autonomia differenziata

Autonomia differenziata: parziale bocciatura della Consulta La Corte Costituzionale ha ritenuto illegittime alcune disposizioni della legge sull'autonomia differenziata

Autonomia differenziata: l’intervento della Consulta

La Corte Costituzionale ha recentemente deciso in merito alle questioni di costituzionalità sollevate sulla Legge n. 86 del 2024 riguardante l’autonomia differenziata delle regioni ordinarie. In attesa del deposito della sentenza ufficiale, l’Ufficio Comunicazione della Corte ha confermato che la legge nel suo complesso non è stata giudicata incostituzionale, ma sono stati rilevati diversi profili di illegittimità legati a specifiche disposizioni del testo legislativo.

Interpretazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione

La Corte ha esaminato in dettaglio l’articolo 116, terzo comma della Costituzione italiana, che permette alle regioni ordinarie di acquisire forme di autonomia differenziata. I giudici hanno sottolineato che tale norma deve essere interpretata nel contesto della struttura dello Stato italiano, che riconosce alle regioni un ruolo fondamentale ma in un quadro che rispetti i principi di unità della Repubblica, solidarietà tra le regioni, eguaglianza e garanzia dei diritti dei cittadini. Inoltre, la Corte ha ribadito che la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni, in applicazione di tale articolo, non deve rispondere a un semplice riparto di potere, ma deve essere finalizzata al bene comune e alla tutela dei diritti costituzionali.

Autonomia differenziata: finalità e funzionalità

La Corte ha inoltre chiarito che l’autonomia differenziata dovrebbe mirare a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, a garantire maggiore responsabilità politica e a rispondere meglio alle esigenze dei cittadini. Tuttavia, sono state evidenziate delle problematiche in merito alla forma e alle modalità con cui le autonomie vengono differenziate.

I profili di incostituzionalità

Nell’analizzare i ricorsi presentati dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, la Corte ha individuato alcune disposizioni della legge sull’autonomia differenziata che risultano incostituzionali.

In particolare, sono state bocciate le seguenti previsioni:

  1. Devoluzione di materie e funzioni: La legge consente che l’intesa tra lo Stato e la regione possa trasferire materie intere o ambiti di materie. La Corte, però, ritiene che la devoluzione debba riguardare solo funzioni specifiche, giustificate in relazione al principio costituzionale di sussidiarietà, che regola la distribuzione dei compiti tra Stato e regioni.
  2. Delega legislativa sui livelli essenziali delle prestazioni (LEP): La legge conferisce una delega legislativa per definire i LEP (diritti civili e sociali), ma la Corte ha sottolineato l’assenza di criteri direttivi adeguati. In tal modo, la decisione sulle prestazioni fondamentali verrebbe rimessa al Governo, limitando il ruolo del Parlamento.
  3. Determinazione dei LEP tramite dPCM: La Corte ha ritenuto illegittima la previsione che affida al Presidente del Consiglio dei Ministri la responsabilità di aggiornare i LEP tramite decreto (dPCM), poiché tale modalità non garantisce sufficiente partecipazione parlamentare.
  4. Modifica delle aliquote tributarie: La legge consente di modificare, tramite decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali destinati a finanziare le funzioni trasferite. Secondo la Corte, questa disposizione potrebbe premiare le regioni inefficienti, che non riescono a garantire l’efficacia dei servizi nonostante i fondi ricevuti.
  5. Concorso obbligatorio agli obiettivi di finanza pubblica: La Corte ha rilevato che la legge prevede la facoltatività del concorso delle regioni agli obiettivi di finanza pubblica, compromettendo i vincoli di solidarietà e l’unità della Repubblica.
  6. Estensione dell’autonomia alle regioni a statuto speciale: La Corte ha escluso che l’autonomia differenziata possa essere applicata anche alle regioni a statuto speciale. Tali regioni hanno già procedure autonome per richiedere forme di maggiore autonomia, quindi l’estensione della legge non è costituzionalmente corretta.

Interpretazioni costituzionalmente orientate

Nonostante le criticità riscontrate, la Corte ha dato un’interpretazione positiva ad alcune altre disposizioni della legge:

  1. Iniziativa legislativa: L’iniziativa per l’approvazione della legge di differenziazione non è riservata esclusivamente al Governo, ma deve coinvolgere anche il Parlamento.
  2. Emendamento dell’intesa: La legge di differenziazione non è un atto “prendere o lasciare”, ma implica che il Parlamento possa apportare modifiche all’intesa, con la possibilità di rinegoziarla.
  3. Definizione dei LEP: La legge deve chiarire meglio quali materie siano soggette alla determinazione dei LEP. In particolare, se una materia non rientra nei LEP, non potranno essere trasferite funzioni che riguardano i diritti civili e sociali.
  4. Compartecipazione tributaria: La Corte ha sottolineato che le risorse per le funzioni trasferite devono essere determinati non sulla base della spesa storica, ma utilizzando criteri di efficienza e fabbisogni standard, in modo da garantire una corretta copertura delle funzioni trasferite.
  5. Clausola di invarianza finanziaria: L’intesa e l’individuazione delle risorse per le funzioni devolute dovranno tener conto del quadro economico generale e degli obblighi finanziari europei.

Ruolo del Parlamento

La Corte ha lasciato al Parlamento il compito di correggere le incongruenze riscontrate, in modo da garantire che la legge rispetti pienamente i principi costituzionali. Spetterà al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti normativi derivanti dalle questioni sollevate, assicurando che la legge sia pienamente funzionale e conforme alla Costituzione.

Infine, la Corte rimarrà competente a valutare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione che dovessero essere adottate, qualora venissero impugnate da altre regioni o in via incidentale.

 

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decreto sud

Decreto Sud legittimo La Consulta decidendo il ricorso della regione Campania sui fondi di coesione e sulla Zes unica del decreto Sud ha ritenuto non fondati i dubbi di costituzionalità

Il Decreto Sud è legittimo. La Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 175/2024, sul ricorso con cui la regione Campania ha impugnato diverse disposizioni contenute nel dl. n. 124/2023 (meglio noto come Decreto Sud).

Nessuna lesione all’autonomia regionale

Il ricorso della regione lamentava, in primo luogo, che alcune disposizioni contenute nel “decreto Sud” in materia di programmazione e utilizzazione delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione ledessero, per più aspetti, l’autonomia regionale.

Fondi di coesione

Con la sua pronuncia, la Corte ha ritenuto, innanzitutto, non fondati i dubbi di costituzionalità della previsione secondo cui la stipula dell’Accordo per la coesione tra Stato e Regione possa intervenire solamente una volta «dato atto dei risultati dei precedenti cicli di programmazione» (art. 1, comma 178, lettera d, della legge n. 178 del 2020, come sostituito dall’art. 1 del d.l. n. 124 del 2023).

Secondo la sentenza, il riferimento ai risultati dei precedenti cicli di programmazione non impone alla Regione destinataria dei fondi di dare prova dell’avvenuto completamento dei progetti, ma si traduce in un «adempimento istruttorio nel corso del quale viene operata una ricognizione dei progetti in essere al fine di verificare la maggiore o minore fattibilità di quelli rientranti nel ciclo di programmazione futuro».

Nel complesso, la sentenza ha ritenuto che la disciplina del Fondo per lo sviluppo e la coesione rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato perché è finalizzata a «rimuovere gli squilibri economici e sociali» e assolve, pertanto, “a finalità perequative, secondo quanto previsto dagli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119, quinto comma, Cost.

Accanto a ciò, la Corte ha chiarito che, secondo un ordinato assetto dei rapporti finanziari tra Stato e regioni, è necessario tenere distinte le risorse destinate a «finanziare integralmente le funzioni pubbliche» attribuite alle regioni medesime e agli enti locali e le risorse aggiuntive di cui all’art. 119, quinto comma, Cost., «la cui finalità resta quella di sostenere interventi di natura diversa dall’esercizio delle funzioni ordinarie, in quanto connessi a obiettivi di natura strutturale rivolti al necessario riequilibrio tra le diverse aree del Paese e la cui realizzazione è demandata a progetti specifici»”.

Zes unica

Con un secondo gruppo di doglianze, la Regione Campania ha impugnato l’insieme degli articoli con cui, nel “decreto Sud”, vengono disciplinati l’istituzione e il funzionamento della Zona economica speciale per il Mezzogiorno.

In relazione all’art. 9 del d.l. n. 124 del 2023, che istituisce la ZES unica, è stata dichiarata la cessazione della materia del contendere, alla luce della rinuncia al ricorso avanzata dalla Regione.

codice rosso

Codice Rosso: ok a braccialetto elettronico e a distanza minima La Corte Costituzionale ha legittimato le nuove disposizioni sul divieto di avvicinamento nei reati di genere, ossia l'obbligo di braccialetto elettronico e la distanza minima di 500 metri dalla persona offesa

Codice Rosso e divieto di avvicinamento

Codice Rosso: la Consulta ha dichiarato infondati i dubbi sulla distanza minima di 500 metri e sull’obbligo di braccialetto elettronico, chiarendo però che l’impossibilità tecnica del controllo remoto non può risolversi in un automatismo cautelare a sfavore dell’indagato.

Le qlc sull’art. 282-ter, commi 1 e 2, c.p.p.

Con la sentenza n. 173, depositata oggi, 4 novembre 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Modena, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., nei riguardi dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 168 del 2023 (“nuovo codice rosso”).

Il rimettente ha censurato tali modifiche normative, inerenti la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, poiché esse, prescrivendo la distanza minima di 500 metri e l’applicazione obbligatoria del braccialetto elettronico, avrebbero reso la misura stessa troppo rigida, in contrasto con il principio di individualizzazione e con la riserva di giurisdizione in materia di restrizione della libertà personale, avendo inoltre la novella stabilito che, qualora l’organo di esecuzione accerti la «non fattibilità tecnica» del controllo remoto, il giudice debba imporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari, anche più gravi.

Braccialetto elettronico e distanza minima

La Corte ha sottolineato che il braccialetto elettronico è un importante dispositivo funzionale alla tutela delle persone vulnerabili rispetto ai reati di genere, e che la distanza minima di 500 metri corrisponde alla finalità pratica del tracciamento di prossimità, quella di dare uno spazio di tempo sufficiente alla persona minacciata per trovare sicuro riparo e alle forze dell’ordine per intervenire in soccorso.

Il giudice delle leggi ha osservato altresì che, sebbene negli abitati più piccoli la distanza di 500 metri possa rivelarsi stringente, l’indagato ne riceve un aggravio sopportabile, quello di recarsi nel centro più vicino per trovare i servizi di cui necessita; mentre, ove rilevino «motivi di lavoro» o «esigenze abitative», il comma 4 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. consente al giudice di stabilire modalità particolari di esecuzione del divieto di avvicinamento, restituendo flessibilità alla misura. «A un sacrificio relativamente sostenibile per l’indagato» – afferma dunque la Corte – «si contrappone l’impellente necessità di salvaguardare l’incolumità della persona offesa, la cui stessa vita è messa a rischio dall’imponderabile e non rara progressione dal reato-spia (tipicamente lo stalking) al delitto di sangue».

Il controllo da remoto

In riferimento poi alla riscontrata impossibilità tecnica del controllo elettronico, evenienza oggettivamente non imputabile all’indagato, la Corte evidenzia come la norma censurata possa interpretarsi in senso costituzionalmente adeguato, sicché il giudice, in tal caso, non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di idoneità, necessità e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (quale il divieto o l’obbligo di dimora), ma anche una misura più lieve (quale l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria).

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riforma cartabia

Riforma Cartabia: costituzionale l’art. 473.bis-17 c.p.c.? Riforma Cartabia: dubbi sulla costituzionalità del termine di 10 giorni che ha l'attore per esercitare il suo diritto di difesa

Riforma Cartabia: i dubbi di costituzionalità

La Riforma Cartabia concede all’attore 10 giorni per prendere posizione sulle difese del convenuto, precisare e modificare le proprie conclusioni, proporre domande ed eccezioni  in conseguenza della domanda riconvenzionale e formulare istanze di prova. Questa regola però viola i principi sanciti dagli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione. Il nuovo art. 473bis.17 c.p.c, che prevede questo termine, non consente all’attore di esercitare il proprio diritto di difesa come il convenuto. Lo ha sancito il Tribunale di Genova che, accogliendo le rimostranze di parte attrice, ha rimesso la questione di legittimità costituzionale alla Consulta con l’ordinanza del settembre 2024.

Domanda per la modifica delle condizioni della separazione

Nella vicenda, una donna agisce in giudizio per chiedere la modifica delle condizioni della separazione sancita con una sentenza del 2016. Nella domanda chiede l’aumento del contributo dovuto dall’ex marito in favore della figlia maggiorenne, affetta da serti disturbi dell’apprendimento. Il marito si costituisce in giudizio, si oppone alle richieste della ex moglie e in via riconvenzionale chiede il divorzio.

Parte ricorrente con memoria 473bis.17 c.p.c. eccepisce l’inammissibilità della domanda di divorzio. Per l’attrice essa non presenta alcuna connessione oggettiva con la domanda principale. In udienza le parti raggiungono un accordo sul mantenimento e sulle spese straordinarie in favore della prole. La causa viene rinviata e le parti depositano note scritte per tentare di trovare un punto di incontro su tutte le questioni patrimoniali pendenti.

Costituzionale l’art. 473bis.17 c.p.c.?

Il giudice prende atto dell’impossibilità di raggiungere una soluzione condivisa sul divorzio a causa dell’eccezione sollevata da parte attrice. Essa ha sollevato infatti un dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 473 bis. 17 introdotto dalla Riforma Cartabia nel procedimento in materia di persone e famiglia. Per la ricorrente il termine di 10 giorni che viene concesso alla parte attrice per prendere posizione sulle domande nuove del convenuto sono insufficienti e lesivi dei principi sanciti dall’articolo 3 (uguaglianza), 24 (diritto di difesa) e 111 (giusto processo).

Il Tribunale di Genova, nel pronunciarsi sulla dubbia legittimità costituzionale dell’art. 473bis. 17, dopo aver analizzato gli articoli 473 bis 11 si sofferma sull’art. 474bis. 17. Questo articolo al comma 1 dispone che: “entro venti giorni prima della data dell’udienza, l’attore può depositare memoria con cui prendere posizione in maniera chiara e specifica sui fatti allegati dal convenuto, nonché, a pena di decadenza, modificare o precisare le domande e le conclusioni già formulate, proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza delle difese del convenuto, indicare mezzi di prova e produrre documenti. Nel caso in cui il convenuto abbia formulato domande di contributo economico, nello stesso termine l’attore deve depositare la documentazione prevista nell’articolo 473-bis. 12, terzo comma”.

Il convenuto ha 30 giorni per impostare la difesa, l’attore solo 10

Analizzando la normativa in questione emerge che il convenuto ha 30 giorni di tempo per impostare la difesa, sollevare le sue eccezioni e formulare eventuali domande riconvenzionali. L’attore invece, per prendere posizione sulle domande e sulle difese del convenuto, modificare le proprie domande, sollevare eventuali accezioni e proporre domande nuove in conseguenza delle domande e dei mezzi di prova del convenuto ha solo 10 giorni, spesso 9 o meno ancora se la comparsa conclusionale viene depositata lultimo giorno disponibile e scaricata dalla Cancelleria il giorno successivo.”

In un caso come quello di specie, in cui parte attrice si è limitata a chiedere la modifica delle condizioni per il mantenimento della prole mentre parte convenuta ha chiesto in via riconvenzionale il divorzio, quest’ultima mette in discussione tutto quanto stabilito fino a quel momento tra la coppia in materia di diritti patrimoniali e non patrimoniali. Per questo parte attrice lamenta di non aver avuto abbastanza tempo per formulare la domanda per l’assegno divorzile conseguente alla domanda di divorzio di controparte.

Compressione ingiustificata dei termini: l’attore non può difendersi

L’articolo 474bis.17 c.p.c. prevede una compressione ingiustificata del diritto di difesa dell’attore previsto dall’articolo 24 della Costituzione in violazione del principio del giusto processo sancito dall’articolo 111 e di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione.

“Il termine di soli dieci giorni previsto dall’art. 473 bis.17 c.p.c in favore dell’attore per modificare e precisare le domande e formulare domande nuove e quindi anche i relativi mezzi di prova, si reputa assolutamente incongruo, non rinvenendosi nei vari riti previsti dal nostro ordinamento per i giudizi a cognizione piena una tempistica così ristretta”.

Basti pensare ai tempi previsti dagli articoli 166 e 171 ter del processo a cognizione ordinaria, a quelli indicati dall’art. 281 duodecies c.p.c, che disciplina il rito ordinario semplificato, ai termini del rito lavoro di cui all’art. 481 c.p.c o a quelli previsti dall’art. 166 ante riforma.

Come più volte affermato dalla Consulta “Il difetto di congruità del termine, rilevante sul piano della violazione dell’art. 24, primo comma, Cost., si ha solo qualora esso, per la sua durata, sia inidoneo a rendere effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce e, di conseguenza, tale da rendere inoperante o carente la tutela accordata al cittadino” (Corte Cost. 10/02/2023, n. 18)”.

 

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Confisca edilizia: non deve pregiudicare il diritto di ipoteca La Corte Costituzionale dichiara l'incostituzionalità dell'art. 7, 3° comma, della legge n. 47/1985 nella parte in cui la confisca edilizia "comprime" il diritto di ipoteca

Confisca edilizia e diritto di ipoteca

“La confisca edilizia, conseguente alla mancata demolizione dell’immobile abusivo da parte del responsabile dell’abuso e del proprietario, deve preservare il diritto di ipoteca iscritto dal creditore prima della trascrizione dell’acquisto a favore del Comune, se il creditore ipotecario non è responsabile dell’abuso”. Così si è espressa la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 160/2024, dichiarando illegittimo l’articolo 7, terzo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire.

La medesima declaratoria di illegittimità costituzionale è stata estesa in via consequenziale anche all’art. 31, comma 3, primo e secondo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, norma che è subentrata alla precedente e che presenta un identico contenuto precettivo.

L’interpretazione della giurisprudenza

Le disposizioni suddette erano state interpretate dalla Corte di cassazione e dal Consiglio di Stato nel senso di attribuire alla confisca edilizia la qualifica di acquisto a titolo originario, cui consegue, in mancanza di una diversa previsione di legge, l’estinzione di «eventuali ipoteche, pesi e vincoli preesistenti».

La Consulta, preso atto di tale interpretazione, “ha ritenuto irragionevole e sproporzionato che non sia fatto salvo il diritto di ipoteca, ove il creditore titolare di tale garanzia reale non sia responsabile dell’abuso edilizio. In tal caso, infatti, il creditore non è tenuto a rispondere della mancata demolizione dell’immobile abusivo, vale a dire dell’illecito al quale consegue la sanzione della confisca”.

Effetto sanzionatorio

Pertanto, l’estinzione del diritto di ipoteca finisce per far subire al creditore ipotecario l’effetto sanzionatorio di un illecito commesso da altri.

Del resto, ha rilevato il giudice delle leggi, “la tutela del credito ipotecario non sacrifica l’interesse al rispetto della normativa urbanistico-edilizia. Tale tutela si realizza, infatti, attraverso l’espropriazione forzata e, se l’immobile oggetto della vendita forzata è abusivo, l’aggiudicatario deve comunque o sanare l’abuso o demolirlo”.

La Corte, infine, ha reputato sproporzionato il sacrificio imposto al creditore, non responsabile dell’abuso, attraverso l’estinzione del diritto di ipoteca, “in quanto al creditore residuerebbero in tal caso rimedi inesigibili o inadeguati a compensare il pregiudizio ingiustificatamente comminato”.

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autonomia differenziata

Autonomia differenziata: la Consulta ha fissato l’udienza Sarà il 12 novembre 2024 l'udienza pubblica per la discussione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni

Autonomia differenziata: il presidente della Corte costituzionale Augusto Barbera ha fissato, per l’udienza pubblica del 12 novembre 2024, la discussione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Regione Puglia (ricorso n. 28) e dalla Regione Toscana (ricorso n. 29) sulla legge n. 86 del 26 giugno 2024 “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.

Seguirà, si legge nel comunicato della Consulta, “a scadenza termini prevista per martedì 8 ottobre, la fissazione, sempre per l’udienza pubblica del prossimo 12 novembre, della discussione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Regione autonoma della Sardegna (ricorso n. 30) e dalla Regione Campania (ricorso n. 31) riguardanti la stessa legge”.

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PMA donne single: parola alla Consulta PMA donne single: il Tribunale di Firenze chiede alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sull’art. 5 della legge n. 40/2004

Procreazione medicalmente assistita donne single

Si torna a parlare di PMA in relazione alle donne single. Il Tribunale di Firenze accoglie i rilievi di incostituzionalità sollevati da una donna nei confronti della legge n. 40/2004. L’articolo 5 riserva il diritto di ricorrere alle tecniche  di PMA solo alle coppie maggiorenni spostate o conviventi, negandolo alle donne single. Questo limite viola in effetti alcuni diritti fondamentali della persona sanciti dalla Costituzione e da norme europee. La questione ora dovrà essere affrontata e risolta dalla Corte Costituzionale.

PMA: negato l’accesso a una donna single

Una donna agisce nei confronti di un Centro di procreazione assistita. Nell’ambito di un procedimento cautelare chiede di disapplicare l’articolo 5 della norm  per contrasto con gli articoli 8 e 14 della CEDU.

La donna, alla luce delle ultime pronunce in materia della Corte Costituzionale, chiede il riconoscimento dei seguenti diritti:

  • di poter ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche con l’eterologa maschile;
  • di potersi sottoporre a un protocollo PMA adeguato per assicurare più elevate probabilità di risultato;
  • di potersi sottoporre a un trattamento medico che tuteli la salute della donna.

Qualora il Tribunale dovesse riconoscerle questi diritti la donna chiede che venga ordinato al Centro di Procreazione assistita di accogliere la sua richiesta di sottoporsi alla tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo con donatore anonimo, avviando la relativa procedura a carico del Servizio Sanitario Nazionale.

Art. 5 legge n. 40/2004: discriminatorio per le donne single

Qualora il Tribunale dovesse invece rigettare le richieste avanzate la donna chiede in via subordinata di sollevare questione di illegittimità costituzionale. L’articolo 5 della legge n. 40/2004 limita infatti il diritto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie di sesso diverso, coniugate o convivente, negandolo alle donne single. La ricorrente contesta che il Centro di procreazione a cui si è rivolta le neghi il diritto di ricorrere alla PMA. Questo diniego è infatti del tutto irragionevole. Esso contrasta con quanto sancito dalla Costituzione e con le legislazioni dei paesi europei. Molti Stati UE infatti, ad oggi, consentono anche alle donne single di poter accedere alla fecondazione eterologa.

A sostegno delle ragioni della ricorrente sono intervenute nel giudizio con interventi adesivi dipendenti una donna e un’Associazione, che promuove il superamento dei limiti previsti dalla legislazione italiana in materia di procreazione medicalmente assistita.

Art. 5  contrario a Costituzione e fonti europee

Il Tribunale accoglie la richiesta della rincorrente in relazione alla questione di illegittimità costituzionale delle norme che limitano a PMA solo alle coppie maggiorenni di sesso diverso spostate e conviventi.

Il Tribunale giunge a questa conclusione dopo avere analizzato il contenuto dell’articolo 5, norma che presenta evidenti profili di incostituzionalità.

Essa nega infatti alla donna di accedere alle tecniche di fecondazione assistita eterologa in pieno contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art.  3 della Costituzione. La norma realizza una discriminazione irragionevole tra singole coppie, in contrasto con la i diritti delle famiglie mono-genitoriale che invece il nostro ordinamento tutela.

La norma discrimina anche per ragioni economiche, perchè di fatto se la donna si reca all’estero per accedere alla PMA il relativo rapporto di filiazione è poi riconosciuto nel nostro ordinamento.

Il dato normativo contrasta anche con una decisione della Corte Costituzione che ha consentito a una donna solo di procedere con l’impianto in utero dell’embrione e con un decreto del Ministero della Salute che consente le donne separate o vedove di procedere alla fecondazione in presenza del consenso espresso in precedenza dalla coppia.

L’art. 5 viola il diritto della persona di scegliere una famiglia non figli non genetici, in violazione del principio di autodeterminazione.

La norma viola anche il diritto alla salute della donna perché le impedisce di diventare madre, anche alla luce L fattore temporale della fertilità.

La norma contrasta infine anche con l’art. 117 Cost comma 1 in relazione ad. Alcun articoli della CEDU e della Carta di Nizza perché non rispetta la vita privata della famiglia e il diritto all’integrità fisica e psichica perché viola Il diritto all’autodeterminazione in relazione al modello familiare che ciascuno vuole realizzare.

 

Leggi anche: Procreazione medicalmente assistita (PMA): le linee guida

Allegati

visto di conformità

Visto di conformità riservato ai professionisti iscritti agli albi La Consulta boccia la posizione dei "tributaristi", la riserva verso le professioni ordinistiche non è irragionevole

Visto di conformità solo per i professionisti

Visto di conformità riservato ai professionisti: la riserva verso i professionisti ordinistici  non è illegittima, vista la «diversità sostanziale tra le due categorie di professionisti» (ordinistici e non). E non è irragionevole limitare la possibilità di rilascio ai «professionisti iscritti a ordini, che, avendo superato un esame di Stato per accedere agli albi ed essendo soggetti alla penetrante vigilanza degli ordini anche sul piano deontologico, sono muniti di particolari requisiti attitudinali e di affidabilità, a garanzia degli interessi dell’amministrazione alla corretta esecuzione dell’adempimento». È quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 144/2024 che ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai tributaristi.

Le questioni di legittimità costituzionale

Le questioni muovono dall’asserita irragionevolezza della distinzione tra professioni ordinistiche e non ordinistiche ai fini del rilascio del visto di conformità, sia “pesante” che “leggero”, non sussistendo più, ad avviso del rimettente, una differenza apprezzabile tra le due categorie professionali, tenuto conto dell’approvazione della legge n. 4 del 2013 e del fatto che i tributaristi non iscritti possono inviare le dichiarazioni dei redditi all’amministrazione finanziaria.

Tale distinzione, tuttavia, sarebbe più che ragionevole e costituirebbe in ogni caso il frutto di una scelta discrezionale del legislatore non manifestamente irragionevole.

Diversità sostanziale tra le due categorie di professionisti

Nel merito, precisa innanzitutto la Consulta, “il visto di conformità ha lo scopo di garantire ai contribuenti assistiti un corretto adempimento di taluni obblighi tributari e di agevolare l’amministrazione finanziaria nella selezione delle posizioni da controllare e nell’esecuzione dei controlli di propria competenza” enucleando poi la differenza tra quello “leggero” e “pesante”.

Accertato che permane una diversità sostanziale tra le due categorie di professionisti, la Corte verifica la ragionevolezza della scelta operata dal legislatore, con esito positivo.

“È da considerare il rilevante interesse pubblico correlato al rilascio del visto di conformità, che non si risolve nella mera predisposizione e trasmissione delle dichiarazioni o nella tenuta delle scritture e dei dati contabili, ma è diretto ad agevolare e rendere più efficiente l’esercizio dei poteri di controllo e di accertamento dell’amministrazione finanziaria, con assunzione della relativa responsabilità (si pensi, ad esempio, alla corretta determinazione degli oneri detraibili collegati al cosiddetto “superbonus edilizio”)” afferma la Consulta. Dunque, non è irragionevole “abilitare al rilascio del visto i professionisti iscritti a ordini, che, avendo superato un esame di Stato per accedere agli albi ed essendo soggetti alla penetrante vigilanza degli ordini anche sul piano deontologico, sono muniti di particolari requisiti attitudinali e di affidabilità, a garanzia degli interessi dell’amministrazione alla corretta esecuzione dell’adempimento”.

La decisione

In definitiva, la Corte esclude sia la discriminazione che l’irragionevolezza prospettate dal rimettente, in riferimento all’art. 3 Cost. e ritiene non fondate tutte le altre questioni sollevate.

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esenzione imu

Esenzione Imu se uno dei due coniugi è residente La Cassazione chiarisce che l'esenzione IMU spetta anche se soltanto uno dei due coniugi è in posso della residenza anagrafica nel comune

Esenzione IMU

L’esenzione Imu spetta anche se solo uno dei due coniugi è in possesso della residenza anagrafica nel Comune. Lo ha chiarito la sezione tributaria della Cassazione con sentenza n. 17278-2024 decidendo una vertenza tra una coppia di coniugi e il comune di Praiano.

La vicenda

Nella vicenda, la Commissione tributaria regionale della Campania – sez. staccata di Salerno, rigettava l’appello del Comune di Praiano avverso la decisione di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da una coppia contro l’avviso di accertamento per IMU 2012 (benefici prima casa nell’ipotesi di doppia residenza familiare in Comuni diversi).
L’amministrazione ricorreva per Cassazione lamentando violazione di legge in considerazione dell’insussistenza del diritto del contribuente all’esenzione IMU per la prima casa, in quanto i coniugi non avevano entrambi la residenza nell’immobile preso in considerazione per l’esenzione (la moglie, infatti, era dimorante in altro Comune).

L’intervento della Corte Costituzionale in materia

Per gli Ermellini, tuttavia, il ricorso risulta infondato e deve respingersi.
Il Comune ricorrente, scrivono i giudici, “non valuta (in quanto successiva) la decisione n. 209 del 2022, in materia, della Corte Costituzionale: «È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 31 e 53 Cost., l’art. 13, comma 2, quarto periodo, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, come modificato dall’art. 1, comma 707, lett. b ), della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «[per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente»”.

Contrasto col principio di eguaglianza

La norma, censurata dalla Corte Costituzionale con ordinanza di autorimessione, contrasta in pratica con il principio di eguaglianza nella parte in cui – nel definire l’abitazione principale ai fini dell’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) – introduce il riferimento al nucleo familiare, “determinando così una irragionevole discriminazione tra le persone unite in matrimonio o unione civile e i singoli o conviventi: sino a che non avviene la costituzione del detto nucleo, infatti, ciascun possessore di immobile che vi risieda anagraficamente e dimori abitualmente può fruire della detta esenzione – anche se unito in una convivenza di fatto, e avendo i partner il diritto a una doppia esenzione – mentre il matrimonio o l’unione civile determinano l’effetto di precludere tale ultima possibilità, nonché, secondo il diritto vivente, ogni esenzione per i coniugi che abbiano stabilito la residenza anagrafica in abitazioni site in Comuni diversi. Né può rilevare una giustificazione in termini antielusivi della norma, in ragione del rischio che le «seconde case» vengano iscritte come abitazioni principali, disponendo i comuni di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni sull’esistenza della dimora abituale. Il previsto collegamento tra abitazione principale e nucleo familiare – che ha condotto il diritto vivente a riconoscere il diritto all’esenzione in esame soltanto nel caso di disgregazione di tale nucleo, ossia di frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi – contrasta anche con l’art. 31 Cost.”.

Nucleo familiare

Risulta violato, infine, rilevano ancora dal Palazzaccio richiamando la decisione della Consulta, “anche l’art. 53 Cost., dal momento che la rilevanza, nell’articolazione normativa dell’IMU, di elementi come le relazioni del soggetto con il nucleo familiare e, dunque, dello status personale del contribuente, non appare coerente con la sua natura di imposta reale salva, in via di eccezione, una ragionevole giustificazione che nel caso non sussiste».

La decisione

Conseguentemente, stabiliscono dal Palazzaccio rigettando il ricorso, il contribuente, come correttamente stabilito dalla sentenza impugnata, aveva diritto all’esenzione prima casa: «In tema di esenzione IMU per la casa principale, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 209 del 2022, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 13, comma 2, quarto periodo, del d.I. n. 201 del 2011, conv. con modif. dalla .I n. 214 del 2011, va escluso che la nozione di abitazione principale presupponga la dimora abituale e la residenza anagrafica del nucleo familiare del possessore, per cui li beneficio spetta al possessore dell’immobile ove dimora abitualmente e risiede anagraficamente, anche se il coniuge abbia la residenza anagrafica in diverso comune» (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 32339 del 03/11/2022, Rv. 666357 – 01)”.

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Messaggi WhatsApp: stesse garanzie della corrispondenza Messaggi WhatsApp: se conservati in memoria finché non diventano documenti storici hanno le stesse garanzie costituzionali della corrispondenza

Messaggi WhatsApp natura di corrispondenza

I messaggi WhatsApp hanno le stesse garanzie della corrispondenza. Messaggi ed SMS che vengono conservati nella memoria di un telefono cellulare conservano, infatti, la natura di “corrispondenza” anche dopo che il destinatario li abbia ricevuti. Questo tipo di qualificazione perdura fino a quando i messaggi non perdono il carattere di attualità e di interesse alla riservatezza, trasformandosi in “documenti storici”.

L’acquisizione di tali messaggi deve avvenire quindi nel rispetto delle procedure  previste dalla Costituzione relative al sequestro della corrispondenza  tradizionale come le lettere e i biglietti chiusi. Lo ha sancito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25549-2024.

Sul valore probatorio dei messaggi WhatsApp leggi anche WhatsApp: è prova nel processo

Mancato rispetto delle regole di acquisizione

Un imputato, condannato per i reati di traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti,  contesta l’acquisizione dei messaggi WhatsApp presenti sul suo cellulare. Chi ha provveduto all’acquisizione non avrebbe rispettato le regole procedurali.

L’accusa si basa sul contenuto di questi messaggi, che la polizia giudiziaria avrebbe acquisito senza rispettare la disciplina del sequestro della corrispondenza. La polizia avrebbe dovuto infatti consegnare gli oggetti di corrispondenza all’autorità giudiziaria senza aprirli o alterarne il contenuto, trasmettendoli intatti al P.M. per l’eventuale sequestro.

Messaggi WhatsApp non sono intercettazioni

La Corte di Cassazione, davanti alla quale è giunta la vicenda processuale, chiarisce che l’acquisizione dei messaggi WhatsApp che vengono conservati su un dispositivo elettronico non può essere considerata come un’”intercettazione”.

Per la Corte costituzionale, questi tipi di messaggi rientrano nella nozione ampia di “corrispondenza”. Questa nozione comprende infatti qualsiasi forma comunicazione del pensiero umano e prescinde dal mezzo tecnico utilizzato. La Costituzione, come noto, garantisce a tutti i cittadini la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. La violazione della corrispondenza è consentita solo se disposta dall’Autorità giudiziaria con un atto  motivato.

Corrispondenza anche dopo che il destinatario li abbia letti e ricevuti

La Cassazione però si spinge oltre. Esclusa infatti la nozione di intercettazione, la Corte Suprema affronta la questione relativa alla natura dei messaggi elettronici. Gli stessi conservano la natura di corrispondenza anche dopo che il destinatario li abbia ricevuti e letti?

Gli Ermellini su detta questione precisano che esistono due correnti interpretative differenti.

  • La prima sostiene che la corrispondenza, una volta letta, diventa un semplice documento, la cui acquisizione processuale non rientra né nella disciplina delle intercettazioni né in quella del sequestro della corrispondenza.
  • La seconda invece afferma che i messaggi conservano la natura di corrispondenza finché risultano attuali e di interesse per i corrispondenti, perdendo tale qualifica quando diventano “documenti storici”.

Messaggi WhatsApp: corrispondenza se attuali e di interesse

La Suprema Corte ritiene corretta questa seconda interpretazione, per cui la natura di corrispondenza non si perde con la ricezione del messaggio, ma permane finché lo stesso conserva rilevanza per i corrispondenti. Nel caso di specie la polizia giudiziaria non ha violato la disciplina sul sequestro della corrispondenza. Essa si è limitata infatti a sequestrare lo smartphone per poi consegnarlo all’autorità giudiziaria, ma non ha mai acceduto ai contenuti dei messaggi.

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