Mutui: validi anche senza indicazione del TAN Per la Cassazione, il contratto di finanziamento è valido se sono riportate analiticamente tutte le condizioni economiche, anche se non è espressamente indicato, in termini numerici, il TAN

TAEG e TAN nel contratto di mutuo

Il caso in esame, riguardante l’ingiunzione di pagamento di una somma data in mutuo e dei relativi interessi, ha dato l’occasione alla Corte di Cassazione di pronunciarsi, con ordinanza n. 16456-2024, sulla validità dei contratti di finanziamento privi dell’indicazione del “Tasso Annuo Nominale” (Tan).

La Corte ha anzitutto premesso che il TAEG e il TAN sono entità giuridiche diverse. In particolare, e per quanto qui rileva, il TAN “è il tasso di interesse dovuto al netto della capitalizzazione” ai sensi dell’art. 117, comma 4, del TUB. Mentre, il TAEG indica, in percentuale annua il costo effettivo del credito.

Ciò posto la Corte è poi passata all’analisi della specifica questione sottoposta alla sua attenzione, vale a dire l’obbligatorietà o meno dell’indicazione del TAEG e del TAN nel contratto di finanziamento e le conseguenze della loro eventuale assenza.

La mancata indicazione del TAEG e del TAN

In punto di validità del contratto di mutuo, la Corte ha specificato che l’obbligo di indicare il tasso d’interesse applicato, sussiste sicuramente con riferimento al TAEG, posto che lo stesso, rappresentando il dato aggregato del costo del credito, consente all’interessato di confrontare le condizioni di finanziamento che gli operatori bancari offrono sul mercato.

La mancata indicazione nei contratti bancari del TAEG determina, pertanto, quale conseguenza sul piano negoziale e civile, l’invalidità del contratto stesso poiché colpito da nullità.

Per quanto invece attiene al TAN, la disciplina di settore non prevede espressamente la sanzione della nullità per il caso di sua mancata indicazione all’interno del contratto bancario e occorre pertanto valutare se la nullità del negozio sia da escludere qualora “l’ammontare del saggio di interesse, non specificamente individuato, possa ricavarsi, in base a un calcolo aritmetico, dal testo del contratto che individui il TAEG”.

Condizioni finanziamento

Rispetto al suddetto dubbio interpretativo la Corte, dopo aver ripercorso il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ha condiviso gli esiti del Giudice di merito, in punto di validità del contratto, posto che nel caso specifico, anche se non era espressamente indicato in termini numerici il TAN, erano “analiticamente riportate tutte le condizioni relative al piano di finanziamento”.

Quanto sopra, ha riferito la Corte, può essere affermato in considerazione del fatto che nel contratto di finanziamento di cui trattasi erano indicati “il tasso di indicizzazione, gli interessi di mora, i criteri di indicizzazione, il TAEG o l’indicazione sintetico di costo richiesti dalle Istruzioni fornite dalla Banca d’Italia agli operatori di settore e che le condizioni contrattuali vanno integrate con il piano finanziario, anch’esso concordato dalle parti, dal quale si desume chiaramente il valore dell’operazione nel tempo attraverso il numero delle rate e l’ammontare di ciascuna di esse, con l’incidenza degli interessi, del tasso debitore, delle spese”. Con la conseguenza che, dal complesso del contratto, era possibile ricavare chiaramente il valore dell’operazione, nonché il TAN, desumibile dal piano di ammortamento approvato dalle parti.

La decisione

La Corte di Cassazione ha pertanto concluso il proprio esame condividendo la decisione adottata dalla Corte d’appello sul punto, ritenendo valido il contratto, posto che dal contratto ed i suoi allegati era possibile individuare agevolmente le condizioni economiche del contratto.

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pec rinnovo deposito telematico

Pec non funzionante: nuovo deposito entro 20 giorni Se la parte decade incolpevolmente dalla facoltà di depositare, la stessa può nuovamente depositare, entro venti giorni o domandare la rimessione in termini

Assenza di una delle pec previste per il deposito telematico

Il caso in esame prende avvio da un contenzioso avente ad oggetto il prestito di una somma di denaro da parte della banca e la connessa richiesta da parte del cliente, destinatario della stessa, di riduzione dell’ipoteca in ragione della riduzione del debito residuo.

Per quanto qui rileva, all’esito del giudizio di merito, la Banca, controricorrente dinanzi alla Corte di Cassazione, dopo aver notificato il controricorso, aveva depositato due istanze di remissione in termini, rilevando che il controricorso era stato depositato via pec e che il depositante, dopo avere ricevuto il messaggio di “avvenuta consegna”, non aveva ricevuto nessun ulteriore messaggio di superamento dei controlli automatici e manuali (c.d. “terza” e “quarta” busta). Solo successivamente, aveva appreso che nessun ricorso risultava pervenuto.

Deposito del controricorso avvenuto tempestivamente

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 16552/2024, ha ripercorso i fatti e le doglianze formulate in relazione all’istanza di remissione, affermando che, secondo la normativa vigente ratione temporis “il deposito telematico di atti del processo civile avvia una procedura informatica all’esito della quale il depositante deve ricevere quattro messaggi di posta elettronica certificata (PEC)”, vale a dire:

  • il messaggio che attesta l’inoltro del deposito (ricevuta di accettazione, comunemente detta “RAC”);
  • il messaggio di avvenuta consegna del messaggio alla posta elettronica dell’ufficio giudiziario ricevente (ricevuta di avvenuta consegna, comunemente detta “RdAC”);
  • il messaggio attestante il superamento dei controlli automatici da parte del gestore del sistema informatico dell’ufficio giudiziario ricevente (c.d. “terza PEC”);
  • il messaggio attestante il superamento dei controlli manuali, a cura della Cancelleria dell’ufficio giudiziario ricevente, e la definitiva accettazione del deposito e conseguente visibilità al giudice ed alle controparti (c.d. “quarta PEC”).

Inoltre, l’art. 13 del d.m. 21.2.2011 n. 44, così come vigente all’epoca dei fatti, da un lato prevedeva che il deposito telematico nel processo civile si intendesse ricevuto dall’ufficio “nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia”; e dall’altro stabiliva che “il gestore dei servizi telematici restituisce al mittente l’esito dei controlli effettuati dal dominio giustizia nonché dagli operatori della cancelleria o della segreteria, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34”.

Ricevuta di avvenuta consegna

Posto tale quadro normativo, la Corte di legittimità ha rilevato che l’orientamento formatosi sull’argomento in seno alla stessa riteneva che, ai fini della tempestività del deposito, era sufficiente la generazione da parte del sistema della ricevuta di avvenuta consegna, fermo restando che tale ricevuta aveva solo un effetto “prenotativo”, mentre l’efficacia del deposito restava “subordinata al superamento dei successivi controlli automatici e manuali; se questi andranno a buon fine, il deposito si riterrà compiuto sin dal momento della generazione della ricevuta di avvenuta consegna; se invece i suddetti controlli non andassero a buon fine, invece, il deposito non potrà dirsi effettuato”.

Nuovo deposito telematico

Per quanto atteneva, invece, ai rimedi attivabili dalla parte che era incolpevolmente decaduta dalla facoltà di depositare l’atto, a causa della mancata o tardiva generazione della terza o della quarta PEC, era consentito alla stessa, o di procedere nuovamente al deposito, entro venti giorni decorrenti dal momento in cui il depositante aveva appreso dell’esito negativo del precedente deposito, oppure di domandare la rimessione in termini se erano risultate incolpevoli sia la violazione del termine per il deposito, sia la mancata ripresa della procedura.

Rimessione in termini

Facendo applicazione delle suddette regole e linee interpretative, la Corte ha ritenuto che, nel caso di specie, l’insuccesso del primo tentativo di deposito fu incolpevole. Rispetto a tale circostanza la Banca aveva ripreso la procedura di deposito in un termine che poteva ritenersi ragionevole. Con la conseguenza che il controricorso depositato con l’istanza di rimessione in termini aveva prodotto “gli effetti di un rinnovato e tempestivo deposito”.

modulo CAI valore prova

Il modello CAI non ha valore di piena prova La Cassazione ricorda che la CAI sottoscritta dai conducenti determina una presunzione che il sinistro si sia svolto con le modalità e le conseguenze indicate sul modulo

Modulo Contestazione Amichevole d’Incidente (CAI)

Nel caso in esame, il giudizio di merito aveva avuto ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno nell’ambito di un sinistro stradale che vedeva coinvolte tre autovetture che erano state coinvolte in un tamponamento a catena.

Per quanto qui rileva, la compagnia assicuratrice, nei confronti della quale era stata avanzata la domanda risarcitoria, aveva rilevato come fosse onere della richiedente dimostrare le modalità con cui si erano svolti i fatti contestati; rispetto a tale onere, aveva evidenziato l’assicuratrice, la richiedente si era limitata a produrre il modello CAI (contestazione amichevole d’incidente) sottoscritto da entrambi i conducenti.

Tale documento, in difetto di riscontro provenienti da altri elementi di prova, era stato ritenuto insufficiente dal Tribunale, in funzione di giudice di secondo grado, a fornire la prova del fatto dedotto a sostegno della domanda risarcitoria avanzata.

Invero, il Tribunale aveva ritenuto che il modello CAI non avesse valore di piena prova nemmeno nei confronti di chi l’aveva prodotto, poiché le dichiarazioni ivi contenute possono essere liberamente valutate dal giudice.

Avverso tale decisione l’appellante aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Il modulo CAI può essere fatto valere solo dai sottoscriventi

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15431-2024, ha rigettato il ricorso proposto e ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

Per quanto in particolare rileva nel presente esame, la Corte ha rilevato che “l’art. 143, comma 2, del d.lgs. n. 209 del 2005 è chiaro nell’affermare che la C.A.I. sottoscritta da entrambi i conducenti determina una presunzione, salvo prova contraria da parte dell’impresa di assicurazione, che il sinistro si sia svolto con le modalità e le conseguenze indicate su quel modulo”.

Presunzione di prova

Rispetto alla suddetta previsione normativa, la Corte ha evidenziato che, essendo prevista una presunzione di prova fino prova contraria, la società assicuratrice ben potrebbe superarla fornendo appunto la prova necessaria a tal fine. Anche tale ultima prova ricade dunque sulla società assicuratrice e non sul danneggiato, come erroneamente affermato dalla sentenza impugnata.

La Corte ha poi ribadito quanto già affermato dal Giudice di merito e dalla costante giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, ovvero che il modello CAI non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti di chi lo produce, poiché le dichiarazioni ivi contenute possono essere liberamente apprezzate dal giudice.

Valore confessorio

In questo senso, il libero convincimento del giudice sul valore confessorio del CAI, in quanto proveniente da un litisconsorte necessario, non è in contrasto con le norme sopracitate che conferiscono al modello CAI, firmato da entrambi i conducenti, il valore di una presunzione iuris tantum che l’assicuratore può superare.

Quanto sopra, ha spiegato la Corte, serve anche a comprendere l’interpretazione delle norme sul valore del CAI e del principio di litisconsorzio necessario, a proposito della responsabilità derivante da circolazione stradale.

La decisione della Cassazione

Nel caso di specie, la Corte ha concluso il proprio esame rilevando come la ricorrente- danneggiata (cessionaria del credito del secondo tamponato) non poteva far valere nei confronti dell’assicuratore alcun modello CAI, posto che il creditore cedente non aveva firmato alcunché (o, almeno, nessuno ha sostenuto il contrario) e quindi, in questo senso, non aveva preso parte alla redazione e sottoscrizione del suddetto documento.

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danno ritardo pa prova

Danno da ritardo della PA: occorre la prova Il Consiglio di Stato ha ricordato che il danno da ritardo non può essere presunto juris et de jure, poiché, per fondare la responsabilità ex art. 2043 c.c., è necessaria la verifica dei presupposti di carattere soggettivo e oggettivo

Ritardo nella conclusione del procedimento

Nell’ambito di un procedimento amministrativo, il privato interessato al provvedimento finale aveva lamentato che l’atto amministrativo fosse stato adottato successivamente al tempo massimo entro il quale l’amministrazione competente avrebbe dovuto esprimere il parere attraverso apposita conferenza di servizi.

Posto quanto sopra, l’interessato aveva proposto ricorso dinanzi al TAR per la Puglia, chiedendo il risarcimento del danno conseguente al ritardo nella conclusione del procedimento teso al rilascio dell’autorizzazione richiesta.

Il Tar per la Puglia, sul rilievo che fosse mancata “la prova circa la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (esistenza del danno ingiusto, nesso causale, determinazione dell’ammontare del ristoro) e di carattere soggettivo (dolo o colpa dell’Amministrazione danneggiante) della domanda proposta in giudizio”, aveva respinto il ricorso proposto.

Avverso tale decisione la società interessata aveva appellato la sentenza per “illegittimità ed erroneità – violazione dell’art. 269, comma 3, del d.lgs n. 152/2006 – violazione dell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 – eccesso di potere per motivazione lacunosa illogica e travisante inversione onere della prova”.

Il danno da ritardo della PA

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 3375-2024, ha respinto l’appello proposto e ha condannato la società appellante al pagamento delle spese di giudizio.

Il Consiglio di Stato ha anzitutto precisato che “La domanda risarcitoria azionata dalla società (…) va qualificata quale “danno da ritardo” ex art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, conseguente alla mancata conclusione, nel termine previsto, del procedimento di rilascio della autorizzazione”.

Per quanto qui rileva il Consiglio di Stato ha ripercorso la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto, secondo cui “il danno da ritardo risarcibile non può essere presunto juris et de jure, quale effetto automatico del semplice scorrere del tempo, ma è necessaria la verifica della sussistenza dei presupposti di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) e oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), richiesti dalla menzionata norma codicistica per fondare la responsabilità ex art. 2043 c.c.”.

Nella medesima direzione, ha ricordato il Consiglio di Stato, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che, sul piano delle conseguenze, il fatto lesivo “deve essere collegato da un nesso da causalità ai pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati; dal punto di vista dell’onere probatorio, il mero superamento del termine per la conclusione del procedimento non integra, inoltre, piena prova del danno”.

La decisione

Posto tale consolidato orientamento giurisprudenziale, il Giudice amministrativo ha evidenziato che, nel caso di specie, il privato non aveva adeguatamente provato “il nesso di causalità tra la condotta della Provincia (id est, ritardo procedimentale) e l’evento asseritamente dannoso (mancata realizzazione dell’impianto), in termini di causalità efficiente”.

Inoltre, ha concluso il Consiglio di Stato, la società non aveva comunque comprovato l’elemento soggettivo della colpa dell’amministrazione.

Sulla scorta di quanto sopra, pertanto, il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello.

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avvocati compensi parti aumento

Avvocato: difesa di più parti, spese aumentate per legge Nel caso di difesa di più assistiti nel medesimo giudizio, il compenso spettante all’avvocato equivale allo stesso che gli sarebbe spettato se avesse difeso una sola parte, con l’applicazione di una maggiorazione

Unica attività difensiva per più assistiti

Nel caso in esame, e per quanto qui rileva, i ricorrenti hanno fatto valere dianzi alla Corte di Cassazione la ritenuta violazione dell’art. 4 del d.m. 10 marzo 2014 n. 55.

Nella specie, i ricorrenti hanno rilevato che, nel corso del giudizio di appello, le due società controparti si erano costituite ed erano state difese dal medesimo avvocato, il quale aveva depositato due comparse di costituzione e risposta di identico contenuto e di pari estensione. A tal riguardo i ricorrenti hanno precisato altresì che “il deposito di tali identiche comparse aveva costituito l’unica attività difensiva svolta nel secondo grado di giudizio da difensore delle due parti appellate, che non aveva depositato scritti conclusionali”.

Alla luce di tali circostanze, i ricorrenti hanno contestato la decisione della Corte d’appello che li aveva condannati al rimborso integrale delle spese sostenute da ciascuna delle due società, con conseguente pagamento di “due distinti compensi al medesimo difensore”.

La doglianza poggia sul rilievo secondo cui il Giudice di merito avrebbe dovuto valutare che, nella sostanza, il difensore aveva redatto un unico scritto difensivo, dovendosi pertanto escludere di addossare alle parti soccombenti di quel giudizio “spese eccessive e superflue, in conformità al disposto dell’art. 92, primo comma, cod. proc. civ.”.

Non ammessa la ripetizione di spese eccessive e superflue

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15946-2024, ha accolto il suddetto motivo d’impugnazione e ha dichiarato inammissibili gli altri.

In particolare, la Corte ha affermato che “in ragione dell’esigenza di evitare la ripetizione di spese eccessive o superflue (…), la fattispecie va assimilata, ai fini della disciplina delle spese, a quella di deposito di un unico atto per le diverse parti difese”.

A tal riguardo, la Corte ha altresì precisato che le variazioni in aumento o in diminuzione, nell’ipotesi di assistenza di più soggetti da parte del medesimo avvocato, sono stabilite dall’art. 4, commi 2 e 4, del d.m. 10 marzo 2014 n. 55.

Compenso unico ma maggiorato

Dal combinato disposto delle suddette norme emerge che all’avvocato, in siffatti casi, debba essere corrisposto un “compenso unico”, come se lo stesso avesse difeso una sola parte; a tale importo dovrà poi essere applicata una maggiorazione in misura percentuale per ciascuna parte, nonché in proporzione al numero delle parti assistite.

Resta comunque fermo che, nel caso in cui la difesa di più assistiti non abbia comportato “l’esame di specifiche e distinte questioni di fatto e di diritto”, la maggiorazione proporzionata al numero delle parti debba essere ridotta fino al 30%.

In tal senso, ha spiegato la Corte, per parti aventi la stessa posizione processuale si intendono “coloro che siano accomunati dalla posizione di attore, di convenuto o di intervenuto”.

La decisione della Cassazione

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Cassazione ha concluso il proprio esame sul punto rilevando che “La circostanza che la ‘regola’ fosse quella dell’aumento, e l’eccezione quella della misura standard, induce a ritenere che, mentre il giudice, il quale avesse applicato l’aumento, non avrebbe avuto alcun obbligo di motivare la propria decisione, la scelta di non applicare l’aumento imponeva al giudice l’obbligo di indicare le ragioni per cui aveva inteso derogare alla regola generale”.

In questo senso, la Corte d’appello avrebbe dovuto individuare la misura del compenso standard liquidabile per una sola parte e poi applicare la maggiorazione prevista dalla sopracitata normativa di riferimento.

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avvocati oltraggio corte

Avvocati: oltraggio alla corte e libertà di espressione La Corte di Strasburgo ha precisato che, in tema di oltraggio alla corte, i giudici nazionali devono decidere garantendo un equilibrio tra la tutela dell’autorità giudiziaria e quella della libertà di espressione

Oltraggio alla corte e libertà di espressione

Il caso sottoposto all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardava una vicenda avvenuta in Croazia, nell’ambito della quale il ricorrente era stato multato per oltraggio alla corte. Rispetto a tale circostanza il destinatario della sanzione aveva adito la Cote di Strasburgo rilevando che tale multa “equivaleva a un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione”.

La decisione della Corte: bilanciamento tra ingerenza legittima e libertà di espressione

La Corte di Strasburgo ha deciso sul ricorso Pisanski c. Croazia n. 28794/2018, dichiarando il ricorso del cittadino croato ricevibile e ritenendo che vi era stata, da parte dello Stato, violazione dell’articolo 10 della Convenzione, a causa di un’ingerenza nella sua libertà di espressione.

In particolare, e per quanto qui rileva, la Corte ha anzitutto premesso che l’ingerenza contestata dal ricorrente era prescritta dalla legge e perseguisse lo scopo legittimo di preservare l’autorità della magistratura.

Ciò posto, la Corte è dunque passata a valutare se l’ingerenza in questione fosse necessaria e legittima in un sistema democratico, tenendo conto di quanto previsto dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Ruolo degli avvocati

A tale scopo, la Corte si è rifatta ai principi e ai criteri generali elaborati dalla medesima in precedenti casi analoghi, quali, nella specie:

  • il ruolo degli avvocati, considerato cruciale per il funzionamento di una corretta amministrazione della giustizia e tale per cui gli stessi devono avere una certa libertà riguardo alle argomentazioni utilizzate in Tribunale, considerato il loro dovere di difendere i clienti con diligenza;
  • i Tribunali non sono immuni dalle critiche e anzi sono assoggettati a margini di tolleranza in questo senso più ampi rispetto ai comuni cittadini;
  • occorre fare una chiara distinzione tra critica e ‘insulto’ avendo in questo senso riguardo al caso concreto nel suo complesso, fermo restando che, se l’unico intento di qualsiasi forma di espressione è insultare un Tribunale o i suoi membri, una sanzione adeguata non costituirebbe, in linea di principio, una violazione dell’articolo 10 della Convenzione.

Difesa del cliente

Ciò posto, la Corte ha esaminato il caso di specie, così come storicamente si era svolto. A tal riguardo, è stato evidenziato che occorreva avere riguardo al luogo, ovvero l’aula d’udienza, ove i fatti contestati si erano svolti, luogo pertanto naturalmente deputato alla difesa dei diritti del cliente. Con l’ulteriore implicazione che, contrariamente alle critiche espresse dai media, le osservazioni del ricorrente erano state fatte nell’ambito di una comunicazione interna tra lui, in qualità di avvocato, e la corte d’appello.

Inoltre, la Corte ha posto dei dubbi circa il fatto che le osservazioni del ricorrente, riguardando l’interpretazione del diritto interno, avessero quale unico intento quello d’insultare il Giudice.

Infine, sempre avuto riguardo al caso di specie, la Corte ha rilevato che il ricorso dell’avvocato, contenente le osservazioni controverse, era stato condiviso dal Tribunale distrettuale croato che aveva confermato l’opinione del legale secondo cui l’interpretazione dallo stesso criticata era effettivamente errata. Inoltre, non può, a giudizio della Corte, parimenti essere ignorato il fatto che, nell’ambito del procedimento disciplinare posto a carico del legale dinanzi all’Ordine degli avvocati croato in relazione a tali osservazioni, il ricorrente era stato dichiarato non colpevole.

La decisione

La Corte ha concluso il proprio esame rilevando che, sulla base di quanto sopra riferito, le ragioni addotte dai Tribunali nazionali per giustificare l’ingerenza nella libertà di espressione del ricorrente non erano “pertinenti e sufficienti”. Tali giudici non avevano basato la loro decisione sui criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, così come sopra sintetizzati, senza individuare pertanto il giusto equilibrio tra la necessità di tutelare l’autorità giudiziaria e la necessità di tutelare la libertà di espressione del ricorrente. Con la conseguenza che, poiché il ricorrente non era andato oltre i limiti della critica accettabile, l’ingerenza nel caso di specie, rispetto alla libertà di espressione, non era stata considerata dalla Corte “necessaria in una società democratica”.

Apprendista si dimette: deve restituire le spese per la formazione Il Tribunale di Roma ha ritenuto meritevole di tutela la clausola contrattuale secondo cui, nel caso di dimissioni prive di giusta causa o giustificato motivo, l’apprendista è tenuto a restituire le spese sostenute per l’erogazione della formazione

Dimissioni dell’apprendista

Nel caso in esame l’apprendista, dopo aver sottoscritto un contratto di apprendistato professionalizzante e, mentre era ancora in corso il suo periodo di formazione, aveva rassegnato le proprie dimissioni volontarie.

Rispetto a tali fatti, il datore di lavoro aveva adito il Tribunale di Roma domandando la restituzione delle spese dallo stesso sostenute per l’erogazione delle giornate di formazione professionale nei confronti dell’apprendista.

La richiesta di parte datoriale era fondata sulla previsione contrattuale secondo cui “durante il periodo formativo le parti potranno recedere dal contratto solo per giusta causa o giustificato motivo” e che “nel caso di dimissioni prive di giusta causa o giustificato motivo, fermo restando, in quest’ultimo caso, il rispetto dei termini di preavviso, Le sarà trattenuta una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata (…) di formazione erogata fino al momento del recesso”.

L’obbligo di rimborso spese dell’apprendista

Il Tribunale capitolino, con sentenza n. 1646-2024, ha condannato l’apprendista alla restituzione delle somme sostenute dal datore di lavoro in suo favore a titolo di rimborso delle spese di formazione.

In particolare, il Tribunale, dopo aver accertato che, da quanto contrattualmente pattuito, in caso di dimissioni prive di giusta causa, il lavoratore era tenuto al rimborso in favore del datore di lavoro di una somma pari alle spese da quest’ultimo sostenute per l’erogazione della formazione, ha anzitutto escluso la vessatorietà della clausola in questione.

Sul punto, il Tribunale ha affermato che “La meritevolezza dell’interesse del datore di lavoro rispetto a siffatta clausola è rinvenibile nel dispendio economico sopportato dalla azienda per la formazione di un proprio dipendente al fine di destinarlo allo svolgimento delle mansioni e fruendo di una formazione dedicata”.

Inoltre, siffatta previsione contrattuale, secondo il Tribunale, “nella valutazione della complessiva economia del rapporto non risulta affatto eccessivamente onerosa, dal momento che, trattandosi della formazione relativa all’acquisizione della posizione lavorativa di operatore specializzato (…), nella fattispecie il datore di lavoro non si è sostanzialmente mai potuto avvalere del contributo lavorativo effettivo del dipendente, che è stato impegnato interamente nella formazione. Pertanto, gli importi pattuiti non possono ritenersi eccessivamente gravosi per il lavoratore, che, conformemente agli obblighi assunti, è tenuto al pagamento delle giornate di formazione secondo le previsioni del contratto individuale di lavoro”.

La decisione

Sulla scorta di quanto sopra riferito, il Tribunale ha pertanto concluso il proprio esame condannando il lavoratore alla restituzione delle somme sostenute dal datore di lavoro per la sua formazione professionale.

 

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comportamento corretto udienza

Avvocati: nessuna “smorfia” in udienza Il Tribunale di Milano ha adottato il nuovo Regolamento d’udienza per la Sezione IX civile, prescrivendo, tra l’altro, ai partecipanti: puntualità, cellulari spenti, abbigliamento adeguato

Fair play in udienza

Niente smorfie, vietato interrompere e anche tenere i cellulari accesi con la suoneria. Prescritti, invece, abbigliamento consono e rigorosa puntualità. Sono queste le linee guida adottate dalla nona sezione civile del tribunale di Milano, che si occupa di famiglia e minori, per indicare ai partecipanti all’udienza, dagli avvocati alle parti, il comportamento da corretto da tenere durante lo svolgimento della stessa.

Il regolamento, senz’altro mutuabile in tutte le controversie e nei vari tribunali, è stato adottato in considerazione del potere attribuito dalla legge al giudice di disporre quanto occorre affinché la trattazione della causa avvenga in modo ordinato e proficuo.

Infatti, nel testo si fa espressa menzione dell’art. 129 c.p.c. ove è contenuto il divieto, a coloro che intervengano nell’udienza, di fare segni di approvazione o di disapprovazione o cagionare in qualsiasi modo disturbo durante l’udienza; viene altresì fatto riferimento all’art. 89 c.p.c. il quale stabilisce che le parti e i loro difensori non possono usare espressioni sconvenienti o offensive.

Cosa prevede il Regolamento

Con le linee guida sottoscritte dalla presidente della sezione Anna Cattaneo e dalla consigliera dell’Ordine di Milano Giulia Sapi, che coordina la Commissione Persona, Famiglia e Minori, il tribunale ha adottato un vero e proprio decalogo, prescrivendo a coloro che partecipano all’udienza di adeguare il proprio comportamento a determinate regole, quali:

  • presentarsi con puntualità;
  • vestirsi in modo appropriato e decoroso;
  • tenere il cellulare spento o senza suoneria.

Vengono anche date indicazioni ai difensori e ai magistrati di arrivare all’udienza “preparati ed a conoscenza dei fatti di causa (…), avendo contezza delle posizioni delle rispettive parti, della documentazione già in atti e degli adempimenti che saranno svolti nella specifica udienza”.

Un’udienza “ordinata”

Il Regolamento dedica anche alcune prescrizioni alle modalità con cui deve essere gestita l’udienza.

In particolare, è precisato che spetta al giudice concedere la parola alle parti e ai difensori, che si impegnano ad utilizzare il tempo loro concesso, seguendo l’ordine processuale prescritto.

Sempre nel rispetto dei ‘tempi’ del processo, il regolamento prescrive altresì che “nessuno potrà interrompere o sovrapporsi ai difensori e alle parti durante la loro esposizione”.

Nella medesima direzione, è posto il divieto, durante l’esposizione dei difensori o delle parti, di “fare segni di approvazione o di disapprovazione e cagionare in qualsiasi modo disturbo né usare espressioni sconvenienti od offensive”.

Linguaggio chiaro e niente offese

In merito al linguaggio da adoperare durante l’udienza, le linee guida prescrivono, infine, che le argomentazioni rilevanti ai fini della decisione dovranno essere esposte “in modo chiaro, conciso e comprensibile”.  A tal riguardo, il giudice potrà intervenire ogni qualvolta “i toni” (offensivi, svalutativi, provocatori, e così via) contribuiscano ad alimentare il conflitto.

tamponamento a catena responsabilità

Tamponamento a catena: chi è responsabile? La Cassazione ha chiarito che, in caso di tamponamento a catena tra veicoli in movimento, si ha presunzione “iuris tantum” di colpa, in egual misura, dei conducenti di ciascuna coppia di veicoli, tamponante e tamponato

Tamponamento a catena: il caso

Nel caso in esame il Giudice di merito si era occupato di una richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti da un incidente stradale.

In particolare, la Corte d’appello di Catania, dopo aver rivalutato le risultanze istruttorie che avevano condotto il Giudice di prime cure ad accogliere la richiesta risarcitoria avanzata dall’attore, aveva ritenuto che i fatti così come si erano svolti, integravano una fattispecie di “tamponamento a catena su autostrada di veicoli in movimento”, con la conseguenza che, in applicazione della costante giurisprudenza di legittimità formatosi sul punto, doveva trovare applicazione la presunzione iuris tantum di colpa a carico del conducente di ciascuno dei veicoli tamponanti, fondata sull’inosservanza della distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante.

Sulla scorta di tali regole probatorie, la Corte territoriale aveva rigettato la richiesta risarcitoria dell’originario attore e aveva accolto la domanda riconvenzionale del convenuto in primo grado.

Avverso tale decisione l’originario attore aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La colpa dei conducenti si presume in egual misura

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15923-2024, ha accolto, per quanto qui rileva ed in relazione alla fattispecie di tamponamento a catena, il motivo d’impugnazione formulato dal ricorrente con cui veniva fatta valere la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 149 CdS, 1223, 2043 e 2054 c.c.

In particolare, la Corte ha rilevato che “mentre nel caso di scontri successivi tra veicoli facenti parte di una colonna in sosta, unico responsabile degli effetti delle collisioni è il conducente che le abbia determinate, tamponando da tergo l’ultimo dei veicoli della colonna stessa, nella diversa ipotesi di tamponamento a catena tra veicoli in movimento trova applicazione l’art. 2054, seconda comma, cod. civ., con conseguente presunzione “iuris tantum” di colpa in egual misura di entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato)”. Tale presunzione è fondata sul mancato rispetto della distanza di sicurezza rispetto al veicolo che precede.

Presunzione di colpa in egual misura tra i conducenti

Sulla scorta di quanto sopra, la Cassazione ha pertanto rilevato che, nel caso di specie, l’esclusiva responsabilità a carico del tamponante poteva ritenersi integrata solo se fosse venuto in rilievo un caso di tamponamento tra veicoli incolonnati in sosta.

Mentre, avendo la Corte territoriale ritenuto integrata la diversa fattispecie del tamponamento a catena tra veicoli in movimento, doveva, al contrario, trovare applicazione la regola della presunzione di colpa in egual misura tra i conducenti, con conseguente riduzione della somma risarcitoria posta a carico del ricorrente.

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licenziamento superamento periodo comporto

Licenziamento: esclusi dal comporto i giorni di day hospital La Cassazione ha affermato che la nozione di ricovero doveva ritenersi comprensiva sia del ricovero ospedaliero vero e proprio, che si protrae per almeno 24 ore, sia del ricovero di durata giornaliera

Licenziamento per superamento del comporto

La vicenda in esame prende avvio dall’annullato del licenziamento intimato alla dipendente per superamento del periodo di comporto.

Al termine del giudizio di merito instaurato in relazione alla suddetta vicenda, la Corte territoriale aveva ritenuto che nessun onere di comunicazione degli accessi al pronto soccorso e del ricovero gravava sul dipendente, data la valenza puramente oggettiva dell’assenza per malattia, ai sensi dell’art. 2110 c.c. e che, pertanto, una volta sottratti i giorni di ricovero (comprensivi degli accessi al pronto soccorso), il recesso risultava intimato prima del superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro contrattualmente previsto ed era quindi nullo, per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2 c.c.

Avverso tale sentenza società datrice di lavoro aveva proposto ricorso per Cassazione.

Non si computano i giorni di day hospital

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 15845-2024, ha rigettato il ricorso proposto e ha condannato la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.

A tal proposito, la Corte, per quanto qui rileva, ha esaminato il quadro normativo di riferimento, con particolare riguardo all’art. 38 del D.P.C.M. 12 gennaio 2017, ove è stabilito che “Il Servizio sanitario nazionale garantisce le prestazioni assistenziali in regime di ricovero ordinario ai soggetti che, in presenza di problemi o patologie acute, necessitano di assistenza medico-infermieristica prolungata nel corso della giornata, osservazione medico-infermieristica per 24 ore e immediata accessibilità alle prestazioni stesse”.

L’art. 42 prevede invece che “Nell’ambito delle attività di day hospital medico il Servizio sanitario nazionale garantisce le prestazioni assistenziali programmabili appartenenti a branche specialistiche diverse, volte ad affrontare patologie o problemi acuti che richiedono inquadramento diagnostico, terapia, accertamenti clinici, diagnostici o strumentali, nonché assistenza medico infermieristica prolungata, non eseguibili in ambulatorio. L’attività di day hospital si articola in uno o più accessi di durata limitata ad una sola parte della giornata, senza necessità di pernottamento”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha pertanto rilevato che “il ricovero ospedaliero si caratterizza per una durata di almeno 24 ore e presuppone, quindi, un pernottamento nella struttura sanitaria. Il day hospital ha invece una durata giornaliera, senza pernottamento, e si realizza attraverso uno o più accessi di durata limitata anche ad una sola parte della giornata”.

Alla luce del suddetto quadro normativo, la Corte ha esaminato il C.C.N.L. applicabile al caso di specie per stabilire se le parti sociali avevano adoperato le locuzioni “ricovero ospedaliero” e “day hospital” in maniera tassativa, escludendo altre forme di ricovero giornaliero, oppure in maniera esemplificativa, sì da comprendere anche altre possibili forme di ricovero presso le strutture sanitarie. Rispetto a tale dubbio interpretativo, la Corte ha riferito che l’espressione adoperata nel C.C.N.L. applicato “sottenda una nozione ampia di “ricovero”, comprensiva sia del “ricovero ospedaliero” vero e proprio che si protrae per almeno 24 ore e sia del ricovero di durata giornaliera. Infatti, non è logicamente plausibile che l’esclusione dal computo ai fini del comporto sia stata prevista solo per i giorni di day hospital e non per altre ipotesi ad esso completamente assimilabili, come ad esempio il “day surgery””.

La decisione

Ne consegue dunque che la Corte d’appello aveva correttamente interpretato il C.C.N.L. in esame, nel senso di escludere dal computo del comporto anche i giorni di accesso al pronto al soccorso, con la conseguenza che il ricorso della società datrice non può ritenersi fondato in relazione a tale doglianza.

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