quattordicesima

Quattordicesima Quattordicesima mensilità in arrivo a luglio 2024 per lavoratori e pensionati: cos’è, che funzione svolge, chi ne ha diritto e come si calcola

Quattordicesima: cos’è

La quattordicesima mensilità rappresenta un elemento fondamentale nel panorama retributivo italiano, costituendo una forma di remunerazione aggiuntiva prevista per i lavoratori e i pensionati.

Questa mensilità extra, comunemente nota come “quattordicesima”, viene erogata in aggiunta alle dodici mensilità ordinarie e alla tredicesima, offrendo così un sostegno economico ulteriore.

Il diritto alla quattordicesima emerge da disposizioni contrattuali stabiliti nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) e varia a seconda delle categorie di appartenenza dei lavoratori o dei criteri definiti per i pensionati.

Comprendere la finalità di questa misura, chi ne ha diritto, come viene calcolata e le tempistiche di erogazione è essenziale per lavoratori e pensionati che desiderano gestire al meglio le proprie risorse finanziarie.

Funzione della quattordicesima

Come anticipato, la quattordicesima rappresenta un sostegno ulteriore per lavoratori e pensionati. La funzione di questa misura infatti è duplice: da un lato, incrementare il potere d’acquisto degli individui; dall’altro, contribuire a stimolare la domanda interna attraverso l’incremento della liquidità disponibile per le famiglie. Il suo scopo è quindi di supportare i lavoratori e i pensionati nel sostenere spese extra, legate soprattutto al periodo estivo e a quello natalizio.

Chi ne ha diritto

Hanno diritto alla quattordicesima mensilità i lavoratori a tempo indeterminato, a tempo determinato e i pensionati che soddisfano determinati requisiti, anche di natura reddituale.

I lavoratori hanno diritto alla quattordicesima solo se la misura è prevista dal contratto collettivo di appartenenza. I lavoratori che beneficiano di questa retribuzione aggiuntiva e differita sono i lavoratori del commercio, del settore terziario, del turismo, dei pubblici esercizi, dell’autotrasporto e della logistica. Da questo trattamento sono invece escluse alcune categorie, come i dipendenti pubblici e i metalmeccanici.

I pensionati che hanno diritto alla quattordicesima devono avere compiuto 64 anni di età e devono essere titolari di un determinato reddito, di uno o più trattamenti pensionistici a carico dell’AGO (Assicurazione generale Obbligatoria) e delle forme sostitutive, siano esse esclusive che esonerative e gestire da enti pubblici che gestiscono la previdenza obbligatoria.

I riferimenti normativi per comprendere chi ha diritto alla quattordicesima mensilità di pensione sono:

  • l’articolo 5 (commi 1, 2, 3, 4) del decreto legge n. 81/2007, convertito nella legge n. 127/2007;
  • la legge 232/2016 che ha esteso la quattordicesima ad altri soggetti e che ha precisato anche il requisito reddituale richiesto.

Come si calcola la quattordicesima

Il calcolo della quattordicesima mensilità segue criteri definiti e differenziati per lavoratori e pensionati.

Per i lavoratori dipendenti il calcolo della quattordicesima valgono le regole stabilite nel singolo contratto collettivo del settore di appartenenza. La base di calcolo solitamente comprende tutti gli elementi fissi e continuativi della retribuzione, escludendo quindi bonus una tantum o premi di risultato. L’importo non viene erogato mese per mese, ma matura mese per mese durante il periodo in cui ovviamente il lavoratore è in forza. La maturazione in genere decorre da luglio e termina nel mese di giungo dell’anno successivo.

Nel caso dei pensionati, invece, la quattordicesima viene erogata secondo criteri stabiliti dall’INPS e varia in base alla fascia di reddito complessiva del beneficiario. Nel conteggio infatti si tiene conto del reddito, ma anche degli anni di contribuzione. L’importo inoltre varia a seconda che il soggetto sia stato un lavoratore dipendente o un lavoratore autonomo.

I tempi di erogazione

Le tempistiche di erogazione della quattordicesima mensilità differiscono tra lavoratori e pensionati, riflettendo varie normative e accordi contrattuali.

Per i lavoratori la quattordicesima è tipicamente erogata in estate, solitamente nei mesi di giungo – luglio, in base a quanto stabilito dai rispettivi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL). Questa prassi può variare leggermente in base agli specifici settori o aziende, ma la tendenza generale rimane quella di una erogazione estiva, in coincidenza con le esigenze vacanziere dei lavoratori.
Per i pensionati, invece, l’erogazione della quattordicesima avviene secondo le disposizioni dell’INPS e generalmente viene pagata nel mese di luglio o di dicembre.

È importante precisare comunque che non tutti hanno diritto alla quattordicesima: l’effettiva erogazione dipende dalle condizioni stabilite dal CCNL di riferimento o da specifiche disposizioni legislative per i pensionati.

E’ fondamentale inoltre chiarire che, in caso di spettanza della misura, vi possono essere delle eccezioni o condizioni particolari che influenzano l’erogazione della quattordicesima sia per i lavoratori che per i pensionati, inclusi eventuali aggiornamenti legislativi o modifiche contrattuali. Pertanto, si consiglia sempre di verificare le specifiche applicabili al proprio caso presso l’ente erogatore o il datore di lavoro.

 

Cassazione: multe nulle se l’autovelox non è omologato Le sanzioni erogate per la violazione del limite di velocità rilevate con l’autovelox sono nulle se l’apparecchio non è omologato ma solo approvato

Autovelox non omologati

La Corte di Cassazione ha emesso una sentenza storica sulle apparecchiature autovelox utilizzate per rilevare le infrazioni di velocità.

Secondo l’ordinanza 10505-2024 del 18 aprile 2024, che ha destato parecchio clamore in tutto il territorio nazionale, le multe comminate con apparecchiature autovelox prive di omologazione sono da considerarsi nulle.

Questa decisione chiarisce inoltre la differenza tra omologazione e approvazione delle apparecchiature, sollevando importanti questioni sul sistema sanzionatorio stradale.

Violazione limite di velocità con autovelox non omologato

La vicenda ha inizio con il ricorso di un conducente al Giudice di Pace, che accoglie l’opposizione al verbale di accertamento della Polizia con cui gli era stata contesta la violazione dell’articolo 142 comma 8, per avere superato il limite di velocità di 90 Km/h. Rilievo che era stato effettuato per mezzo di un dispositivo autovelox fisso.

Il Comune appellava la decisione, ma il Tribunale la respingeva perché l’apparecchiatura con cui era stata rilevata la violazione del limite di velocità non risultata omologata. Il Tribunale precisava al riguardo che “l’accertamento dell’indicata infrazione era avvenuto con la citata apparecchiatura elettronica senza che fosse stata preventivamente omologata ai sensi di legge, non risultando rilevante allo scopo la mera approvazione preventiva di tale mezzo di rilevazione, siccome non equipollente all’omologazione ministeriale, posto che quest’ultima autorizza la riproduzione in serie del prototipo di un apparecchio testato in laboratorio, mentre la semplice approvazione è riconducibile ad un procedimento di tipo semplificato che non richiede la comparazione del prototipo con caratteristiche ritenute fondamentali o previste da particolari previsioni del regolamento.”

Il Comune soccombente, insoddisfatto dell’esito del giudizio, impugnava la decisione in Cassazione, che incentra la motivazione della sentenza proprio sulla differenza tra omologazione e approvazione.

Differenze tra omologazione e approvazione

La Cassazione, rigettando la tesi dell’Ente Territoriale ricorrente, precisa che l’articolo 142, comma 6 del Codice della Strada (c.d.s) è chiaro e decisivo nel ritenere idonee solo le apparecchiature “debitamente omologate” per l’accertamento strumentale della velocità. L’articolo 192 del regolamento di attuazione del c.d.s. (d.P.R. n. 495/1992) distingue invece le attività di omologazione e approvazione, specificando che l’omologazione è un procedimento tecnico-amministrativo che garantisce la funzionalità e la precisione degli autovelox. L’approvazione, invece, è un processo meno rigoroso, che non richiede test dettagliati.

Importanza della prova della corretta funzionalità

Secondo la giurisprudenza consolidata della Cassazione, la Pubblica Amministrazione (P.A) deve fornire prova della corretta funzionalità degli autovelox attraverso certificazioni di omologazione e conformità. Questo obbligo deriva dalla necessità di garantire che gli strumenti utilizzati per le sanzioni stradali siano tecnicamente affidabili e precisi. La Corte Costituzionale aveva già sottolineato questa necessità nella sentenza 113/2015 e la Cassazione con la presente ordinanza  rafforza  ulteriormente questa posizione.

Implicazioni della decisione della Cassazione sulle multe

La decisione della Cassazione ha risvolti pratici significativi. In pratica, tutti gli autovelox privi di omologazione e certificazione metrologica sono considerati illegali. Questo implica che molte delle sanzioni attualmente emesse possono essere contestate e annullate, se le apparecchiature utilizzate non rispettano i requisiti stabiliti dalla normativa.

La pronuncia rappresenta un importante passo avanti nella regolamentazione delle sanzioni stradali e nella garanzia della correttezza dei procedimenti sanzionatori. Essa rafforza l’obbligo per la P.A di utilizzare solo apparecchiature omologate e conformi alle normative tecniche, ponendo un freno all’uso indiscriminato di autovelox non certificati. Questo intervento giuridico mira a tutelare i diritti degli automobilisti, assicurando che le sanzioni siano comminate solo sulla base di rilevamenti accurati e legalmente validi.

 

 

 

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super interessi

Super interessi: spettano se il giudice lo specifica La Cassazione sui super interessi, ossia gli interessi maggiorati di cui all’art. 1284 co. 4 c.c., chiarisce che spettano se il giudice li indica specificamente nel titolo esecutivo

Interessi maggiorati art. 1284 comma 4 c.c.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 12449-2024 chiarisce sinteticamente che gli interessi maggiorati o i super interessi previsti dall’articolo 1284 comma 4 c.c. spettano se il giudice di cognizione che emette il titolo esecutivo specifica se e in che misura spettano dopo aver valutato i presupposti richiesti dalla norma, ossia la natura della fonte dell’obbligazione, l’accordo delle parti sulla misura degli stessi e la domanda giudiziale per stabilirne la decorrenza.

Super interessi: omissione del giudice di cognizione

Il Tribunale di Milano dispone il rinvio pregiudiziale degli atti chiedendo alla Cassazione di risolvere la seguente questione di diritto: “se in tema di esecuzione forzata, anche solo minacciata, fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso ad indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di “interessi legali” o “di legge” ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’articolo 1284 1° comma codice civile o, a partire dalla stessa data di proposizione della domanda, possono ritenersi liquidati quelli di cui al 4° comma del predetto articolo”.

Super interessi: il contrasto interpretativo

Sulla questione giuridica proposta dal Tribunale milanese era in effetti presente un contrasto interpretativo.

Secondo un indirizzo della Cassazione, in presenza di una esecuzione forzata, se il giudice della cognizione abbia omesso di specificare il tipo di interessi da applicare, occorre procedere alla liquidazione dei soli interessi legali art. 1284 comma 1 c.c, stante la portata generale di questa regola.

Un altro indirizzo sostenuto in particolare dalla sezione Lavoro della Cassazione, i commi 4 e 5 dell’art. 1284 c.c determinano la misura degli interessi legali  se il credito viene riconosciuto da una sentenza, anche dopo un giudizio arbitrale, anche se la sentenza nulla specifica in merito al saggio di interesse applicabile.

Il giudice deve indicare nel titolo i super interessi

La Cassazione rileva che la questione di diritto si pone perché il giudice dell’esecuzione non ha poteri di integrazione o di cognizione deve limitarsi ad attuare il contenuto del titolo esecutivo, è questa la questione su cui incentra il ragionamento la Corte di Cassazione.

Occorre però partire dall’analisi dell’articolo 1284 comma 4 c., che così dispone. “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

Dalla formulazione della disposizione emerge che alcuni elementi della norma sono suscettibili di valutazione. La fattispecie costitutiva che regola la spettanza dei super interessi è autonoma rispetto alla prima parte della noma dedicata agli interessi legali.

Il giudice della cognizione, quando emette il titolo esecutivo deve quindi valutare i seguenti presupposti applicativi:

  • la natura della fonte dell’obbligazione perché in base alla natura del credito lo stesso può essere produttivo o non produttivo dei super interessi;
  • la determinazione contrattuale della misura degli interessi;
  • identificazione della domanda giudiziale per stabilire la decorrenza degli interessi.

Il giudice di cognizione che emetta un titolo esecutivo contente l’indicazione generica di “interessi legali” non è idonea a integrare il corretto accertamento dei presupposti appena elencati. Il titolo esecutivo giudiziale deve quindi contenere specificamente se e in che misura spettano gli interessi maggiorati.

Il principio di diritto delle Sezioni Unite

Questo infine il principio di diritto enunciato dalle SU:

“Ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”. 

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Decreto ingiuntivo: fino a 10mila euro lo emette l’avvocato E' quanto prevede la proposta di legge all'esame della Commissione Giustizia della Camera che riconosce agli avvocati il potere di emettere decreti ingiuntivi semplificati per crediti fino a 10mila euro

Decreto ingiuntivo semplificato: finalità

Il procedimento di ingiunzione semplificato è oggetto della proposta di legge C.1374 presentata il 10 agosto 2023 dal deputato D’Orso Valentina, assegnata alla II Commissione Giustizia della Camera.

La proposta nasce dalla necessità di sopperire alla graduale chiusura di diversi uffici dei giudici di pace, che comporterà un inevitabile sovraccarico di lavoro per gli uffici limitrofi che resteranno aperti.

Ingiunzioni di pagamento: potere agli avvocati

Il decreto ingiuntivo semplificato si inserisce nel solco di quei provvedimenti per i quali non è necessario il vaglio preventivo dell’autorità giudiziaria, come avvenuto con la Direttiva sul credito ipotecario n. 2014/17/UE, che si è ispirata alla disciplina vigente negli Stati Uniti e nel Regno Unito e che è stata recepita con il decreto legislativo n. 72/2016.

La proposta vuole infatti conferire agli avvocati il potere di emettere ingiunzioni di pagamento per crediti di importo non superiore a 10.000 euro.

Decreto ingiuntivo semplificato nel codice di procedura civile

La novità legislativa proposta comporta l’introduzione degli articoli 656 bis, 656 ter, 656 quater, 656 quinques e 656 sexies  all’interno del nuovo capo I bis del codice di procedura civile dedicato al procedimento di ingiunzione semplificato.

Per quanto compatibili si applicheranno al procedimento anche gli articoli 645, 648, 649, 650, 652, 653 e 654 c.p.c

In base al nuovo articolo 656 bis, l’avvocato munito di mandato professionale, su richiesta del suo assistito, creditore di un importo non superiore a 10.000 euro, potrà emettere un atto di ingiunzione per intimarne il pagamento al debitore nel termine di 40 giorni.

Il provvedimento dovrà contenere anche l’avvertimento al debitore di poter fare opposizione al decreto stesso sempre nel termine di 40 giorni e che, in mancanza di opposizione, il decreto verrà dichiarato esecutivo dal giudice.

In questo modo il creditore potrà procedere all’esecuzione forzata nei confronti del debitore:

  • se il credito risulta da una prova scritta;
  • se il credito riguarda onorari dovuti per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborsi ad avvocati, ufficiali giudiziari, cancellieri o altri soggetti che abbiano fornito la propria opera in occasione di un processo;
  • se il credito fa riferimento a diritti, onorari e rimborsi spettanti a notai o professionisti che esercitino arti o professioni per i quali esistono tariffe legali approvate.

Quando l’avvocato predispone il decreto indica anche le spese e gli onorari a lui dovuti applicando i parametri professionali previsti e intimando al debitore di procedere al pagamento anche di questi importi.

La sussistenza dei requisiti indicati dall’articolo 656 bis è molto importante, l’articolo 656 sexies considera infatti illecito disciplinare l’omissione dolosa o con colpa grave della verifica dei requisiti di legge richiesti per l’emanazione del decreto ingiuntivo semplificato.

Opposizione a decreto ingiuntivo

Il debitore che intende fare opposizione al decreto ingiuntivo deve proporla al giudice competente con atto di citazione notificato presso l’avvocato che ha emesso il decreto.

Nel corso della prima udienza il giudice dovrà verificare che il decreto sia stato emesso in presenza dei requisiti richiesti dall’articolo 656 bis. La loro assenza comporterà la dichiarazione di nullità dell’atto e la condanna del creditore al pagamento delle spese legali maturate fino a quel momento in favore del debitore, oltre al pagamento di una somma alla Cassa delle Ammende di importo pari al doppio del contributo unificato dovuto per la domanda da proporre in via ordinaria.

Esecutorietà del decreto ingiuntivo semplificato

La mancata opposizione al decreto ingiuntivo nel termine di 40 giorni o la mancata costituzione del debitore opponente nel giudizio di opposizione comporta invece la dichiarazione di esecutorietà del decreto ingiuntivo da parte del giudice, se il creditore ne fa istanza e se il decreto presenta tutti i requisiti richiesti dall’articolo 656 bis.

L’istanza del creditore, contenuta in un ricorso, deve indicare i documenti probatori che giustificano il diritto di credito vantato e deve essere depositata insieme al decreto di ingiunzione, ai documenti probatori e a una dichiarazione con cui conferma l’intero credito o uno di importo inferiore, se il debitore gli ha corrisposto delle somme dopo la notifica dell’ingiunzione.

Quando l’ingiunzione diventa esecutiva, l’opposizione non può essere né proposta né proseguita a meno che, ai sensi dell’art. 650 c.p.c, il debitore dimostri non averne avuto tempestiva conoscenza a causa di una notifica irregolare, di un caso fortuito o di una forza maggiore.

Se risulta o è probabile che il debitore non abbia ricevuto l’ingiunzione, il giudice dispone il rinnovo della notifica.

Atto di ingiunzione nullo

Come anticipato, l’atto di ingiunzione è dichiarato nullo con decreto del giudice quando viene emanato in assenza dei requisiti richiesti dall’articolo 656 bis. La nullità non impedisce tuttavia al creditore di proporre la domanda per il recupero del credito in via ordinaria.

Può accadere comunque che dopo l’ingiunzione il debitore corrisponda una parte delle somme indicate del decreto al creditore. In questo caso il giudice ordinerà al creditore di restituirle e lo condannerà al pagamento di una somma alla Cassa delle Ammende, pari al doppio della somma dovuta a titolo di contributo unificato per la proposizione della domanda ordinaria.

 

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riscatto laurea

Riscatto laurea Il riscatto della laurea consente di riscattare gli anni degli studi universitari a fini pensionistici, non tutti però ne beneficiano 

Riscatto laurea: cos’è e a cosa serve

Il riscatto della laurea rappresenta un’opportunità significativa per molti lavoratori che desiderano migliorare la propria situazione previdenziale e quindi la propria pensione.

Questa pratica consente di considerare il periodo degli studi universitari conclusi con il conseguimento dei relativi titoli (diploma universitario, diploma di laurea, diploma di specializzazione, dottorato di ricerca, laurea triennale, specialistica, magistrale, diploma Istituti AFAM)  come tempo contributivo, pagando i contributi volontari all’INPS o all’ente previdenziale competente. In questo modo è possibile raggiungere più rapidamente il requisito contributivo richiesto per andare in pensione con la possibilità, quindi, di accorciare i tempi per andare in pensione.

Il riscatto di laurea però non è una possibilità offerta ai neolaureati, ma si estende a tutti coloro che sono in possesso di un titolo di studio universitario, indipendentemente dall’età o dallo stato occupazionale, presentandosi come un’opzione vantaggiosa sia per i lavoratori dipendenti che per i liberi professionisti.

La normativa vigente prevede diverse modalità di riscatto, inclusa quella agevolata, destinata a specifiche categorie. 

Il processo di valutazione per procedere al riscatto richiede un’attenta analisi dei costi e dei potenziali benefici pensionistici, considerando le variabili quali l’età del richiedente, il reddito e gli anni di studi da riscattare.

Riscatto ordinario e riscatto agevolato

Le tipologie di riscatto a cui è possibile accadere sono due, il riscatto ordinario e quello agevolato.

Il riscatto ordinario del corso della laurea per gli iscritti all’INPS è disciplinato dal decreto legislativo n. 187/1997 e l’onere del riscatto varia a seconda che il periodo da riscattare sia anteriore o precedente al 1996, anno in cui al regime retributivo è succeduto quello contributivo per il calcolo della pensione.

Il riscatto agevolato, istituito con la legge n. 26/2019, riguarda i periodi collocati nel periodo contributivo e offre ai dipendenti pubblici e privati, così come agli autonomi e ai liberi professionisti, la possibilità di riscattare gli anni di studio a condizioni particolarmente vantaggiose.

A chi conviene il riscatto della laurea

Il riscatto della laurea è stato vantaggioso fino al 2021, a partire dal 2022 infatti, il valore di 5.240,00 euro per il riscatto agevolato di un anno di laurea, ha iniziato ad aumentare gradualmente. Al momento per riscattare 5 anni di studio occorre sborsare più di 30.000 euro.

Tutta colpa dell’inflazione degli ultimi anni. In una situazione del genere occorre quindi valutare se il riscatto rappresenta effettivamente un aiuto per andare in pensione in anticipo e fare quindi due conti per verificarne la convenienza economica.

Per chi è vantaggioso

I soggetti per i quali il riscatto agevolato rappresenta un vantaggio sono i lavoratori che hanno iniziato a studiare e a versare i contributi previdenziali a partire dal 1996, soprattutto se lavoratori dipendenti con stipendi piuttosto alti.

Possono beneficiare del riscatto pensionistico anche le donne. Grazie alla pensione anticipata il riscatto rappresenta senza dubbio un aiuto per andare prima in pensione perché aiuta a raggiungere prima i requisiti contributivi.

I lavoratori di età compresa tra i 55 e i 60 anni che sono entrati nel mondo del lavoro molto presto grazie al riscatto della laurea possono andare in pensione con un anticipo superiore ai 5 anni.

Per chi non è vantaggioso

Il riscatto agevolato non conviene invece a chi ha iniziato a versare i contributi prima del 1995. L’esercizio della opzione contributiva irrevocabile con il ricalcolo dell’assegno pensionistico determina una diminuzione importante della pensione. Molto meglio pensare al riscatto tradizionale, senza dubbio più oneroso e collegato all’aumento attesa dell’assegno pensionistico.

Il riscatto non è vantaggioso per chi ha iniziato a lavorare tardi, ossia poco prima o intorno ai 30 anni, perché si rischia di andare in pensione più tardi.

I lavoratori di età compresa tra i 30 e i 50 anni, che hanno iniziato a lavorare all’età di 24 anni e hanno un trattamento pensionistico contributivo, se decideranno di andare in pensione con due anni di anticipo si ritroveranno una pensione ridotta nella misura del 10%.

affitti brevi

Affitti brevi: la guida La normativa italiana ed europea sugli affitti brevi in Italia. Finalità ed effetti delle regole sulla gestione delle locazioni turistiche brevi

Disciplina affitti brevi in Italia

Nel panorama immobiliare italiano, gli affitti brevi hanno guadagnato un’importanza crescente negli ultimi anni, diventando una modalità di locazione sempre più apprezzata sia dai turisti che dai proprietari di immobili.

La risposta del legislatore italiano a questo fenomeno in rapida espansione si è concretizzata attraverso normative volte a fornire un quadro legale chiaro a chi desidera affittare il proprio immobile per periodi brevi.

Queste le norme di riferimento dell’ordinamento italiano per gli affitti brevi:

  • Il comma 1 dell’articolo 4 del decreto legge n. 50/2017, che definisce le locazioni brevi a uso abitativo come quelle che hanno una durata non superiore ai 30 giorni e che includono il servizio di pulizia dei locali. Il locatore è una persona fisica, che non esercita la locazione in forma di impresa e che si avvale di soggetti che svolgono attività di intermediazione immobiliare o che gestiscono portali telematici per mettere in contatto persone in cerca di un alloggio per le vacanze con chi dispone di immobili da locare per periodi brevi.
  • Il comma 2 dell’articolo 4, modificato di recente dalla legge di bilancio 2024 (legge n. 213/2023), che prevede le percentuali di imposta. Sulla proprietà del primo immobile la percentuale dell’aliquota è del 21%. Dal secondo al quarto immobile invece il locatore è gravato da un’aliquota del 26%
  • Il decreto anticipi n. 145/2023, convertito con modificazioni dalla legge n. 191/2023, nel nuovo articolo 13-ter, prevede nuovi obblighi per i proprietari delle unità abitative destinate alle locazioni brevi e per i proprietari delle strutture turistico ricettive, sia alberghiere che extra-alberghiere. Gli obblighi consistono nel comunicare in modalità telematica al Ministero del Turismo i dati catastali dell’immobile locato, la presenza dei necessari requisiti tecnici di sicurezza degli impianti (per la rilevazione di gas combustibili e del monossido di carbonio) e degli estintori portatili.

Regolamento UE locazioni brevi

A livello europeo il Regolamento Europeo sulla Raccolta e sulla condivisione dei dati, che ha dato vita al Codice Unico Europeo, ha ricevuto il via libera dal Consiglio il 18 marzo 2024.

Il Regolamento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale UE del 29 aprile 2024, sarà in vigore dal 20 maggio 2026.

Grazie a questa fonte sarà possibile avere una banca dati europea in cui confluiranno i dati dei locatori, degli immobili locati e delle prenotazioni.

Banca Dati unica

In attesa della Banca Dati Europea, il Ministero del Turismo ha predisposto un decreto che porterà alla creazione di una Banca Dati Unica. Il testo ha già ricevuto il parere positivo della Commissione Politiche del turismo della Conferenza delle Regioni e Province Autonome.

La fase pilota vedrà coinvolte le Regioni dotate di una tecnologia più avanzata per poi passare gradualmente alla creazione di un Registro Unico, con l’obiettivo di contrastare l’evasione fiscale e garantire la massima trasparenza.

L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza potranno effettuare i controlli necessari grazie alla possibilità di incrociare i dati e intercettare le situazioni a rischio.

Il Codice Identificativo Nazionale

Il censimento degli immobili destinati alle locazioni turistiche previsto dal decreto anticipi è finalizzato al rilascio del CIN, il Codice identificativo nazionale, che il locatore dovrà esporre all’esterno dell’immobile locato e che dovrà sempre comparire negli annunci.

Il CIN sarà fondamentale anche per l’identificazione degli immobili destinati alla locazione turistica all’interno della banca dati unica.

La piena operatività del CIN è prevista per il mese di settembre 2024, dopo che sarà operativa la Banca Dati Unica. Il Codice verrà assegnato mediante procedura telematica, come contemplata dall’art. 13 ter del DL n. 145/2023.

Il locatore di immobili destinati agli affitti brevi senza CIN sarà soggetto a una multa massima di 8.000 euro, mentre l’inserimento degli annunci senza CIN sarà punito con una sanzione fino a 5000 euro.

Normativa affitti brevi: finalità ed effetti

Le normative analizzate si pongono l’obiettivo di bilanciare le esigenze di flessibilità nel mercato degli affitti temporanei con la necessità di garantire sicurezza, trasparenza ed equità sia per i locatori che per gli inquilini.

Con la definizione di specifici obblighi fiscali e amministrativi per i proprietari, l’Italia si sta muovendo verso un sistema più organizzato, che promette di apportare benefici significativi all’economia locale, pur affrontando le sfide legate al fenomeno delle locazioni turistiche.

In questo contesto, comprendere in dettaglio le nuove disposizioni legislative è fondamentale per tutti i soggetti coinvolti, per navigare con successo nel mercato degli affitti brevi.

Nel contesto degli affitti brevi in Italia, l’arrivo della proposta europea rappresenta una svolta significativa in grado di garantire equità nel mercato, proteggere i diritti dei consumatori e assicurare condizioni di concorrenza leali tra i fornitori di alloggi.

In Italia, dove il settore degli affitti brevi è fiorente ma anche fonte di controversie, soprattutto nelle città d’arte e nelle località turistiche, la nuova normativa potrebbe avere impatti rilevanti. Gli operatori del settore dovranno adeguarsi a standard più stringenti in termini di sicurezza, trasparenza e rispetto delle normative locali, inclusi eventuali limiti agli affitti brevi imposti per preservare il tessuto residenziale.

bonus assunzioni donne

Bonus assunzioni donne vittime di violenza Il bonus assunzioni previsto in favore di datori di lavoro che assumono donne vittime di violenza prevede un esonero contributivo del 100% per durate variabili

Bonus assunzioni donne vittime di violenza: cos’è

Il bonus per le assunzioni di donne vittime di violenza è una misura introdotta dalla legge di bilancio 2024, che la contempla al comma 191 dell’articolo 1. Essa consiste in un esonero dal pagamento dei contributi (esclusi premi e contributi INAIL) che viene riconosciuto a quei datori di lavoro che nel triennio 2024-2026 assumono donne che sono state vittime di violenza e che beneficiano del Reddito di Libertà. In  presenza di un contratto di somministrazione il beneficio si trasferisce all’utilizzatore finale della lavoratrice. I dettagli del bonus sono contenuti nella circolare INPS n. 41 del 5 marzo 2024. 

Importo esonero contributivo

L’esonero dei contributi è riconosciuto nella misura del 100% nel rispetto del limite annuo di 8000 euro riparametrato su base mensile. Il datore è quindi sgravato dall’onere contributivo mensile di 666,66 euro (8000 : 12 mesi), mentre per i rapporti che nascono, terminano o si trasformano nel corso del mese l’importo viene ricalcolato tenendo conto dell’importo giornaliero di 21,50 euro (666,66:31 giorni).

Esonero contributivo datori di lavori: finalità

Attraverso il riconoscimento dell’esonero contributivo in favore dei datori di lavoro si vogliono incentivare le assunzioni delle donne vittime di violenza per favorirne l’ingresso nel mondo del lavoro e la contestuale uscita da una realtà violenta.

Requisiti soggettivi donne vittime di violenza

Il bonus spetta se i datori assumono donne in possesso dei seguenti requisiti:

  • devono essere state vittime di violenza;
  • possono essere o non essere madri;
  • devono essere seguite da centri antiviolenza riconosciuti dalla Regione e da servizi sociali nei percorsi finalizzati a renderle autonome;
  • devono avere la residenza italiana se cittadine italiane o comunitarie, se invece sono donne extracomunitarie devono essere in possesso di un regolare permesso di soggiorno;
  • devono trovarsi in uno stato di disoccupazione;
  • devono aver dichiarato in forma telematica al sistema informativo delle politiche del lavoro di essere immediatamente disponibili a svolgere un’attività lavorativa e a partecipare alle misure di politica attiva dei centri per l’impiego;
  • devono percepire il Reddito di libertà o misure similari riconosciute a livello regionale o provinciale, fatta eccezione per le assunzioni del 2024, per le quali l’esonero è riconosciuto anche alle donne che hanno percepito il reddito di libertà nel 2023.

Bonus assunzioni: rapporti di lavoro

I rapporti di lavori per i quali è previsto il riconoscimento dell’esonero contributivo sono i seguenti:

  • contratti di assunzione a tempo indeterminato, in questo caso l’esonero spetta per 24 mesi;
  • contratti di assunzione a tempo determinato, l’esonero spetta per tutta la durata del rapporto fino a un massimo di 12 mesi;
  • in caso di trasformazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato in uno a tempo indeterminato, sia esso agevolato o non agevolato, l’esonero spetta per un massimo di 18 mesi, che decorrono dalla data di assunzione con contratto a tempo determinato.

L’esonero spetta anche se il contratto è part time o l’assunzione ha la forma del rapporto di lavoro subordinato con vincolo associativo presso una cooperativa di lavoro.

Bonus assunzioni: quando non spetta

L’esonero contributivo non spetta nei seguenti casi:

  • l’assunzione viene effettuata in virtù di un obbligo preesistente stabilito dalla legge anche se con contratto di somministrazione;
  • l’assunzione viola il diritto di precedenza di un altro lavoratore, in virtù di una legge o di un contratto collettivo di lavoro, che ha diritto alla riassunzione dopo il licenziamento relativo a un rapporto a tempo determinato o indeterminato;
  • riorganizzazione aziendale o crisi presso il datore o l’utilizzatore, che comportano la sospensione dal lavoro, fatte salve alcune eccezioni;
  • il datore che assume presenta gli stessi assetti proprietari del datore che nei sei mesi precedenti ha licenziato determinate lavoratrici, non ha diritto all’esonero per quelle lavoratrici.

Esoneri: compatibilità e coordinamento

L’esonero contributivo spetta a tutti i datori di lavoro privati di ogni settore che hanno le proprie unità produttive localizzate in qualsiasi parte del paese. La misura non rientra pertanto nella disciplina di cui all’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, che si occupa degli aiuti di Stato, perché non crea vantaggi per certe imprese, certi settori produttivi o certe aree territoriali.

La misura è compatibile con altre misure agevolative (es. riduzione dei contributi dovuti dalla lavoratrice madre come previsto dai commi  180-182 legge bilancio 2024)di tipo contributivo ed economico,  se non è escluso in maniera espressa. Se compatibile con altri esoneri, l’ultimo esonero introdotto dalla legge si cumula con i precedenti sulla contribuzione residua dovuta.

L’esonero è invece incompatibile con altre misure se il cumulo è escluso espressamente come nel caso dell’incentivo strutturale all’occupazione giovanile (articolo 1, commi 100 e seguenti, legge 27 dicembre 2017, n. 205).

inammissibilità ricorso Cassazione

Inammissibilità ricorso Cassazione Il ricorso in Cassazione è inammissibile per diverse cause, alcune sancite dalla legge, altre dalla giurisprudenza

Definizione di inammissibilità

L’inammissibilità del ricorso in Cassazione richiede un chiarimento preventivo. Nel diritto processuale un atto è inammissibile quando non presenta i requisiti richiesti dalla legge. Tale vizio è considerato così grave da impedire al giudice di prendere in esame la richiesta avanzata dalla parte. Traslando questo concetto al ricorso in Cassazione, esaminiamo le ipotesi più emblematiche in cui la legge e la giurisprudenza sanciscono l’inammissibilità del ricorso in Cassazione.

Inammissibilità del ricorso in Cassazione: art. 360 bis c.p.c.

La prima norma che si occupa della inammissibilità del ricorso in Cassazione è l’articolo 360 bis c.p.c. Esso dispone, nello specifico, che il ricorso in Cassazione è inammissibile in due distinte ipotesi:

  • quando il provvedimento che viene impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo del tutto conforme all’indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione e dall’esame dei motivi non emergono elementi che possano condurre alla conferma o al mutamento di detto orientamento;
  • quando la censura sollevata dal ricorrente relativa alla violazione dei principi che regolano il giusto processo risulta manifestamente infondata.

La norma, introdotta nel 2009, consente di effettuare una selezione rigorosa dei ricorsi con lo scopo di ridurre il carico di lavoro della Corte di Cassazione.

Sottoscrizione del difensore e procura speciale

Un’altra causa di inammissibilità del ricorso in Cassazione è contemplata espressamente dall’art. 365 c.p.c La norma richiede infatti che il ricorso diretto alla Corte di Cassazione sia sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un difensore iscritto nell’apposito albo degli avvocati Cassazionisti e che lo stesso sia munito di procura speciale che può avere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata (art. 83 c.p.c).

Inammissibilità del ricorso per ragioni di contenuto

Un’altra causa di inammissibilità del ricorso in Cassazione è contemplata dall’art. 366 c.p.c che si occupa del contenuto di questo atto. La norma dispone infatti che il ricorso, a pena di inammissibilità, debba contenere i seguenti dati:

  • l’indicazione delle parti della controversia;
  • l’indicazione della sentenza oggetto del ricorso in Cassazione;
  • l’esposizione chiara dei fatti di causa che risultano essenziali per l’illustrazione dei motivi del ricorso;
  • l’esposizione chiara e sintetica dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza e l’indicazione delle norme sulle quali detti motivi si fondano;
  • l’indicazione della procura, se la stessa è stata conferita con un atto separato e del decreto con cui il ricorrente è stato ammesso al patrocinio gratuito;
  • l’indicazione specifica, per ogni motivo, degli atti del processo, dei documenti e dei contratti collettivi sui quali il motivo sollevato si fonda e l’illustrazione del contenuto rilevante di questi atti, documenti e contratti.

La necessità di produrre i documenti indicati dall’art. 366 c.p.c (anche in un momento successivo rispetto al ricorso) a pena di inammissibilità, è ribadita dall’art. 372 c.p.c. Questa norma precisa infatti che: “1. Non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso. 2. Il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio”. 

Cause giurisprudenziali di inammissibilità del ricorso in Cassazione

A queste cause di inammissibilità del ricorso in Cassazione se ne aggiungono di ulteriori, alcune delle quali precisate direttamente dalla Corte Suprema di legittimità. Vediamone alcune tra le più recenti.

Cassazione n. 3018/2024

L’inammissibilità del ricorso, spedito per la notificazione a mezzo posta, senza che risulti versato in atti l’avviso di ricevimento del piego raccomandato. Costituisce, invero, principio consolidato che << la produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedito per la notificazione a mezzo del servizio postale è richiesta dalla legge in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio. In caso di mancata produzione dell’avviso di ricevimento ed in assenza di attività difensiva dell’intimato, il ricorso per cassazione è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito (v. tra le altre, Cass. n.18361 del 2018).

Cassazione n. 3403/2024

E’ inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici o delle risultanze istruttorie operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U. n. Corte di Cassazione – copia non ufficiale 10 di 13 34476/2019; Cass. n. 29404/2017; Cass. n. 19547/2017; Cass. n.8758/2017; Cass. n. 16056/2016; Cass. n. 5987/2021).

Cassazione n. 4300/2023

Il ricorso è palesemente inammissibile per violazione dell’art. 366, cod. proc. civ., sotto il duplice profilo della mancanza di una sintetica esposizione del fatto processuale  (…)  la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; e per altro verso inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto ovvero anche quello di cui non occorre sia informata, la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso.

ricorso per ottemperanza

Ricorso per ottemperanza Il ricorso per ottemperanza consente di dare esecuzione alle sentenze emanate dai giudici  amministrativi, qualora la P.A. non adempia in modo spontaneo

Ricorso per ottemperanza: definizione

Il ricorso per ottemperanza è l’atto con cui si chiede che venga data attuazione a diversi provvedimenti del giudice amministrativo. Dal punto di vista disciplinare il giudizio di ottemperanza è regolato dagli articoli 112, 113 e 114 del decreto legislativo n. 104/2010, che ha dato attuazione all’articolo 44 della legge n. 69/2009, contenente la delega al Governo per riordinare il processo amministrativo.

Quando si deve proporre l’azione di ottemperanza

Il citato art. 112 del dlgs. n. 104/2010 contiene le disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza. Il primo comma dispone che i provvedimenti emessi dal giudice amministrativo debbano essere poi eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle parti.

Per ottenere questo risultato è necessario proporre l’azione di ottemperanza. Essa consente nello specifico di conseguire l’attuazione di questi provvedimenti:

  1. le sentenze del giudice amministrativo che sono già passate in giudicato;
  2. le sentenze e i provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;
  3. le sentenze e i provvedimenti equiparati, passati in giudicato, del giudice ordinario per fare in modo che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico deciso;
  4. le sentenze passate in giudicato e i provvedimenti equiparati per le quali non è previsto il giudizio di ottemperanza, affinché la pubblica amministrazione si conformi alla decisione;
  5. i lodi arbitrali esecutivi che non sono impugnabili, per ottenere che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico.

Il terzo comma dell’art. 112, modificato dal decreto legislativo n. 195/2011, prevede poi che davanti al giudice dell’ottemperanza si possa anche proporre, in un unico grado:

  • l’azione per la condanna al pagamento di somme dovute a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza;
  • l’azione per il risarcimento dei danni collegati all’impossibilità o alla mancata esecuzione in forma specifica, sia essa totale o parziale, del giudicato, alla sua elusione o alla sua violazione.

L’ultimo comma della norma stabilisce infine che il ricorso si possa proporre anche per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza.

Competenza del giudice nel giudizio di ottemperanza

L’articolo 113 contiene le regole sulla competenza del giudizio di ottemperanza.

Il primo comma prevede infatti che il ricorso per il giudizio di ottemperanza nei casi sopra indicati dalle lettere a e b, debba essere proposto allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento da ottemperare.

Il TAR è competente anche quando i suoi provvedimenti vengono confermati in appello nel caso in cui la motivazione abbia lo stesso contenuto conformativo e dispositivo dei provvedimenti emanati in primo grado.

Nei casi descritti dalle lettere c), d), ed e) dell’articolo 112 il ricorso per ottemperanza si deve proporre al TAR nella cui circoscrizione si trova il giudice che ha emanato la sentenza che deve essere ottemperata.

Il procedimento del giudizio di ottemperanza

L’articolo 114 della legge n. 104/2010 disciplina infine  le varie fasi del giudizio di ottemperanza.

Occorre però precisare che l’azione è soggetta al termine di prescrizione di 10 anni, che decorrono dal passaggio in giudicato della sentenza.

Ricorso: deposito e notifica

Per avviare il giudizio di ottemperanza il ricorso deve essere notificato sia alla pubblica amministrazione che a tutte le parti del giudizio che è stato definito con la sentenza o con il lodo che si vuole vengano ottemperati. Insieme al ricorso deve essere depositato, in copia autentica, il provvedimento che si desidera venga ottemperato e la prova eventuale del suo passaggio in giudicato.

Il giudice, al termine del procedimento, decide con sentenza in forma semplificata.

Accoglimento del ricorso

Qualora il ricorso venga accolto, il giudice ordina che la sentenza o il provvedimento venga ottemperato, dando le opportune indicazioni sulle modalità dell’ottemperanza. Il giudice può anche determinare il contenuto del provvedimento amministrativo che dovrebbe emanare la pubblica amministrazione o emanarlo al suo posto. Può inoltre dichiarare nulli eventuali atti che hanno violato il giudicato.

Qualora l’ottemperanza riguardi sentenze non ancora passate in giudicato o altri provvedimenti allora il giudice determina le modalità in cui devono avere esecuzione, considerando inefficaci gli atti che sono stati emessi violando o eludendo le disposizioni e provvede senza trascurare gli effetti che ne conseguono.

Il giudice, su richiesta di parte, può anche stabilire a carico del resistente una somma di denaro determinata per ogni violazione, inosservanza o ritardo nel dare esecuzione al giudicato. Questa decisione però può essere assunta dal giudice solo se non risulti manifestamente iniqua o non rilevi ostacoli.

In caso di necessità nomina poi un commissario ad acta e in questo caso il giudice conosce tutte le questioni che riguardano l’ottemperanza comprese le questioni relative agli atti del commissario.

Se poi il ricorso è stato proposto per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza, allora il giudice fornisce questi chiarimenti, anche se richiesti dal commissario ad acta.

Le regole sul procedimento di ottemperanza si applicano anche quando i provvedimenti giuridici che vengono adottati dal giudice dell’ottemperanza vengono impugnati.

doppia conforme

Doppia conforme e limiti al ricorso in Cassazione  Si ha doppia conforme quando la sentenza di secondo grado conferma per intero quella di primo grado, comportando limiti al ricorso per Cassazione

Doppia conforme: definizione

Il termine doppia conforme descrive l’ipotesi in cui le sentenze di primo e di secondo grado contengano in sostanza le stesse valutazioni dei fatti. La doppia conforme assume un rilievo particolare quando si vuole presentare un ricorso in sede di legittimità. Vediamo di comprenderne le ragioni.

Eliminato il filtro in appello

Dal punto di vista disciplinare la riforma Cartabia, eliminato il filtro di inammissibilità in sede di appello previsto dall’abrogato art. 348 ter c.p.c, ha però conservato le disposizioni contenute negli ultimi due commi di questa norma, spostandone il contenuto all’interno dell’art. 360 c.p.c, che precisa quali sono le sentenze e i motivi per i quali le stesse sono impugnabili in Cassazione.

Post riforma la norma di riferimento che si occupa della doppia conforme è pertanto l’art. 360 c.p.c.

Doppia conforme e motivi di impugnazione

Della doppia conforme in caso di ricorso in Cassazione si occupa, nello specifico, il comma 4 del suddetto articolo 360 c.p.c.

La disposizione, nello specifico, dispone che: “Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui al primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4). Tale disposizione non si applica relativamente alle cause di cui all’articolo 70, primo comma”.

Dalla lettera della norma emerge che, se la sentenza di appello che la parte decide di impugnare in sede di Cassazione conferma la sentenza di primo grado per ragioni che si riferiscono agli stessi fatti (doppia conforme), l’impugnazione di legittimità può riguardare solo i seguenti motivi (1,2,3,e 4 comma 1 art. 360 c.p.c), fatta accezione per le cause in cui è obbligatoria la presenza del Pubblico Ministero:

  1. motivi di giurisdizione;
  2. violazione di norme sulla competenza quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  3. violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di contratti e di accordi collettivi nazionali di lavoro;
  4. nullità della sentenza o del procedimento.

Nel comma 5 appena analizzato il legislatore della riforma ha voluto specificare il riferimento alle “medesime ragioni inerenti i medesimi fatti” per descrivere in dettaglio le caratteristiche della “doppia conforme”, limitando i casi di inammissibilità del ricorso proposto al motivo indicato al n. 5) ai soli casi in cui la sentenza di secondo grado confermi per intero la pronuncia del grado di giudizio precedente.

L’esclusione del motivo di impugnazione in Cassazione indicato al n. 5, che riguarda “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” è evidente. In presenza di una doppia conforme, ossia di due pronunce emesse in due diversi gradi di giudizio che concordano pienamente sull’analisi e sulla valutazione degli elementi probatori” la Cassazione non può, proprio perché giudice delle leggi, invalidarne le conclusioni fornendo prospettive nuove e alternative rispetto a quelle dei giudici di merito.