malasanità e danno erariale

Malasanità e danno erariale: la transazione non prova la colpa medica La Corte dei conti chiarisce: l’accordo transattivo tra paziente e Asl non basta a dimostrare la responsabilità del medico. Serve la prova della colpa grave

Malasanità e danno erariale

Malasanità e danno erariale: la sola stipula di un accordo transattivo tra l’Azienda sanitaria e il paziente non è sufficiente a fondare la responsabilità del personale sanitario. Lo ha chiarito la Corte dei conti – Sezione giurisdizionale per la Calabria – con la sentenza n. 45 del 18 marzo 2025, ribadendo che la transazione può rappresentare un indice di possibile danno pubblico, ma non vale come prova automatica di colpa grave del medico.

Il caso: paralisi ostetrica e richiesta di risarcimento

Il procedimento ha preso le mosse da un’azione promossa dalla Procura contabile nei confronti di un ginecologo e di un’ostetrica, chiamati a rispondere del danno erariale indiretto che sarebbe derivato all’Azienda sanitaria in seguito al risarcimento riconosciuto ai genitori di una neonata affetta da paralisi ostetrica del plesso brachiale destro (C5-C6). La lesione, secondo l’accusa, sarebbe stata causata da errate manovre durante il parto.

L’Azienda, senza attendere un accertamento giudiziale, aveva sottoscritto una transazione con i familiari, su impulso della propria compagnia assicurativa, basandosi su una consulenza medico-legale di parte.

Nessuna colpa grave, nessuna responsabilità

La Corte, tuttavia, ha respinto la domanda risarcitoria. In primo luogo ha escluso l’applicabilità della legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017) per ragioni temporali, trattandosi di fatti anteriori alla sua entrata in vigore. Ma soprattutto ha rilevato l’assenza di prova circa una condotta illecita e, comunque, l’assenza di colpa grave da parte dei sanitari.

Secondo i giudici contabili, non vi era riscontro clinico di una condizione di distocia della spalla, fattore cruciale per attribuire l’evento lesivo all’operato medico. Al contrario, il buon indice di Apgar al momento della nascita costituiva un elemento indiziario in favore della correttezza dell’intervento sanitario.

L’accordo transattivo non vincola il giudice

Elemento centrale della decisione è il chiarimento sul valore della transazione nel giudizio di responsabilità: essa, spiegano i giudici, non costituisce di per sé prova della colpa del medico. L’accordo tra l’Azienda e i genitori ha infatti natura negoziale e non contiene un accertamento formale di responsabilità, configurandosi come “res inter alios acta”, cioè un atto giuridico non opponibile a chi non vi ha preso parte (artt. 1372 e 1965 c.c.).

Il giudice contabile è dunque tenuto ad accertare autonomamente e rigorosamente i presupposti della responsabilità, in particolare la condotta illecita, la colpa grave e il nesso causale tra l’agire del medico e il danno. Solo in presenza di tali elementi può essere pronunciata una condanna per danno erariale.

legittimità costituzionale

Il CNF può sollevare questioni di legittimità costituzionale Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono che il Consiglio Nazionale Forense può sollevare questioni di legittimità costituzionale

Questioni di legittimità costituzionale

Con la sentenza n. 13376/2025, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno affrontato un rilevante quesito interpretativo di carattere istituzionale e processuale, stabilendo che il Consiglio nazionale forense (CNF) è legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale, in quanto rientra tra i giudici speciali previsti dall’art. 134 della Costituzione e dall’ordinamento giudiziario.

Il contesto del giudizio

La pronuncia trae origine da un ricorso per cassazione proposto da un avvocato avverso una decisione del CNF in sede disciplinare. La questione preliminare che si è posta alla Corte ha riguardato la legittimazione del CNF a sollevare q.l.c. davanti alla Corte costituzionale, in un procedimento nel quale era stato messo in discussione un profilo di compatibilità costituzionale di norme che incidono sull’ordinamento forense.

Le motivazioni delle Sezioni Unite

La Corte ha ricostruito il ruolo e la natura del CNF, osservando che, sebbene questo sia un organo amministrativo dotato di autonomia ordinamentale, esercita anche funzioni giurisdizionali in materia disciplinare nei confronti degli avvocati, secondo quanto previsto dalla legge n. 247/2012 e dal Codice deontologico forense.

Richiamando i principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, le Sezioni Unite hanno ribadito che per poter sollevare una questione di legittimità costituzionale è necessario che l’organo:

  • eserciti una funzione giurisdizionale, ossia sia chiamato a risolvere una controversia in contraddittorio tra le parti;

  • sia terzo e imparziale;

  • sia istituito per legge;

  • decida con effetti vincolanti, anche se in ambito settoriale o specialistico.

Il Consiglio nazionale forense, nell’ambito dei procedimenti disciplinari, soddisfa tutti questi requisiti: è istituito per legge, esercita una funzione giurisdizionale, le sue decisioni sono vincolanti, e adotta provvedimenti in contraddittorio con le parti, con piena terzietà rispetto al procedimento.

Allegati

assegno di incollocabilità

Assegno di incollocabilità Guida all'assegno di incollocabilità erogato dall'Inail il cui importo è stato rivalutato dal ministero del Lavoro dal 1° luglio 2025

Cos’è l’assegno di incollocabilità

L’assegno di incollocabilità è una prestazione economica erogata dall’Inail, agli invalidi per infortunio o malattia professionale, che si trovano nell’impossibilità di essere collocati in qualsiasi settore lavorativo, riconosciuta dagli Organismi competenti.

Requisiti richiesti

Per ottenere l’assegno l’invalido deve avere:

  • età non superiore ai 65 anni;
  • grado di inabilità non inferiore al 34%, riconosciuto dall’Inail secondo le tabelle allegate al Testo Unico (D.p.r. 1124/1965) per infortuni sul lavoro verificatesi o malattie professionali denunciate fino al 31 dicembre 2006;
  • grado di menomazione dell’integrità psicofisica/danno biologico superiore al 20%, riconosciuto secondo le tabelle di cui al d.m. 12 luglio 2000 per gli infortuni verificatisi e per le malattie professionali denunciate a decorrere dal 1° gennaio 2007.

Come fare domanda

Per avere diritto all’assegno, il lavoratore deve fare domanda alla sede Inail d’appartenenza.

La domanda deve comprendere, oltre ai dati anagrafici, la descrizione dell’invalidità (lavorativa ed extralavorativa, se esistente) e la fotocopia del documento di identità.

In caso di invalidità extralavorativa, dovrà essere presentata la relativa certificazione.

Il titolare della rendita inoltra la richiesta alla Sede competente in base al suo domicilio o tramite:

  • sportello della Sede competente;
  • posta ordinaria;
  • Pec (posta elettronica certificata).

Il lavoratore può farsi assistere anche da un patronato.

Erogazione dell’assegno

L’importo dell’assegno (esente da Irpef e soggetto a rivalutazione annuale) viene pagato mensilmente unitamente alla rendita, a partire dal mese successivo alla presentazione della richiesta all’INAIL, tramite accredito su conto corrente o libretto bancario o postale, ovvero su carta prepagata dotata di codice Iban, o, ancora tramite istituti di credito convenzionati con l’INPS e per importi non superiori a 1.000 euro, con pagamenti i contanti presso gli sportelli.

Importo assegno incollocabilità

A partire dal 1° luglio 2025, l’importo mensile dell’assegno di incollocabilità, prima pari a 305,78 euro è stato rivalutato nella misura di 308,23 euro.

E’ stato il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, con il decreto ministeriale n. 52/2025, a comunicare il nuovo importo erogato da luglio, rivalutato sulla base della variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, intervenuta tra il 2023 e il 2024, registrata dall’ISTAT e pari allo 0,8%.

Tutte le indicazioni sono contenute nella circolare  INAIL n. 30/2025 e nel decreto del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 52/2025, allegato alla circolare.

 

Vai alle altre notizie in materia di lavoro

caso fortuito e forza maggiore

Caso fortuito e forza maggiore Caso fortuito e forza maggiore: definizione, differenze e implicazioni giuridiche

Caso fortuito e forza maggiore

Nel linguaggio giuridico, i termini caso fortuito e forza maggiore sono spesso utilizzati in maniera intercambiabile, ma presentano distinzione concettuali e applicative rilevanti, soprattutto in ambito contrattuale e risarcitorio. Entrambi infatti pur rappresentando cause esimenti della responsabilità civile, si fondano su presupposti differenti.

Cosa si intende per caso fortuito

Il caso fortuito è un evento imprevedibile e inevitabile che si verifica per fattori interni o esterni al soggetto agente, e che interrompe il nesso causale tra un comportamento e il danno che ne deriva. Può consistere in:

  • un errore umano involontario ma non imputabile a negligenza;
  • un comportamento di terzi non controllabile;
  • una condotta anomala e imprevedibile della vittima;
  • eventi naturali improvvisi non preventivabili.

In generale, il caso fortuito si manifesta come un fattore causale estraneo alla volontà del soggetto, che non poteva essere né previsto né evitato con la normale diligenza.

Cosa si intende per forza maggiore

La forza maggiore, invece, è un evento straordinario, esterno e irresistibile, derivante da cause naturali o atti dell’autorità, che impedisce oggettivamente l’adempimento di un obbligo giuridico. Esempi tipici di forza maggiore includono:

  • le catastrofi naturali (terremoti, alluvioni, uragani);
  • i conflitti armati, sommosse, atti terroristici;
  • i provvedimenti autoritativi, come lockdown o chiusure forzate;
  • le epidemie e le pandemie (es. Covid-19).

La caratteristica essenziale della forza maggiore è che l’evento è esterno al soggetto e di tale entità da rendere impossibile l’adempimento, anche con la massima diligenza.

Differenze tra caso fortuito e forza maggiore

Riepilogando quindi, a parte la comune funzione di causa di esclusione della responsabilità, le due figure presentano differenze tecniche e giurisprudenziali:

Caso fortuito

Forza maggiore

Evento anche interno (es. errore umano, fatto del terzo)

Evento esclusivamente esterno

Può derivare da comportamenti non imputabili, ma non necessariamente straordinari

Deve essere un evento eccezionale e irresistibile

Rileva anche in ambito extracontrattuale (es. responsabilità da cose in custodia)

Rileva soprattutto in ambito contrattuale (es. inadempimento)

Focus sull’imprevedibilità e sull’interruzione del nesso causale

Focus sull’impossibilità oggettiva della prestazione

Dal punto di vista pratico, la giurisprudenza tende a valutarli congiuntamente come eventi che rendono l’inadempimento non imputabile, purché provati con rigore.

Rilevanza giuridica di caso fortuito e forza maggiore

Le due figure giuridiche assumono rilievo:

  • Nella responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., quale causa di esclusione dell’inadempimento imputabile;
  • Nella responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., e in ambiti specifici come la responsabilità per cose in custodia (art. 2051 c.c.);
  • Nel diritto del lavoro e negli appalti, per giustificare ritardi o sospensioni;
  • Nelle clausole contrattuali (force majeure clause), frequentemente inserite per disciplinare gli effetti di eventi eccezionali.

Prova del caso fortuito e della forza maggiore

La prova di queste esimenti è a carico del soggetto che le invoca , il quale deve dimostrare:

  • l’effettiva sussistenza dell’evento imprevedibile e inevitabile;
  • l’impossibilità oggettiva o l’interruzione del nesso causale;
  • l’adozione di tutte le misure idonee a evitare o limitare le conseguenze.

Nel caso della forza maggiore, è particolarmente rilevante la documentazione ufficiale (ordinanze, decreti, bollettini meteo, ecc.) che attesti l’evento straordinario.

Clausole contrattuali e pandemia

La recente esperienza della pandemia da Covid-19 ha posto al centro dell’attenzione il concetto di forza maggiore contrattuale, spesso invocata per giustificare la mancata esecuzione di obblighi pattuiti. Tuttavia, in assenza di una clausola espressa, l’applicazione delle esimenti si basa su una rigorosa valutazione casistica, e non è automatica.

Leggi anche: Caso fortuito e condotta del terzo o del danneggiato

divieto di costruire

Legittimo il divieto di costruire a 150 m dalla battigia La Corte costituzionale conferma la legittimità del divieto di costruire entro 150 metri dalla battigia anche per i privati, rigettando le questioni di incostituzionalità sollevate

Divieto di costruire a 150 metri dalla battigia

Divieto di costruire: con la sentenza n. 72 del 2025, la Corte costituzionale ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (CGARS) in merito all’art. 2, comma 3, della legge regionale siciliana n. 15/1991. Tale norma conferma che il divieto di edificazione entro 150 metri dalla battigia – introdotto dalla l.r. n. 78/1976 – si applica immediatamente anche ai soggetti privati, senza necessità di recepimento nei piani urbanistici comunali.

Edilizia e vincoli costieri

Al centro della pronuncia vi erano ricorsi relativi al diniego di condoni edilizi per opere abusive realizzate entro la fascia di rispetto costiero tra il 31 dicembre 1976 e il 1° ottobre 1983, periodo precedente alla scadenza prevista per accedere al condono edilizio introdotto dalla l.r. n. 37/1985.

La Consulta ha ritenuto che la legge del 1991 operi come interpretazione autentica della norma del 1976, precisando un significato già implicito, ovvero che il vincolo costiero era operativo sin dall’origine anche nei confronti dei privati, non solo come parametro urbanistico.

Nessun legittimo affidamento sul condono edilizio

Rispondendo ai rilievi del CGARS, la Corte ha inoltre escluso che i proprietari di immobili abusivi potessero vantare un affidamento legittimo sulla possibilità di sanatoria, in quanto le norme regionali succedutesi tra il 1976 e il 1985 non supportavano alcuna certezza normativa in tal senso. La normativa sul condono non legittimava infatti aspettative contrarie al divieto costiero già vigente.

EDO

EDO: Educazione Digitale per trovare lavoro Al via EDO, il progetto del ministero del Lavoro per rafforzare le competenze digitali e favorire l'occupazione

EDO, il progetto del Ministero del Lavoro

Il Ministero del Lavoro ha ufficialmente lanciato il progetto EDO – Educazione Digitale per l’Occupazione, progetto che punta a formare digitalmente un milione di persone entro la fine dell’anno. L’obiettivo è quello di potenziare le competenze digitali di base e sostenere il reinserimento nel mercato del lavoro.

Formazione gratuita e certificata per il lavoro del futuro

EDO si inserisce nell’ambito del Programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori), offrendo un percorso formativo completamente gratuito, accessibile attraverso una piattaforma e-learning intuitiva e inclusiva. Il corso è composto da 56 moduli interattivi, suddivisi in 4 macroaree tematiche che coprono le principali competenze digitali di base richieste nel mondo del lavoro.

I contenuti didattici sono progettati per essere fruibili da tutti, compresi coloro che si trovano in condizione di disoccupazione, inoccupazione o transizione professionale, con particolare attenzione all’accessibilità e all’inclusione digitale.

Obiettivi strategici del progetto EDO

Il progetto EDO mira a rispondere a tre sfide fondamentali per il mercato del lavoro:

  1. Ridurre il divario digitale, ancora marcato in molte fasce della popolazione;

  2. Aumentare l’occupabilità dei cittadini, fornendo strumenti concreti per affrontare le nuove esigenze delle aziende;

  3. Rendere più efficaci le politiche attive del lavoro, attraverso un’offerta formativa moderna, misurabile e integrata con il sistema pubblico.

Attestato ufficiale per arricchire il curriculum

Al termine delle 16 ore di formazione previste, i partecipanti saranno sottoposti a un test finale. Chi supererà la prova riceverà dalla propria Regione di appartenenza un attestato ufficiale, valido per il curriculum e utile nell’ambito di percorsi di inserimento o reinserimento lavorativo.

pensionamento d'ufficio

Pensionamento d’ufficio Pensionamento d'ufficio: guida breve all'istituto riservato ai dipendenti pubblici

Pensionamento d’ufficio: cos’è

Il pensionamento d’ufficio rappresenta una particolare modalità con cui l’amministrazione pubblica colloca un dipendente in quiescenza. Si tratta, in sostanza, di un collocamento a riposo che si verifica al raggiungimento di determinati requisiti anagrafici e contributivi stabiliti dalla legge.Vediamo nel dettaglio come funziona questo istituto, la normativa di riferimento e le implicazioni pratiche per i lavoratori pubblici.

Come funziona il pensionamento d’ufficio

Con il termine pensionamento d’ufficio si intende il collocamento a riposo del dipendente pubblico da parte della Pubblica Amministrazione. Il provvedimento è adottato dall’amministrazione datrice di lavoro, una volta che il dipendente ha maturato determinati requisiti anagrafici e contributivi, previsti dalla normativa vigente.

Riferimenti normativi principali

Le disposizioni fondamentali che regolano questo istituto pensionistico per i dipendenti pubblici sono contenute in:

  • Decreto legge n. 101/2013, convertito in legge n. 125/2013, che contiene le “Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni;
  • Decreto legge n. 90/2014 che contiene Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari;
  • Circolari INPS e direttive della Funzione Pubblica, che forniscono istruzioni operative.

Quando scatta il pensionamento d’ufficio

Il collocamento a riposo d’ufficio può avvenire in due ipotesi:

1. Al compimento dell’età per la pensione di vecchiaia

Attualmente, secondo quanto stabilito dalla legge, il pensionamento d’ufficio può avvenire:

  • Al raggiungimento di 67 anni di età e almeno 20 anni di contributi (requisiti per la pensione di vecchiaia), in base alla normativa vigente (aggiornata al 2025, con eventuali adeguamenti alla speranza di vita ISTAT).

2. Al compimento dei limiti ordinamentali di età del comparto

In alcuni comparti pubblici, come ad esempio la scuola, le forze armate o la magistratura, sono previsti limiti ordinamentali di età specifici, che possono essere anche inferiori ai 67 anni. In questi casi, il collocamento a riposo scatta automaticamente al raggiungimento del limite previsto dal proprio ordinamento di categoria.

Pensione d’ufficio: serve la domanda del dipendente?

No, il dipendente pubblico non deve presentare alcuna domanda per il pensionamento d’ufficio.

È l’amministrazione che, verificati i requisiti anagrafici e contributivi, emette un provvedimento formale di collocamento a riposo, notificandolo al lavoratore. Tuttavia, è consigliabile che il dipendente verifichi la propria posizione contributiva attraverso il portale INPS o con l’assistenza di un patronato, per evitare eventuali errori o ritardi nell’erogazione del trattamento pensionistico.

Il dipendente può opporsi al pensionamento d’ufficio?

In linea generale, non è previsto un diritto soggettivo alla prosecuzione del servizio oltre i limiti di legge, salvo eccezioni specifiche o deroghe normative. Tuttavia:

  • alcuni ordinamenti prevedono la possibilità di proroga fino a 70 anni per esigenze di servizio o per consentire il raggiungimento dei requisiti pensionistici;
  • il lavoratore può presentare istanza motivata di permanenza in servizio, ma spetta all’amministrazione decidere se accoglierla o meno, sulla base di valutazioni organizzative.

Differenza tra pensionamento d’ufficio e su domanda

Caratteristica

Pensionamento d’ufficio

Pensionamento su domanda

Iniziativa

Della Pubblica Amministrazione

Del dipendente

Requisiti

Età e contribuzione secondo legge

Requisiti previsti (es. anticipata, opzione donna)

Istanza del lavoratore

Non necessaria

Obbligatoria

Possibilità di rifiuto

No (salvo deroghe specifiche)

Il dipendente decide liberamente

Cosa deve fare il lavoratore in vista del pensionamento d’ufficio

Sebbene il pensionamento avvenga senza richiesta, il lavoratore deve:

  • monitorare la propria posizione INPS, per evitare discrepanze nei contributi;
  • verificare la comunicazione dell’amministrazione, che deve avvenire con congruo anticipo;
  • fornire eventuale documentazione integrativa, se richiesta dall’ente per la liquidazione del trattamento.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati all’argomento pensioni 

procedimento disciplinare

Avvocati: ok cancellazione durante il procedimento disciplinare La Consulta dichiara incostituzionale il divieto di cancellazione dall'albo degli avvocati durante il procedimento disciplinare

Cancellazione avvocati procedimento disciplinare

Con la sentenza n. 70 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nella legge professionale forense che vieta all’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare di richiedere la cancellazione dall’albo professionale.

Libertà professionale e autodeterminazione

La questione è sorta nell’ambito di un giudizio dinanzi alle Sezioni unite della Cassazione, relativo al rigetto da parte del Consiglio dell’Ordine dell’istanza di cancellazione presentata da un avvocato affetto da gravi patologie, per via della pendenza di più procedimenti disciplinari a suo carico.

La Corte ha chiarito che il divieto di cancellazione, pur finalizzato a impedire che la rinuncia all’iscrizione possa neutralizzare l’efficacia dell’azione disciplinare, comprime in modo eccessivo diritti costituzionali fondamentali:

  • la libertà di autodeterminazione (art. 2 Cost.),

  • il diritto al lavoro e alla sua cessazione o trasformazione (art. 4 Cost.),

  • e il principio di proporzionalità (art. 3 Cost.).

In particolare, la norma ostacola la possibilità di accedere a prestazioni previdenziali o assistenziali che richiedono la cancellazione, e limita la libertà di avviare una diversa attività lavorativa non compatibile con la permanenza nell’albo.

Nessuna giustificazione per la compressione dei diritti

La Consulta ha ritenuto che, pur essendo legittimo l’obiettivo di garantire l’azione disciplinare, questo può essere perseguito attraverso strumenti meno invasivi. L’attuale disposizione non è la misura meno restrittiva dei diritti fondamentali e, pertanto, viola il principio di ragionevolezza e proporzionalità.

Effetti della pronuncia e ruolo del legislatore

La sentenza chiarisce che, in assenza di una disciplina sostitutiva, la cancellazione volontaria in pendenza di procedimento determina l’estinzione dello stesso. Tuttavia, l’azione disciplinare potrà essere riattivata in caso di richiesta di reiscrizione, purché non prescritta.

La Corte invita infine il legislatore a intervenire con una nuova norma che, pur salvaguardando l’efficacia dell’azione disciplinare, rispetti i diritti fondamentali dell’avvocato in linea con i parametri costituzionali.

pma e madre intenzionale

PMA e madre intenzionale: ok della Consulta La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il divieto per la madre intenzionale di riconoscere il figlio nato in Italia da PMA effettuata all’estero, tutelando l’identità e i diritti del minore

PMA e madre intenzionale

PMA e madre intenzionale: con la sentenza n. 68 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 40/2004, nella parte in cui non consente alla madre intenzionale – ossia alla donna che ha prestato preventivo consenso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) effettuata all’estero insieme alla madre biologica – di essere riconosciuta come genitore del minore nato in Italia.

Tutela interesse del minore e responsabilità genitoriale

Secondo la Corte, il mancato riconoscimento legale della genitorialità della madre intenzionale, nel caso di PMA praticata all’estero nel rispetto delle normative locali, viola diversi principi costituzionali, in particolare:

  • Art. 2 Cost., per la lesione del diritto all’identità personale del minore e alla certezza del proprio stato giuridico sin dalla nascita;

  • Art. 3 Cost., per l’irragionevolezza della discriminazione rispetto ad altri nati da PMA e l’assenza di un controinteresse costituzionalmente rilevante;

  • Art. 30 Cost., per la lesione dei diritti del figlio ad essere riconosciuto e tutelato nei confronti di entrambi i genitori che hanno condiviso il progetto genitoriale.

La Consulta ha chiarito che la questione non attiene alle condizioni di accesso alla PMA in Italia, ma alla conseguenza giuridica derivante dal consenso consapevole prestato dalla coppia al ricorso a tecniche riproduttive fuori dal territorio nazionale.

L’interesse del minore come criterio guida

La Corte ha fondato la propria pronuncia su due capisaldi:

  1. L’impegno genitoriale condiviso che deriva dalla scelta comune di ricorrere alla PMA;

  2. La centralità dell’interesse del minore a veder riconosciuti i propri diritti nei confronti di entrambi i genitori, inclusa la madre intenzionale, a partire dalla nascita.

La negazione di tale riconoscimento, ha aggiunto la Corte, compromette il pieno esercizio del diritto del minore a essere educato, istruito e assistito moralmente da entrambi i genitori e a mantenere rapporti significativi anche con gli altri componenti delle rispettive famiglie d’origine.

PMA

PMA vietata alle donne single PMA e donne single: la Corte costituzionale conferma la legittimità della limitazione prevista dalla legge 40/2004

PMA e donne single

Con la sentenza n. 69 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’art. 5 della legge n. 40/2004, nella parte in cui esclude l’accesso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) da parte della donna singola. Secondo la Consulta, tale previsione legislativa, pur comportando una restrizione al principio di autodeterminazione procreativa, non è manifestamente irragionevole né sproporzionata.

Bilanciamento tra autodeterminazione e tutela

La Corte ha osservato che la disciplina dell’accesso alla PMA implica delicate valutazioni etiche e rilevanti conseguenze sociali, che rientrano nella sfera della discrezionalità legislativa. Tale discrezionalità incontra come unico limite costituzionale il principio di non manifesta irragionevolezza, valutato in rapporto al bilanciamento degli interessi in gioco.

Nel caso specifico, il divieto di accesso alla PMA per le donne non coniugate o non conviventi con un partner maschile si fonda, secondo la Corte, su un principio di precauzione volto a tutelare i diritti e gli interessi del nascituro. Il legislatore ha ritenuto di non legittimare un progetto genitoriale che escluda, sin dall’origine, la presenza paterna, configurando questa scelta come una forma di protezione dell’equilibrio psicofisico del futuro minore.

Apertura a un possibile intervento normativo

Pur ritenendo non fondate le censure di incostituzionalità, la Consulta ha sottolineato che non sussistono preclusioni costituzionali a un’eventuale riforma legislativa che estenda l’accesso alla PMA anche alla famiglia monoparentale. Un’eventuale revisione in tal senso spetterebbe però esclusivamente al Parlamento, nell’esercizio delle proprie prerogative e responsabilità.