giurista risponde

Contratti di fideiussione e antitrust È possibile per il giudice rilevare d’ufficio la nullità in caso di contratti di fideiussione che riproducono clausole violative della disciplina antitrust?

Quesito con risposta a cura di Carmela Qualiano e Davide Venturi

 

Nel caso di contratti di fideiussione che abbiano recepito clausole nate da intese anticoncorrenziali la sanzione predisposta è quella della nullità parziale. Il generale favore per la conservazione degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale, tuttavia, comporta l’eccezionalità dell’estensione all’intero contratto della nullità che colpisce la singola clausola. In conseguenza di ciò è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero atto. – Cass., sez. III, 13 marzo 2024, n. 6685.

La sentenza in commento aderisce, confermandolo, all’orientamento giurisprudenziale avallato da Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2021, n. 41994 la quale ha affermato, in esito ad una puntuale ricognizione della normativa nazionale e comunitaria, che i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate nulle in relazione alle clausole contrastanti con la normativa antitrust sono, a loro volta, parzialmente nulli. Tale nullità parziale è, tra le diverse opzioni di tutela riconoscibili in capo al cliente fideiussore, quella che perviene a risultati più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust apparendo anche idonea a salvaguardare il generale principio di conservazione del contratto.

Sulla base di ciò la Cassazione ha disatteso il motivo di ricorso che postulava la violazione dell’art. 1421 c.c. affermando che, mentre il giudice davanti al quale viene proposta la domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne d’ufficio la nullità solo parziale, ad esso è precluso rilevare la nullità totale in mancanza di dimostrazione dell’interdipendenza dell’ intero contratto dalla parte o dalla clausola nulla.

Il ricorrente, poi, invoca la mancata considerazione del comportamento della società di leasing che, in spregio del principio di buona fede e correttezza, avrebbe gestito il contratto senza preoccuparsi di non ledere gli interessi del fideiussore, evidenziando la violazione delle garanzie di cui agli artt. 1955 e 1956 c.c. La Cassazione, tuttavia, ricorda che la non correttezza della società concedente non porta, da sola, alla liberazione del fideiussore. Occorre, infatti, che da essa sia derivato un pregiudizio non solo economico ma propriamente giuridico che si sostanzia nella perdita del diritto di surrogazione ex art. 1949 c.c. o di regresso ex art. 1950 c.c. non essendo sufficiente la mera maggiore difficoltà di attuarlo derivante dalle diminuite capacità satisfattive del debitore (così anche Cass. 19 febbraio 2020, n. 4175).

*Contributo in tema di “Contratti di fideiussione e antitrust”, a cura di Carmela Qualiano e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

pensami pensione

PensAMi: il simulatore INPS per la pensione Cos'è e come funziona il servizio INPS che propone i possibili scenari pensionistici per ogni tipo di utente

Cos’è PensAMi

PensAMi (Pensione a Misura) è un servizio web offerto dall’INPS che consente di simulare il proprio personale possibile scenario pensionistico senza bisogno di registrazione.
Basta inserire pochi dati anagrafici e relativi alla contribuzione, per ottenere le informazioni relative alle pensioni cui è possibile accedere sia nelle singole gestioni previdenziali, sia cumulando tutta la contribuzione.
Non solo. Il simulatore consente anche di scoprire se, avvalendosi di alcuni istituti (riscatto laurea, periodi esteri, maternità, ecc.), si può anticipare l’accesso alla pensione. Tramite note e link di approfondimento, inoltre, Pensami è uno strumento utile per conoscere il sistema previdenziale italiano.

A chi è rivolto

Il servizio è rivolto a tutti gli utenti. Lo strumento permette a chiunque, infatti, senza autenticazione, di verificare i possibili scenari pensionistici, fornendo una sorta di consulenza pensionistica “fai da te” per scoprire come e quando andare in pensione cumulando la contribuzione.

Come funziona Pensami

Il simulatore fornisce informazioni sui trattamenti pensionistici diretti valorizzando la contribuzione presente nelle varie gestioni previdenziali (Fondo pensioni lavoratori dipendenti; gestione artigiani; gestione separata, casse professionali, ecc.).

Pensami, avverte l’INPS, “non fornisce informazioni sugli importi delle pensioni né sulle pensioni previste per determinate categorie di lavoratori (es. piloti, poligrafici, militari, ecc.)”. Nè utilizza “le informazioni presenti nella banca dati dell’INPS”; è l’utente a dover inserire i dati per simulare gli scenari pensionistici.

I risultati sono basati esclusivamente sulle risposte fornite dall’utente e sono forniti in modo anonimo, non hanno valore né certificativo né costitutivo del diritto.

Rilascio aggiornamento 2024

Nell’ambito delle attività progettuali previste dal PNRR, con il messaggio 2180 del 10 giugno 2024, l’INPS ha comunicato il rilascio dell’aggiornamento del simulatore degli scenari pensionistici al quale si accede senza registrazione, anche tramite l’applicazione per dispositivi mobili “INPS Mobile”, per Android e iOS.

In particolare, comunica l’istituto, “sono stati aggiornati gli adeguamenti agli incrementi alla speranza di vita dei requisiti pensionistici sulla base dello scenario demografico ISTAT mediano (base 2022) ripreso nella nota di aggiornamento del 24° rapporto 2023, relativo alle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario elaborato dalla Ragioneria Generale dello Stato”.

Inoltre, è stato aggiornato, per l’anno 2024, l’importo massimo della pensione anticipata flessibile maturata sulla base dei requisiti perfezionati entro il 31 dicembre 2023, da porre in pagamento fino al compimento dell’età richiesta per la pensione di vecchiaia.

Sono in fase di elaborazione gli aggiornamenti del servizio volti a recepire le novità in materia pensionistica introdotte dalla legge di bilancio 2024.

Vai alla pagina del servizio sul sito INPS

giurista risponde

Recidiva qualificata e circostanza ad effetto speciale Il limite dell’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., incide sulla qualificazione della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., come circostanza ad effetto speciale?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

Il limite all’aumento di cui alla previsione dell’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, come prevista dal secondo e dal quarto comma del già menzionato articolo, quale circostanza ad effetto speciale, e non influisce sui termini di prescrizione determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p., come modificati dalla L. 251/2005. – Cass. Sez. Un., 29 luglio 2022, n. 30046

Nel caso di specie la Suprema Corte, riunita in Sezioni Unite, è stata chiamata a valutare la incidenza del limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., rispetto alla qualificazione di circostanza ad effetto speciale della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., nonché la eventuale influenza dello stesso ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

La questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite si fonda invero su due distinti profili.

Il primo profilo attiene alla natura qualificata della recidiva, che comporta un aumento della pena fino alla metà, della metà o di due terzi ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., eventualmente contestata con l’applicazione della disposizione di cui all’art. 99, comma 6, c.p. quando determina un aumento della pena in misura pari o inferiore ad un terzo.

Il secondo profilo attiene agli effetti dell’applicazione del limite dell’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p. sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo, ai sensi dell’art. 157 c.p., quanto massimo, dovuto all’ulteriore aumento stabilito dall’art. 161, comma 2, c.p., attesa la presenza di atti interruttivi nel corso del processo.

Le Sezioni Unite a tal proposito hanno evidenziato i due contrapposti orientamenti riconoscibili nella giurisprudenza di legittimità sul tema oggetto della questione rimessa.

Secondo l’orientamento maggioritario, la contestazione di una circostanza qualificata ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., comporta che di essa, parificata alla circostanza ad effetto speciale, debba tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione di cui all’art. 157 c.p. Tuttavia, il suddetto calcolo prescrizionale dovrebbe tener conto altresì del limite quantitativo all’aumento di pena, di cui la previsione dell’art. 99, comma 6, c.p. svolge effetto mitigatore (Cass., sez. V, 24 settembre 2019, n. 44099).

Contrariamente, il limite fissato dall’art. 99, comma 6, c.p. ai fini della determinazione della pena, non incide sulle modalità di calcolo del termine massimo di prescrizione, di cui all’art. 161, comma 2, c.p., in quanto tale computo avviene secondo aumenti secchi fissati nella misura della metà o di due terzi.

Secondo il contrario orientamento giurisprudenziale, l’applicazione del limite di aumento di cui all’art. 99, comma 6, c.p., ai fini del computo della pena, comportando un aumento della stessa pena base in misura pari o inferiore ad un terzo, inciderebbe sulla natura della recidiva, escludendone la qualificazione di circostanza ad effetto speciale ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

In relazione al primo punto della questione, la Suprema Corte ha ricordato quanto stabilito da plurime pronunce giurisprudenziali delle Sezioni Unite, che hanno riconosciuto la natura di circostanza ad effetto speciale alle suddette recidive qualificate, in quanto le stesse soggiacciono ad una valutazione comparativa con eventuali circostanze attenuanti e rientrano nel novero delle circostanze ad effetto speciale di cui all’art. 649bis c.p. (Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585).

Inoltre, secondo una ulteriore pronuncia giurisprudenziale cui le Sezioni Unite aderiscono, la natura di una circostanza, tanto comune quanto ad effetto speciale, non può derivare dal meccanismo relativo all’aumento di pena previsto dall’art. 63 c.p. per le circostanze ulteriori rispetto a quella più grave, in quanto ispirato al criterio del cumulo giuridico (Cass. Sez. Un. 8 aprile 1998, n. 16). Se così non fosse, la medesima circostanza cambierebbe natura, da circostanza comune a circostanza ad effetto speciale, a seconda se contestata da sola o dalla posizione assunta nell’ordine di gravità delle circostanze concorrenti.

Pertanto, l’aumento di pena in conseguenza dell’applicazione del limite di cui all’art. 99, comma 6, c.p., in misura pari o inferiore ad un terzo, non incide sulla natura della recidiva qualificata di cui all’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., la cui natura di circostanza aggravante ad effetto speciale rimane immutata.

In relazione al secondo punto, le Sezioni Unite hanno analizzato la riscrittura della disciplina codicistica effettuata dalla L. 251/2005 in tema di calcolo del temine minimo e massimo di prescrizione di cui agli artt. 157, comma 2, c.p. e 161, comma 2, c.p., evidenziando come il momento del computo della pena ai fini del calcolo del termine di prescrizione, che si effettua secondo criteri oggettivi, generali e astratti, vada tenuto distinto dal momento di determinazione della pena da irrogare al condannato, che si fonda su criteri concreti e soggettivi. Inoltre, pur essendo circostanza soggettiva del reato, in quanto inerente alla persona del colpevole, la recidiva qualificata è espressione del maggior disvalore del fatto di reato in senso oggettivo, tale da giustificare un regime più severo nel computo del decorso dei termini di prescrizione.

Le Sezioni Unite hanno infine richiamato quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, la quale ha individuato un parallelismo tra le disposizioni dettate dall’art. 157, comma 2, c.p. e dall’art. 161, comma 2, c.p., in quanto la recidiva qualificata, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo, incide sul termine ordinario di prescrizione del reato (Corte Cost. ord. 34/2009).

Pertanto, la Suprema Corte ha stabilito che il limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla natura della recidiva qualificata quale circostanza ad effetto speciale e non influisce sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo ai sensi di cui all’art. 157, comma 2, c.p., quanto massimo ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p., discostandosi dall’orientamento maggioritario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585
Difformi:      Cass., sez. III, 3 novembre 2020, n. 34949

Parlamentari: opinioni insindacabili anche sui social La Corte Costituzionale ha chiarito che anche se rese sui social le opinioni dei parlamentari nell'esercizio delle funzioni, se rispettose della dignità dei terzi, rimangono insindacabili

Opinioni parlamentari art. 68 Cost.

Le opinioni dei parlamentari rese fuori dalle sedi delle Camere, finanche sui social media, sono insindacabili ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost. al fine di proteggere da condizionamenti lo svolgimento del mandato. Devono però pur sempre essere qualificabili come opinioni ed essere connesse all’esercizio della funzione parlamentare, oltre che essere espresse in forme improntate al rispetto della dignità dei terzi. Lo ha chiarito e ribadito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 104-2024, respingendo il conflitto di attribuzione promosso dal Tribunale di Milano contro la Camera dei deputati, che aveva affermato l’insindacabilità delle dichiarazioni rese dall’allora deputato Carlo Fidanza in un video su Facebook pubblicato nel dicembre 2018.

Il video incriminato

Nel video, il deputato Fidanza aveva espresso affermazioni critiche in ordine a una mostra – intitolata “Porno per bambini” – che si sarebbe dovuta tenere in un locale a Milano. Due giorni dopo, a tal proposito aveva presentato un’interrogazione parlamentare.

A seguito di querela per diffamazione presentata nel febbraio 2019, la Camera dei deputati – su richiesta del Tribunale di Milano – nel gennaio 2023 aveva deliberato che quelle affermazioni erano opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari, in quanto tali insindacabili ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost.

Il Tribunale di Milano, ritenendo invece che esse fossero espressione del diritto di critica di cui all’art. 21 Cost., aveva promosso il conflitto, ritenendo impedito l’accertamento, che spetta all’autorità giudiziaria, circa il superamento o meno dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero.

La decisione della Consulta

La Corte ha respinto il ricorso ribadendo che l’insindacabilità delle opinioni prevista dall’art. 68, primo comma, Cost. vuole garantire alle Camere che i parlamentari possano svolgere nel modo più libero la rappresentanza della Nazione delineata dall’art. 67 Cost.

Escludendo ogni forma di responsabilità giuridica, ha affermato la Consulta, “la Costituzione pone dunque una deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione, tanto più delicata in quanto l’opinione espressa dal parlamentare può collidere con beni della persona – onore, reputazione, dignità – qualificati come inviolabili. Proprio in ragione del necessario contemperamento degli interessi in gioco, la Costituzione non protegge qualsivoglia opinione, ma soltanto quella resa nell’esercizio della funzione parlamentare, indipendentemente dal luogo in cui essa venga espressa”.

Il giudice delle leggi “ha sottolineato che il punto d’equilibrio tra gli antagonisti valori va ricercato necessariamente in concreto, dapprima per opera delle Camere e del potere giudiziario, poi ed eventualmente in sede di conflitto di attribuzione. A tal fine, quando si tratti di opinioni rese fuori dalle sedi parlamentari – e sempre che di opinioni si tratti e non, ad esempio, di insulti o minacce – la giurisprudenza costituzionale ha considerato indici rivelatori dell’esistenza della connessione con l’esercizio delle funzioni parlamentari la sostanziale corrispondenza con opinioni espresse nell’esercizio di attività parlamentare tipica e la sostanziale contestualità temporale fra tale ultima attività e l’attività esterna. In tali circostanze, infatti, pur nell’ineliminabile diversità degli strumenti e del linguaggio adoperato, le opinioni rese fuori dalle sedi vogliano dar conto del significato dell’attività compiuta nell’esercizio del mandato. Ciò non toglie che anche ad opinioni non connesse ad atti parlamentari possa essere applicato l’art. 68, primo comma, Cost., quando sia evidente e qualificato il nesso con l’esercizio della funzione parlamentare. In eventualità del genere, lo scrutinio della Corte deve essere particolarmente rigoroso, in ragione dei contrapposti interessi costituzionali e per evitare che l’immunità si trasformi in privilegio”.

Deve trattarsi, dunque, “non di opinioni politiche che può esprimere ogni cittadino nei limiti di cui all’art. 21 Cost., ma di opinioni funzionali all’esercizio del mandato parlamentare e della rappresentanza della Nazione: opinioni dunque che, proprio perché espressive di una funzione così alta, siano «improntate al rispetto della dignità dei destinatari della critica e della denuncia politica, in specie quando questi non siano a loro volta parlamentari: e ciò tanto più quando l’opinione è espressa per mezzo dei moderni mezzi di comunicazione – quali testate giornalistiche online o social media – che la rendono agevolmente reperibile e oggetto di ulteriore diffusione»”.

Applicando tali principi, la Consulta ha ritenuto che la Camera dei deputati abbia correttamente valutato che le dichiarazioni dell’allora deputato fossero opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari. Esse, infatti, “erano funzionali a rappresentare, nella prospettiva del deputato, interessi generali, come d’altronde testimoniato dalla contestuale presentazione dell’interrogazione parlamentare, del tutto corrispondente nel suo significato, al di là della fisiologica diversità delle modalità espressive, alle affermazioni rese nel video pubblicato su Facebook”.

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Reato di corruzione: come provarlo L’accertamento dell’avvenuta dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale è sufficiente a provare il reato di corruzione o ne costituisce un mero indizio?

Quesito con risposta a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli

 

Ai fini dell’accertamento del reato di corruzione, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione.

La prova della dazione indebita di un’utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento anti-doveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p. – Cass., sez. VI, 22 gennaio 2024, n. 2749.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in materia di corruzione in atti giudiziari ai sensi degli artt. 318, 319ter, 321 c.p. L’indagato, titolare di un’impresa e accusato di un reato fiscale in separato procedimento, aveva ricevuto, da un tenente colonnello della guardia di finanza di sua conoscenza, consigli, consulenze tecniche, nonché una sollecitazione telefonica alla Procura della Repubblica in suo favore. Il contatto tra l’imprenditore e il pubblico ufficiale verteva sulla possibilità, per il primo, di ottenere il dissequestro di alcune somme di denaro: tale provvedimento veniva poi legittimamente emesso dal Pubblico Ministero, alla luce della sussistenza del diritto alla restituzione del suddetto importo.

Successivamente veniva disposta la misura degli arresti domiciliari nei confronti dell’indagato, al quale si addebitava un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari, sotto forma di corruzione impropria. Si riteneva, infatti, che l’aiuto fornito dal colonnello avesse avuto come corrispettivo la disponibilità di un immobile di proprietà dell’imprenditore. Tale utilità era stata ottenuta sia prima, sia dopo la descritta condotta del pubblico ufficiale.

L’ordinanza veniva confermata dal Tribunale e, avverso la stessa, veniva proposto ricorso per Cassazione. In primo luogo, si riteneva insussistente l’asservimento della funzione, dal momento che il contegno del pubblico ufficiale sarebbe stato rispettoso del dovere della pubblica amministrazione di segnalare al contribuente anche gli elementi a suo favore – nel caso di specie, la possibilità di presentare istanza di restituzione dei soldi. In secondo luogo, si riteneva che l’ordinanza fosse viziata quanto alla motivazione circa il nesso di sinallagmaticità tra il comportamento del pubblico ufficiale e la disponibilità dell’immobile dallo stesso ottenuta. Dell’appartamento, infatti, egli aveva goduto in momenti del tutto lontani rispetto ai fatti oggetto del procedimento e, inoltre, si sarebbe trattato di un vantaggio sproporzionato per difetto rispetto alla ritenuta controprestazione.

La Corte di Cassazione ha giudicato il ricorso fondato, alla luce delle motivazioni che seguono. In via preliminare è stato ribadito che il reato di corruzione in atti giudiziari è in rapporto di specialità rispetto alle fattispecie di corruzione propria e impropria, dal momento che essa si caratterizza per il compimento del fatto corruttivo con la finalità di favorire o danneggiare una parte in un processo (Cass. pen., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 15208).

I Supremi Giudici hanno poi ricostruito le modifiche introdotte dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, in particolare quelle dell’art. 318 c.p. Il riferimento al compimento di uno o più atti amministrativi aveva, infatti, creato difficoltà in passato per tutti i casi diversi dal mercimonio di specifici atti e caratterizzati, piuttosto, dall’asservimento sistemico della parte pubblica a favore del soggetto privato. Di conseguenza, con l’intervento legislativo è stato eleminato il requisito dell’adozione di un atto amministrativo legittimo — che, in concreto, può anche del tutto mancare — a favore della specificazione per cui, nel caso di corruzione cosiddetta impropria, il patto criminoso ha ad oggetto la funzione pubblica nel suo complesso. Ad essere punito, cioè, è l’accordo con cui il pubblico ufficiale vende il ruolo da lui rivestito, attraverso la presa in carico degli interessi della parte privata che, a sua volta, crea un inquinamento diffusivo, con conseguenze non preventivabili.

Per quanto concerne i confini rispetto alla corruzione propria, invece, la Cassazione sottolinea come, prima della citata riforma, fosse possibile constatare una riduzione del campo di applicazione dell’art. 318 c.p., a favore dell’art. 319 c.p., per i casi di attività discrezionale. La giurisprudenza maggioritaria, infatti, riteneva che il fatto oggettivo di aver ricevuto denaro o altra utilità valesse a contaminare il processo decisionale del pubblico ufficiale: ne derivavano un’implicita violazione del principio di imparzialità, l’illegittimità dell’atto adottato e, conseguentemente, l’integrazione dell’art. 319 c.p. e non dell’art. 318 c.p. La sentenza in esame non si sofferma espressamente sugli effetti prodotti dalla riforma del 2012 su questo punto, ma è possibile constatare la presenza di due diverse interpretazioni: ad un orientamento in linea con la lettura prevalente in passato se ne contrappone un altro, secondo il quale occorre verificare se la presa in carico dell’interesse del privato da parte del pubblico ufficiale abbia davvero contaminato la cura dell’interesse pubblico. In caso di risposta negativa, il fatto deve essere ricondotto all’art. 318 c.p., con ciò evitando ragionamenti presuntivi (così Cass., sez. VI, 30 aprile 2021, n. 35927).

I Supremi Giudici hanno poi proseguito sottolineando che la corruzione, reato a concorso necessario, si caratterizza per la presenza di due condotte in reciproca saldatura e condizionamento. Da ciò viene fatta derivare la necessità che la realizzazione del contegno del pubblico ufficiale sia la giustificazione causale della dazione di denaro o di altra utilità, sebbene non ci sia, tra l’una e l’altra, un ordine cronologico inderogabile. La prova della dazione indebita, quindi, può costituire soltanto un indizio della realizzazione di un fatto di corruzione ed esso va valutato, come impone l’art. 192 c.p.p., unitamente ad altre circostanze di fatto che vadano nella stessa direzione ricostruttiva.

Nel caso di specie, i Giudici hanno ritenuto che il Tribunale non avesse sufficientemente motivato in ordine alla sussistenza di tale nesso causale: non era emerso in modo chiaro, infatti, il collegamento tra la condotta del pubblico ufficiale e il fatto che lo stesso avesse avuto, in alcune occasioni, la disponibilità dell’appartamento dell’indagato. A rendere poco evidente tale legame erano, in particolar modo, la non chiara corrispondenza temporale tra i due dati e, altresì, l’assenza di proporzionalità tra gli stessi.

Per questi motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso, con annullamento dell’ordinanza impugnata e rinvio per un nuovo giudizio al Tribunale.

*Contributo in tema di “ Reato di corruzione ”, a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

usi civici

Usi civici: cambio di destinazione per impianti rinnovabili La Consulta ha dichiarato non incostituzionale la legge regionale che prevede il mutamento di destinazione delle zone gravate da usi civici in caso di installazione di impianti di energie rinnovabili

Mutamento destinazione zone usi civici

Non è incostituzionale la legge regionale che prevede il mutamento di destinazione delle zone gravate da usi civici in caso di installazione di impianti di energie rinnovabili. Lo ha affermato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 103-2024, decidendo alcune questioni di legittimità costituzionale promosse dal Governo nei confronti di varie disposizioni della legge della Regione Sardegna n. 9 del 2023.

In primo luogo, è stata esaminata la disciplina secondo la quale il mutamento di destinazione delle zone gravate da usi civici, in caso di installazione di impianti di produzione di energie rinnovabili, richiede il parere obbligatorio del comune in cui insistono le aree individuate.

Per il Governo ricorrente, tale disciplina violerebbe i limiti posti alle competenze legislative regionali dallo statuto speciale: in particolare, consentirebbe l’installazione degli impianti nonostante l’inidoneità delle predette zone a tali fini, desumibile dal d.lgs. n. 199 del 2021.

Non fondata la qlc

La Corte ha ritenuto tale questione non fondata, poiché lo stesso d.lgs. n. 199 del 2021 non comporta di per sé l’assoluta inidoneità delle zone gravate da usi civici all’installazione degli impianti, né comporta il divieto di mutarne la destinazione in conformità al regime degli usi civici.

Tavolo tecnico riforma usi civici

Con la stessa sentenza, la Corte ha dichiarato non fondate anche le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni regionali che prevedono l’istituzione e la composizione di un «tavolo tecnico interassessoriale» per la riforma dell’intera materia degli usi civici in Sardegna, poiché tale riforma dovrebbe limitarsi alla disciplina delle funzioni regionali in materia. Infine, sono state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni regionali in tema di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio degli sbarramenti idrici rientranti nella competenza della Regione Sardegna, poiché tali disposizioni non consentono di regolarizzare abusi paesaggistici.

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Sproporzione tra retribuzione e previsioni del contratto collettivo Quando la sproporzione tra la retribuzione corrisposta e la diversa previsione del contratto collettivo determina sfruttamento del lavoro?

Quesito con risposta a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli

 

Per cogliere la sproporzione nel caso concreto il raffronto non va effettuato semplicemente tra la somma oggetto di effettiva retribuzione e quella astrattamente prevista dal contratto collettivo di lavoro, ma tra la quantità e qualità del lavoro prestato e, quindi, tenendo conto dell’attività, delle complessive condizioni di lavoro e della determinazione delle ore di lavoro prestate rispetto a quanto previsto contrattualmente. – Cass., sez. IV, 22 gennaio 2024, n. 2573 (sproporzione tra retribuzione corrisposta e previsioni del contratto collettivo).

 Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi circa la logicità dell’interpretazione, fatta dai giudici di merito, dell’art. 603bis, comma 3, n. 1 c.p. In primo e in secondo grado gli imputati erano stati condannati per il reato di sfruttamento del lavoro, ai sensi del comma 1, n. 2 della citata disposizione, per avere reiteratamente conferito a quattro lavoratori extracomunitari una paga ritenuta sproporzionata per difetto rispetto alle previsioni del CCNL. Con il primo motivo i ricorrenti lamentavano, al contrario, l’insussistenza di suddetta caratteristica, con i conseguenti vizi di erronea applicazione della legge penale e di motivazione contraddittoria: le retribuzioni erogate non erano, infatti, di molto inferiori rispetto agli importi formalmente previsti dal contratto collettivo applicabile.

La Cassazione, dopo aver specificato che l’accertamento della palese difformità e della sproporzione della retribuzione è una valutazione riservata al giudice di merito, ha verificato l’assenza di contraddizioni nelle conclusioni tratte in primo e in secondo grado. In via preliminare la Corte ha richiamato la propria precedente giurisprudenza, alla luce della quale i vari indicatori delle condizioni di sfruttamento del lavoro, elencati nei n. 1)-4) della disposizione, disegnano insieme il perimetro del concetto stesso di sfruttamento. Ciascun indicatore è in sé sufficiente ma non necessario, essendo alternativo agli altri. Tali indici, inoltre, non sono tassativi: estranei al fatto tipico, valgono come linee guida per l’interprete nell’individuazione di condotte distorsive del mercato del lavoro anche a partire da circostanze di fatto diverse rispetto a quelle elencate (così anche Cass., sez. IV, 30 novembre 2022, n. 9473; Cass., sez. IV, 22 dicembre 2021, n. 46842).

Più nello specifico, la Corte ha poi chiarito, in linea con le proprie precedenti pronunce, che per retribuzione deve intendersi tutto ciò che è dovuto per la prestazione lavorativa, comprese le indennità da riconoscere a vario titolo. In passato è stato, infatti, stabilito che, ad esempio, costituiscono spie di un abuso anche le detrazioni operate in qualunque modo sulla retribuzione del lavoratore, tra le quali quelle per remunerare il locatore dell’alloggio o l’operatore del servizio di trasporto al luogo di lavoro (Cass., sez. IV, 22 dicembre 2021, n. 46842).

Per evitare disparità di trattamento, inoltre, il parametro in esame deve essere applicato non soltanto ai lavoratori subordinati ma a qualsiasi attività lavorativa accettata in uno stato di bisogno, quale che sia la formale qualificazione giuridica della stessa. Si deve, inoltre considerare che tale retribuzione, a decorrere dall’entrata in vigore della L. 29 ottobre 2016, n. 199, deve essere reiterata e non necessariamente sistematica. Di conseguenza, sottolineano i Supremi Giudici, la paga sproporzionata può anche non essere costante, bastando una seconda retribuzione per superare la soglia della punibilità.

Per quanto concerne, più da vicino, il grado di discostamento dai contratti collettivi applicabili a ciascun settore, la disposizione statuisce che debba trattarsi di una palese difformità. Il datore di lavoro, avvantaggiandosi del bisogno altrui, impone una retribuzione al ribasso rispetto alle prescrizioni del CCNL. In merito, invece, alla seconda parte della disposizione in oggetto, essa prevede che il giudice debba, in ogni caso, verificare se la paga sia proporzionata rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. I Supremi Giudici hanno specificato, anzitutto, che si tratta di un corollario diretto dell’art. 36 Cost., stante l’obiettivo di garantire equità e dignità al lavoratore; in secondo luogo, hanno statuito che tale limite debba prevalere in ogni caso, cioè anche su una contrattazione collettiva che ipoteticamente non l’abbia rispettato. In questa evenienza, si può considerare che una parte della dottrina ha, tuttavia, sollevato dubbi circa la possibilità di provare il dolo del datore di lavoro che abbia fatto affidamento su un contratto collettivo qualificato.

In forza di queste premesse, la Cassazione ha concluso che l’inadeguatezza della paga e la sua natura abusiva non possono essere accertate ponendo l’attenzione esclusivamente sulla differenza tra somme corrisposte al lavoratore e importo astrattamente previsto dal contratto collettivo di riferimento. Bisogna, infatti, sempre completare l’indagine attraverso il vaglio della quantità e della qualità del lavoro prestato alla luce dell’attività in concreto svolta, delle complessive condizioni di lavoro e del confronto tra le ore effettivamente prestate rispetto alle previsioni contrattuali.

Con il secondo e con il terzo motivo di ricorso, invece, i ricorrenti lamentavano l’incompletezza della motivazione della sentenza in relazione alla pertinenzialità, rispetto al reato commesso, dei beni confiscati ai sensi dell’art. 603bis.2 c.p. I lavoratori sfruttati erano stati impiegati su terreni di proprietà di terzi, mentre oggetto di confisca erano stati appezzamenti diversi dai primi e di proprietà degli imputati. Al riguardo la Cassazione ha concluso nel senso che, poiché la confisca diretta ha ad oggetto tutti i beni funzionali a commettere il reato o da cui ne deriva un’utilità, il nesso di pertinenzialità non viene interrotto se i terreni oggetto di sequestro e di confisca sono diversi da quelli indicati in imputazione. Si tratta, infatti, pur sempre di fondi agricoli del medesimo compendio aziendale, nel quale e per l’utilità del quale i quattro lavoratori africani erano sfruttati.

In base alle considerazioni esposte, la Cassazione ha rigettato i ricorsi degli imputati.

*Contributo in tema di “ Sproporzione tra retribuzione corrisposta e previsioni del contratto collettivo”, a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Tirocinanti in Cassazione: pubblicato il bando Al via la selezione per 40 tirocinanti presso la procura generale della Corte di Cassazione. Per partecipare presentare domanda entro l'8 luglio

Tirocinio presso la procura della Cassazione

E’ stato pubblicato il bando per la selezione di 40 tirocinanti presso la procura generale della Cassazione ex articolo 73 del Dl 69/2013.

Il tirocinio si svolgerà a partire da ottobre e durerà sino ad aprile 2026 per una durata complessiva di 18 mesi.

Sono ammessi alla selezione i laureati e i laureandi in giurisprudenza, al di sotto dei trent’anni e con una media di esami di almeno 27/30, in determinate materie indicate dal bando, ovvero con un punteggio di laurea non inferiore a 105/110.

Il tirocinio non dà diritto a compensi nè determina il sorgere di un rapporto di lavoro o di obblighi previdenziali e assicurativi. Tuttavia, i partecipanti possono avere diritto all’assegnazione della borsa di studio prevista dai commi 8bis e 8ter dell’art. 73 del dl 69/2013.

La domanda

Per partecipare alla selezione occorre presentare domanda entro l’8 luglio prossimo, esclusivamente tramite la piattaforma predisposta dal ministero della Giustizia, cui si accede tramite Spid (https://tirociniformativi.giustizia.it/tirocini-formativi/).

Entro il 20 settembre sarà pubblicata la graduatoria definitiva unitamente alla comunicazione della data di inizio del tirocinio.

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Clausole esonero spese condominiali Quando possono considerarsi vessatorie le clausole del costruttore di esonero dalle spese condominiali?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

La clausola relativa al pagamento delle spese condominiali inserita nel regolamento di condominio predisposto dal costruttore o originario unico proprietario dell’edificio e richiamato nel contratto di vendita dell’unità immobiliare concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente, può considerarsi vessatoria, ai sensi dell’ art. 33, comma 1, D.Lgs. 206/2005, ove sia fatta valere dal consumatore o rilevata d’ufficio dal giudice nell’ambito di un giudizio di cui siano parti i soggetti contraenti del rapporto di consumo e sempre che determini a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e dunque se incida sulla prestazione traslativa del bene, che si estende alle parti comuni, dovuta dall’alienante, o sull’obbligo di pagamento del prezzo gravante sull’acquirente. Al contrario, resta di regola estraneo al programma negoziale sinallagmatico della compravendita del singolo appartamento l’obbligo del venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano. – Cass. II, ord. 21 giugno 2022, n. 20007.

Il contratto che intercorre tra il professionista costruttore del fabbricato e il consumatore acquirente di una delle unità immobiliari in esso compreso è, di regola, una compravendita. Dal contratto di compravendita di una unità immobiliare compresa in un edificio condominiale non discende, quindi, all’evidenza, un obbligo per il venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano; tale obbligo discende, piuttosto, dagli artt. 1118 e 1123 c.c. e può essere oggetto, tuttavia, di “diversa convenzione” ai sensi del comma 1 dell’art. 1123 c.c. Infatti, in base agli artt. 1118, comma 1, e 1123 c.c. posso essere derogati da una convenzione stipulata tra tutti i condomini, come anche da una deliberazione presa dagli stessi con l’unanimità dei consensi dei partecipanti. L’autonomia negoziale può anche prevedere l’esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall’obbligo di partecipare alle spese condominiali.

Secondo la decisione in esame, diversamente da quanto riferito nella pronuncia impugnata, l’esonero dei condòmini dagli obblighi collegati alla contitolarità del diritto di proprietà sulle cose comuni, eventualmente inserita nel contenuto contrattuale del regolamento condominiale, costituisce vicenda negoziale autonoma e distinta rispetto al contratto di vendita dell’unità immobiliare intercorsa tra costruttore proprietario originario e singolo condomino acquirente, seppure tale “diversa convenzione” ex art. 1123 c.c. sia oggetto di espresso richiamo nei titoli di compravendita di ciascun appartamento dell’edificio comune. Quindi, affinché una clausola della convenzione sulle spese condominiali sia valutata ai fini dell’art. 33 del Codice del Consumo occorre, allora, che la stessa provochi un significativo squilibrio (non ex se negli obblighi di contribuzione derivanti dagli artt. 1118 e 1123 c.c., ma) dei diritti e degli obblighi derivanti, ai sensi degli artt. 1476 e 1498 c.c., dal contratto di compravendita concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente.

Al riguardo, secondo la Suprema Corte, occorre procedere a un accertamento della vessatorietà della “clausola”, la quale esonera la costruttrice dal pagamento delle spese condominiali, valutando non lo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal regolamento di Condominio, il quale non è un contratto di consumo, quanto lo squilibrio dell’intero rapporto contrattuale sinallagmatico e dunque della complessiva operazione economica intercorsi tra il singolo acquirente consumatore e il professionista venditore. L’eventuale accertamento della vessatorietà della clausola nell’ambito del rapporto di consumo “a vantaggio del consumatore” ripercuoterà la sua incidenza sulla validità della adesione alla convenzione ex art. 1123, comma 1, c.c.

Alla luce di tali premesse, la pronuncia conclude affermando il principio di diritto anticipato supra nella risposta.

incarichi società partecipate

Incarichi amministratori partecipate: cade il divieto La Consulta ritiene il divieto di conferimento di nuovi incarichi nelle partecipate illegittimo costituzionalmente, salvo che nelle ipotesi di provenienza politica

Incarichi società partecipate

E’ incostituzionale il divieto di conferimento di nuovi incarichi di amministratore di società partecipate per chi abbia già ricoperto nell’anno precedente analoghi incarichi. Il divieto permane nelle ipotesi di provenienza politica del nominato. E’ quanto affermato dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 98-2024, pubblicata ieri, che si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal TAR Lazio, delle norme che stabiliscono il divieto di conferire incarichi di amministratore di enti privati, sottoposti a controllo pubblico da parte degli enti locali (province o comuni), a coloro i quali nell’anno precedente abbiano svolto analoghi incarichi presso altri enti della stessa natura.

La qlc

La fattispecie esaminata dalla Consulta coinvolgeva un manager pubblico che, per aver ricoperto, nell’anno precedente, il ruolo di amministratore delegato presso una società controllata da un comune, non ha potuto ottenere lo stesso incarico presso altra società partecipata.

Il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme del decreto legislativo n. 39 del 2013 nella parte in cui, con riguardo a ipotesi simili, non consentono la conferibilità del nuovo incarico. Questo divieto, infatti, si pone in contrasto con le previsioni della legge di delega (la n. 190 del 2012) e, quindi, con l’art. 76 Cost., che non consente al Governo, nell’esercizio della delega conferitagli dal Parlamento, di introdurre ipotesi limitative che non siano state previste dal legislatore delegante.

La decisione della Consulta

Nella motivazione, la Corte precisa che “la legge di delega ha circoscritto la non conferibilità degli incarichi amministrativi di vertice – per quanto assume rilievo nella fattispecie oggetto di giudizio – solo alle ipotesi di provenienza politica del nominato, cioè solo ai casi in cui costui abbia svolto, nell’anno precedente, incarichi di natura politica. Tali non sono gli incarichi di amministratore di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico, che la legge di delega non ha incluso tra le posizioni di provenienza ostative”.

Le richiamate previsioni della legge di delega costituiscono “il frutto di un bilanciamento tra l’accesso al lavoro dei professionisti, che è stato parzialmente sacrificato mediante la previsione della non conferibilità degli incarichi per provenienza politica, e l’imparzialità dell’azione amministrativa, che va assicurata anche nelle forme della mera ‘apparenza’ di imparzialità”.

Tuttavia, l’estensione di questa garanzia preventiva anche ad ipotesi prive di qualsiasi percepibile collegamento con lo svolgimento di incarichi “politici” è estranea, ha concluso la Corte, all’obiettivo perseguito dal legislatore delegante e, pertanto, non poteva essere introdotta dalla legge delegata.

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