi dovuti a titolo di contributo unificato sono specificati all’interno dell’articolo 13.

Al comma 1 il contributo unificato viene calcolato in base agli scaglioni di valore della causa.

Il comma 1bis prevede invece che il contributo dovuto per i giudizi di impugnazione sia aumentato della metà rispetto ai valori indicati nel comma 1 ed è raddoppiato se il processo si svolge davanti alla Corte di Cassazione.

Per i processi in materia di proprietà industriale e intellettuale il valore del contributo unificato contemplato dal comma 1 è raddoppiato.

Se l’impugnazione, anche incidentale, viene respinta integralmente o viene dichiarata inammissibile  o improcedibile, la parte che l’ha proposta deve versare un importo aggiuntivo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione principale o incidentale. Questa regola non vale quando il ricorso per cassazione viene dichiarato estinto in base a quanto previsto dall’articolo 380 bis, comma 2, ultimo periodo c.p.c.

Le esecuzioni immobiliari sono soggette al contributo di 278,00 euro, mentre per gli altri processi esecutivi l’importo è ridotto alla metà. Se si tratta di processi esecutivi mobiliari di valore inferiore ai 2500,00 euro allora il contributo è dovuto nell’importo di 43,00 euro. Per i processi di opposizione agli atti esecutivi l’importo dovuto è di 168,00 euro.

Tutti i procedimenti sommari disciplinati dal titolo I del libro IV del codice di procedura civile sono soggetti al contributo unificato ridotto alla metà rispetto agli importi del comma 1, compreso il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, alla sentenza dichiarativa di fallimento e le controversie individuali di lavoro o di pubblico impiego salvo quanto disposto dall’art. 9 comma 1.

Per la procedura fallimentare il contributo è di euro 851.

Il comma 6 bis dell’articolo 13 elenca poi gli importi dei contributi unificati per i ricorsi amministrativi proposti da vanti ai Tar e al consiglio di Stato.

Il comma 6 quater invece si occupa degli importi del contributo unificato per i ricorsi proposti in via principale e incidentale davanti all’organismi di giustizia tributaria.

Il comma 6 quinquies infine stabilisce gli importi del contributo unificato previsti per le procedure relative all’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti correnti bancari.

Quando sorge l’obbligo di pagamento

L’obbligo di pagamento è a carico della parte che si costituisce per prima in giudizio, che deposita il ricorso introduttivo e che, nei processi di esecuzione forzata, presenta l’istanza per l’assegnazione o la vendita dei beni oggetto di pignoramento.

Il pagamento del contributo unificato deve avvenire contestualmente alla presentazione dell’istanza per la ricerca telematica dei beni da pignorare.

Se la parte che che si è costituita per prima o che ha depositato per prima il ricorso introduttivo procede alla modifica della domanda o propone una domanda riconvenzionale deve dichiararlo espressamente e procedere al pagamento del contributo integrativo dovuto.

Lo stesso obbligo viene posto a carico delle parti che modificano o propongono domanda riconvenzionale o svolgono un intervento autonomo.

Controllo sul valore della causa e sul contributo unificato

Il contributo unificato deve essere corrisposto in base al valore della causa che viene dichiarato dalla parte. Il funzionario che provvede a iscrivere la causa deve effettuare la verifica della dichiarazione di valore e sincerarsi che la ricevuta riportante l’importo corrisposto a titolo di contributo unificato corrisponda a quello dovuto per lo scaglione di valore della causa. Questo controllo però non si svolge solo al momento dell’iscrizione, ma viene effettuato anche quando nel corso di causa viene proposta una domanda, che va modificare il valore della controversia.

Pagamento omesso o insufficiente: conseguenze

L’omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato comporta l’obbligo di corresponsione degli interessi legali dal deposito dell’atto per cui è previsto il pagamento o l’integrazione del contribuito dovuto.

In caso di omesso pagamento o di pagamento parziale si applica la sanzione di cui all’art. 71 del DPR n. 131/1986, ma non la detrazione.

stop obbligo vaccinale minori

Stop all’obbligo vaccinale Un emendamento al decreto liste d'attesa elimina l'obbligo vaccinale per i minori d'età fino a 16 anni per determinate malattie

Decreto liste d’attesa: l’emendamento sull’obbligo vaccinale

Durante la fase di conversione del decreto legge del 7 giugno 2024 n. 73, finalizzato a ridurre la durata delle liste di attesa, dall’ordine del giorno del 3 luglio 2024 della decima Commissione permanente che si occupa anche della materia sanitaria, a pag. 58, emerge un emendamento sulla abolizione dell’obbligo vaccinale presentato dal senatore legista Claudio Borghi.

Leggi anche Liste d’attesa: il piano del governo

L’obbligo vaccinale viola l’art. 32 della Costituzione

Con l’emendamento 3.0.7 il senatore modifica l’articolo 1 e sopprime il comma 3 dell’articolo 3 e il comma 5 dell’articolo 3 bis del decreto legge n. 73 del 7 giugno 2017, convertito con modifiche dalla legge n. 119/2017.

La proposta di modifica tiene conto della situazione attuale degli obblighi vaccinali come regolamentata nel nostro paese rispetto al panorama normativo nazionale e internazionale.

L’obbligo vaccinale contemplato dal nostro ordinamento si porrebbe in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione per quanto riguarda il tema dei trattamenti sanitari obbligatori.

L’emendamento proposto vuole bilanciare i vari interessi in gioco e meritevoli di tutela che emergono dalla legge sui vaccini come il diritto allo studio, all’inclusione sociale, alla salute e all’uguaglianza.

Come cambia il decreto n. 73/2017 sulla prevenzione vaccinale

In base alla proposta di emendamento il nuovo comma 1 bis dell’articolo 1del decreto legge n. 73/2017, che al primo comma elenca gli obblighi vaccinali obbligatori e gratuiti previsti in base agli obblighi assunti in sede europea e internazionale potrebbe assumere il seguente tenore letterale:

“Agli stessi fini di cui al comma 1, per i minori di età compresa tra zero e sedici anni e per tutti i minori stranieri non accompagnati sono altresì  gratuite e raccomandate (e non più obbligatorie), in base alle specifiche indicazioni del Calendario vaccinale nazionale relativo a ciascuna coorte di nascita, le vaccinazioni di seguito indicate:

  1. anti-morbillo;
  2. anti-rosolia;
  3. anti-parotite;
  4. anti-varicella.”

Il secondo periodo del comma 2 invece potrebbe prevedere che:“Conseguentemente il soggetto immunizzato adempie all’obbligo vaccinale di cui al presente articolo, (soppressa la frase: “di norma e comunque nei limiti delle disponibilità del Servizio sanitario nazionale”), con vaccini in formulazione monocomponente o combinata in cui sia assente l’antigene per la malattia infettiva per la quale sussiste immunizzazione.” 

Al comma 3 al termine “pediatra di libera scelta” verrebbe aggiunto il termine “o dal medico specialista”: “Salvo quanto disposto dal comma 2, le vaccinazioni di cui al comma 1 (e al comma 1-bis) possono essere omesse o differite solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale o dal pediatra di libera scelta o dal medico specialista.

Gli obblighi soppressi

Sarebbero infine soppressi:

  • il comma 3 dall’articolo 3 che così recita: “Per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, ivi incluse quelle private non paritarie, la presentazione della documentazione di cui al comma 1 costituisce requisito di accesso. Per gli altri gradi di istruzione (e per i centri di formazione professionale regionale), la presentazione della documentazione di cui al comma 1 non costituisce requisito di accesso alla scuola o ( al centro ovvero agli esami);
  • Il comma 5 dall’articolo 3 bis che dispone: Per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, ivi incluse quelle private non paritarie, la mancata presentazione della documentazione di cui al comma 3 nei termini previsti comporta la decadenza dall’iscrizione. Per gli altri gradi di istruzione e per i centri di formazione professionale regionale, la mancata presentazione della documentazione dì cui al comma 3 nei termini previsti non determina la decadenza dall’iscrizione né impedisce la partecipazione agli esami.”

In pratica la mancata presentazione della documentazione comprovante l’adempimento degli obblighi vaccinali:

  • non sarebbe più requisito di accesso alle scuole ai servizi e alle scuole dell’infanzia;
  • non comporterebbe più la decadenza dall’iscrizione per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, incluse quelle private non paritarie.
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Infortunio in itinere: cos’è e come viene ristorato Cos’è l’infortunio in itinere, quando viene indennizzato dall’INAIL e come si calcola il danno differenziale in presenza anche di una responsabilità civile

Infortunio in itinere: la normativa

L’infortunio in itinere è una tipologia particolare di infortunio sul lavoro, che viene coperto e indennizzato dall’INAIL, l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro in base a quanto previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124/1965, contenente il “Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali”.

Infortunio in itinere: cos’è e quando è coperto

Ai sensi del comma 3 dell’art. 2 di detto Testo Unico, fatti salvi i casi di interruzione o deviazioni indipendenti dal lavoro o non necessitate, l’assicurazione comprende anche:

  • “gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro;
  • durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro;
  • e qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti.” 

L’interruzione e la deviazione devono intendersi intendono necessitate quando sono determinate da cause di forza maggiore, da esigenze essenziali e improrogabili o dall’adempimento di obblighi penalmente rilevanti. L’assicurazione opera e quindi copre i danni riportati anche nel caso in cui il lavoratore utilizzi un mezzo di trasporto privato, purché necessitato. L’uso del velocipede invece, per i positivi riflessi ambientali collegati al suo utilizzo, deve intendersi sempre necessitato.

Infortunio in itinere: quando non è coperto

Non sono coperti dall’assicurazione gli infortuni cagionati direttamente dall’abuso di alcol o di psicofarmaci o dall’uso di sostanze stupefacenti e allucinogeni per motivi non terapeutici.

L’assicurazione non copre inoltre l’infortunio del lavoratore conducente sprovvisto dell’abilitazione alla guida.

Alla luce delle eccezioni sopra analizzate non è coperto dall’assicurazione INAIL l’infortunio in itinere che si verifica:

  • in presenza di una deviazione o interruzione del percorso che non sono necessitate e che non dipendono dal lavoro;
  • quando il lavoratore, pur in assenza di una necessità, utilizzi il mezzo di trasporto privato;
  • quando la deviazione o l’interruzione del percorso non dipende da una causa di forza maggiore, da esigenze essenziali e improrogabili o dall’obbligo di adempiere un dovere di rilievo penale.

Indennizzo INAIL: danno e modalità di erogazione

Quando il lavoratore è vittima di un infortunio in itinere l’INAIL corrisponde l’indennizzo nelle seguenti modalità:

  • se la menomazione permanente riportata dal lavoratore è inferiore al 6% l’INAIL non corrisponde alcun indennizzo per la presenza di una franchigia;
  • se la menomazione permanente presenta un’entità compresa tra il 6% e il 15% l’indennizzo viene corrisposto in un’unica soluzione in capitale;
  • se la menomazione permanente riportata è compresa tra il 16% e il 100% l’indennizzo viene erogato tramite una rendita periodica.

Assicurazione e responsabilità civile

L’articolo 10 del D.P.R n. 1124/1965 prevede che l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro esoneri il datore di lavoro da un eventuale responsabilità civile. L’assicurazione permane   in presenza di una responsabilità civile di chi abbia riportato una condanna penale per il fatto  che ha causato l’infortunio e anche quando il datore debba rispondere civilmente nel caso in cui il fatto sia imputabile a coloro che egli abbia incaricato della direzione o della sorveglianza e questi soggetti siano condannati penalmente.

Il danno differenziale

Qualora un lavoratore riporti dei danni derivanti da un infortunio in itinere e venga accertata anche una responsabilità civile, il risarcimento civile, ai sensi dell’articolo 10 comma 7 del DPR n. 1124/1965 è dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate dall’INAIL.

 Per danno differenziale si intende pertanto la misura del danno che si ottiene dalla differenza di quanto ottenuto dal lavoratore a titolo di indennizzo dall’INAIL e quanto dovuto dal responsabile civile. Questo meccanismo è previsto per evitare speculazioni ossia duplicazioni risarcitorie.

Il lavoratore infatti, per ottenere il risarcimento del danno differenziale, dimostrare di avere subito un danno ulteriore rispetto a quello per il quale riceve l’indennizzo INAIL.

L’istituto del danno differenziale si fonda sulla diversità strutturale dell’indennizzo INAIL e del risarcimento civilistico.

L’indennizzo INAIL infatti soddisfa l’esigenza sociale si assicurare al lavoratore infortunato i mezzi adeguati, il risarcimento del danno civilistico invece svolge la funzione di ristorare integralmente il danno subito.

Danno differenziale: voci di danno risarcibili

Le voci di danno che rientrano nel danno differenziale e che possono essere richieste in sede civile sono le seguenti:

  • danno biologico (inferiore al 6%): per la tutela della integrità psico fisica del lavoratore infortunato;
  • danno patrimoniale: comprensivo del danno emergente (spese vive sostenute, ad esempio per le visite mediche, i farmaci, ecc) e del lucro cessante, ossia il mancato guadagno causato dall’infortunio e derivante dall’impossibilità di lavorare;
  • danno morale: qualsiasi patimento o turbamento dell’animo umano conseguente al sinistro;
  • danno esistenziale: è quello che si concretizza nel cambiamento peggiorativo delle abitudini di vita e delle relazioni sociali.

Cassazione: comparazione tra poste omogenee

A chiarire nel dettaglio il criterio di liquidazione del danno differenziale è intervenuta la Cassazione con l’ordinanza n. 3694/2023.

Gli Ermellini ricordano che il danno differenziale è il frutto della  diversità strutturale e funzionale tra l’indennizzo INAIL e il risarcimento del danno civilistico.

Tale diversità non consente di ritenere l’indennità INAIL in grado di soddisfare integralmente il pregiudizio subito dal lavoratore infortunato.

Il giudice di merito pertanto, dopo aver liquidato il danno civilistico, deve compararlo con l’indennizzo INAIL nel rispetto del criterio delle poste omogenee, tenendo presente che l’indennizzo è in grado di ristorare solamente il danno biologico permanente e non i pregiudizi che compongono il danno non patrimoniale.

A tal fine occorre distinguere il danno non patrimoniale da quello patrimoniale comparando questo alla quota INAIL che viene rapportata alla retribuzione del lavoratore e alla capacità lavorativa specifica dello stesso.

In seguito, in relazione al danno non patrimoniale, dall’importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno sottratte le voci escluse dalla copertura assicurativa ossia danno morale e danno biologico temporaneo per sottrarre poi dall’importo ricavato il valore capitale della quota della rendita INAIL che copre il solo danno biologico permanente.

In conclusione dall’importo complessivo del danno biologico va sottratto il valore capitale della rendita INAIL, ma solo il valore capitale della quota che ristora il danno biologico con esclusione di quella relativa alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica che indennizza il danno patrimoniale.

disdetta contratto locazione

Disdetta contratto di locazione La disdetta consente di non rinnovare il contratto di locazione alla scadenza concordata tra le parti, vediamo come funziona nei principali tipi di contratto

Disdetta del contratto di locazione: cos’è

La disdetta del contratto di locazione è un istituto giuridico che consente di non rinnovare il contratto stipulato alla scadenza contrattuale concordata. La disdetta non deve essere confusa con il recesso, che consente di porre fine al contratto in anticipo in presenza di gravi motivi.

La disdetta, con cui si comunica il desiderio di non rinnovare il contratto, è un diritto che la legge disciplina dettagliatamente quando spetta al locatore, al fine di tutelare il conduttore, che è la parte debole del contratto. Vediamo in quali casi e come si deve procedere per dare la disdetta di un contratto di locazione in modo corretto.

Locazioni di immobili: durata e rinnovo

Per comprendere il perché della disdetta è necessario precisare che nel nostro ordinamento i principali contratti di locazione immobiliari ad uso abitativo sono disciplinati dalla legge n. 431/1998 e che gli stessi hanno durate diverse:

  • contratti di locazione di durata non inferiore a quattro anni rinnovabili per altri quattro anni (4+4);
  • contratti di locazione a canone concordato della durata minima di tre anni rinnovabile di altri due (3+2).

Regole e termini particolari per la disdetta e il recesso sono previsti per i contratti di locazione ad uso transitorio e per gli studenti universitari.

Disdetta nelle locazioni 4+4

Per i contratti di locazione di durata non inferiore a 4 anni rinnovabili per un periodo di altri 4 la legge prevede che il secondo rinnovo possa venire meno se il locatore manifesti l’intenzione di adibire l’immobile ad usi particolari, di effettuare sullo stesso delle opere o di venderlo in modi e a condizioni particolari.

Alla seconda scadenza del contratto sia il locatore che il conduttore possono infatti decidere di rinnovarlo a nuove condizioni oppure di rinunciare, comunicando la propria intenzione all’altra parte con lettera raccomandata da inviare almeno sei mesi prima della scadenza. Chi riceve la lettera deve  rispondere a sua volta con lettera raccomandata nel termine di 60 giorni dal ricevimento.

Disdetta nelle locazioni a canone concordato 3+2

I contratti di locazione a canone concordato invece non possono avere una durata inferiore ai 3 anni. Alla prima scadenza del contratto, se le parti non si accordano sul rinnovo, il contratto è prorogato di diritto per altri 2 anni a meno che il locatore non intenda dare disdetta per adibire l’immobile a determinati usi, effettuare sullo stesso delle opere o venderlo a determinate condizioni e nel rispetto di determinate modalità. Quando scade il periodo di proroga biennale del contratto sia il locatore che il conduttore possono decidere di rinnovarlo a nuove condizioni o rinunciare a rinnovo dell’accordo comunicando la propria intenzione all’altra parte con lettera raccomandata da inviare almeno sei mesi prima della scadenza.

Disdetta del locatore: condizioni e modalità

Nei contratti di locazione 4+4 e 3+2 il locatore alla prima scadenza del contratto può quindi negare il rinnovo previa comunicazione al conduttore almeno sei mesi prima per i seguenti motivi:

  • volontà di destinare l’immobile ad uso abitativo commerciale, artigianale, professionale proprio o del coniuge, dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado;
  • volontà del locatore persona giuridica società o ente pubblico di destinare l’immobile all’esercizio di attività con finalità pubbliche, sociali mutualistiche, cooperative, assistenziali, culturali o di culto purché contestualmente offra al conduttore un altro immobile;
  • il conduttore ha la piena disponibilità di un altro immobile libero nello stesso comune;
  • l’immobile locato fa parte di un edificio gravemente danneggiato, che necessita di essere ricostruito o di cui deve essere assicurata alla stabilità e la presenza del conduttore impedisce i lavori;
  • l’immobile è compreso all’interno di un fabbricato che necessita di essere integralmente ristrutturato, demolito o trasformato o sopraelevato (se collocato all’ultimo piano) e per ragioni tecniche è necessario che l’appartamento venga sgomberato;
  • il conduttore non occupa continuativamente l’immobile senza un giustificato motivo e senza una successione legittima nel contratto;
  • il locatore vuole vendere l’immobile a terzi e non ha la proprietà di altri immobili a parte quello già adibito ad abitazione. In questo caso però la legge prevede in favore del conduttore un diritto di prelazione all’acquisto.

Il recesso del conduttore

In relazione ai due principali tipi di locazione immobiliare ad uso abitativo analizzati ovvero il 4+4 e il 3+2, anche il conduttore può decidere di porre fine al contratto anzi tempo. La legge però, in questo caso, non richiede motivazioni particolari, come per il locatore. Il conduttore infatti, in base a quanto previsto dal comma 6 dall’articolo 3 della legge n. 431/1998, può recedere in qualsiasi momento dall’accordo in presenza di gravi motivi, dando un  preavviso di 6 mesi al locatore.

La norma non precisa quali siano i gravi motivi che giustifichino il recesso del conduttore. Per fortuna la giurisprudenza nel tempo ha colmato questo vuoto. La Cassazione ad esempio ha identificato il grave motivo con l’incendio che colpisce l’immobile e che lo rende inservibile alle esigenze del conduttore. Un altro grave motivo è rappresentato dall’inadempimento del locatore nel procedere alle necessarie riparazioni dell’immobile locato. Altri gravi motivi sono stati identificati con la perdita del lavoro da parte del conduttore, con la presenza di problemi familiari gravi e tali da richiedere il trasferimento del conduttore, con il disinteresse manifestato dal locatore in relazione a gravi problemi strutturali dell’edificio, che non lo rendono sicuro per le esigenze abitative del conduttore.

La lettera di disdetta

Per manifestare adeguatamente la volontà di non rinnovare il contratto di locazione la legge richiede l’invio formale di una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno (o pec) da inviare almeno sei mesi rispetto alla scadenza.

Nella lettera di disdetta non possono mancare i seguenti dati essenziali:

  • i motivi per i quali si intende dare la disdetta;
  • i dati identificativi del contratto di locazione;
  • la data di decorrenza della disdetta.