avvocato assente

Avvocato assente all’udienza: responsabile anche senza danno Il CNF sottolinea che l’assenza ingiustificata all’udienza configura sempre violazione deontologica, anche in assenza di danno concreto per il cliente

Avvocato assente all’udienza

Avvocato assente all’udienza: il Consiglio Nazionale Forense ha pubblicato il 7 luglio 2025 sul sito del Codice deontologico la sentenza n. 487/2024, riguardante l’omissione del difensore – di fiducia o d’ufficio – nell’adempimento al mandato, in particolare a causa dell’assenza ingiustificata all’udienza.  

Il principio ribadito dal CNF

Il CNF ribadisce l’orientamento consolidato: «L’inadempimento al mandato per assenza all’udienza, in difetto di accordo con il cliente, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante ex art. 26 CDF (già art. 38 previgente)». 

Indipendenza dall’effettivo danno al cliente

È indifferente che l’assenza non abbia causato conseguenze negative per l’assistito: tale circostanza non elimina il disvalore del comportamento negligente, potendo però attenuare la sanzione disciplinare. 

Il professionista che intenda giustificare la propria assenza deve dimostrare l’accordo o la causa legittima per non presentarsi all’udienza: in assenza di questo onere, la violazione sussiste. 

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giochi online

Giochi online nei locali pubblici: illegittimo il divieto assoluto Per la Corte Costituzionale è illegittimo il decreto Balduzzi nella parte in cui vieta in modo assoluto i giochi online nei locali pubblici

Giochi online e locali pubblici

Con la sentenza n. 104/2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 7, comma 3-quater, del cosiddetto “decreto Balduzzi” (d.l. 158/2012), che vietava l’installazione nei locali pubblici di dispositivi che consentono l’accesso a piattaforme di giochi online, sia legali sia illegali.

Il divieto imposto dal decreto Balduzzi

La norma censurata vietava espressamente la disponibilità, all’interno di qualsiasi esercizio pubblico, di apparecchiature che permettessero ai clienti di accedere a giochi d’azzardo online, anche se erogati da concessionari autorizzati. Il divieto si applicava in modo indifferenziato, sia in caso di utilizzo esclusivo delle apparecchiature a fini di gioco, sia nel caso di utilizzo occasionale o accessorio.

I motivi della declaratoria di illegittimità

La Corte ha riconosciuto che l’intento della norma – il contrasto alla ludopatia – è senz’altro legittimo e costituzionalmente rilevante. Tuttavia, la disposizione è stata ritenuta irragionevole e sproporzionata, poiché colpisce comportamenti eterogenei, con differenti livelli di offensività, senza alcuna distinzione o graduazione.

In particolare, la Corte ha sottolineato che:

  • la norma è eccessivamente generica e inclusiva;

  • equipara situazioni profondamente diverse (uso occasionale vs. strutturato);

  • non distingue tra gioco legale e illegale, trattandoli alla stessa stregua;

  • non rispetta il principio di proporzionalità, essendo troppo penalizzante rispetto agli obiettivi.

Illegittima anche la sanzione da 20.000 euro

A seguito della declaratoria di illegittimità della norma primaria, la Corte ha esteso l’incostituzionalità anche alla sanzione amministrativa prevista dall’art. 1, comma 923, primo periodo, della legge 208/2015, che comminava una sanzione fissa di 20.000 euro per la violazione del divieto.

La sanzione, priva ora di base legale, non potrà più essere applicata.

Compiti futuri del legislatore

La Corte ha concluso invitando il legislatore a intervenire con misure più equilibrate ed efficaci per contrastare la dipendenza dal gioco d’azzardo. Le strategie future dovranno rispettare i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità, graduando le restrizioni in base alla reale pericolosità delle condotte.

incapacità di testare

Incapacità di testare Incapacità di testare: cos’è, in quali casi è presente, effetti e cosa prevede l’art. 591 del codice civile

Cos’è l’incapacità di testare?

L’incapacità di testare è una condizione giuridica che impedisce a una persona di disporre del proprio patrimonio tramite testamento. Il Codice Civile, all’articolo 591, disciplina i casi in cui un soggetto non può redigere un testamento valido, garantendo la tutela degli interessi degli eredi e della volontà testamentaria.

L’incapacità di testare si verifica quando un soggetto non è in grado, per legge o per condizioni personali, di esprimere una volontà testamentaria valida. Il testamento redatto da un soggetto incapace può essere pertanto impugnato da chiunque vi abbia interesse, nel termine di prescrizione di 5 anni che dicono dal momento in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.

Casi di incapacità di testare previsti dall’art. 591 c.c.

L’art. 591 c.c individua tre categorie principali di soggetti incapaci di testare:

1. Minori di età

I minori di 18 anni non possono fare testamento, anche se emancipati. La ratio della norma è che i minori non abbiano la maturità sufficiente per disporre consapevolmente del proprio patrimonio.

2. Interdetti per infermità di mente

Le persone dichiarate interdette giudizialmente a causa di una grave patologia mentale non possono testare. L’interdizione viene pronunciata dal tribunale e comporta la totale incapacità legale di agire.

3. Incapaci di intendere e di volere al momento del testamento

Anche se una persona non è formalmente interdetta, il testamento può essere impugnato se il testatore, al momento della redazione, si trovava in uno stato di incapacità di intendere e di volere dovuto, ad esempio, a:

  • malattie psichiatriche;
  • intossicazione da farmaci o sostanze stupefacenti;
  • grave infermità fisica che comprometta la lucidità mentale.

Effetti della dichiarazione di incapacità di testare

Se viene accertata l’incapacità del testatore, il testamento può essere dichiarato nullo su richiesta di chiunque vi abbia interesse (eredi legittimi o altri aventi diritto). La nullità comporta:

  • l’invalidità delle disposizioni testamentarie;
  • il ritorno all’eredità secondo le regole della successione legittima;
  • l’esclusione degli eredi nominati nel testamento invalido.

Giurisprudenza sull’incapacità di testare

Cassazione n. 9534/2025: Il fatto che una persona si esprima a monosillabi o con gesti del capo non invalida il testamento, a patto che queste siano le uniche modalità di comunicazione possibili a causa di un deficit motorio che non compromette la sua capacità di intendere e di volere, né la possibilità di esprimere in modo comprensibile le sue intenzioni. Non si può negare la validità di un consenso manifestato in questo modo, né contestare l’autenticità e la completezza dell’espressione di volontà, soprattutto se il giudice ha riscontrato queste condizioni in concreto e la sua motivazione è priva di vizi.

Corte Appello Milano n. 2731/2024: Anche senza una documentazione medica chiara e lineare che attesti le condizioni mentali del testatore, per annullare un testamento ai sensi dell’articolo 591, comma 3, del codice civile, l’incapacità del defunto può essere desunta dal contenuto del testamento stesso e, in particolare, dalle modalità con cui è stato redatto

Cassazione n. 42124/2021: Quando si tratta di dimostrare l’incapacità di un testatore al momento della stesura del testamento, l’articolo 591, comma 2, n. 3, del codice civile stabilisce che tale incapacità deve essere provata proprio in quel momento specifico. Tuttavia, questa norma non significa che le prove debbano limitarsi esclusivamente a quel frangente. Al contrario, il giudice può considerare le condizioni mentali del testatore sia prima che dopo la redazione del testamento, utilizzando queste informazioni come base per una presunzione. In definitiva, l’incapacità può essere dimostrata attraverso qualsiasi mezzo di prova disponibile.

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omesso versamento contributi

Omesso versamento contributi: sanzioni legittime La Corte costituzionale conferma la legittimità delle sanzioni amministrative per i datori che non versano i contributi previdenziali e assistenziali

Sanzioni omesso versamento contributi: la Consulta dice sì

Con la sentenza n. 103/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, così come modificato dall’art. 23, comma 1, del D.L. 4 maggio 2023, n. 48.

La norma prevede che il datore di lavoro che ometta di versare le ritenute previdenziali e assistenziali sulle retribuzioni dei dipendenti entro il limite di € 10.000,00 annui, sia punito con una sanzione amministrativa pecuniaria da una volta e mezza a quattro volte l’importo omesso.

La questione sollevata dal Tribunale di Brescia

La questione di legittimità era stata sollevata dal Tribunale di Brescia, in funzione di giudice del lavoro.
Secondo il giudice remittente, l’entità del minimo edittale previsto avrebbe potuto determinare una sanzione sproporzionata rispetto alla gravità dell’illecito, generando effetti irragionevoli.

Tra le criticità segnalate, anche la possibile disparità di trattamento con la sanzione penale prevista per l’omissione oltre i 10.000 euro, che – in caso di conversione della pena detentiva in pecuniaria – potrebbe risultare meno gravosa rispetto alla sanzione amministrativa.

Il contrasto all’evasione contributiva giustifica la severità

La Corte ha ricordato che il legislatore dispone di ampia discrezionalità nella determinazione delle sanzioni, anche per gli illeciti amministrativi.

Il contrasto all’evasione contributiva, che riguarda prestazioni essenziali e diritti irrinunciabili dei lavoratori, giustifica una risposta sanzionatoria severa, ritenuta proporzionata alla gravità della condotta e al valore costituzionale dei beni tutelati.

Differenze tra sanzioni penali e amministrative

La Consulta ha inoltre chiarito che la differenza tra importi sanzionatori non può fondare un giudizio di irragionevolezza.

La comparazione aritmetica tra la sanzione amministrativa e la pena pecuniaria derivante dalla conversione della sanzione penale non tiene conto delle diverse caratteristiche strutturali delle due forme di responsabilità.

La responsabilità penale conserva infatti un contenuto afflittivo maggiore, indipendentemente dall’importo pecuniario finale.

Norma conforme a Costituzione

La Corte costituzionale ha quindi affermato che la norma in esame rispetta i principi di proporzionalità e ragionevolezza, in linea con l’articolo 3 della Costituzione.

La sanzione amministrativa per l’omesso versamento dei contributi previdenziali e assistenziali entro i 10.000 euro è dunque costituzionalmente legittima, e rappresenta un valido strumento per tutelare i diritti dei lavoratori e la tenuta del sistema previdenziale pubblico.

libertà di espressione

Libertà di espressione avvocati con limiti di dignità e rispetto Il CNF ribadisce la libertà di espressione degli avvocati per garantire il diritto di difesa ma con i limiti di dignità e rispetto

Difesa e libertà di espressione

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 30/2025 pubblicata il 2 luglio 2025 sul sito del Codice Deontologico Forense, ha sottolineato il ruolo fondamentale della libertà di espressione degli avvocati. Essa è considerata cruciale per il diritto di difesa e per garantire l’equo processo, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 2, CEDU.

Espressione critica: valore e limiti

La pronuncia afferma che la manifestazione del pensiero da parte dell’avvocato è essenziale per il buon funzionamento della giurisdizione, aiutando a contrastare eventuali abusi. Tuttavia, tale libertà non è illimitata: va esercitata nel rispetto della dignità della professione e della fiducia della collettività, senza intaccare l’affidamento nell’ordinamento giudiziario e nella funzione sociale dell’avvocatura.

Rispetto verso magistratura e opinione pubblica

Pur consentendo critica verso il potere giudiziario, il CNF sottolinea che:

  • questa non può superare il rispetto dovuto agli organi giurisdizionali;

  • non può ledere la fiducia dell’opinione pubblica nel sistema forense;

  • deve mantenersi nei confini fissati dall’art. 1 della L. n. 247/2012, che tutela la dignità e il decoro della professione forense, anche rispetto alla figura dell’avvocato come co-protagonista del processo.

Equilibrio tra diritto di critica e credibilità professionale

La sentenza del CNF definisce un equilibrio tra:

  • il diritto/dovere dell’avvocato di esprimere la propria opinione in modo critico e incisivo;

  • e la necessità di preservare l’immagine e l’autorevolezza della categoria forense e della magistratura.

Critiche inappropriate o aggressive – soprattutto se rivolte a funzionari giudiziari – possono essere sanzionate deontologicamente.

giurista risponde

L’adunanza plenaria torna sui casi di rimessione al primo giudice ex art. 105 cpa Ci si chiede se l’annullamento della sentenza di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, disvelando che l’omessa trattazione del merito della causa in primo grado ha determinato una ingiusta compressione e dunque una ‘lesione del diritto di difesa’ del ricorrente – lesione che verrebbe ulteriormente perpetrata, per la sottrazione alla sua disponibilità di un grado di giudizio, ove la causa fosse trattata (nel merito) direttamente dal giudice d’appello – non determini la necessità di rimettere la causa, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., al giudice di primo grado: e ciò, quantomeno, allorché la declaratoria di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, nella sua interezza, sia avvenuta ex ante e a prescindere dall’esame, seppur parziale, dei motivi dedotti dalla parte

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

L’art. 105, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se dichiara la nullità della sentenza, si applica anche quando la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando palesemente nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente (Cons. Stato, Ad. Plen., 20 novembre 2024, n. 16 (casi di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a).

Nel decidere sul quesito formulato con l’ordinanza di rimessione, l’Adunanza Plenaria ritiene di dover confermare, nella sostanza, la soluzione seguita dalla Plenaria nel 2018, sia pure sulla base di un percorso argomentativo parzialmente diverso e con una integrazione, quanto alla individuazione delle ipotesi di ‘nullità della sentenza.

Più precisamente, l’Adunanza Plenaria, ad integrazione di quanto statuito con le sentenze sopra citate del 2018, enuncia il seguente principio di diritto in ordine alle ipotesi di “nullità della sentenza”: l’art. 105, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se dichiara la nullità della sentenza, si applica anche quando la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando palesemente nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente”.

Il Collegio muove dalla conformazione costituzionale del processo amministrativo e dalla individuazione dei limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere ad esso applicate precisando che, sotto il primo profilo, per il processo amministrativo il doppio grado di giudizio ha valore di regola costituzionale (art. 125 Cost.; Corte cost. 12 marzo 1975, n. 61, e 1° febbraio 1982, n. 8; Cass., Sez. Un., 15 dicembre 1983, n. 7409), e i casi di giurisdizione in unico grado davanti al Consiglio di Stato devono ritenersi eccezionali e basarsi su una espressa previsione normativa, anche dopo la pronuncia della Corte cost. 395/1988.

Rimarcano i Giudici che, il principio costituzionale del doppio grado del giudizio va interpretato alla luce, da un lato, dei principi del giusto processo e del diritto a un ricorso effettivo (artt. 111, comma 1, Cost.; 13 CEDU; 1 c.p.a.), e, dall’altro lato, della previsione costituzionale del limitato sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, circoscritto “ai soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111, comma 8, Cost.) e più ristretto del sindacato di legittimità che la Corte di Cassazione esercita sulle sentenze del giudice civile per “violazione di legge” (art. 111, comma 7, Cost. e art. 360 c.p.c.).

Il principio del doppio grado di giudizio non implica che la parte abbia diritto a un pieno esame della causa nel merito in due gradi (Cons. Stato, Ad. Plen., 30 giugno 1978, n. 18). Esso comporta, da un lato che, una volta che la causa sia stata decisa dal TAR, sia previsto il rimedio dell’appello, e, dall’altro lato, che la causa debba essere esaminata nel merito in primo grado, in presenza dei relativi presupposti e sulla base dei principi del giusto processo e di effettività della tutela.

Una pronuncia di merito in primo grado potrebbe dal soccombente essere ritenuta persuasiva senza necessità di appello, così evitando i costi di un secondo giudizio e contribuendo alla ragionevole durata del processo.

Le erronee sentenze di primo grado di mero rito, evidenziano i Giudici, non sono solo sentenze “ingiuste” e come tali appellabili, ma – nella misura in cui l’ordinamento non consentisse mai una regressione del giudizio recherebbero anche un vulnus al principio del giusto processo.

La decisione in unico grado di merito innanzi al Consiglio di Stato, le cui sentenze non sono impugnabili per violazione di legge, non costituisce il modello del giudizio amministrativo disciplinato dagli artt. 111 e 125 Cost. e dal c.p.a., laddove hanno previsto il giusto processo e il doppio grado per i casi in cui il giudizio sia definito dall’organo di giustizia amministrativa di primo grado.

La mediazione tra il modello del ‘doppio grado di merito pieno’ – in cui tutti i motivi e tutte le questioni sono esaminati in due gradi – e l’evenienza pratica di un primo grado di mero rito, seguito da un unico grado di merito pieno in fase di appello, è lasciata al legislatore ordinario, chiamato a operare un ragionevole bilanciamento tra le esigenze del giusto processo e della sua ragionevole durata, e ad individuare, per il caso di erronee pronunce in rito, un modello intermedio tra un appello sempre cassatorio e un appello con effetto devolutivo pieno.

A tale bilanciamento il legislatore ordinario ha provveduto in modo differenziato nei diversi processi, con diversa ampiezza dei casi di regressione del giudizio in presenza di erronee pronunce in rito. L’art. 105 c.p.a. prevede un novero di ipotesi di regressione del processo ben più ampio di quello contemplato dall’art. 354 c.p.c.

Quanto ai limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere applicate nel processo amministrativo, l’art. 39, comma 1, c.p.a. stabilisce che: “Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali.

Orbene, sostiene il Collegio che la circostanza che una disposizione del processo civile sia espressione di un principio generale non giustifica di per sé sola l’estensione del principio processualcivilistico al processo amministrativo o il suo utilizzo come criterio ermeneutico.

Invero, la regolamentazione di una fattispecie concreta mediante i principi generali piuttosto che mediante disposizioni puntuali, è consentita dall’ordinamento positivo solo i) quando i principi siano gerarchicamente sovraordinati e siano pertanto prevalenti a prescindere da una lacuna dell’ordinamento (ad es. i principi eurounitari), ii) o quando vi sia una lacuna normativa da colmare (analogia iuris ex art. 12, comma 2, disp. prel. c.c.), iii) o quando una legge stabilisca espressamente che i principi da essa enunciati prevalgono sulle sue regole puntuali o ne costituiscono criterio esegetico (v. ad es. art. 1, comma 4, D.Lgs. 36/2023).

I Giudici affermano che nessuna di queste tre ipotesi è ravvisabile nel caso specifico, in quanto: i) il c.p.c. non è una fonte del diritto sovraordinata al c.p.a., ii) l’art. 105 c.p.a. non presenta alcuna lacuna, iii) nessuna disposizione del c.p.a. affida ai principi del processo civile una valenza di canone esegetico del c.p.a.

In particolare, il c.p.a. non contiene alcuna lacuna, quanto ai casi di regressione del giudizio e al c.d. effetto devolutivo, recando un’autonoma e compiuta disciplina di tali profili nel combinato disposto dell’art. 101, comma 2, e dell’art. 105 c.p.a., che non necessita di alcuna integrazione o esegesi sistematica, sicché di per sé non rileva per il processo amministrativo l’art. 354 c.p.c.

Si legge nella sentenza che è vero che l’art. 44, comma 1, L. 69/2009 individua tra le finalità del riassetto delle norme del processo amministrativo quella “di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali, ma tale criterio della legge delega ha richiesto al legislatore delegato di effettuare una ricognizione e una trasposizione dei principi generali del processo all’interno del processo amministrativo, anche alla luce della pregressa prassi giurisprudenziale utilizzata al fine di colmare lacune della legge processuale amministrativa, e quindi individuando i principi generali del processo civile già ritenuti applicabili al processo amministrativo prima dell’entrata in vigore del c.p.a.

Coordinamento” del c.p.a. con il c.p.c., si evidenzia nella decisione, non significa necessariamente pedissequa trasposizione, bensì adattamento alle peculiarità di un processo che risponde a diverse esigenze e ha una diversa struttura secondo la Costituzione.

In ogni caso, una volta esercitata la delega, i principi del processo civile possono regolare quello amministrativo solo alle condizioni stabilite dall’art. 39 c.p.a., ossia in presenza di una lacuna.

Il c.d. “effetto devolutivo” dell’appello dunque, quale lo si desume, a guisa di principio generale, dall’art. 354 c.p.c. non può essere ricostruito, per il processo amministrativo, in modo identico a come viene ricostruito in quello civile, perché differiscono sia la cornice costituzionale (‘doppio grado di merito’ costituzionalizzato nel primo e non nel secondo, caratterizzato dalla ricorribilità in Cassazione), sia le disposizioni applicabili (rispettivamente gli artt. 101 e 105 c.p.a. e l’art. 354 c.p.c.).

Ad avviso della Plenaria, ogni questione esegetica circa l’ambito applicativo dell’art. 105 c.p.a. va dunque risolta considerando il solo articolo suindicato, nella cornice del c.p.a. e dei principi costituzionali richiamati.

Sul piano dell’interpretazione letterale, logica e sistematica dell’art. 105, cit., il Collegio ritiene di dover analizzare e coordinare in modo armonico i seguenti “segmenti normativi”:

  1. a) “Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se”;
  2. b) “è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza”;
  3. c) “o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio”.

Il primo segmento normativo, con l’espressione soltanto se, comporta che l’elenco dei casi di rimessione al primo giudice è tassativo e pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Quanto al secondo e al terzo segmento normativo, il Collegio evidenzia che i casi di rimessione al primo giudice sono individuati con una tecnica legislativa non omogenea.

Invero, il secondo segmento normativo si riferisce a tre vizi – afferenti al processo e alla decisione – individuati mediante tre ‘categorie generali’ che non corrispondono a tre “singoli vizi”, ma a tre “serie di vizi”, sicché le tre categorie vanno riempite di contenuto attraverso una ricognizione delle ipotesi normative e delle fattispecie concrete riconducibili nelle categorie generali.

Invece, il terzo segmento normativo si riferisce a quattro ipotesi puntuali di decisioni di rito erronee, univocamente corrispondenti a fattispecie previste da disposizioni processuali (erronea declinatoria della giurisdizione; erronea declinatoria della competenza; erronea estinzione del giudizio; erronea perenzione).

I Giudici ribadiscono quanto affermato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, sulla tassatività delle ipotesi previste dall’art. 105 e dunque sulla sua insuscettibilità di interpretazione analogica.

Tuttavia, ritiene l’Adunanza Plenaria, dato che la previsione contempla tre “categorie generali” di vizi del procedimento o del giudizio di primo grado, l’interprete deve riempirle di contenuto.

Si legge nella sentenza che, nell’individuazione delle fattispecie generali, occorre muovere dal rilievo che l’art. 105 non solo contempla distintamente le ipotesi in cui “è mancato il contraddittorio”, quella in cui “è stato leso il diritto di difesa di una delle parti”, e quella della “nullità della sentenza”, ma soprattutto contiene una formulazione ben più ampia di quella dell’art. 354 c.p.c., in cui la rimessione al primo giudice è prevista nei casi di mancata integrazione del contraddittorio, erronea estromissione di una parte e nullità della sentenza nel solo caso di cui all’art. 161, comma 2, c.p.c.

Più precisamente, l’art. 354 c.p.c. menziona due sole fattispecie specifiche di mancanza del contraddittorio, non fa riferimento alcuno alla lesione del diritto di difesa e individua la nullità della sentenza con rinvio all’art. 161, comma 2, c.p.c., così circoscrivendola al solo difetto di sottoscrizione.

Invece, l’art. 105 c.p.a. si riferisce alla nullità della sentenza tout court, includendovi, oltre che il vizio formale di sottoscrizione, anche errori di giudizio, come hanno già rilevato dalle sent. 10, 11 e 15/2018 dell’Adunanza Plenaria.

Del resto, sostengono i Giudici, non può ritenersi che l’art. 105 abbia inteso riprodurre solo la previgente disciplina basata sulla distinzione tra gli “errores in procedendo” e gli “errores in iudicando”.

Nelle fattispecie, sia generali che puntuali, ivi previste, molte ipotesi sono di “errores in iudicando”, così la ‘nullità della sentenza, l’erronea declinatoria della giurisdizione o della competenza, l’erronea dichiarazione di estinzione o di perenzione del giudizio.

Il Collegio ricorda che già nel 1987, l’Adunanza Plenaria rilevò che – pur se si poteva ammettere un’approssimativa coincidenza fra l’ipotesi generica (“difetto di procedura”) dell’art. 35 L. 1034/1971, e le ipotesi specifiche elencate nell’art. 354 c.p.c. – il legislatore aveva utilizzato tecniche normative diverse: nel c.p.c., quella “dell’elencazione tassativa” che non può essere che di stretta interpretazione, e, nell’art. 35 della L. 1034/1971, quella della “formula generica”, la quale, se pur sostanzialmente coincidente, lasciava all’interprete la possibilità di aggiungere ulteriori ipotesi non previste dall’art. 354 c.p.c. (Cons. Stato, Ad. Plen., 27 ottobre 1987, n. 24).

Inoltre, come già ricordato, la sentenza dell’Ad. Plen. 23/1996 ammise un’interpretazione estensiva, se non analogica, dell’art. 35 L. 1034/1971, includendo nell’erronea dichiarazione di difetto di competenza anche l’erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione.

L’approccio seguito dall’Adunanza Plenaria nel 1987 e nel 1993 viene ribadito nella sentenza, anche alla luce di quanto sopra osservato circa l’autonoma portata normativa dell’art. 105 c.p.a. rispetto all’art. 354 c.p.c.

Così come già l’art. 35 della L. 1034/1971 aveva utilizzato la tecnica delle “categorie generali”, anche il vigente art. 105 c.p.a. ha indicato, da un lato, ipotesi specifiche di annullamento con rinvio, e, dall’altro lato, tre ‘categorie generali’.

Inoltre, mentre il medesimo art. 35 menzionava espressamente il “difetto di procedura” tra i casi di annullamento con rinvio, tale locuzione non compare nell’art. 105.

Le stesse pronunce dell’Adunanza Plenaria del 2018, rimarcano i Giudici, con riferimento alla categoria della “nullità della sentenza”, vi hanno attribuito un contenuto “misto” tale da includere sia errori procedurali, quale il difetto di sottoscrizione, sia errori di giudizio, quale quello della motivazione mancante o apparente.

Orbene, venendo al caso oggetto dell’ordinanza di rimessione, l’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso per difetto di una condizione dell’azione – con il consequenziale mancato esame della totalità dei motivi di ricorso – ben può, ad avviso del Collegio, integrare la ‘nullità della sentenza, in armonia con i principi enunciati dalle sentenze dell’Ad. Plen. 10 e 11/2018, §47 e ss., e 15/2018, §7.3, sia pure con alcune precisazioni.

Per le citate sent. 10 e 11/2018, la ‘nullità della sentenza’ è ravvisabile non solo nel caso di motivazione “radicalmente assente”, ma anche nel caso di motivazione “meramente apparente”, che si ha quando essa è “palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta”, o “tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile” o “richiama un generico orientamento giurisprudenziale senza illustrarne il contenuto”. “Più in generale, la motivazione è apparente quando sussistono anomalie argomentative di gravità tale da porre la motivazione al di sotto del minimo costituzionale che si ricava dall’art. 111, comma 5 Cost. […] tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile […]. La motivazione apparente non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi […]. La nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione riguarda non solo le sentenze di rito (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), ma anche quelle che recano un dispositivo di merito […] non sorretto da una reale motivazione”. […] “Il difetto assoluto di motivazione deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso.

Sostiene il Collegio che, quando l’esclusione della legittimazione o dell’interesse a ricorrere è frutto di un palese errore, per effetto del quale è mancato l’esame della totalità dei motivi di ricorso, si determina per il ricorrente una situazione più grave rispetto all’erroneo diniego di giurisdizione o di competenza o all’errore in procedendo, posto che nelle prime due ipotesi non è negata la tutela giurisdizionale della posizione giuridica soggettiva e la parte può riassumere il giudizio davanti al giudice indicato come avente giurisdizione o competenza, così conservando i due gradi di merito, e nel caso di errore in procedendo la sentenza esamina i motivi di ricorso, mentre nel caso di erronea declaratoria del difetto di legittimazione o di interesse è più radicalmente negata la sussistenza di una posizione tutelabile (e dunque non vi è alcun esame del merito, né la possibilità di ottenerlo riassumendo il giudizio davanti ad altro giudice di primo grado).

Il ricorrente, se vuole ottenere il riconoscimento della sussistenza di una posizione giuridica tutelabile in sede giurisdizionale (e dunque ottenere una pronuncia di merito), è pertanto onerato di proporre appello, con i relativi costi e tempi.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la sentenza che nega la sussistenza della legittimazione o dell’interesse al ricorso – e dunque ravvisa l’assenza di una posizione giuridica tutelabile, malgrado vi sia stata l’impugnazione di un provvedimento autoritativo incontestabilmente devoluta alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo – deve basarsi su una motivazione adeguata, ragionevole e coerente con i principi processuali, che tenga conto dei fatti di causa e delle censure dedotte in relazione alla lesione prospettata, e deve consentire di far comprendere in modo chiaro in fatto e in diritto l’effettiva sussistenza della ragione giuridica, posta a base della declaratoria di inammissibilità.

Per individuare il ‘chi’ possa impugnare il provvedimento autoritativo, la motivazione della sentenza deve tenere adeguatamente tenere conto della potenziale lesività dell’atto (ad esempio, sul patrimonio, sulla salute o anche sugli aspetti morali del ricorrente) e non è dunque sufficiente una riproduzione pedissequa dei fatti di causa e dei motivi di ricorso prospettati dalla parte, priva di vaglio critico da parte del giudice, né è sufficiente riportare gli orientamenti della giurisprudenza sulle condizioni dell’azione, ingiustificatamente negando la sussistenza di una posizione soggettiva tutelabile.

Occorre dunque per i Giudici una motivazione puntuale sulla specifica posizione dedotta in giudizio dalla parte ricorrente tenendo conto della situazione fattuale.

Ne consegue che, qualora la statuizione di inammissibilità si basi su una motivazione tautologica o sia frutto di un errore palese, in fatto o in diritto, che abbia per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso, si concreta il vizio di ‘nullità della sentenza, che, secondo quanto statuito dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria nel 2018, “deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso”.

È appunto il confronto tra una motivazione di puro rito frutto di un errore palese e il ricorso proposto unitariamente inteso che rende evidente il grave difetto argomentativo di una tale motivazione rispetto al ricorso.

L’Adunanza Plenaria rileva che della nozione di “merito processuale” possono darsi diverse accezioni, come “fatti processuali” o come “motivi di ricorso”, esaminati nella sostanza, in contrapposizione ad una pronuncia di “rito” che non esamina il “merito”.

Le decisioni in rito di inammissibilità di un ricorso di primo grado, possono atteggiarsi in vario modo. Viene in considerazione la seguente principale casistica:

  1. a) decisioni di inammissibilità, che hanno omesso l’esame del merito inteso come fatti di causa, ossia decisioni che non prendono in considerazione la specifica situazione fattuale (ad es., nelle controversie in materia edilizia, la concreta ubicazione del bene di proprietà del ricorrente ai fini della verifica della vicinitas, della legittimazione e dell’interesse al ricorso, le concrete caratteristiche dell’immobile costruendo);
  2. b) decisioni di inammissibilità, che non esaminano il merito inteso come motivi di ricorso;
  3. c) decisioni con doppia motivazione, in rito e in merito, che, pur dichiarando inammissibile un ricorso, esaminano “comunque” i motivi di ricorso;
  4. d) decisioni di inammissibilità in cui la declaratoria di inammissibilità è il risultato di una disamina di tutti o di alcuni motivi di ricorso.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la prima e la seconda ipotesi sopra delineate danno luogo ad una pronuncia di annullamento con rinvio, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., in ragione della nullità della sentenza per motivazione apparente, come già rilevato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, o in ragione di un errore palese di rito che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.

Nella terza e quarta ipotesi sopra delineate, vi è stato comunque un esame dei motivi di ricorso, che, anche se solo parziale, non giustifica un annullamento con rinvio, in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, come si desume anche dall’art. 101, comma 2, c.p.a.

Ritiene il Collegio che tale ricostruzione del quadro normativo consente di rendere coerenti tra loro le fattispecie disciplinate dall’art. 105 c.p.a., in quanto sia nel caso della ‘nullità della sentenza’ (per palese errore di giudizio sulle condizioni dell’azione) che in quelli di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea estinzione o perenzione, viene in rilievo non qualsivoglia errore di giudizio, ma quell’errore di giudizio che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.

Inoltre, siffatta interpretazione consente anche di evitare disparità di trattamento tra i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 2, c.p.a. (che impongono l’annullamento con rinvio) e i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 1, c.p.a., non espressamente richiamati dall’art. 105 c.p.a., non risultando ragionevole il trattamento differenziato di chi subisce un’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso e di chi subisce un’erronea dichiarazione di estinzione del giudizio.

L’Adunanza Plenaria non condivide gli argomenti addotti a sostegno dell’interpretazione che nega la regressione del giudizio quando il TAR abbia errato nell’individuare il ‘chi’ possa impugnare l’atto autoritativo ed abbia quindi errato nell’escludere una delle condizioni dell’azione.

Ad avviso del Collegio non risulta persuasivo l’argomento secondo cui il giudice di primo grado avrebbe esercitato e consumato comunque il suo potere, anche con la semplice pronunzia di rito, posto che questo si verifica anche nei casi di “nullità della sentenza” (già considerati dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria), di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea dichiarazione di estinzione del processo o di perenzione: in tutti tali casi, ciò che giustifica la regressione del processo è il mancato esame di qualsivoglia motivo di ricorso.

Quanto all’obiezione che l’interessato ha comunque avuto la possibilità di esperire entrambi i gradi di giudizio, rileva quanto sopra esposto su quale sia la effettiva portata del principio del doppio grado del giudizio amministrativo.

Quanto all’obiezione che il carattere devolutivo dell’appello imporrebbe un’interpretazione restrittiva della normativa sui casi di rimessione al TAR, rileva quanto sopra esposto sulla portata dell’effetto devolutivo dell’appello amministrativo e al significato della “tassatività” delle fattispecie previste dall’art. 105.

Non risulta persuasivo ad avviso dell’Adunanza Plenaria nemmeno l’argomento secondo cui l’estensione delle ipotesi di rimessione al primo giudice pregiudicherebbe la ragionevole durata del processo,

L’art. 105, comma 2, e l’art. 85, comma 3, c.p.a. disciplinano il rito camerale, più celere di quello ordinario, per gli appelli contro le sentenze dei TAR che hanno declinato la giurisdizione o la competenza e contro le ordinanze rese sull’opposizione a decreti di estinzione o improcedibilità. Tuttavia, un appello avverso una pronuncia di inammissibilità, in cui si lamenti la ‘nullità della sentenza’ nei sensi sopra visti, si può comporre con un solo motivo (volto a far rilevare l’ammissibilità del ricorso) ed è destinato o al rigetto o all’accoglimento con annullamento con rinvio, senza esame del merito da parte del giudice di appello.

Trovano pertanto applicazione gli artt. 72 e 72bis c.p.a. sulla fissazione con priorità dell’udienza pubblica, trattandosi di un ricorso vertente su un’unica questione, e sulla trattazione in camera di consiglio con i termini propri del rito cautelare, trattandosi di un appello suscettibile di immediata definizione.

La parte appellante, evidenzia il Collegio, ha inoltre la possibilità di chiedere l’abbreviazione dei termini, sicché l’appello contro la statuizione di inammissibilità può essere definito rapidamente, senza nocumento per la ragionevole durata del processo.

 

(*Contributo in tema di “L’adunanza plenaria torna sui casi di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

equa riparazione

Equa riparazione anche per le persone giuridiche La Cassazione conferma che anche le società hanno diritto all’indennizzo per la durata irragionevole del processo

L’equa riparazione spetta anche a società ed enti collettivi

Con l’ordinanza n. 14749/2025, la Cassazione ribadisce che il diritto all’equa riparazione per la durata eccessiva di un processo riguarda anche le persone giuridiche, come società ed enti collettivi.
La violazione del termine ragionevole di durata del giudizio, stabilito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e recepito in Italia dalla legge Pinto (L. n. 89/2001), genera un danno non patrimoniale che si presume esistente, salvo prova contraria.

Il caso concreto

La vicenda trae origine dal fallimento di una società, durato oltre quattordici anni, a fronte di un termine di sei previsto per tali procedure. Due società creditrici, dopo aver presentato istanza di ammissione al passivo, avevano chiesto l’indennizzo per il ritardo.
La Corte d’appello aveva riconosciuto il diritto al risarcimento, ma solo per il periodo coincidente con la permanenza in carica dei legali rappresentanti, ritenendo che il danno si identificasse nel disagio psicologico degli amministratori.
Questa impostazione è stata censurata dalla Cassazione, che ha chiarito che il danno appartiene alla società in quanto soggetto titolare del diritto, non ai suoi organi.

La natura del danno non patrimoniale per le persone giuridiche

Secondo la Suprema Corte, il danno non patrimoniale derivante da un processo eccessivamente lungo ha una componente oggettiva, diversa dallo stress o dall’ansia che possono colpire le persone fisiche.
Il pregiudizio consiste nella “deminutio” dell’immagine e della sfera giuridica dell’ente, che subisce una compromissione della sua posizione a causa del protrarsi dello stato di incertezza.
Proprio per questa ragione, la Cassazione ha ribadito che la durata della carica dell’amministratore è irrilevante ai fini della quantificazione del danno, che si radica nel patrimonio e nella dimensione giuridica della persona collettiva.

La presunzione del danno e l’onere della prova contraria

La decisione ripercorre un orientamento consolidato secondo cui il danno extrapatrimoniale, pur non essendo un danno “automatico”, si presume normalmente in base all’id quod plerumque accidit, ossia all’evento che di regola si verifica.
Questa presunzione è superabile soltanto se l’amministrazione resistente dimostra circostanze particolari che escludano la sussistenza del pregiudizio (ad esempio, l’infondatezza manifesta della pretesa azionata o altri elementi che dimostrino l’assenza di danno concreto).
Tuttavia, la Cassazione precisa che il mutamento degli organi societari durante la procedura non incide sulla spettanza dell’indennizzo alla persona giuridica.

I limiti soggettivi dell’indennizzo per la durata irragionevole

L’ordinanza si sofferma anche su un altro aspetto rilevante: il diritto all’equa riparazione spetta esclusivamente al soggetto che ha partecipato al giudizio che si è protratto oltre il termine ragionevole.
Di conseguenza, gli amministratori o i soci, se non hanno assunto la veste di parte processuale, non possono richiedere in proprio l’indennizzo per la durata del procedimento.
Questo principio, già affermato in altre decisioni, garantisce una corretta delimitazione dei soggetti legittimati a pretendere il risarcimento.

cani legati

Cani legati sull’asfalto rovente: è reato anche senza lesioni Il Tribunale di Pescara riconosce la detenzione in condizioni incompatibili con la natura animale come reato, anche in assenza di ferite visibili

Maltrattamento animale: reato anche senza lesioni evidenti

Cani legati sull’asfalto rovente è reato anche senza lesioni. Con la sentenza n. 213/2025, il Tribunale di Pescara ha stabilito che lasciare animali domestici legati su asfalto rovente, sotto il sole, costituisce reato di detenzione incompatibile con la loro natura ai sensi dell’art. 727 c.p., anche in assenza di lesioni fisiche visibili.

Secondo il Giudice, la nozione di “sofferenza” comprende anche disagio psicofisico, stress, angoscia, dolore emotivo, nervosismo, agitazione e affaticamento. Non serve, quindi, che l’animale mostri ferite per configurare l’illecito.

Il caso concreto

Il procedimento è scaturito da segnalazioni di cittadini che avevano notato, nelle vie del centro di Pescara, un uomo senza fissa dimora accompagnato da un cane meticcio e da un coniglio, entrambi esposti al caldo estremo.

Il cane era legato alla bicicletta del proprietario, costretto a rimanere fermo sull’asfalto bollente, spesso con cappellini o occhiali da sole, utilizzati come attrattiva durante l’accattonaggio.
Il coniglio, legato per una zampa con un guinzaglio, mostrava una vistosa ferita per l’assenza di protezione e libertà di movimento.

Una testimone ha affermato che l’uomo, probabilmente affetto da dipendenza alcolica, non comprendeva la gravità del trattamento riservato agli animali.

Le sofferenze ambientali equivalgono a sevizie

Il Tribunale ha sottolineato che il benessere animale non si misura solo attraverso le condizioni fisiche, ma anche attraverso l’idoneità dell’ambiente in cui l’animale è detenuto.

Anche in assenza di lesioni, un contesto di immobilità forzata, esposizione a calore e mancanza d’acqua può generare gravi sofferenze, qualificabili come sevizie.
La norma di riferimento, l’art. 727 c.p., punisce proprio la detenzione in condizioni incompatibili con la natura dell’animale, senza richiedere la presenza del dolo specifico previsto invece per il reato di maltrattamenti (art. 544-ter c.p.).

L’intento non rileva: il reato è punibile anche a titolo di colpa

Secondo il Giudice, il fatto che l’imputato non avesse intenzione di maltrattare gli animali non esclude il reato, poiché l’articolo 727 c.p. prevede una responsabilità colposa, fondata sull’omissione di comportamenti dovuti.

Inoltre, lo status di persona senza fissa dimora non rappresenta una causa di esclusione della punibilità. Il soggetto, pur in difficoltà, è comunque tenuto a rispettare il benessere animale.

Tenuità del fatto: assoluzione per proporzionalità

Nonostante il riconoscimento della condotta illecita, il Tribunale ha valutato le circostanze concrete e ha ritenuto applicabile l’art. 131-bis c.p., per particolare tenuità del fatto.

Considerando la durata limitata della condotta, le condizioni personali dell’imputato e la mancanza di crudeltà intenzionale, il giudice ha concluso che una pena detentiva sarebbe stata eccessiva e controproducente, tanto sul piano retributivo quanto su quello preventivo.

L’imputato è stato quindi assolto, pur restando fermo il principio giuridico: detenere animali in condizioni disumane è reato, anche se non vi sono ferite visibili.

Il benessere animale va oltre le ferite

La sentenza del Tribunale di Pescara rappresenta un precedente rilevante nella tutela degli animali: afferma che la sofferenza può essere invisibile ma giuridicamente rilevante.
Anche in assenza di crudeltà manifesta, ambienti ostili e condizioni innaturali possono costituire maltrattamento.

È un richiamo chiaro alla responsabilità di ogni detentore di animali, chiamato a garantire benessere reale, non solo sopravvivenza.

Allegati

procedure concorsuali

Durata procedure concorsuali: legittimo il limite di sei anni La Corte costituzionale conferma la legittimità del termine di sei anni per la durata delle procedure concorsuali previsto dalla legge n. 89/2001

Durata ragionevole delle procedure concorsuali è legittima

Con la sentenza n. 102/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate dalla Corte d’appello di Venezia in merito alla previsione normativa sul termine di ragionevole durata delle procedure concorsuali.

Il limite temporale previsto dalla legge è compatibile con la CEDU

La norma oggetto di scrutinio è l’articolo 2, comma 2-bis, della legge n. 89/2001, che stabilisce un limite di sei anni, estensibile a sette nei casi di particolare complessità, per il riconoscimento dell’equa riparazione.
Secondo la Consulta, tale previsione è coerente con lo standard di ragionevolezza richiesto dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), come costantemente interpretato dalla Corte EDU.

Il giudice conserva il potere di valutazione concreta

La Corte ha inoltre sottolineato che la predeterminazione del termine da parte del legislatore non comporta automatismi, poiché resta in capo al giudice il potere-dovere di valutare la fattispecie concreta nel procedimento per equa riparazione.
Tale interpretazione è conforme all’impianto della stessa legge n. 89/2001, che regola la tutela del diritto alla ragionevole durata del processo anche nelle procedure concorsuali.

Nessuna violazione del giusto processo

La sentenza della Corte costituzionale ribadisce che la previsione normativa di un termine ragionevole non viola il principio del “giusto processo”, in quanto si inserisce in un sistema equilibrato che consente comunque al giudice di tenere conto della complessità del singolo caso.

In sintesi, la durata delle procedure concorsuali fino a sei anni (estensibile a sette) è costituzionalmente legittima, purché il giudice continui a esercitare una valutazione individualizzata, nel rispetto dei diritti garantiti dalla CEDU.

sanzione

Avvocati: la malattia non annulla l’illecito ma attenua la sanzione Il CNF stabilisce che le condizioni di salute dell’avvocato non escludono l’illecito deontologico, ma possono ridurre la sanzione disciplinare

Malattia avvocato e responsabilità disciplinare

Sanzione avvocato: il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 487/2024, pubblicata l’8 luglio 2025, ha chiarito un principio fondamentale in tema disciplinare: la malattia dell’incolpato non scrimina l’illecito deontologico, ma può influenzare la misura della sanzione.

Nessuna scriminante per motivi di salute

Il CNF afferma che, anche se le condizioni psicofisiche dell’avvocato possono incidere sul suo comportamento, non escludono la responsabilità disciplinare, in quanto per commettere un illecito è sufficiente la volontarietà dell’azione. La malattia, pertanto, non è una giustificazione che invalidi la procedura disciplinare.

Mitigazione della sanzione: il margine di discrezionalità

Tuttavia, la gravità ridotta per motivi di salute può rappresentare una causa di attenuazione della sanzione. L’Autorità disciplinare, nel valutare il caso, può modulare la pena commisurandola alle condizioni dell’incolpato, riconoscendo il ruolo attenuante della malattia nella valutazione complessiva.

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