giurista risponde

Trattamento sanzionatorio rapina impropria È costituzionalmente legittimo, l’art. 628, comma 2, c.p. nella parte in cui equipara il trattamento sanzionatorio della rapina impropria nelle due ipotesi in cui la violenza e la minaccia vengono utilizzate al fine del possesso ed al fine dell’impunità?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione. — Corte Cost. 20 dicembre 2022, n. 260.

Nel caso di specie il soggetto agente, a seguito del tentativo di impossessarsi di alcune confezioni di generi alimentari sottraendole dai banchi di un supermercato, adoperava violenza e minaccia ai danni dell’addetto alla vigilanza allo scopo di darsi alla fuga.

Il giudice rimettente denunciava l’irragionevolezza, al metro dell’art. 3 Cost., dell’equiparazione del trattamento sanzionatorio disposta dall’art. 628, comma 2, c.p. tra le due fattispecie di rapina c.d. impropria, cioè tra l’ipotesi in cui l’autore del reato adoperi violenza o minaccia, immediatamente dopo la sottrazione della cosa, per assicurarne a sé o ad altri il possesso e quella in cui tenga la medesima condotta al solo scopo di procurare a sé o ad altri l’impunità. Nel primo caso, infatti, il soggetto agente perseguirebbe uno scopo illecito, ossi l’impossessamento del bene mobile altrui, mentre nel secondo il fine della fuga o dell’impunità sarebbe da considerarsi del tutto lecito.

L’ordinanza di rimessione trae le mosse da una precedente questione di legittimità costituzionale e dichiarata non fondata da Corte cost. 31 luglio 2020, n. 190 attinente la legittimità dell’equiparazione del trattamento sanzionatorio delle ipotesi di rapina propria ed impropria.

La Corte costituzionale, con la pronuncia in commento, richiama le osservazioni già allora enucleate, evidenziando come il tratto qualificante del delitto di rapina sia l’impiego di «una condotta violenta o minacciosa nel medesimo contesto – di tempo e di luogo – di una aggressione patrimoniale», giacché «la combinazione di tali elementi comporta non irragionevolmente un trattamento sanzionatorio diverso rispetto a quello che sarebbe applicabile in base al cumulo delle figure componenti».

Tale connotazione caratterizza, secondo la pronuncia in commento, non solo il rapporto tra rapina propria ed impropria, e quindi il comma 1 ed il comma 2 dell’art. 628 c.p., ma accomuna anche le due ipotesi interne allo stesso comma 2, giustificando tanto nel primo quanto nel secondo caso la medesima cornice edittale.

In ambo le fattispecie, infatti, l’elemento fondante la pari risposta sanzionatoria è il requisito della immediatezza tra l’aggressione al patrimonio e l’aggressione alla persona.

Tale immediatezza, del resto, distingue anche il tratto unificante delle condotte appena richiamate ed alla base del reato complesso di rapina, dall’aggravante del nesso teleologico di cui all’art. 61, comma 1, n. 2), c.p., per la quale non è richiesta una specifica relazione di contestualità tra il reato posto in essere e quello realizzato al fine dell’impunità.

La Corte costituzionale nella sua argomentazione afferma poi l’irrilevanza del richiamo, operato dal giudice rimettente, all’art. 336 c.p. che nel punire la violenza e la minaccia ad un pubblico ufficiale, al comma 2 prevede un aumento di pena nel caso in cui la condotta del comma 1 sia volta a costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto del proprio ufficio. In tal caso l’illiceità dello scopo della condotta giustifica un aumento della cornice edittale.

Tuttavia, tale raffronto non appare dirimete in quanto, mentre la rapina si configura quale reato complesso di danno, l’art. 336 c.p. si struttura come reato complesso di pericolo, non essendo necessaria per la sua integrazione il compimento dell’atto d’ufficio.

Infine, appare parimenti errato il richiamo all’«anelito di libertà» che animerebbe la rapina impropria a dolo di impunità, rendendola meno grave di quella a dolo di possesso. Bisogna, infatti, distinguere il concetto di «impunità» dalla diversa nozione di «libertà». Quest’ultima è sì incomprimibile ma solo qualora il soggetto non si renda autore di fatti illeciti. In tal caso la stessa si trasformerebbe in impunità nel momento in cui a seguito della commissione dei medesimi egli tenti di sottrarsi alla propria responsabilità. Che la libertà possa essere legittimamente lesa dinnanzi alla commissione di fatti delittuosi è, del resto, confermata dalla giurisprudenza che esclude la scriminante della legittima difesa in favore di chi, trattenuto dal personale del supermercato, usa violenza o minaccia.

Non può, dunque, il sentimento dell’impunità giustificare un minor trattamento sanzionatorio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 190/2020
giurista risponde

Bancarotta distrattiva per fatti già puniti: violazione del ne bis in idem? Integra violazione del ne bis in idem la contestazione del reato di bancarotta distrattiva per fatti già puniti, con sentenza divenuta irrevocabile, a titolo di truffa aggravata?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Nel caso di sentenza irrevocabile di condanna per il delitto di truffa aggravata non integra violazione del ne bis in idem una successiva condanna per il reato di bancarotta distrattiva essendo le due condotte strutturalmente diverse e non essendo integrato il concetto di «stesso fatto» di cui all’art. 649 c.p.p. – Cass. IV, 21 dicembre 2022 n. 48360.

Nel caso di specie ad un imprenditore veniva contestato il delitto di bancarotta a seguito della distrazione della somma di 200.000 euro ottenuta, con artifizi e raggiri, a titolo di caparra per l’alienazione di un immobile di cui la società non era proprietaria, fatto per il quale già era stato condannato per il reato di truffa aggravata.

Con l’unico motivo, il ricorrente deduceva violazione di legge e vizio di motivazione quanto al principio del ne bis in idem, che, regolamentato all’art. 649 c.p.p., vieta che si possa essere puniti più volte per lo stesso fatto.

Secondo una prima tesi il concetto di «fatto» di cui al richiamato articolo andrebbe inteso in senso giuridico, con la possibilità, dunque, di subire una seconda condanna qualora i fatti oggetto della prima venissero diversamente qualificati in un differente titolo di reato.

Tuttavia, la giurisprudenza ormai maggioritaria, attribuisce al fatto un’accezione materiale, facendo riferimento alla condotta concretamente posta in essere a prescindere dalla qualifica giuridica che alla stessa può essere data. Si afferma, infatti, che altrimenti il divieto di cui all’art. 649 c.p.p. potrebbe essere facilmente eluso attraverso una diversa qualifica giuridica dello stesso fatto.

Particolare è l’ambito applicativo del divieto in esame nel caso di concorso formale di reati, in cui, cioè, il soggetto agente integra con un’unica condotta più fattispecie illecite.

In tal caso si è posto il problema della compatibilità tra il divieto del ne bis in idem e l’istituto del concorso formale di reati il quale, punendo più volte la stessa condotta, sembra porsi ontologicamente in conflitto con il primo.

Tale problema, come affermato da Corte cost. 21 luglio 2016, n. 200, è in realtà solo apparente.

Quando si discute della possibilità di procedere ad una seconda contestazione nei confronti di colui già destinatario di una pronuncia di condanna per un reato posto in essere con la medesima condotta, il concetto di «stesso fatto», di cui all’art. 649 c.p.p., dovrà essere inteso relativamente alla triade condotta-nesso causale-evento. Ciò posto, qualora la seconda contestazione inerirà, ad esempio, un evento diverso da quello oggetto della fattispecie già accertata con giudicato, il divieto del ne bis in idem dovrà ritenersi rispettato.

In applicazione di tali principi al caso oggetto della pronuncia in commento la Cassazione ha proceduto mediante una verifica sostanziale dei rapporti di interferenza tra le due fattispecie.

Al soggetto già condannato per il reato di truffa aggravata, a seguito dell’acquisizione di una somma a titolo di caparra confirmatoria da parte del ricorrente, quale legale rappresentante della società successivamente fallita, mediante la stipula di un contratto preliminare di vendita di un immobile di cui la società non era proprietaria, veniva ora contestato il reato di bancarotta distrattiva per aver prelevato e destinato a fini extrasociali tali risorse, in violazione della garanzia patrimoniale generica.

Nella fattispecie in disamina, pertanto, diversa è la condotta: la truffa consiste nell’induzione in errore determinante l’atto dispositivo e, la bancarotta per distrazione, nella destinazione della medesima somma per fini extrasociali; diverso è il danno del reato di truffa (determinato dall’entità dell’indebita prestazione erogata a seguito di artifizi e raggiri) rispetto al pregiudizio aggiuntivo della condotta distrattiva per i creditori, oltre al nocumento dell’affidabilità dei terzi.

Siffatti principi sono stati più volte riaffermati dalla Cassazione, che ha ribadito come il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti (nella specie mediante truffe), atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima, ed altresì che i beni provenienti da reato, fino a quando non siano individuati e separati dagli altri facenti parte di un determinato patrimonio, non possono considerarsi ad esso estranei.

Nel caso in esame, dunque, essendo diversa la stessa condotta dei due reati il disposto di cui all’art. 649 c.p.p. non può ritenersi violato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., S.U., 34655/2005; Cass. pen. 27594/2019
giurista risponde

Morte congiunto sinistro stradale e danno parentale Come si liquida il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale a seguito della morte di un prossimo congiunto coinvolto in un sinistro stradale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

In caso di perdita definitiva del rapporto parentale ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto. – Cass., sez. VI, 13 dicembre 2022, n. 32697

A seguito di un sinistro stradale nel quale morì una ragazza che viaggiava in qualità di trasportata, i parenti della stessa chiedevano al Tribunale la condanna della compagnia assicurativa del veicolo al risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale. La madre e la sorella della deceduta, non ritenendo satisfattive le somme corrisposte dalla convenuta a titolo di indennizzo, deducevano che la prova dell’intensità del vincolo affettivo fosse desumibile dalla documentazione prodotta e che la morte della loro congiunta, stante la dinamica del sinistro, fosse dipesa esclusivamente dalla condotta gravemente colposa della conducente del veicolo. In termini analoghi, ma con distinti atti di citazione hanno provveduto i nonni, i due fratelli e il padre della vittima, ritenendo non satisfattivo l’indennizzo corrisposto al padre, nonché ingiustificato il mancato riconoscimento di un danno in capo ai nonni.

Integrato il contraddittorio nei confronti del proprietario del veicolo su cui si trovava come trasportata la vittima e disposta la riunione dei giudizi, il Tribunale dichiarava cessata la materia del contendere, per intervenuta transazione, in relazione al rapporto processuale tra la sorella della vittima e la compagnia assicuratrice. Venivano inoltre rigettate tutte le domande proposte dagli attori, non ritenendo sussistenti rapporti affettivi idonei a giustificare un risarcimento maggiore rispetto a quello riconosciuto in sede stragiudiziale, con compensazione delle spese di lite.

Avverso tale decisione venivano proposti distinti gravami alla Corte di appello. La compagnia assicuratrice, costituendosi, chiedeva il rigetto delle domande degli appellanti e, in caso di accoglimento, l’accertamento del concorso di colpa della vittima nella causazione del sinistro, con conseguente riduzione proporzionale del risarcimento eventualmente riconosciuto in eccedenza rispetto a quanto già accordato.

Riuniti i due procedimenti, la Corte di appello imputava la morte della vittima nella misura del 30% a sua colpa concorrente e, nella misura del 70%, a colpa della conducente del veicolo, condannando la compagnia assicuratrice, in solido con il proprietario dell’autovettura, al risarcimento del danno da perdita di legame parentale. Venivano dunque liquidati importi diversi in favore di ciascuno dei familiari superstiti. La Corte di merito ha ritenuto, inoltre, non meritevole di accoglimento la domanda proposta iure proprio dal padre della giovane deceduta, confermando sul punto la decisione di primo grado, sia pure con diversa motivazione.

Avverso la richiamata sentenza veniva proposto ricorso per cassazione per due motivi. Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2059 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, sostenendo che la Corte di appello avrebbe liquidato, in suo favore, sulla base della “non effettività del legame padre figlia”, il danno da perdita parentale al di sotto dei valori minimi di cui alle Tabelle di Milano, “senza motivare” al riguardo, così violando l’art. 1226 c.c. La Corte territoriale avrebbe, secondo il ricorrente, fondato la sua decisione esclusivamente sulla base di mere dichiarazioni, omettendo di valutare le ulteriori dichiarazioni rese dallo stesso e dagli operatori dei Servizi Sociali del Comune, da cui sarebbe emersa la volontà del padre di riavvicinarsi alla figlia e la conseguente permanenza del vincolo affettivo.

Si lamenta, inoltre, una disparità di trattamento con la madre della vittima, alla quale sarebbe stato riconosciuto un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante, sostiene il ricorrente, avesse avuto un “trascorso di vita del tutto simile al padre, caratterizzato dall’analoga carenza del rapporto di convivenza con la figlia”.

Secondo la Corte di Cassazione, tuttavia, il motivo di ricorso non merita accoglimento. La Corte territoriale ha infatti espressamente richiamato l’orientamento della Corte di Cassazione in tema di danno da perdita del rapporto parentale, secondo cui «è onere dei congiunti provare l’effettività e la consistenza della relazione parentale rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità. Il giudice può discostarsi dalla misura minima prevista dalle Tabelle di Milano purché dia conto nella motivazione della specifica situazione che giustifica la decurtazione» (Cass. 14 novembre 2019, n. 29495; Cass. 20 ottobre 2016, n. 21230; Cass. 8 aprile 2020, n. 7743).

Correttamente, dunque, la Corte di merito ha applicato tali principi e correttamente ha motivato il lamentato discostamento dai valori tabellari con riferimento alla situazione specifica.

Più precisamente secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale, nel ritenere non provata l’effettività del rapporto parentale con riguardo alla relazione padre-figlia, ha in primis valutato la travagliata storia familiare della vittima e, stante l’assenza di una stabile convivenza con entrambi i suoi genitori, ha ancorato tale valutazione a quanto complessivamente risultante agli atti. Tale disamina è stata effettuata disgiuntamente e con ampiezza di argomentazioni in relazione ai rapporti con ognuno dei genitori, risultando così evidente la diversa consistenza di tali rapporti. Non può, pertanto, essere condivisa l’argomentazione del ricorrente, il quale ha rilevato come il rapporto parentale della figlia con la madre sia stato considerato effettivo ed abbia condotto ad un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante il “trascorso di vita del tutto simile al padre”.

La Corte di appello ha concluso per la non effettività del rapporto parentale con il padre, non limitando il suo convincimento alle dichiarazioni rese innanzi al Tribunale per i Minorenni, bensì considerando anche che, per stessa ammissione del padre, il rapporto con la figlia constava in contatti telefonici e manifestava la sua fragilità nella non partecipazione del padre agli incontri organizzati dai Servizi Sociali, nonché nel fatto che non si fosse mai posto il problema del mantenimento della figlia. Peraltro, va evidenziato che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prova che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso, né gli è richiesto di dar conto nella motivazione dell’esame di tutte le allegazioni e prospettazioni delle parti e di tutte le prove acquisite al processo, essendo sufficiente che egli esponga – in maniera concisa ma logicamente adeguata – gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione e le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo svolto.

Stante la chiarezza e la logicità della motivazione in merito al discostamento tra il danno liquidato e quanto astrattamente previsto dalle Tabelle di Milano, non può considerarsi violata la disciplina della liquidazione del danno in via equitativa né risultano sussistenti gli ulteriori vizi dedotti, sicché il primo motivo di ricorso è ritenuto infondato.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano, dei parametri dalle stesse forniti e del principio di valutazione equitativa del danno previsto dall’art. 1226 c. c., dall’art. 2056 c. c. e dall’art. 2059 c. c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”. In qualità di erede del nonno della vittima, il ricorrente sostiene che la Corte di appello sarebbe incorsa in una incongrua motivazione in relazione alla mancata applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano nella quantificazione del danno da perdita parentale con riferimento al nonno paterno della vittima, in quanto ai fini di tale liquidazione, nonostante abbia riconosciuto l’intensità e la presenza del legame parentale tra i nonni paterni e la nipote, avrebbe ritenuto di procedere alla determinazione del quantum senza l’utilizzo delle Tabelle, bensì procedendo in via equitativa. L’incongruità della motivazione, argomenta il ricorrente, consterebbe nell’essersi la Corte limitata a considerare il difetto di convivenza con la nipote, l’esiguo lasso di tempo intercorso tra la morte della stessa e quella del nonno e la presenza di altri familiari a sostegno del dolore patito dal nonno paterno in tale periodo.

Anche il secondo motivo di doglianza, secondo la Suprema Corte, è incentrato su un’asserita incongruità e contraddittorietà della motivazione in merito al discostamento effettuato dai valori astrattamente predisposti dalle Tabelle di Milano e alla diversa quantificazione del danno operata in favore dei due nonni paterni, con conseguente – ad avviso del ricorrente – violazione dell’art. 1226 c.c. La Corte territoriale, in assenza di allegazioni specifiche, ha individuato il quantum del risarcimento del danno per la nonna paterna nel minimo previsto dalle tabelle milanesi; nel caso del nonno paterno, invece, ha posto in rilievo l’esiguità del tempo di sopravvivenza dello stesso rispetto alla data di morte della nipote e, stante l’assenza di convivenza della ragazza con i nonni ed il sostegno verosimilmente ricevuto dal resto della famiglia, ha rideterminato il quantum in via equitativa. Anche in questo caso, secondo la Corte di Cassazione, la motivazione risulta logica e congrua, né sussistono gli ulteriori lamentati vizi, poiché la durata della sopravvivenza al parente defunto (sette mesi) e il sostegno ricevuto verosimilmente dagli altri componenti della famiglia sono parametri che ben possono essere considerati ai fini della liquidazione del danno da perdita parentale. Anche il secondo motivo di ricorso è, quindi, infondato.

Conclusivamente, il ricorso viene rigettato, con liquidazione delle spese di lite secondo la regola della soccombenza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ. 29495/2019; Cass. civ. 21230/2016; Cass. civ. 7743/2020
giurista risponde

Denuncia vizi ex art. 1495 c.c. e termine di decadenza Da quando decorre il termine di decadenza per la denuncia dei vizi dei beni acquistati dal compratore ex art. 1495 c.c., qualora si tratti di vizi rilevabili attraverso un accertamento tecnico giudiziale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

In tema di garanzia per i vizi della cosa venduta, una volta eccepita dal venditore la tardività della denuncia rispetto alla data di consegna della merce, incombe sull’acquirente l’onere della prova di aver denunciato i vizi nel termine di decadenza previsto dall’art. 1495 c.c., pari ad otto giorni dalla scoperta del vizio occulto, e, per altro verso, che tale termine decorre dal momento in cui il compratore ne ha acquisito certezza obiettiva e completa: ma solo se la scoperta del vizio avvenga gradatamente ed in tempi diversi e successivi (ma, in difetto di accertamento sul punto e di una censura dello stesso per omesso esame di fatti decisivi, non è questo il caso), in modo da riverberarsi sulla consapevolezza della sua entità, occorre far riferimento al momento in cui detta scoperta, se del caso a seguito di un accertamento tecnico preventivo, si sia completata. – Cass. sez. VI, 22 novembre 2022, n. 34290.

La Corte di Appello ha riformato la sentenza di primo grado, la quale ha accolto la domanda di risoluzione dei contratti di compravendita, stipulati tra l’attore e la società appellante, per la dedotta mancanza, ex art. 1490 c.c., delle qualità che la venditrice aveva promesso e garantito, vale a dire “l’autenticità e l’esclusività di ogni singola opera acquistata”.

In particolare, la Corte d’Appello ha accolto l’eccezione di decadenza e di prescrizione che la società convenuta aveva sollevato, evidenziando che: 1) il compratore, a norma dell’art. 1495 c.c., ha l’onere di denunciare i vizi rinvenuti entro il termine di otto giorni dalla scoperta; 2) tale termine, se si tratta vizi occulti, decorre dalla scoperta degli stessi nella loro manifestazione esteriore mentre, se si tratta di vizi normalmente riconoscibili decorre dal momento in cui sia stato possibile acquisire, in base ad elementi obiettivi e con apprezzabile grado di approssimazione e certezza e secondo buona fede, la conoscenza degli stessi, e cioè, di regola, dalla consegna o, comunque, dal momento dell’acquisizione della certezza oggettivo del difetto; 3) l’onere della prova della tempestività della denuncia incombe sull’acquirente poiché detta denuncia costituisce una condizione necessaria dell’azione; 4) l’inosservanza dell’obbligo di denuncia preclude l’esperimento tanto dell’azione di risoluzione prevista dall’art. 1492 c.c., quanto dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1494 c.c.; 5) l’azione si prescrive in ogni caso si prescrive entro un anno dalla consegna.

Nel caso in esame la Corte ha ritenuto, innanzitutto, che non si tratta di vizi occulti, in quanto inerenti all’assenza del valore artistico dei beni acquistati, ed, in secondo luogo, che le consegne dei beni erano avvenute in occasione degli acquisti, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2005, mentre l’unica denuncia documentata risale al settembre 2011. Inoltre, nell’atto introduttivo del giudizio l’attore ha dedotto di aver “di recente” verificato, “a mezzo di esperti di arte e studiosi della materia”, che “i beni acquistati non contenevano e conservavano alcun valore artistico, trattandosi di opere normalmente rivendute presso qualsivoglia rivenditore e privi di valore sia artistico che economico”, senza aver, tuttavia, prodotto “alcuna documentazione scritta di una denuncia tempestivamente inviata entro gli otto giorni dalla consegna o dall’eventuale scoperta”, avendo, piuttosto, fornito elementi che evidenziano chiaramente come “i vizi furono lamentati con missiva in una data del tutto sganciata da qualsiasi conoscenza dei vizi denunciati”.

Né, secondo la Corte, si potrebbe ricondurre la conoscenza dei vizi alla lettura di un articolo pubblicato da un quotidiano in data 4-4-2010, il quale riportava la notizia di una class action nei confronti della venditrice per aver venduto libri non rivendibili perché ritenuti senza alcun valore da esperti e galleristi. Tale articolo, infatti, risale al 2010, mentre la prima ed unica missiva di denuncia dei vizi risale solo al mese di “settembre 2011”, quando “era ampiamente maturata la decadenza e la prescrizione dell’azione”.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello il compratore ha proposto ricorso in Cassazione per violazione e la falsa applicazione dell’art. 1497 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Secondo il ricorrente, l’acquirente non aveva alcuna cognizione tecnica della mancanza delle qualità promesse tanto che, per averne esatta e specifica cognizione, aveva promosso il giudizio per l’accertamento delle dedotte ed eventuali carenze delle qualità promesse, individuate, tra l’altro, nelle pregresse pronunce giudiziali rese ai danni della venditrice. Soltanto all’esito di queste ultime il ricorrente avrebbe quindi compreso che i beni acquistati non avevano alcun pregio artistico né alcun valore tale da legittimare il prezzo pagato. La domanda giudiziale era, dunque, l’unico rimedio che il compratore poteva proporre per ottenere, in relazione all’oggetto delle vendite, l’accertamento necessario ai fini della risoluzione dei contratti, non potendo valutare autonomamente l’esatto valore dei beni venduti.

La Suprema Corte, tuttavia, nel richiamare quanto argomentato dalla Corte d’Appello, dichiara di non condividere le censure dedotte dal ricorrente. Infatti l’acquirente, pur avendo sostenuto in giudizio di aver “di recenteverificato, “a mezzo di esperti di arte e studiosi della materia”, che i beni acquistati “non contenevano e conservavano alcun valore artistico, trattandosi di opere normalmente rivendute presso qualsivoglia rivenditore”, ed erano, quindi, privi delle qualità promesse e garantite dalla venditrice, vale a dire “l’autenticità e l’esclusività di ogni singola opera acquistata”, non aveva, poi, fornito in giudizio la prova di “una denuncia tempestivamente inviata entro gli otto giorni dalla consegna o dall’eventuale scoperta”, così conseguita, dei vizi lamentati. L’attore aveva infatti soltanto documentato, pur a fronte di consegne avvenute in occasione degli acquisti, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2005, un’unica denuncia, risalente al mese di settembre 2011, vale a dire quando “era ampiamente maturata la decadenza e la prescrizione dell’azione”.

Correttamente, dunque, la Corte d’Appello ha ritenuto che, a fronte di beni consegnati in occasione degli acquisti, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2005, l’azione si era anche prescritta. Infatti, in tema di compravendita, l’azione del compratore contro il venditore per far valere la garanzia prevista dall’art. 1495 c.c. si prescrive, in ogni caso, nel termine di un anno dalla consegna del bene compravenduto, e ciò anche se i vizi non siano stati scoperti o non siano stati tempestivamente denunciati o la denuncia non fosse neppure necessaria, sempre che la consegna abbia avuto luogo dopo la conclusione del contratto, coincidendo, altrimenti, l’inizio della prescrizione con quest’ultimo evento (Cass. 15 dicembre 2020, n. 28454; Cass. 5 maggio 2017, n. 11037; Cass. 15 dicembre 2011, n. 26967).

In conclusione, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso perché manifestamente infondato, liquidando le spese di lite secondo la regola della soccombenza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., S.U., 328/1991; Cass. civ. 5142/2003; Cass. civ. 13695/2007;
Cass. civ. 844/1997; Cass. civ. 11046/2016; Cass. civ. 28454/2020;
Cass. civ. 11037/2017; Cass. civ. 26967/2011
giurista risponde

Responsabilità per custodia e condotta colposa della vittima Il custode risponde della caduta nella buca se la condotta colposa della vittima era imprevedibile?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

Ove sia dedotta la responsabilità del custode per la caduta di un pedone in corrispondenza di una sconnessione o buca stradale, l’accertamento della responsabilità deve essere condotto ai sensi dell’art. 2051 c.c. e non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di una condotta colposa della vittima (la quale potrà invece assumere rilevanza, ai fini della riduzione o dell’esclusione del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227, commi 1 o 2, c.c.), richiedendosi, per l’integrazione del fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, così da degradare la condizione della cosa al rango di mera occasione dell’evento di danno. – Cass. III, 19 dicembre 2022, n. 37059

La vicenda riguardava la domanda di risarcimento danni avanzata contro un supercondominio e il suo gestore per la caduta in una buca adiacente allo scalino del marciapiede. La Cassazione – con la sent. 37059/2022 – ha respinto il ragionamento con cui il giudice di secondo grado aveva cancellato il ristoro dei danni deciso in primo grado nella misura di 41mila euro. La sentenza annullata con rinvio aveva accolto l’argomento difensivo secondo cui il pedone conosceva l’esistenza della buca e le condizioni di luce e di posizionamento della stessa non costituivano in sé un pericolo, ma è la condotta colpevole e scevra di prudenza della vittima che avrebbero determinato il danno interrompendo così il nesso causale di esso con la cosa (la buca). Per la Cassazione non basta dimostrare la colpa, ma anche l’imprevedibilità e l’inevitabilità del fatto dovuto alla condotta della vittima. Così come i giudici di appello, sempre secondo la Cassazione, non potevano escludere il nesso causale tra il danno e la cosa affermando che quest’ultima non conteneva in sé alcun elemento di pericolo inevitabile con l’ordinaria diligenza e prudenza. Ma ciò non basta a evitare che il custode risponda dei danni: va provato il caso fortuito.

La Cassazione precisa che i criteri con cui si giudica la responsabilità aquiliana ex art. 2043 del Codice civile non sono sovrapponibili a quelli che determinano la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. Infatti, nel caso del custode non va accertata la sua colpa nell’aver determinato l’evento dannoso in quanto è sufficiente il suo rapporto giuridico con la cosa custodita. Da cui scaturisce automaticamente la sua responsabilità per i danni arrecati dalla cosa a meno che provi che l’evento si è determinato per un fatto imprevedibile ascrivibile come caso fortuito. Prova, la sola, che spezza il nesso giuridico tra il danno e la cosa che pur materialmente sono tra loro connessi.

L’inattesa condotta da parte di una persona sensata o l’avverarsi di comportamenti mai verificatisi prima può far venir meno il nesso causale tra la cosa e il danno verificatosi. Infatti, la condotta colposa del danneggiato deve risultare imprevedibile e non prevenibile al fine di far degradare la cosa da cui si origina l’infortunio a mera occasione del verificarsi.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 31 ottobre 2017, n. 25837; Cass. 24 giugno 2020, n. 26524;
Cass. 16 febbraio 2021, n. 4035
giurista risponde

Immobile indivisibile e istanza del condividente Nell’applicazione dell’art. 720 c.c., l’inclusione dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente presuppone l’espressa e specifica istanza del condividente interessato?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

L’espressa e specifica istanza del condividente interessato assurge ad imprescindibile presupposto dell’attribuzione, dovendosi escludere che i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dall’art. 720 c.c. si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non abbia fatto esplicita richiesta al riguardo (benché titolare della maggior quota).

Accertata la non comoda divisibilità di uno più immobili ereditari (da intendersi in relazione alla struttura del bene e al numero dei condividenti, e rilevante anche per uno solo di essi), l’inclusione di essi nelle porzioni di più coeredi non può aver luogo ove questi non ne abbiano richiesta congiuntamente l’attribuzione, essendo di base vietato il c.d. raggruppamento parziale delle porzioni – cioè la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisce comunione fra gruppi di condividenti – allorché non vi sia il consenso di costoro. – Cass. VI, 15 dicembre 2022 n. 36736.

La vicenda scaturisce dalla decisione assunta dal giudice di prime cure – e confermata in appello –, di sciogliere la comunione ereditaria sub iudice assegnando all’attore (il coniuge superstite) determinati beni, e altri beni congiuntamente ai convenuti (i fratelli del de cuius), gravandoli altresì del pagamento di un conguaglio. Il Tribunale assumeva tale decisione tenuto conto della non comoda divisibilità dei beni – ostativa ad una omogenea distribuzione di essi tra i coeredi –, che avrebbe imposto l’applicazione dell’art. 720 c.c., con l’attribuzione congiunta a più condividenti. Nello specifico il Tribunale, tenuto conto della richiesta di attribuzione di determinati beni da parte dell’attore, le dava seguito, assegnando i restanti beni congiuntamente ai convenuti.

I ricorrenti in Cassazione lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 720 c.c., per l’essersi disposta l’assegnazione congiuntamente ad essi, in assenza di una richiesta in tal senso e data la non comoda divisibilità dei beni.

Segnatamente, l’art. 720 c.c. descrive un meccanismo per cui, a fronte della presenza nell’eredità di beni immobili non comodamente divisibili (o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o igiene) e della impossibilità di procedere alla divisione dell’intera sostanza senza il loro frazionamento, detti immobili devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto la quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione. Se manca la disponibilità in tal senso, in estremo subordine si dà luogo a vendita all’incanto. Nel caso in esame, i ricorrenti (convenuti in primo grado), non avevano avanzato alcuna richiesta di attribuzione a fronte della valutazione di non comoda divisibilità, ma solo la disponibilità ad aderire alle proposte conciliative dell’attore, e purché non fossero gravati del pagamento di conguagli. Non avendo avuto seguito le menzionate proposte, il giudice – ritengono i ricorrenti – avrebbe dovuto attivare il meccanismo residuale della vendita dei beni non oggetto di richiesta, piuttosto che procedere come avvenuto. La Suprema Corte condivide tali doglianze, osservando preliminarmente come, nell’ambito della comunione ereditaria, il diritto di ciascun erede alla quota in natura (art. 718 c.c.) non sia quello a una porzione di ciascun bene, bensì a una porzione formata in modo da riprodurre quanto più è possibile la composizione qualitativa della massa (art. 727, comma 1, c.c.): ciò significa che la divisione deve avvenire non dividendo, ma distribuendo in porzioni i singoli beni, secondo un criterio di proporzione quantitativa e qualitativa. Ciò posto in via di principio, è comune che tale regola non possa applicarsi a pieno in relazione agli immobili, essendo gli stessi o numericamente insufficienti o qualitativamente troppo eterogenei: in questi casi, la divisione va effettuata in primis frazionandoli o, se non comodamente divisibili, tramite il meccanismo ex art. 720 c.c. In tale terreno, come evidenziato, può darsi una preferenza – a discrezione del giudice – per il titolare della maggior quota o di altro coerede, ma ciò solo se vi sono richieste di attribuzione: in caso contrario, deve darsi luogo alla vendita, giacché i poteri discrezionali del giudice non si estendono all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente (anche titolare della maggior quota). Similmente, deve escludersi che possa includersi l’immobile ereditario non comodamente divisibile nella porzione di più coeredi in assenza della loro richiesta congiunta di attribuzione, essendo in linea di principio vietato il menzionato raggruppamento parziale delle porzioni, se manca il consenso dei soggetti interessati.

Rispetto al caso in esame, quindi, la Suprema Corte procede a cassare con rinvio la decisione della Corte d’appello: a fronte della richiesta del solo attore originario di attribuzione di alcuni beni indivisibili, infatti, il giudice di merito non avrebbe potuto attribuire i restanti beni d’ufficio agli altri condividenti né individualmente né congiuntamente, ma avrebbe dovuto disporre la loro vendita.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 29 ottobre 1992, n. 11769; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20250
giurista risponde

Illecito civile violazioni doveri verso i figli La violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole integra un illecito civile?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

La violazione dei diritti di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole può integrare gli estremi dell’illecito civile, là dove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti: viene in rilievo un danno non patrimoniale lato sensu psicologico/esistenziale, liquidabile anche in via equitativa. – Cass. I, 28 novembre 2022, n. 34950.

Nel caso di specie, il ricorrente, nato a seguito di un rapporto sessuale non protetto e riconosciuto dal padre svariati solo decenni dopo, aveva promosso azione risarcitoria per il danno sofferto dall’assenza di una relazione parentale con il genitore. La Corte d’appello aveva respinto la domanda risarcitoria, non essendosi provato che questi avrebbe beneficiato di migliori condizioni di vita in virtù di un più celere riconoscimento.

Nela decisione in esame la Suprema Corte ha riformato la sentenza della Corte d’appello, in quanto la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, e ben può integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti. L’illecito intrafamiliare, infatti, può produrre anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico/esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa. Questo illecito può quindi dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità qualora l’inadempimento del genitore abbia causato un complessivo disagio materiale e morale per il figlio e da tale disagio siano derivate una serie di ulteriori conseguenze pregiudizievoli (di carattere patrimoniale, oltre che non patrimoniale), tra cui l’impossibilità di affermarsi in maniera socialmente più soddisfacente e di svolgere degli studi, che possono aver precluso le possibilità di realizzazione professionale, con rilievo anche economico. In tale situazione, ove sussista la prova del danno morale e mancando la ragionevole possibilità di dimostrare la sua precisa entità, è certamente consentita la liquidazione di esso in via equitativa.

Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di un figlio naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli artt. 2 e 30 Cost. (e nelle norme di matrice internazionale recepite dal nostro ordinamento) un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 c.c., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.

Si osserva altresì, ai fini del decorso del termine di prescrizione, che l’illecito endofamiliare commesso in violazione dei doveri genitoriali verso la prole può essere sia istantaneo (ove ricorra una singola condotta inadempiente dell’agente, che si esaurisce prima o nel momento stesso della produzione del danno) che permanente (se detta condotta perdura oltre tale momento e continua a cagionare il danno per tutto il corso della sua reiterazione, poiché il genitore si estranea completamente per un periodo significativo dalla vita dei figli).

La Corte di appello, limitandosi a raffrontare le possibili condizioni di vita e deducendo la mancanza di prova in ordine al preteso pregiudizio subito, ha del tutto omesso di considerare che il figlio, dalla nascita a tutta l’età matura, è stato privato della figura genitoriale paterna sia nella vita strettamente familiare che nel contesto sociale di appartenenza (costituito – circostanza non irrilevante – da un piccolo centro urbano). Invece, essa avrebbe dovuto accertare se e quali siano stati gli effetti causati da detta assenza sullo sviluppo fisiopsichico del ricorrente, mentre si è soffermata solo su profili di tipo sostanzialmente economico. Di conseguenza, la Suprema Corte ha cassato la decisione con rinvio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. 16 febbraio 2015, n. 3079;
Cass. 27 maggio 2019, n. 14382; Cass. 10 giugno 2020, n. 11097;
Cass. 6 ottobre 2021, n. 27139; Cass. 16 dicembre 2021, n. 40335;
Cass. 12 maggio 2022, n. 15148
giurista risponde

Danno parentale e tabelle milanesi Ai fini della liquidazione del danno parentale, il giudice può applicare le nuove tabelle milanesi per la liquidazione del danno non patrimoniale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

Sono legittime e vanno, dunque, applicate dal Giudice di merito le ultime tabelle milanesi sul danno parentale, rielaborate e rese pubbliche nel mese di giugno del corrente anno, in quanto l’assegnazione dei punti è stata ripartita in funzione dei cinque parametri corrispondenti all’età della vittima primaria e della vittima secondaria, della convivenza tra le due, della sopravvivenza di altri congiunti e della qualità intensità della specifica relazione affettiva perduta. – Cass. III, 16 dicembre 2022, n. 37009.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’adozione di parametri per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale pronunciandosi su un ricorso proposto dagli eredi di una donna defunta a seguito di trasfusioni con sangue infetto.

Al riguardo, occorre riferire che in un recente passato la giurisprudenza si è interrogata sulla esaustività delle tabelle milanesi a risarcire il danno da lesione del rapporto parentale.

Secondo un primo indirizzo, prevalente, nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 21 aprile 2021, n. 10579, 29 settembre 2021, n. 26300, Cass. 23 giugno 2022, n. 20292), infatti, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi), con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella.

Secondo questa impostazione, infatti, rispetto a questa particolare tipologia di danno non patrimoniale il sistema tabellare a punti è l’unico capace di raggiungere lo scopo per la quale è stato concepito: l’uniformità e la prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di eguaglianza. Ne deriva – per la Cassazione – la sostanziale inapplicabilità della tabella di Milano che non valuta il danno parentale con la tecnica del punto variabile (utilizzata per il danno biologico) ma si limita a individuare alcune forbici di valore per categorie di congiunti, che non consente di pervenire a quella uniformità delle decisioni predicata da Cass. 12408/2011.

Alle sollecitazioni provenienti dalla Suprema Corte, ha risposto l’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano che il 29 giugno 2022 ha adeguato le tabelle milanesi alle modalità di liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale secondo i criteri del sistema a punti.

La Suprema Corte nella pronuncia in esame, infine, ha riconosciuto queste nuove tabelle coerenti con i principi di equità, uniformità e prevedibilità enunciati nel proprio precedente del 2021, n. 10579.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass. III, 21 aprile 2021, n. 10579
giurista risponde

Piano paesaggistico e pianificazione territoriale Il piano paesaggistico prevale rispetto agli altri strumenti di pianificazione territoriale e urbanistici?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

La Corte costituzionale ribadisce il principio della prevalenza del piano paesaggistico sui piani urbanistici e, in sua applicazione, accoglie, in parte qua, una questione di legittimità costituzionale – sollevata dal Consiglio di Stato – avente ad oggetto una norma di legge regionale (nella specie, si trattava di una disposizione inserita nella legge sul c.d. piano casa della Regione Puglia) che abilitava i Comuni ad individuare ambiti territoriali o immobili, pur se ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico istituito dal Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), sui quali consentire la realizzazione di interventi edilizi straordinari. – Corte cost. 27 luglio 2022, n. 192

Con sentenza non definitiva del 14 maggio 2021 (R.G. 147/2021), il Consiglio di Stato, Sezione IV, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, lett. c-bis), della legge della Regione Puglia 30 luglio 2009, n. 14 (“Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale”), nel testo in vigore anteriormente all’abrogazione disposta dall’art. 1 della legge della Regione Puglia 24 marzo 2021, n. 3, recante: “Modifica all’articolo 6 della legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) e disposizioni in materia di prezzario regionale delle opere pubbliche”.

Secondo il giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe l’art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, in relazione all’art. 145, comma 3, del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137), poiché consentirebbe di porre in essere gli interventi straordinari previsti dalla stessa legge reg. Puglia 14/ 2009 (d’ora in avanti, anche: Piano casa per la Puglia) in deroga alla disciplina dettata dal Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR) della Puglia, così violando il principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica sugli strumenti urbanistici.

Prodromica all’esame della questione è la ricostruzione del panorama normativo in cui essa si colloca.

La legge reg. Puglia 14/2009 ha dato attuazione al cd. Piano casa, in relazione a quanto stabilito nell’intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata il 1° aprile 2009, sull’atto concernente misure per il rilancio dell’economia attraverso l’attività edilizia, in applicazione dell’art. 11 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (“Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”), convertito, con modificazioni, nella L. 6 agosto 2008, n. 133.

Per ciò che interessa in questa sede, con la legge regionale in parola si prevede la possibilità di operare interventi straordinari di ampliamento (art. 3) e di demolizione e ricostruzione (art. 4); interventi che vengono, peraltro, sottoposti ad una serie di limiti, fra i quali quello sancito dall’art. 6, comma 1, lett. f), della stessa legge, che non li ammette «su immobili ubicati in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi degli articoli 136 e 142» cod. beni culturali.

Tale previsione configurava, in origine, un limite assoluto, escludendo in radice l’applicabilità del Piano casa per la Puglia a tale tipologia di immobili. Per mitigare, tuttavia, il rigore della preclusione, con l’art. 4 della legge della Regione Puglia 5 dicembre 2016, n. 37, recante “Modifiche alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) e alla legge regionale 15 novembre 2007, n. 33 (Recupero dei sottotetti, dei porticati, di locali seminterrati esistenti e di aree pubbliche non autorizzate)”, è stata inserita all’art. 6, comma 2, della legge reg. Puglia 14/2009 la lett. c-bis), oggi censurata, che permette ai Comuni di individuare, con deliberazione motivata del consiglio comunale, “ambiti territoriali nonché […] immobili ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi del Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), approvato con deliberazione della Giunta regionale n. 176 del 2015, nei quali consentire, secondo gli indirizzi e le direttive del PPTR, gli interventi di cui agli articoli 3 e 4 della presente legge, purché gli stessi siano realizzati, oltre che alle condizioni previste dalla presente legge, utilizzando per le finiture, materiali e tipi architettonici legati alle caratteristiche storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi.

Come ricorda lo stesso giudice a quo, l’art. 6, comma 2, lett. c-bis), della legge reg. Puglia 14/2009 è stato abrogato dall’art. 1 della legge reg. Puglia 3/2021. Con tale abrogazione si è dato seguito ai rilievi provenienti dal Ministero per i beni e le attività culturali (oggi Ministero della cultura) sulla necessità di superare tale disciplina, in quanto lesiva della potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela paesaggistica.

Da ultimo, è opportuno ricordare che il legislatore pugliese è nuovamente intervenuto in materia, reintroducendocon l’art. 3 della legge della Regione Puglia 30 novembre 2021, n. 39, recante “Modifiche alla legge regionale 31 maggio 1980, n. 56 (Tutela ed uso del territorio), disposizioni in materia urbanistica, modifica alla legge regionale 27 luglio 2001, n. 20 (Norme generali di governo e uso del territorio), modifica alla legge regionale 6 agosto 2021, n. 25 (Modifiche alla legge regionale 11 febbraio 1999, n. 11 “Disciplina delle strutture ricettive ex artt. 5, 6 e 10 della legge 17 maggio 1983, n. 217 delle attività turistiche ad uso pubblico gestite in regime di concessione e delle associazioni senza scopo di lucro” e disposizioni varie) e disposizioni in materia derivazione acque sotterranee” – un regime derogatorio del generale divieto posto dall’art. 6, comma 1, lett. f), della legge reg. Puglia 14/2009, analogo a quello previsto dalla censurata lettera c-bis) ma maggiormente articolato nei presupposti.

Con il citato art. 3 si prevede, infatti, che, “[a]i sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica del 6 giugno 2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamenti in materia edilizia), così come interpretato con circolare del 2 dicembre 2020 dei Ministeri delle Infrastrutture, Trasporti e Pubblica Amministrazione e con parere del Consiglio superiore dei Lavori pubblici dell’8 luglio 2021, sono consentiti, previa deliberazione del Consiglio comunale, gli interventi previsti dagli articoli 3 e 4 della legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) in aree individuate dal Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), approvato con deliberazione della Giunta regionale 16 febbraio 2015, n. 176 ed elaborato attraverso co-pianificazione Stato-Regione unilateralmente inderogabile, alle condizioni che l’intervento sia conforme alle prescrizioni, indirizzi, misure di salvaguardia e direttive dello stesso PPTR e che siano acquisiti nulla osta, comunque denominati, delle amministrazioni competenti alla tutela paesaggistica”.

Ciò premesso, la questione è fondata nei termini di seguito precisati.

Come si è già ricordato, il giudice a quo ritiene l’art. 6, comma 2, lettera c-bis), della legge reg. Puglia 14/2009, costituzionalmente illegittimo, poiché prevedrebbe la derogabilità delle prescrizioni dei piani paesaggistici e, in particolare, di quelle contenute nel PPTR Puglia, risultando così incompatibile con l’art. 145, comma 3, cod. beni culturali, e, quindi, in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Il citato art. 145, dedicato al “[c]oordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione”, nel precisare, al comma 3, che le disposizioni dei piani paesaggistici sono, comunque sia, prevalenti su quelle contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, esprime il cosiddetto principio di prevalenza delle prime sulle seconde.

Come questa Corte ha rilevato in più occasioni, mediante tale principio, il codice dei beni culturali ha inteso garantire l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica, valore imprescindibile e pertanto non derogabile dal legislatore regionale, in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme di tutela, conservazione e trasformazione del territorio. In forza di tale principio, al legislatore regionale è impedito di adottare, sia normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, cioè con previsioni di tutela in senso stretto (fra le molte, sentenze nn. 261, 141 e 74 del 2021, e 86/2019), sia normative che, pur non contrastando con (o derogando a) previsioni di tutela in senso stretto, pongano alla disciplina paesaggistica limiti o condizioni (sent. 74/2021), che, per mere esigenze urbanistiche, escludano o ostacolino il pieno esplicarsi della tutela paesaggistica.

In altri termini, “i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio” sono definiti “secondo un modello di prevalenza delle prime, non alterabile ad opera della legislazione regionale” (sent. 11/2016; in senso analogo, sentenze nn. 45 e 24 del 2022, nn. 124 e 74 del 2021).

La disposizione censurata contrasta con il principio di prevalenza del Piano paesaggistico su tutti gli altri strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, violando, così, il parametro interposto evocato dal rimettente.

La legge reg. Puglia 14/2009 disciplina ipotesi (straordinarie) di demolizione, ricostruzione e ampliamento, ossia interventi che, quando pure non risultino espressamente vietati, sono sottoposti a limiti e condizioni, talvolta stringenti, dal PPTR, e in specie dalle prescrizioni specifiche di quest’ultimo.

In tale contesto, la disposizione censurata, nel prevedere che detti interventi possano interessare ambiti e immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, non fa alcuna menzione del necessario rispetto anche delle richiamate prescrizioni specifiche del PPTR, ossia di quelle prescrizioni che impongono precisi obblighi o divieti inerenti all’utilizzo e – per ciò che qui rileva – alla trasformazione dei beni paesaggistici (norme, queste ultime, mediante le quali si esplica la funzione precettiva del Piano).

Posto il carattere confliggente della normativa censurata con la disciplina paesaggistica, l’omesso richiamo al generale rispetto delle prescrizioni specifiche del PPTR non può essere inteso alla stregua di un mero silenzio della legge, colmabile – come sostenuto dalla parte – in via interpretativa, nel senso che la relativa disciplina sia implicitamente applicabile, bensì come una deroga, o meglio come la facoltà per i Comuni e i privati, rispettivamente, di consentire e porre in essere tali interventi non osservando il contenuto precettivo del PPTR.

La conclusione è avvalorata, a contrario, dalla circostanza che la norma censurata si limita a richiedere il rispetto dei soli «indirizzi» e «direttive» del PPTR: previsione che non vale a escludere il rilevato contrasto con il principio di prevalenza del Piano paesaggistico, proprio perché il rinvio è circoscritto alla parte programmatica del Piano, a traverso la quale quest’ultimo non detta specifiche regole sull’utilizzo e sulla trasformazione dei beni paesaggistici, ma pone gli obiettivi di qualità della pianificazione.

Parimente inidonea a garantire la prevalenza del Piano paesaggistico sugli strumenti urbanistici è la generica previsione, contenuta sempre nella disposizione censurata, in base alla quale gli interventi in questione debbono essere realizzati “utilizzando per le finiture, materiali e tipi architettonici legati alle caratteristiche storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi.

Una simile previsione non vale certamente ad assicurare l’osservanza delle prescrizioni del PPTR, e rende anzi evidente il carattere derogatorio della norma in esame rispetto a queste ultime. Il PPTR, laddove ammette interventi sui beni paesaggistici, può contemplare una ben più ampia e dettagliata serie di regole sulla loro trasformazione: basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, alle regole sul colore degli edifici, all’obbligo di rimuovere, nell’effettuazione degli interventi, gli elementi artificiali, ovvero, infine, al divieto di compromettere i coni visivi.

Come ha già ricordato questa Corte, «la normativa sul Piano casa, pur nella riconosciuta finalità di agevolazione dell’attività edilizia, non può far venir meno la natura cogente e inderogabile delle previsioni del codice dei beni culturali e del paesaggio, adottate dal legislatore statale nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”» (sent. 261/2021; in senso analogo, sent. 86/2019).

Anche per tale ragione il PPTR deve essere messo al riparo dalla pluralità e dalla parcellizzazione degli interventi delle amministrazioni locali, che possono mettere in discussione la complessiva ed unitaria efficacia del Piano paesaggistico (fra le varie, sent. nn. 261 e 74 del 2021, e 11/2016).

Al fine di rimuovere il vulnus costituzionale denunciato, non è peraltro necessario eliminare in toto la norma censurata (operazione che ripristinerebbe, nella sua originaria assolutezza, il divieto di interventi straordinari sugli immobili ricompresi in aree soggette a vincolo paesaggistico), ma è sufficiente introdurre in essa, con pronuncia a carattere additivo, la previsione inerente all’esigenza di rispetto (anche) delle prescrizioni del PPTR.

L’art. 6, comma 2, lettera c-bis), della legge reg. Puglia 14/2009, nel testo in vigore anteriormente all’abrogazione ad opera dell’art. 1 della legge reg. Puglia 3/2021, va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che gli interventi edilizi disciplinati dalla stessa legge regionale debbano essere realizzati anche nel rispetto delle specifiche prescrizioni del PPTR.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost., 2 marzo 2022, n. 45; Id., 29 dicembre 2021, n. 261;
Id., 13 dicembre 2021, n. 241; Id., 21 aprile 2021, n. 74;
Id., 18 novembre 2020, n. 240
giurista risponde

Occupazione sine titulo: danno in re ipsa? È configurabile un danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile, al proprietario spetta, in conseguenza della perdita della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento – diretto o indiretto – sulla cosa, il risarcimento sia del danno da perdita subita (liquidato dal giudice, ove non dimostrabile nel suo preciso ammontare, con valutazione equitativa, anche mediante il parametro del canone locativo di mercato) che del danno da mancato guadagno (corrispondente a quanto lo stesso avrebbe ottenuto se avesse concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato ovvero lo avesse venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato). – Cass. civ., Sez. Un., 13 dicembre 2022, n. 114.

Con la pronuncia in rassegna le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nel comporre un contrasto interno tra sezioni semplici, hanno fatto luce sulla questione della configurabilità di un danno c.d. in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile chiarendo che il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento è rappresentato dalla concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento (diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo) che è andata perduta e, al contempo, specificando quali siano i criteri da seguire per la liquidazione del relativo danno, nella duplice componente della perdita subita e del mancato guadagno.

La Corte, nel formulare i principi di cui in massima, dopo aver riassunto gli opposti orientamenti formatisi in seno alla II e alla III Sezione civile, ha osservato quanto segue: a) la questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione del contenuto del diritto di proprietà su un bene immobile in conseguenza dell’occupazione dello stesso sine titulo da parte di un terzo, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria; b) a tale quesito deve darsi una risposta positiva nei termini emersi nella linea evolutiva seguita dalla giurisprudenza della II Sezione civile, secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato; c) detto esito interpretativo, per quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in conseguenza di un fatto illecito. In particolare la linea da perseguire è quella del punto di mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della II Sezione civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione civile, e, al fine di salvaguardare tale punto di mediazione, l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta la distinzione fra le due forme di tutela; d) la distinzione fra azione reale e azione risarcitoria è, infatti, il riflesso processuale di quella sostanziale fra regole di proprietà (property rules) e regole di responsabilità (liability rules) sicché la tutela reale è orientata al futuro e mira al ripristino dell’ordine formale violato mediante l’accertamento dello stato di diritto e la rimozione dello stato di fatto contrario al diritto soggettivo (a parte la tutela inibitoria come negli artt. 844 e 1171 c.c.), nel mentre l’azione risarcitoria è orientata al passato e costituisce il rimedio per la perdita subita a causa della violazione del diritto costituendo la misura riparatoria per la concreta lesione del bene della vita verificatasi in conseguenza della condotta abusiva dei terzi; in altri termini, mentre la tutela reale costituisce il rimedio per l’alterazione dell’ordinamento formale, la tutela risarcitoria è compensativa del bene della vita perduto, secondo le modalità del danno emergente se la perdita patrimoniale (o non patrimoniale) è in uscita, del lucro cessante se la perdita è in entrata; e) la distinzione fra le due forme di tutela (reale e risarcitoria) comporta che il fatto costitutivo dell’azione risarcitoria non possa coincidere senza residui con quello dell’azione di rivendicazione ma debba contenere l’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile; ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica; in proposito va rilevato che: e1) la distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è un’acquisizione risalente della giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, n. 576; Id., 11 novembre 2008, n. 26972, pronunce che, muovendo entrambe dall’ipotesi del danno non patrimoniale, hanno differenziato nell’ambito dell’illecito aquiliano la causalità materiale, rilevante ai fini dell’imputazione del danno evento – dommage o damnum – ad una determinata condotta secondo i criteri di responsabilità previsti dalla disciplina del fatto illecito, e la causalità giuridica, di cui sono espressione gli artt. 1223 e 2056 c.c., la quale, in funzione di selezione delle conseguenze dannose risarcibili, attiene al nesso eziologico fra il danno evento ed il c.d. danno conseguenza – préjudice o praeiudicium –, costituente l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria); ed invero, già prima delle appena richiamate pronunce delle sezioni unite, vi erano stati, nella medesima direzione, altri arresti delle sezioni semplici (cfr. Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007 n. 21619; Id., 24 ottobre 2003, n. 16004; Id., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, tutte rese in materia di danno non patrimoniale) e della giurisprudenza costituzionale (secondo la linea evolutiva che va da Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184 a Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372 e da cui è emersa la distinzione fra danno evento e danno conseguenza, da ultimo ripresa da Corte cost. 15 settembre 2022, n. 205); e2) la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione ha, altresì, chiarito che “se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria” (Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, cit.), così temperando l’originario rigorismo della tesi della causalità giuridica presente nella dottrina che la introdusse (ad avviso della quale la fattispecie della responsabilità risarcitoria si perfeziona con la verificazione del fatto, comprensivo dell’azione e dell’evento, mentre la causalità giuridica interviene solo in funzione selettiva del danno risarcibile all’esito di una responsabilità già accertata; visione che resta nell’alveo della prospettiva pan-penalistica dell’atto antigiuridico – non iure, nel senso di comportamento non giustificato dal diritto – mentre il punto di vista della moderna responsabilità civile, improntata al principio di solidarietà ex art. 2 Cost. è quello dell’allocazione del danno contra ius – “ingiusto” – secondo la qualifica dell’art. 2043 c.c.); al rigorismo dell’originaria tesi dottrinale va obiettato che in assenza delle conseguenze previste dall’art. 1223 c.c. non vi è alcuna responsabilità risarcitoria da accertare perché non vi è danno da risarcire; ciò in quanto la fattispecie del fatto illecito si perfeziona con il danno conseguenza sicché la perdita subita e il mancato guadagno (art. 1223 c.c.) non sono un posterius rispetto al danno ingiusto, ma sono i criteri di determinazione di quest’ultimo, secondo la lettera dell’art. 2056 c.c. con la conseguenza che, da un lato, il “danno” di cui fa menzione la seconda parte dell’art. 2043 c.c. non è altra cosa dal “danno ingiusto” di cui si parla nella prima parte e, dall’altro, se non c’è danno conseguenza non c’è danno ingiusto; e3) causalità materiale e causalità giuridica non sono, così, le fasi di una successione cronologica, ma sono i due diversi punti di vista in sede logico-analitica dell’unitario fenomeno del danno ingiusto (di “profili diversi” dell’unico danno già discorreva Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, cit., punto n. 5.1), il quale non è identificabile se non alla luce di questa dualità di nessi causali, l’uno informato al criterio della regolarità causale, l’altro a quello della conseguenzialità immediata e diretta; cagionato l’evento di danno, la fattispecie del fatto illecito è, infatti, integrata con la realizzazione delle conseguenze pregiudizievoli, senza che fra evento e conseguenza vi sia un distacco temporale sicché la distinzione in parola è logica, non cronologica; f) così precisati i termini della distinzione fra evento di danno e danno conseguenza, quale caposaldo della teoria del risarcimento del danno, e chiarita la necessità dell’elemento costitutivo ulteriore nella causa petendi della domanda risarcitoria rispetto a quella della domanda di rivendicazione, occorre definire più specificatamente il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà; in proposito deve rilevarsi che: f1) la circostanza che la violazione dell’ordine giuridico sia suscettibile di tutela non solo reale, ma anche risarcitoria, trova riscontro nel fatto che il diritto soggettivo appartiene al novero delle situazioni giuridiche mezzo, nelle quali il potere giuridico di cui è investito il soggetto rappresenta lo strumento, a sua disposizione, per la soddisfazione dell’interesse ad un determinato bene della vita; f2) la violazione del diritto può così comportare la lesione dell’interesse al bene della vita, che di quel diritto costituisce il substrato materiale e l’elemento teleologico, e configurare dunque l’illecito aquiliano; g) ai fini della definizione del danno risarcibile da violazione dell’ordine giuridico, deve muoversi dalla distinzione fra la lesione del bene costituente l’oggetto del diritto di proprietà e la lesione del contenuto stesso del diritto; in particolare: g1) quando l’azione dannosa attinge sulla base del nesso di causalità materiale il bene, l’evento di danno è rappresentato dalla lesione del diritto per il pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà, ma affinché un danno risarcibile vi sia, perfezionandosi così la fattispecie del danno ingiusto, è necessario che al profilo dell’ingiustizia, garantito dalla violazione del diritto, si associ quello del danno conseguenza, e perciò la perdita subita e/o il mancato guadagno che, sulla base del nesso di causalità giuridica, siano conseguenza immediata e diretta dell’evento dannoso (come accade, ad esempio, nel caso del danno da c.d. “fermo tecnico di veicolo incidentato”, per il quale è richiesta la prova della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo su cui si vedano Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 2015, n. 20620 e le altre conformi fino alla recente Cass. civ., sez. III, 19 settembre 2022, n. 27389); g2) quando l’azione lesiva attinge invece il contenuto del diritto di proprietà (“il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), ciò che viene in primo luogo in rilievo è la violazione dell’ordine giuridico e l’ordinamento appresta lo strumento di ripristino dell’ordine formale violato, ossia la tutela reale di reintegrazione del diritto leso; questa tutela può eventualmente concorrere con la misura restitutoria del bene, di cui è pure espressione la fattispecie di cui all’art. 1148 c.c., la quale disciplina con riferimento ai frutti naturali separati e ai frutti civili maturati le conseguenze della restituzione della cosa da parte del possessore (nella specie di mala fede o comunque nello stato soggettivo di cui all’art. 1147, comma 2, c.c.) convenuto dal proprietario in sede di rivendicazione; sia la cosa (art. 810 c.c.), che i frutti (art. 820 c.c.), appartengono alla disciplina dei beni e perciò restano nell’alveo dell’azione di rivendicazione sotto il profilo degli effetti restitutori; h) la domanda risarcitoria presuppone che l’azione lesiva del contenuto del diritto di proprietà sia valutabile non solo come violazione dell’ordine formale, ma anche come evento di danno; in quest’ultimo caso il nesso di causalità materiale si stabilisce fra l’occupazione senza titolo dell’immobile e direttamente la lesione del diritto di proprietà, senza passare per l’intermediazione del pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà sicché l’evento di danno riguarda non la cosa, ma proprio il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa ed il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione, cagionata dall’occupazione abusiva, del “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”; il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire; i) saldando il danno suscettibile di risarcimento alla concreta possibilità di godimento persa, per un verso si rende risarcibile il contenuto del diritto violato, in ossequio alla teoria normativa del danno, per l’altro si riconduce la violazione giuridica a una specifica perdita subita, in ossequio alla teoria causale; più segnatamente: i1) il riferimento alla specifica circostanza di godimento perso stabilisce la discontinuità fra il fatto costitutivo dell’azione di rivendicazione e quello dell’azione risarcitoria, preservando la distinzione fra la tutela reale e quella risarcitoria; diversamente si avrebbe l’inaccettabile conseguenza non del danno punitivo, come pure affermato dalla giurisprudenza della terza sezione civile, ma del danno irrefutabile che non ammette prova contraria; i2) affinché si abbia un danno punitivo è necessario un quid ulteriore che colleghi la riparazione della perdita subita alla riprorevolezza della condotta del danneggiante, con un’amplificazione della componente riparatoria in misura proporzionale al grado della colpa o all’intensità del dolo del danneggiante (mediante il cumulo di compensatory damage e punitive damage), e tale non può dirsi che sia l’esito della tesi del danno in re ipsa; i3) viceversa, se la causa petendi dell’azione risarcitoria viene fatta coincidere senza residui con quella dell’azione risarcitoria (rectius reale n.d.r.), il risarcimento spetterebbe sempre a fronte della denuncia della compressione del diritto di godere della cosa quale astratta posizione riconosciuta dall’ordinamento, senza che si dia possibilità della prova contraria; j) non è, invece, richiesta l’allegazione della concreta possibilità di godimento persa nell’ipotesi dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di fattispecie retta da criteri del tutto differenti rispetto alla comune occupazione abusiva (sui connotati specifici dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione si vedano: Cons. Stato, Ad. Plen., 9 aprile 2021, n. 6; Id., 20 gennaio 2020, nn. 2 e n. 4; Id., 18 febbraio 2020, n. 5); in particolare: j1) l’art. 42bis del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, prevede che, in caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e di successivo provvedimento di acquisizione, sia corrisposto al proprietario un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene; l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’art. 37 del medesimo D.P.R. 327/2001, per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore del bene come appena determinato; j2) anche nel caso di mancanza di formale acquisizione ai sensi dell’art. 42bis del D.P.R. 327/2001, o di procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto di esproprio o con un accordo di cessione, è configurabile per la giurisprudenza un danno per il mancato godimento del fondo illegittimamente occupato, abitualmente determinato in via equitativa in favore del privato, ove non sia fornita la prova di un danno maggiore, in base al criterio degli interessi legali per ogni anno di occupazione sulla somma corrispondente all’indennità di espropriazione o sul prezzo di cessione volontaria del bene (fra le tante Cass. civ., sez. I, ord. 20 novembre 2018, n. 29990); j3) la determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite – per il proprietario ad esempio la perdita di occasioni particolari di profitto), costituisce una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione; si tratta di una valutazione, come anche quella del diritto vivente appena richiamato, tipizzata di pregiudizio al bene della vita, il cui presupposto di fatto è l’esplicazione del rapporto fra privato e pubblica amministrazione, istituzionalmente asimmetrico dal punto di vista del potere, secondo modalità ablatorie non rispettose della legge; ciò in quanto, come spiega Cass. civ. S.U., 20 luglio 2021, n. 20691, “nella materia espropriativa l’agire amministrativo è cadenzato da atti formali che sono, di per sé, evocativi di conseguenze pregiudizievoli per il privato, apprezzabili secondo l’id quod plerumque accidit, nel caso in cui la pubblica amministrazione non eserciti il potere autoritativo nei tempi e modi previsti dalla legge”; k) nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è, al contrario, richiesta l’allegazione della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa; ciò significa che: k1) il non uso, il quale è pure una caratteristica del contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento; ciò in quanto, se è pur vero che a fondamento dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà vi è la circostanza che fra le facoltà riconosciute al proprietario vi è anche quella del non uso, l’inerzia resta una manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, mentre il danno conseguenza riguarda il pregiudizio al bene della vita che, mediante la violazione del diritto, si sia verificato; k2) alla reintegrazione formale del diritto violato, anche nella sua esplicazione di non uso, provvede la tutela reale e non quella risarcitoria; l) la perdita subita attiene al godimento, diretto o indiretto mediante il corrispettivo del godimento concesso ad altri, e non alla vendita (per la quale, corrispondendo il relativo danno alla differenza fra il prezzo di mercato e quello maggiore che si sarebbe potuto ricavare dall’atto dispositivo mancato, non può che parlarsi di mancato guadagno); con riguardo alla perdita subita attinente al godimento va precisato che: l) l’allegazione che l’attore faccia della concreta possibilità di godimento perduta può essere specificatamente contestata dal convenuto costituito; 2) al cospetto di tale allegazione il convenuto ha l’onere di opporre che giammai il proprietario avrebbe esercitato il diritto di godimento; 3) la contestazione al riguardo non può essere generica, ma deve essere specifica, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, c.p.c.; 4) in presenza di una specifica contestazione sorge per l’attore l’onere della prova dello specifico godimento perso, onere che può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.) o mediante presunzioni semplici; 5) nel caso della presunzione l’attore ha l’onere di allegare, e provare se specificatamente contestato, il fatto secondario da cui inferire il fatto costitutivo rappresentato dalla possibilità di godimento persa; 6) sia nel caso di godimento diretto che in quello di godimento indiretto, il danno può essere valutato equitativamente ai sensi dell’art. 1226 c.c., attingendo al parametro del canone locativo di mercato quale valore economico del godimento nell’ambito di un contratto tipizzato dalla legge, come la locazione, che fa proprio del canone il valore del godimento della cosa; m) se, invece, la domanda risarcitoria ha ad oggetto il mancato guadagno causato dall’occupazione abusiva, l’onere di allegazione riguarda gli specifici pregiudizi, fra i quali si possono identificare non solo le occasioni perse di vendita a un prezzo più conveniente rispetto a quello di mercato, ma anche le mancate locazioni a un canone superiore a quello di mercato (una volta che si quantifichi equitativamente il godimento perduto con il canone locativo di mercato, il corrispettivo di una locazione ai correnti valori di mercato rientra, come si è visto, nelle perdite subite); nel dettaglio: m1) ove insorga controversia in relazione al fatto costitutivo del lucro cessante allegato, l’onus probandi anche in questo caso può naturalmente essere assolto mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o le presunzioni semplici; m2) per ogni altro aspetto può rinviarsi alla costante giurisprudenza in materia di maggior danno ai sensi dell’art. 1591 c.c. (fra le tante Cass. civ., sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2552; Id., 26 novembre 2007, n. 24614; Id., 13 luglio 2005, n. 14753; Id., 23 maggio 2002, n. 7546); n) sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. civ, sez. VI, ord. 31 agosto 2020, n. 18074; Cass. civ., sez. lav. 4 gennaio 2019, n. 87; Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2016, n. 14652; Id., 13 febbraio 2013, n. 3576); in particolare: n1) poiché non si compie l’effetto di cui all’art. 115, comma 1, c.p.c., per i fatti ignoti al danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno; n2) sul piano pratico ne consegue la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, c.p.c., in relazione alle controversie aventi ad oggetto la perdita subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il mancato guadagno; n3) ciò vale a chiarire la portata eminentemente pratica delle nozioni di “danno normale” e “danno presunto” emerse nella recente giurisprudenza della seconda sezione civile, le quali rinviano, nelle controversie relative alla perdita subita, a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., sez. II, ord. 22 aprile 2022, n. 12865; Id., 20 gennaio 2022, n. 4936;
Cass. civ., sez. VI, ord. 7 gennaio 2021, n. 39