giurista risponde

Maltrattamenti in presenza o a danno di minori e sospensione della responsabilità genitoriale È legittima la comminazione obbligatoria della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale a seguito di condanna per il delitto di maltrattamenti commesso in presenza ovvero a danno di minori con abuso della responsabilità genitoriale?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi

 

Viene dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2 c.p. nella parte in cui prevede che la condanna per il delitto ex art. 572, comma 2, c.p., commesso, in presenza o a danno di minori, con abuso della responsabilità genitoriale, comporta la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporla. – Corte cost. 22 aprile 2025, n. 55 (sospensione della responsabilità genitoriale).

Il Tribunale di Siena sollevava questione di legittimità del reato succitato in quanto chiamato a giudicare sulla responsabilità penale di due genitori per il reato di maltrattamenti in famiglia «perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, ponevano in essere abitualmente, con finalità educative, condotte violente ed aggressive nei confronti dei figli minori conviventi». Una volta riconosciuta quest’ultima, lo stesso riteneva ultronea nell’an e nel quantum l’applicazione della pena accessoria della sospensione dalla responsabilità genitoriale. La motivazione risiedeva nel lungo lasso temporale intercorso tra i fatti e il procedimento, nel corso del quale vi era stata una ricomposizione del nucleo familiare. In particolare, il giudice remittente contestava tanto l’obbligatorietà della sanzione conseguentemente alla pena per maltrattamenti quanto il suo lasso temporale (il doppio rispetto alla pena per maltrattamenti).

L’excursus del giudice di merito partiva da un richiamo alla precedente sentenza della Consulta 222/2018; essa descriveva la discrezionalità del giudice nel determinare la pena in concreto, in quanto naturale prosecuzione dei principi costituzionali. Applicando tali principi, il giudice a quo evidenziava come in questo caso le risposte sanzionatorie rischino di rivelarsi manifestatamente sproporzionate rispetto a casi meno gravi [1] e, di conseguenza, incompatibili con il principio di individualizzazione della pena ex artt. 3 e 27 Cost. Al contempo, viene richiamata l’ulteriore sent. 102/2020 con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della pena accessoria obbligatoria della sospensione con riferimento al reato di sottrazione e trattenimento di minore all’estero (art. 574bis, comma 3 c.p.).

I Giudici della Consulta illustravano preliminarmente l’inammissibilità del primo motivo di doglianza, il quale era stato parametrato alla Convenzione dei Diritti del fanciullo. Quest’ultima veniva, infatti, evocata come riferimento immediato e non come norma interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.

L’iter argomentativo proseguiva suddividendo la valutazione del quesito in due filoni: da una parte, la valutazione dell’automatica applicazione della pena accessoria della sospensione (con riferimento agli artt. 2, 3 e 30 Cost.) e, dall’altra, la valutazione sul quantum.

Tre le sentenze della Corte costituzionale che si annoverano sul tema per motivare il primo quesito. Punto di partenza è costituito dalla sent. 31/2012. Con tale pronuncia la Corte si è espressa sul reato di alterazione di stato, in base al combinato disposto degli artt. 569 e 567, comma 2 c.p. In particolare, si evidenziava come ad essere coinvolto fosse l’interesse del figlio minorea vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione” (Corte cost. 31/2012). Il concetto è stato poi rimarcato dalla successiva sent. 7/2013, dichiarante l’incostituzionalità dell’art. 569 c.p. e concluso con la sent. 102/2020 sull’illegittimità del delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero.

In particolare, l’interesse del minore ex artt. 30 Cost. e 147 c.c. è inevitabilmente coinvolto dalla decisione del Giudice della decadenza dalla responsabilità genitoriale. Lo stesso si manifesta nell’obbligo dei genitori di assicurare ai figli un completo percorso educativo che garantisca loro benessere, salute e crescita fisica e spirituali, sulla base delle condizioni socioeconomiche dei genitori. Solo il venir meno di tali obblighi, pertanto, giustifica la decadenza del genitore dal suo ruolo e sempre e unicamente per salvaguardare le esigenze educative e affettive del minore. In virtù del complesso equilibrio di diritti e doveri così delineato, “è irragionevole precludere «al giudice ogni possibilità di valutazione e di bilanciamento, nel caso concreto, tra l’interesse stesso e la necessità di applicare comunque la pena accessoria in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso, tali da giustificare la detta applicazione appunto a tutela di quell’interesse»” (Corte cost. 22 aprile 2025, n. 55). La commissione del reato da parte del genitore, infatti, può costituire un indice delle mancanze provocate e non una irragionevole presunzione assoluta di inidoneità al ruolo. Diversamente, anche il minore si ritroverebbe ad essere direttamente colpito dalla sanzione e dalla conseguente perdita di diritti, poteri e obblighi che il genitore possiede nei suoi riguardi. Inoltre, tale circostanza risulta irragionevole anche alla luce del momento di comminazione, ossia con il passaggio in giudicato della sentenza che spesso viene in essere molto dopo lo svolgimento dei fatti, con il rischio di interrompere percorsi di riparazione del rapporto affettivo, così come avvenuto nel caso di specie. A conclusione, la Corte indicava come assorbite le questioni ex artt. 27 e 29 Cost. e invitava il legislatore a meglio delineare la competenza in materia di decadenza dalla responsabilità genitoriale tra il giudice per i minorenni o ordinario.

A conclusione, la Corte dichiarava l’inammissibilità della questione inerente al quantum della pena per contraddittorietà della motivazione a quo.

[1] La «rigidità applicativa» che esse richiedono, infatti, determinerebbe risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso «rispetto ai fatti commessi con abuso di responsabilità genitoriale meno gravi», non consentirebbe di tenere in considerazione l’interesse del minore alla preservazione del nucleo familiare e si rivelerebbe distonica rispetto al principio di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, con violazione degli artt. 3 e 27 Cost.

 

(*Contributo in tema di “Maltrattamenti in presenza o a danno di minori e sospensione della responsabilità genitoriale”, a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

cittadinanza iure sanguinis

Cittadinanza iure sanguinis: nessuna censura La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sull’articolo 1 della legge 91/1992 riguardanti la cittadinanza iure sanguinis

Cittadinanza iure sanguinis: la decisione della Consulta

Con la sentenza n. 142 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili e non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da diversi tribunali italiani sull’articolo 1 della legge n. 91/1992.
La norma prevede che sia cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini italiani, senza introdurre limiti all’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis.

Le questioni sollevate dai tribunali

I giudizi erano stati avviati da discendenti di cittadini italiani nati e residenti all’estero, già in possesso della cittadinanza di altro Stato.
Secondo i giudici rimettenti, la disciplina non assicura un effettivo legame con l’ordinamento italiano, mancando ulteriori criteri idonei a stabilire tale connessione.

Il ruolo del legislatore e i limiti della Corte

La Corte ha sottolineato che la definizione dei presupposti per l’acquisizione della cittadinanza rientra nell’ampio margine di discrezionalità del legislatore.
Il suo intervento è limitato a verificare che i criteri stabiliti non siano estranei o in contrasto con i principi costituzionali.

Le censure dichiarate inammissibili

Le questioni relative agli articoli 1, 3 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo anche in riferimento al diritto dell’Unione europea e agli obblighi internazionali – sono state dichiarate inammissibili.
La Corte ha rilevato che i rimettenti non avevano individuato in modo puntuale quali norme internazionali sarebbero state violate.

Le questioni dichiarate non fondate

Sono state dichiarate non fondate le doglianze che denunciavano una disparità di trattamento rispetto ad altri meccanismi di acquisizione della cittadinanza.
Secondo la Corte, mancava la sostanziale identità delle situazioni giuridiche, condizione necessaria per configurare una violazione del principio di eguaglianza.

La nuova disciplina e i suoi limiti di applicazione

Durante la pendenza del giudizio è intervenuto il decreto-legge n. 36 del 2025, convertito nella legge n. 74 del 2025, che ha introdotto nuovi limiti all’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis.
Tuttavia, la Corte ha chiarito che tali disposizioni non trovano applicazione nei procedimenti da cui sono scaturite le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al suo esame.

giurista risponde

Divieto di prevalenza dell’attenuante e circostanza aggravante della recidiva reiterata È legittimo il divieto di prevalenza della circostanza attenuante ex art. 625 bis c.p. sulla recidiva reiterata (art. 99, comma 4 c.p.)?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi

 

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4 c.p. nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza dell’attenuante della collaborazione del reo, prevista dall’art. 625bis dello stesso codice, sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata. – Corte cost. 22 aprile 2025, n. 56 (Divieto di prevalenza dell’attenuante).

La questione veniva sollevata con ordinanza dal Tribunale di Perugia, il quale era stato chiamato a decidere su un furto in abitazione. Nel caso trattato dal giudice a quo l’imputato veniva fermato dal proprietario dell’immobile in cui stava effettuando il furto dopo aver tentato la fuga, trovando refurtiva di poco valore. Nel corso dell’interrogatorio reso in occasione dell’udienza di convalida dell’arresto, l’imputato ammetteva l’addebito e consentiva l’identificazione del correo.

Il riconoscimento del fatto così come contestato è indubbio: sussistenti erano tutti gli elementi del furto in abitazione, così come la circostanza attenuante ad effetto speciale prevista all’art. 625bis c.p. e la contestata recidiva. Infatti, l’imputato aveva collaborato con le autorità per l’individuazione dei correi e, al contempo, era gravato da due precedenti specifici. Il Giudice remittente aggiungeva considerazioni sulla rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione: la prima sulla base della ben inferiore sanzione irrogabile, la seconda per manifesta irragionevolezza rispetto alla ratio della circostanza attenuante, parametrandolo all’art. 3 Cost.. La circostanza attenuante di cui all’art. 625bis c.p. sarebbe «espressione di una scelta di politica criminale di tipo premiale, volta a incentivare, mediante una sensibile diminuzione di pena, il ravvedimento post-delittuoso dell’imputato, rispondendo, sia all’esigenza di tutela del bene giuridico, sia a quella di prevenzione e repressione dei reati contro il patrimonio». A ciò si aggiunga che per il riconoscimento dell’attenuante non è richiesta la spontaneità della collaborazione, ma solo il ruolo effettivamente avuto nell’individuazione dei correi. La norma posta al vaglio di legittimità della Consulta fornisce una rilevanza quasi insuperabile della condotta criminosa, anche rispetto alla collaborazione successiva del reo. Sistematicamente, questo aspetto si rivela scorretto su più fronti: da una parte, la collaborazione rappresenterebbe un disconoscimento del fatto illecito e un allontanamento dalla condizione di illegalità; dall’altra, la condotta contemporanea o susseguente al reato è indice di valutazione della capacità a delinquere del reo ai sensi dell’art. 133 c.p. e il Giudice di merito deve tenerne conto anche nella comparazione di circostanze eterogenee concorrenti.

La norma censurata, inoltre, ad avviso del giudice a quo, sarebbe costituzionalmente illegittima in un’ottica comparativa. In primo luogo, risulta incompatibile con il trattamento della circostanza attenuante a effetto speciale per i delitti di stampo mafioso, la quale non è soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee ed è obbligatoria. In secondo luogo, rispetto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4 c.p. come sostituito dalla dall’art. 3 della L. 251/2005 nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante a effetto speciale di cui all’art. 73, comma 7 D.P.R. 309/1990 sulla recidiva reiterata (Corte cost. 74/2016).

La Corte dichiara la fondatezza della questione prospettata, riferendosi a ben dodici pronunce antecedenti che hanno colpito il divieto di prevalenza di date circostanze attenuanti rispetto alla suddetta recidiva reiterata. Infatti, scopo del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee è quello di permettere al giudice di “valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono” (Corte cost. 38/1985). D’altra parte, deroghe al regime del bilanciamento sono ammissibili e rientranti nella discrezionalità del legislatore, purché non travalichino i confini della manifesta irragionevolezza o dell’arbitrio anche con riferimento ai principi costituzionali. Sulla base di queste considerazioni, la Consulta ha rinvenuto alterazioni degli equilibri in relazione a circostanze espressive di un minor disvalore del fatto. I filoni argomentativi si suddividono in tre tipologie.

Secondo il primo, la ratio della illegittimità costituzionale del divieto di prevalenza è stata individuata nella centralità del fatto oggettivo rispetto alla qualità soggettiva del colpevole, in base alla quale deve escludersi che aspetti relativi alla maggiore colpevolezza o pericolosità dell’agente possano assumere nel processo di individualizzazione della pena una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo (Corte cost. 141/2023).

Proseguendo con il secondo, tali pronunce hanno fatto venire meno il divieto di prevalenza anche rispetto a circostanze inerenti alla persona del colpevole per la circostanza attenuante del vizio parziale di mente (Corte cost. 73/2020) e per quella di cui all’art. 116 c.p. (Corte cost. 55/2021). Una terza ratio, infine, attiene all’incentivo alla collaborazione del reo post delictum (Corte cost. 74/2016 e, da ultimo, Corte cost. 201/2023); scopo di quest’ultima è quella di incentivare, mediante una sensibile riduzione di pena, il ravvedimento dell’imputato rispetto alla condotta criminosa attuata rispondendo alle esigenze di tutela del bene giuridico e di prevenzione o repressione di condotte delittuose.

A conclusione, viene rimarcato dalla Consulta che il divieto assoluto di operare la diminuzione di pena consentita dall’attenuante, in presenza di recidiva reiterata, impedisce alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti e ne frustra in modo manifestamente irragionevole la ratio. Tale circostanza può in tal modo essere percepita come ingiusta dal cittadino, impedendo l’assolvimento della finalità rieducativa a cui deve aspirare la sanzione penale. Inoltre, in relazione al furto in abitazione, la scelta di incentivare la collaborazione non è venuta meno neppure nei successivi interventi legislativi. Pertanto, la suddetta norma veniva dichiarata costituzionalmente illegittima.

(*Contributo in tema di “Divieto di prevalenza dell’attenuante e circostanza aggravante della recidiva reiterata”, a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

prestazioni ambulatoriali

Prestazioni ambulatoriali: incostituzionale la legge che anticipa le tariffe LEA La Corte costituzionale ha annullato la norma pugliese che anticipava l’efficacia del decreto tariffe per le prestazioni ambulatoriali e protesiche, violando il coordinamento della finanza pubblica

Tariffe sanitarie, la Regione Puglia ha violato i limiti

Prestazioni ambulatoriali: con la sentenza n. 122 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 26 della legge regionale n. 28/2024 della Puglia, che aveva anticipato sul proprio territorio l’efficacia del decreto interministeriale del 23 giugno 2023, contenente le nuove tariffe per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e protesica previste nei Livelli essenziali di assistenza (LEA).

La posizione del Governo: violato l’art. 117 Cost.

Il ricorso del Governo si è fondato sul contrasto con l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, che attribuisce allo Stato la competenza sul coordinamento della finanza pubblica.
La norma pugliese è stata accusata di aver aggirato il procedimento statale di definizione e attuazione dei LEA, stabilendo unilateralmente livelli di assistenza e spesa non autorizzati, in violazione del programma di rientro sanitario cui la Regione è soggetta.

Il ruolo del decreto tariffe e del procedimento statale

La Consulta ha ricostruito il percorso di approvazione delle tariffe sanitarie, definito nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 2017 e attuato con il decreto interministeriale del 25 novembre 2024.
Secondo la Corte, la Regione Puglia ha anticipato illegittimamente l’efficacia del decreto del 23 giugno 2023, eludendo il meccanismo previsto dall’art. 8-sexies del d.lgs. n. 502/1992, che rientra tra i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica.

Perché il procedimento non può essere aggirato

Il procedimento delineato dalla legge statale per la determinazione delle tariffe mira a garantire un equilibrio tra diritto alla salute e sostenibilità finanziaria.
Qualsiasi intervento regionale che incida sull’efficacia o sull’applicabilità di questi atti statali, ha precisato la Corte, deve rispettare il medesimo iter procedurale e derivare dallo stesso livello di potere.

Le altre censure assorbite, ma lo Stato deve fare la sua parte

Pur accogliendo il ricorso, la Corte ha tenuto a precisare che anche lo Stato è tenuto ad agire con tempestività nell’attuazione e aggiornamento dei LEA.
Un aggiornamento non puntuale delle prestazioni sanitarie essenziali, infatti, pregiudica il diritto alla salute, che deve essere garantito su base nazionale e in modo uniforme, alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche e tecnologiche.

Rispetto delle competenze e collaborazione leale

La decisione riafferma il principio secondo cui le Regioni non possono alterare l’equilibrio tra competenze statali e autonomie territoriali, soprattutto in materie delicate come la sanità pubblica.
Al tempo stesso, la Corte invita lo Stato a non ritardare l’aggiornamento dei LEA, perché solo un’azione coerente e collaborativa tra istituzioni può assicurare eguaglianza e tutela effettiva dei diritti fondamentali.

licenziamento e incapacità

Licenziamento e incapacità naturale: più tempo per l’impugnazione La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità dell’art. 6 l. 604/1966 se non esclude l’onere dell’impugnazione stragiudiziale in caso di incapacità naturale del lavoratore

Licenziamento e incapacità naturale: l’intervento della Consulta

Licenziamento e incapacità naturale: l’articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, numero 604 (Norme sui licenziamenti individuali) è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, se al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento o in pendenza del termine di sessanta giorni previsto per la sua impugnazione, anche in via stragiudiziale, il lavoratore versi in condizione di incapacità di intendere o di volere, non opera l’onere della previa impugnazione, anche stragiudiziale, e il licenziamento può essere impugnato entro il complessivo termine di decadenza di duecentoquaranta giorni dalla ricezione della sua comunicazione.

È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza numero 111/2025, accogliendo la questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione.

Il caso esaminato: lavoratrice in stato di incapacità

Nella fattispecie, una lavoratrice alla quale era stato intimato il licenziamento disciplinare, e che si era trovata, al momento della ricezione del recesso datoriale, in uno stato depressivo di tale gravità da dover essere sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio, non aveva per tale ragione esperito l’impugnazione stragiudiziale entro il termine prescritto, ma solo dopo aver recuperato la pienezza delle sue facoltà intellettive e volitive.

I limiti costituzionali all’onere di impugnazione

La Corte ha osservato che l’onere della previa impugnazione, anche stragiudiziale, previsto, a pena di decadenza, dalla disposizione censurata, pur riconducibile all’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella configurazione degli istituti processuali e fondato sulla esigenza di far emergere in tempi brevi il contenzioso sul recesso datoriale, può tradursi in un ostacolo all’accesso alla tutela giurisdizionale nel caso in cui, al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento, o comunque in pendenza del termine di sessanta giorni previsto per la sua impugnazione, anche stragiudiziale, il lavoratore non sia in grado di comprendere il significato dell’atto datoriale né di determinarsi in merito alle iniziative da assumere.

Violazione degli articoli 3, 4, 24 e 35 della Costituzione

La Corte ha, pertanto, ritenuto che la disposizione censurata esibisca una manifesta irragionevolezza, ponendosi in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione e violando, al contempo, il diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e alla sua tutela (art. 35, primo comma, Cost.), anche in sede giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.).

L’esclusione dell’onere stragiudiziale per il lavoratore incapace

All’accertato vulnus costituzionale la Consulta non ha, tuttavia, inteso porre rimedio nei termini auspicati dal giudice a quo e, cioè, attraverso l’inserimento nella disposizione in questione di una causa di differimento della decorrenza del termine per l’impugnazione stragiudiziale dalla data della ricezione del licenziamento a quella del riacquisto, da parte dell’interessato, della piena capacità di intendere e di volere.

Il bilanciamento con le esigenze di certezza giuridica

Una pronuncia siffatta – ha rilevato la sentenza – introdurrebbe un elemento di aleatorietà in una disciplina orientata da specifiche esigenze di celerità e di sicurezza dei rapporti giuridici. La Corte ha, quindi, ricondotto a legittimità la norma dichiarata incostituzionale escludendo, per il lavoratore incapace di intendere e di volere, l’operatività dell’onere della previa contestazione stragiudiziale entro il termine prescritto, pur mantenendo fermo lo sbarramento finale costituito dal termine massimo complessivo per l’impugnazione giudiziale, pari a duecentoquaranta giorni, dato dalla somma del termine per la contestazione stragiudiziale (fissato, dal primo comma dell’art. 6, in sessanta giorni) e del successivo termine per il deposito del ricorso, anche cautelare, o per la comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato (stabilito dal secondo comma in centottanta giorni).

sequestro a scopo di estorsione

Sequestro a scopo di estorsione: pene adeguate La Corte costituzionale conferma che la pena per il sequestro a scopo di estorsione non viola il principio di proporzionalità, grazie agli strumenti interpretativi a disposizione del giudice

Proporzionalità della pena nel sequestro estorsivo

Sequestro a scopo di estorsione: la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2025, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della pena prevista per il delitto di sequestro di persona a scopo estorsivo, ritenendo che il giudice disponga già di strumenti interpretativi e applicativi idonei a garantire il rispetto del principio di proporzionalità della pena, sancito dall’art. 27, comma 3, della Costituzione.

Il caso concreto esaminato dalla Consulta

La pronuncia è intervenuta su rinvio della Corte d’assise di Torino, che aveva sollevato dubbi di legittimità costituzionale in un procedimento penale nei confronti di tre imputati accusati di avere privato, per breve tempo, alcune vittime della libertà personale, allo scopo di ottenere pagamenti compresi tra 100 e 320 euro come corrispettivo per prestazioni sessuali, che le persone offese ritenevano gratuite. Il fatto era stato qualificato come sequestro estorsivo, reato punito, ai sensi dell’art. 630 c.p., con la reclusione da venticinque a trent’anni.

La pena per il sequestro estorsivo: origine e ratio

La Corte ha richiamato il contesto storico della norma, evidenziando come la previsione di una pena di eccezionale severità fosse stata introdotta in risposta ai sequestri di persona verificatisi negli anni Settanta, caratterizzati da una lunga durata della privazione della libertà personale, riscatti elevatissimi e pericolo per la vita degli ostaggi. In tale contesto, l’inasprimento sanzionatorio era giustificato.

Il correttivo introdotto nel 2012 e gli strumenti oggi disponibili

Già con la sentenza n. 68 del 2012, la Corte costituzionale aveva giudicato manifestamente sproporzionata la pena minima di venticinque anni nei casi di sequestro di minore gravità, introducendo la possibilità di riduzione fino a un terzo della pena (minimo di sedici anni e otto mesi di reclusione).

Con la nuova pronuncia, la Corte ribadisce che, anche qualora la pena ridotta appaia ancora eccessiva, il giudice può fare applicazione del principio di proporzionalità, utilizzandolo come criterio interpretativo della norma penale, per escludere l’applicabilità dell’art. 630 c.p. ai fatti che non raggiungano la soglia di gravità voluta dal legislatore.

L’obbligo del giudice di una valutazione conforme al principio di proporzione

La Consulta afferma che il giudice deve valutare attentamente la qualificazione giuridica del fatto, verificando se esso configuri effettivamente un sequestro a scopo di estorsione, oppure se sia più correttamente riconducibile a reati diversi, come il sequestro di persona semplice (art. 605 c.p.), l’estorsione (art. 629 c.p.) o la rapina (art. 628 c.p.).

Tali reati, pur essendo gravi, prevedono pene più proporzionate alla lesione effettiva del bene giuridico tutelato, evitando così l’irrogazione di una sanzione eccessiva rispetto alla concreta entità del fatto.

La compatibilità con il principio di legalità

Infine, la Corte precisa che questa interpretazione non viola il principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.). Tale principio, infatti, impedisce l’applicazione analogica in malam partem, ma non esclude una interpretazione restrittiva della norma incriminatrice, qualora il fatto concreto sia estraneo ai fenomeni criminosi che il legislatore ha inteso colpire con una sanzione di particolare rigore.

assegno nucleo familiare

Assegno nucleo familiare: la convivenza di fatto non esclude il diritto La Corte costituzionale ha stabilito che il rapporto di convivenza di fatto non comporta la perdita del diritto all’assegno per il nucleo familiare

Convivenza di fatto e diritto all’ANF

Assegno nucleo familiare: la Corte costituzionale, con la sentenza numero 120/2025, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, in relazione all’articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica numero 797 del 1955. Questa norma stabilisce che l’assegno per il nucleo familiare non spetta al coniuge del datore di lavoro, senza invece escludere il diritto al beneficio in caso di convivenza di fatto tra il datore di lavoro ed il lavoratore subordinato. Tale differenziazione, secondo il rimettente, si porrebbe in contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione.

La finalità della norma sull’assegno per il nucleo familiare

La Corte ha chiarito che la ratio dell’articolo 2 del d.P.R. numero 797 del 1955 può essere ravvisata nell’esigenza di non erogare il beneficio a un nucleo familiare comprendente lo stesso datore di lavoro, al fine di evitare una forma di “autofinanziamento”. Dunque, la norma censurata non può ritenersi in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione per il fatto di non assimilare, ai fini dell’esclusione dall’ANF, il convivente di fatto al coniuge, dal momento che, ai fini della concessione dell’ANF e della sua quantificazione, il nucleo familiare comprende solo il coniuge e non il convivente di fatto, in base all’articolo 2, comma 6, del decreto-legge numero 69 del 1988.

Rilevanza giuridica della convivenza di fatto

La convivenza di fatto rileva solo in presenza di un contratto di convivenza, stipulato ai sensi dell’articolo 1, comma 50, della legge numero 76 del 2016.

Coerenza della disciplina sull’ANF

La disciplina dell’ANF risulta, pertanto, armonica, vista la coerenza tra la mancata considerazione della convivenza ai fini della concessione dell’assegno e la stessa mancata considerazione ai fini della sua esclusione.

esenzione ici

Esenzione ICI: basta la dimora del contribuente La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità della norma che subordinava l’esenzione ICI alla dimora abituale anche dei familiari nell’abitazione principale

La decisione della Corte costituzionale sull’esenzione ICI

Con la sentenza n. 112 del 2025, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. 504/1992, nella parte in cui subordinava l’esenzione dall’Imposta comunale sugli immobili (ICI) all’abituale dimora non solo del contribuente, ma anche dei suoi familiari nell’abitazione principale.

Secondo la Consulta, tale requisito eccede i limiti della razionalità fiscale, comprimendo indebitamente la posizione del contribuente, in violazione degli articoli 3 e 31 della Costituzione.

L’ICI come imposta reale e il criterio oggettivo dell’abitazione

L’ICI, come l’attuale IMU, è un’imposta reale, il cui presupposto è costituito dal possesso, proprietà o altro diritto reale su beni immobili, a prescindere dalle caratteristiche soggettive del contribuente.

L’esenzione per l’abitazione principale si fonda su un criterio oggettivo, ovvero sull’utilizzo effettivo dell’immobile come dimora abituale del contribuente stesso. La norma impugnata andava oltre, imponendo anche la dimora abituale dei familiari, configurando una condizione non coerente con la natura dell’imposta.

La realtà sociale delle famiglie e le dimore separate

La Corte ha richiamato le trasformazioni delle strutture familiari, rilevando che sempre più frequentemente i coniugi o familiari stretti risiedono in luoghi differenti, per ragioni legate a esigenze lavorative, di studio o assistenza ad altri familiari (anziani, malati, ecc.).

In tale contesto, escludere l’esenzione ICI per il solo fatto che i familiari non convivano con il contribuente significa introdurre una penalizzazione irragionevole, che colpisce situazioni personali e familiari del tutto lecite e diffuse.

Violazione dei principi di eguaglianza e tutela della famiglia

La disposizione censurata si traduce, secondo la Corte, in una disparità di trattamento nei confronti del contribuente coniugato ma non convivente, che risulta ingiustificatamente escluso dal beneficio fiscale rispetto a chi, nelle stesse condizioni patrimoniali, risiede con i familiari.

Tale assetto contrasta sia con il principio di eguaglianza tributaria (art. 3 Cost.), sia con il principio di tutela della famiglia (art. 31 Cost.), che impone al legislatore di favorire – e non ostacolare – le esigenze familiari anche quando esse comportano scelte abitative differenti.

evasione dagli arresti domiciliari

Evasione dagli arresti domiciliari: punibile anche l’indagato La Corte costituzionale chiarisce che l’indagato può essere punito per evasione dagli arresti domiciliari al pari dell’imputato. Legittima l’interpretazione dell’art. 385 c.p., comma 3

Nessuna distinzione tra imputato e indagato

Evasione dagli arresti domiciliari: con la sentenza n. 107 del 2025, depositata in data odierna, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 385, comma 3, c.p., nella parte in cui – secondo il diritto vivente – consente di punire anche l’indagato per il reato di evasione dagli arresti domiciliari, nonostante il testo della norma faccia riferimento esclusivo all’imputato.

Il contesto storico-normativo della disposizione

La Consulta ha ricostruito il contesto normativo in cui fu redatto l’articolo oggetto di censura. Il terzo comma dell’art. 385 c.p. venne sostituito dall’art. 29 della legge n. 532/1982, quando era ancora vigente il codice di procedura penale del 1930. All’epoca, il legislatore utilizzava il termine “imputato” per indicare qualsiasi soggetto indiziato, anche nella fase delle indagini preliminari.

Il concetto moderno di “indagato”, distinto da quello di “imputato”, è stato introdotto soltanto con il nuovo codice di rito entrato in vigore nel 1989.

La continuità interpretativa della norma penale

Secondo la Corte, dunque, il termine “imputato”, così come impiegato nel terzo comma dell’art. 385 c.p., include anche l’indagato, alla luce del significato attribuitogli al momento della redazione della norma.

Non si configura pertanto alcuna violazione del principio di legalità, come dedotto dal giudice rimettente, poiché l’interpretazione estensiva che consente di punire l’indagato per evasione è coerente con la ratio originaria della disposizione e con l’evoluzione del diritto positivo.

giurista risponde

Abuso edilizio e ipoteca iscritta a favore del creditore Sono costituzionalmente legittimi gli artt. 7, comma 3, L. 28 febbraio 1985, n. 47 e 31, comma 3, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 nella parte in cui non prevedono la permanenza dell’ipoteca a garanzia del creditore nel caso in cui l’immobile abusivo sia oggetto di confisca edilizia?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio

 

È costituzionalmente illegittimo l’art. 7, comma 3, L. 47/1985 per contrarietà agli artt. 3, 24, 42 Cost., nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.

È altresì costituzionalmente illegittimo, in via consequenziale, l’art. 31, comma 3, primo e secondo periodo, D.P.R. 380/2001, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire (Corte cost. 3 ottobre 2024, n. 160).

La Corte costituzionale ha ritenuto l’art. 7, comma 3, L. 47/1985 costituzionalmente illegittimo in quanto impone al creditore, titolare di un diritto di ipoteca su un immobile abusivo, un sacrificio irragionevole ed eccessivamente sproporzionato, a più forte ragione se non ha concorso in alcun modo all’abuso edilizio. Questo sacrificio deriva dalla confisca edilizia di un immobile abusivo prevista allorquando il responsabile dell’abuso non provvede nei termini di legge alla demolizione dell’immobile e al ripristino dello stato dei luoghi. Questa previsione normativa, prima dell’intervento della Consulta, era corroborata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che prevedeva la caducazione di ipoteche, pesi e vincoli preesistenti, neutralizzando oltremodo l’eventuale anteriorità della trascrizione o iscrizione. In questo modo, dunque, venivano meno tutte le prerogative relative al diritto di ipoteca: lo ius sequelae, lo ius distrahendi, lo ius prelationis.

Tuttavia, se si guarda alla funzione della confisca edilizia, questa risponde ad una sanzione in senso stretto che rappresenta una reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima esegue un’opera abusiva, e poi, non adempie all’obbligo di demolirla (Corte cost. 15 luglio 1991, n. 345; Cass., sez. III, 26 gennaio 2006, n. 1693). Pertanto, sulla scorta della natura sanzionatoria della confisca, appare oltremodo irragionevole che ne subisca le conseguenze anche il creditore ipotecario del tutto estraneo all’abuso. Siffatta conclusione trova ulteriore conferma nel fatto che il creditore non è neppure obbligato propter rem alla demolizione, in quanto il diritto reale di garanzia non gli attribuisce né il possesso né la detenzione del bene.

Il sacrificio previsto nei confronti del creditore, oltre ad essere irragionevole, risulta sproporzionato, in quanto la norma che non fa salvo il suo diritto reale, di fatto, lo espone ad attività eccessivamente gravose, tra le quali una vigilanza continua sull’immobile al fine di chiedere all’autorità giudiziaria la cessazione degli atti del debitore e dei terzi, idonei a creare i presupposti per la confisca edilizia (Cass. 5 agosto 2021, n. 22352; Cass. 8 febbraio 2019, n. 3797; Cass. 11 marzo 2016, n. 4865).

Quanto, invece, all’art. 31, comma 3, D.P.R. 380/2001, tale disposizione condivide con l’art. 7, comma 3, L. 47/1985 il medesimo tenore letterale e prevede l’acquisto originario in capo al comune con estinzione del diritto di ipoteca precedentemente iscritto. In ragione di ciò la Consulta ha ritenuto costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire.

 

(*Contributo in tema di “Abuso edilizio e ipoteca iscritta a favore del creditore”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)