vietato usare femminile ddl

Vietato usare il “femminile”: ddl ritirato Il ddl sui nomi femminili del leghista Potenti che prevedeva anche multe fino a 5mila euro in caso di violazioni è stato ritirato

DDL sui nomi femminili: ritirato

Il  disegno di legge sui nomi femminili proposto in data 11 luglio 2024 dal senatore leghista Manfredi Potenti è stato ritirato.  Lo si evince alla pagina del Senato dedicata all’atto n. 1191 che riporta espressamente la dicitura: “ritirato 22 luglio 2024”.

Il senatore con questo disegno di legge intitolato “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere” avrebbe voluto vietare per legge l’utilizzo dei nomi al femminile di alcune professioni dagli atti pubblici.

Per il proponente l’utilizzo del femminile nei documenti ufficiali sarebbe irrispettoso verso le istituzioni per cui è “necessario un intervento normativo che implichi un contenimento della creatività nelluso della lingua italiana nei documenti delle istituzioni”.

Preservare la PA da deformazioni letterali

Come previsto dall’articolo 1 del testo l’obiettivo della proposta di legge è quello di “preservare la pubblica amministrazione dalle deformazioni letterali derivanti dalla necessità di affermare la parità di genere nei testi pubblici”.

Per il ddl occorre “preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici, come “Sindaco”, “Prefetto”, “Questore”, “Avvocato” dai tentativi simbolici di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”.

Vietato usare il “femminile”

Il divieto di utilizzo del femminile era previsto espressamente dall’articolo 3 della proposta di legge che così disponeva: “divieto del ricorso discrezionale al femminile o sovra esteso o a qualsiasi sperimentazione linguistica. È ammesso l’uso della doppia forma od il maschile universale, da intendersi senza neutro e senza alcuna connotazione sessista.”

Nello specifico il disegno di legge avrebbe voluto vietare l’utilizzo negli atti pubblici del “genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, e dagli incarichi individuati dati aventi forza di legge”.

Fino a 5.000 euro di multa in caso di violazione

In caso di inadempimento, l’articolo 5 del testo avrebbe previsto multe salate “la violazione degli obblighi di cui la presente legge comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1000 a 5000 euro”.  

Il parere dell’Accademia della Crusca

Il Professor Paolo d’Achille, Presidente dell’Accademia della Crusca, nel commentare il disegno di legge del Senatore Manfredi Potenti ricorda che da un punto di vista puramente tecnico qualunque nome declinato al maschile può essere volto al femminile e che non sempre è possibile il contrario.

In una risposta del 2023 riferita all’individuazione di regole finalizzate allo sviluppo di un linguaggio giuridico di tipo inclusivo, il professor d’Achille aveva precisato di usare la lingua italiana nel rispetto della parità di genere, ricordando la correttezza dell’uso del genere femminile per i titoli professionali che si riferiscono alle donne.

 

Vedi tutte le notizie di diritto amministrativo

esclusione responsabilità agenti pubblici

Legittima temporanea esclusione responsabilità agenti pubblici Per la Consulta, è legittima la temporanea esclusione della responsabilità amministrativa per colpa grave fino al 31 dicembre 2024

Responsabilità amministrativa per colpa grave

E’ legittima la temporanea esclusione della responsabilità per gli agenti pubblici, introdotta dal legislatore per le sole condotte commissive e fino al 31 dicembre 2024. Il regime ordinario invece “non potrà limitare al solo dolo la responsabilità amministrativa, per la quale, tuttavia, la Corte auspica una complessiva riforma”. Così ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 132/2024, con cui sono state dichiarate in parte inammissibili e per la restante parte non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, sollevate dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania.

La disposizione censurata

La disposizione censurata, per come prorogata, prevede, sino al 31 dicembre 2024, per le condotte commissive degli agenti pubblici una temporanea limitazione della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi dolose.

La Corte dei conti lamentava, in primo luogo, la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., perché tale limitazione della responsabilità si tradurrebbe in un non consentito allontanamento dal principio generale dell’imputabilità a titolo di dolo o colpa grave.

Due esigenze fondamentali

Nel respingere la questione, la Corte costituzionale ha rammentato che “la disciplina della responsabilità amministrativa va inquadrata nella logica della ripartizione del rischio dell’attività tra l’apparato e l’agente pubblico, al fine di trovare un giusto punto di equilibrio. Per individuare quest’ultimo, il legislatore, nell’esercizio della discrezionalità ad esso spettante, deve tenere conto di due esigenze fondamentali: da un lato, quella di tenere ferma la funzione deterrente della responsabilità, al fine di scoraggiare i comportamenti dei funzionari che pregiudichino il buon andamento della pubblica amministrazione e gli interessi degli amministrati; dall’altro, quella di evitare che il rischio dell’attività amministrativa sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento”.

Nella ricerca di tale punto di equilibrio, non può prescindersi dalla stretta correlazione che esiste tra il sistema della responsabilità amministrativa e il vigente modello di amministrazione.

No alla limitazione a regime

Ciò premesso in generale, la Corte costituzionale ha chiarito che, a regime, non è immaginabile una disciplina normativa che limiti la responsabilità amministrativa alla sola ipotesi del dolo, con esclusione della colpa grave, perché in tal modo i comportamenti macroscopicamente negligenti non sarebbero scoraggiati e, pertanto, la funzione deterrente della responsabilità amministrativa ne sarebbe irrimediabilmente indebolita.

Tuttavia, “una siffatta limitazione – ha proseguito il giudice delle leggi – non potrebbe ritenersi irragionevole ove riguardi esclusivamente un numero circoscritto di agenti pubblici o specifiche attività amministrative, allorché esse presentino, per le loro caratteristiche intrinseche, un grado di rischio di danno talmente elevato da scoraggiare sistematicamente l’azione amministrativa”.

Nemmeno – ed è questo il caso di specie – “tale limitazione può considerarsi irragionevole ove si radichi nella particolarità di uno specifico contesto e sia volta ad assicurare la maggiore efficacia dell’attività amministrativa e, attraverso essa, la tutela di interessi di rilievo costituzionale, ed abbia carattere provvisorio”.

La ratio delle proroghe

La disposizione censurata, infatti, si giustificava in relazione al peculiarissimo contesto economico e sociale in cui l’emergenza Covid aveva determinato la prolungata chiusura delle attività produttive, con danni enormi per l’economia nazionale e ovvie ricadute negative sulla stessa coesione sociale e la tutela dei diritti e di interessi vitali per la società. Per superare la crisi e rimettere in moto l’economia, il legislatore, “non irragionevolmente, ha ritenuto indispensabile che l’amministrazione pubblica operasse senza remore e non fosse, al contrario, a causa della sua inerzia, un fattore di ostacolo alla ripresa economica”.

Le successive proroghe, invece, sono connesse all’inderogabile esigenza di garantire l’attuazione del PNRR e la conseguente ripresa di un sentiero di crescita economica sostenibile, oltre che il superamento di alcuni divari economici, sociali e di genere. La Corte costituzionale ha affermato che, nel valutare la proporzionalità dell’intervento legislativo, non può prescindersi dal rilievo che la disposizione censurata origina da un contesto eccezionale, ha natura temporanea ed ha comunque un oggetto delimitato, riguardando solo le condotte commissive e non quelle “inerti” ed “omissive”.

Riforma della responsabilità amministrativa

Da ultimo, la Corte costituzionale, in vista dell’imminente scadenza temporale dell’ultima proroga della disposizione censurata, ha inteso sollecitare il legislatore “al varo di una complessiva riforma della responsabilità amministrativa, al fine di ristabilire una coerenza tra la sua disciplina e le strutturali trasformazioni del modello di amministrazione e del contesto istituzionale, giuridico e sociale in cui essa opera”.

Leggi anche Il procedimento amministrativo

Allegati

espropriazione pubblica utilità

Espropriazione per pubblica utilità Il procedimento di espropriazione per pubblica utilità e le sue fasi: il vincolo, la dichiarazione di pubblica utilità, l’indennità e il decreto di esproprio

Cosa si intende con espropriazione?

L’espropriazione per pubblica utilità è una procedura che le pubbliche amministrazioni possono mettere in atto quando, in base agli strumenti urbanistici di pianificazione territoriale, ritengano che una determinata area debba essere asservita alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità o che un determinato immobile debba essere destinato ad una funzione di pubblica utilità.

L’espropriazione per pubblica utilità nella Costituzione

L’espropriazione si pone, quindi, come un limite al diritto di proprietà, nel senso che pur corrispondendo quest’ultimo ad un potere illimitato di godimento e disposizione sul bene in capo al proprietario, tale diritto/potere è destinato a recedere di fronte al superiore interesse pubblico.

Questo è esattamente il concetto espresso dall’art. 42 della Costituzione, che al terzo comma dispone, appunto, che la proprietà privata, nelle ipotesi previste dalla legge, può essere espropriata per cause di interesse generale e che, in tali casi, al proprietario spetta un indennizzo.

Quanto dura il vincolo di esproprio?

Ovviamente, per evitare abusi, discriminazioni e disparità di trattamento, l’intero procedimento di espropriazione per pubblica utilità è disciplinato nel dettaglio dalla legge e trova, oggi, compiuta regolamentazione nel DPR n. 327 del 2001, c.d. Testo Unico sugli espropri.

In base alla normativa in vigore, il primo passaggio fondamentale del procedimento di espropriazione è l’apposizione del vincolo su un determinato bene. La scelta del bene, o dei beni, su cui apporre tale vincolo discende direttamente dall’approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica, come il Piano di Governo del Territorio o il Piano Regolatore.

Il vincolo ha una durata di cinque anni, anche se la legge prevede che possa essere reiterato nel caso in cui non abbia avuto seguito entro tale termine. In tale ipotesi, però, al proprietario va riconosciuta un’indennità commisurata al danno prodotto. Ciò è conseguenza del fatto che, per il fatto dell’apposizione del vincolo, il bene subisce un chiaro deprezzamento, e la reiterazione del vincolo non fa altro che prolungare tale situazione.

Entro i cinque anni dall’apposizione, pertanto, deve normalmente intervenire il successivo provvedimento dell’Autorità procedente, che consiste nella dichiarazione di pubblica utilità. In caso contrario, e in mancanza di reiterazione, il vincolo decade.

La dichiarazione di pubblica utilità

La dichiarazione di pubblica utilità consegue all’approvazione del progetto definitivo di un’opera (si pensi ad una strada) e si concreta nella destinazione alla pubblica utilità dell’area su cui tale opera dovrà insistere.

Tale dichiarazione viene resa pubblica dall’Ente procedente (ad esempio sugli albi, o in apposite sezioni del sito web istituzionale) e può essere oggetto di osservazioni da parte di eventuali controinteressati, le quali vengono esaminate dall’amministrazione nell’ambito di un’istruttoria di cui viene dato conto nel provvedimento finale.

Tale provvedimento può prevedere la trasformazione fisica dell’immobile (nel classico caso di costruzione di una nuova opera) o nella semplice destinazione ad uso pubblico di un immobile privato preesistente.

In ogni caso, il provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità viene notificato ai proprietari delle aree interessate, in vista del conseguente provvedimento di esproprio, che deve essere adottato entro cinque anni, salvo proroga di massimo due anni.

Quanto viene pagato un esproprio?

Prima dell’adozione del decreto di esproprio, cioè del provvedimento con cui si conclude il procedimento di espropriazione per pubblica utilità, è necessario che l’amministrazione procedente determini l’indennità di esproprio.

Tale emolumento rappresenta l’indennizzo al proprietario, la cui corresponsione è prevista, come detto, dall’art. 42 della nostra Costituzione.

L’indennità provvisoria è comunicata al destinatario, che può accettare l’importo o avanzare le proprie osservazioni in merito. Successivamente, l’Ente, sentiti i tecnici incaricati, determina l’indennità di esproprio definitiva, commisurata al valore venale del bene.

Dopo il pagamento dell’indennità, viene stipulato con il privato l’atto di cessione e adottato il decreto di esproprio, con la conseguente presa di possesso da parte dell’Amministrazione procedente e l’avvio dei lavori, ove previsti.

spoil system pa

Spoil system solo per i dirigenti apicali La Cassazione ha precisato che ai fini dell’applicazione del c.d. spoil system, la natura apicale dell’incarico conferito al dirigente va valutata tenendo conto del dato formale di tale incarico, nonché dei poteri attribuiti al detto dirigente in concreto

L’incarico di dirigente nella p.a.

Il caso in esame riguarda l’incarico assunto da un dirigente presso la Regione Calabria della durata di tre anni. A seguito dell’elezione della nuova Giunta regionale quest’ultima aveva dichiarato decaduto tutti gli incarichi dirigenziali.

Il dirigente aveva pertanto adito il Tribunale di Catanzaro ed il giudizio di merito si era concluso con la decisione della Corte d’appello territoriale che aveva, per quanto qui rileva, accolto le doglianze del lavoratore, la quale aveva ritenuto illegittima la scelta di revocare l’incarico in questione.

Il dirigente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, a seguito del precedente riesame effettuato dalla Corte stessa, su sollecitazione della Regione Calabria.

I dirigenti apicali preposti ai dipartimenti

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 15971/2024, ha accolto, per quanto qui rileva, il ricorso proposto dal dirigente.

In particolare, la Corte ha affermato, ripercorrendo la giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, che per valutare la legittimità della revoca dell’incarico del dirigente, in ragione del cambio della maggioranza politica (cd spoil system), occorre avere riguardo, oltre che al dato formale, anche alla posizione occupata dal dirigente, vale a dire se lo stesso sia o meno alla guida di un ufficio apicale. Tale ultimo requisito si intende integrato se il capo dipartimento ricopre una funzione organizzativa consistente nel “coordinare e dirigere l’ufficio secondo le direttive generali degli organi di direzione politica che assiste, svolge un incarico rispetto al quale opera il c.d. spoil system, rientrando esso negli incarichi dirigenziali apicali che non attengono ad una semplice attività di gestione, ed essendo invece rapportabile alla direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali”.

Per quanto attiene al caso concreto assume inoltre particolare rilievo la disposizione di cui all’art. 22, comma 2 della legge regionale Calabria n. 7 del 1996 ove è stabilito che “I Dirigenti preposti ai Dipartimenti svolgono le funzioni di Dirigente Generale ed assumono tale denominazione”. Inoltre, la Corte ha precisato che il fatto che il contratto individuale del dirigente richiamasse l’articolo 16, comma 1, Dlgs n. 165 del 2001, che individua le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali statali, “non è dirimente in quanto il presupposto dell’applicazione dello spoil system è il carattere apicale del dirigente interessato” mentre nel caso di specie il dirigente era “sempre formalmente, sottoposta al competente dirigente di dipartimento”.

Il Giudice di legittimità ha pertanto riferito che la Corte territoriale, nell’ambito del giudizio di merito, avrebbe dovuto verificare “non tanto se la dirigente avesse in concreto i poteri propri dell’apicale, ma, soprattutto, se essa fosse stata posta a capo di una struttura che, da un punto di vista organizzativo, avesse le stesse caratteristiche di un Dipartimento, in modo da distinguersi, per la sua totale autonomia, dai Dipartimenti ufficialmente esistenti e da aggiungersi ad essi. Solo a queste condizioni i poteri eventualmente assegnati alla ricorrente avrebbero potuto condurre ad una sua equiparazione a un dirigente apicale”.

La decisione

In definitiva, sulla scorta di quanto sopra riferito, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto “Ai fini dell’applicazione della normativa sul c.d. spoil system, la natura apicale dell’incarico conferito con contratto a un dirigente va valutata tenendo conto, in linea di principio, della qualificazione formale di tale incarico contenuta nel contratto medesimo, senza che rilevi di per sé il semplice richiamo dell’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, il quale individua le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali statali, pur se in astratto incompatibile con la menzionata qualificazione. Per superare il dato formale, dal quale, comunque, occorre partire, è necessario verificare non tanto i poteri attribuiti al detto dirigente in concreto, ma se egli sia stato posto a capo di una struttura che, da un punto di vista organizzativo, abbia le stesse caratteristiche di un ufficio apicale, in modo da distinguersi e aggiungersi, per la sua totale autonomia, a quelli già esistenti”.

incidente animale selvatico prova

Incidente con animale selvatico e onere della prova La Cassazione fa chiarezza sull'onere della prova nel caso di incidente stradale causato da fauna selvatica

Incidente stradale causato da fauna selvatica

La responsabilità dell’ente pubblico per il danno causato dalla fauna selvatica discende dall’omessa custodia dell’animale (ex art. 2052 c.c.) e non già dalla violazione del precetto del cd. “neminem laedere” espresso dall’articolo 2043 c.c. Per cui spetta al danneggiato la prova del nesso di causa mentre incombe sul danneggiante l’eventuale prova liberatoria.

Lo ha chiarito la terza sezione civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 12714-2024 accogliendo il ricorso di un’automobilista che aveva subito un danno alla propria vettura a causa dell’investimento di un capriolo che aveva improvvisamente attraversato la strada. La donna citava in giudizio la regione chiedendo il risarcimento del danno subito, ma l’amministrazione eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva in favore della provincia. Il giudice di pace dava ragione alla donna ma, in appello, il tribunale riformava la decisione rigettando la domanda della danneggiata. Così la vicenda approdava in Cassazione. Innanzi al Palazzaccio la donna prospetta una violazione dell’art. 2052 c.c.

Art. 2052 c.c.

La ricorrente osserva, infatti, come, a partire dalla pronuncia numero 7969 del 2020, la giurisprudenza sul danno causato dalla fauna selvatica è cambiata, nel senso che si è passati dalla qualificazione di tale danno in termini di un illecito ex art. 2043 c.c. alla qualificazione invece della fattispecie in termini di danno da custodia di animali, ex art. 2052 c.c. con conseguente diversità dell’onere della prova.

Pur avendo preso atto di questo mutamento di giurisprudenza, osserva ancora la ricorrente, il tribunale “ha tuttavia ritenuto che le parti stesse avevano invece prospettato una responsabilità ex art. 2042 c.c., ossia avevano qualificato la fattispecie concreta in quei termini, e che dunque bisognava attenersi alla prospettazione fatta dalle parti con conseguente onere della prova gravante per intero sul danneggiato”.

La decisione della Cassazione

Per la S.C. la donna ha ragione. “Secondo il giudice di merito, sia nella prospettazione dell’attore che in quella del convenuto, il fatto è qualificato come un caso di responsabilità extracontrattuale dell’ente e che, di conseguenza, a qualificarlo come responsabilità del custode, si andrebbe incontro al vizio di ultra petizione. Questa tesi ovviamente è infondata – affermano i giudici di piazza Cavour – è infatti principio di diritto che quando una parte agisce prospettando una determinata fattispecie di responsabilità il giudice non è vincolato alla qualificazione giuridica dei fatti proposta dalla parte ma ha il potere di decidere una qualificazione diversa, sempre che i fatti non siano a loro volta diversi (cfr. Cass. 13757/ 2018; Cass. 11805/ 2016)”.

Responsabilità art. 2052 e art. 2043 c.c.

Ciò posto, proseguono, “la responsabilità dell’ente pubblico per il danno causato dalla fauna selvatica è una responsabilità che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, discende dalla omessa custodia dell’animale e non già dalla violazione del generico precetto di non ledere espresso dall’art. 2043 c.c., e dunque è una responsabilità che va sotto la fattispecie dell’art. 2052 c.c.”.

Con la conseguenza che “la distribuzione dell’onere della prova è del tutto diversa da come è stata valutata dal giudice di merito, nel senso che spetta al danneggiato la prova del nesso di causa” mentre “l’imprevedibilità del fatto e dunque, nella circostanza, l’imprevedibilità dell’attraversamento da parte dell’animale, quale caso fortuito che esclude la responsabilità, deve essere allegato e dimostrato dal danneggiante; allo stesso modo, la prova che il danno si è verificato per una condotta colpevole del danneggiato, ossia la guida imprudente, che è nient’altro che la prova anche essa del caso fortuito, è una prova che grava sul danneggiante”.

Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione con rinvio della decisione impugnata.

Allegati

danno ritardo pa prova

Danno da ritardo della PA: occorre la prova Il Consiglio di Stato ha ricordato che il danno da ritardo non può essere presunto juris et de jure, poiché, per fondare la responsabilità ex art. 2043 c.c., è necessaria la verifica dei presupposti di carattere soggettivo e oggettivo

Ritardo nella conclusione del procedimento

Nell’ambito di un procedimento amministrativo, il privato interessato al provvedimento finale aveva lamentato che l’atto amministrativo fosse stato adottato successivamente al tempo massimo entro il quale l’amministrazione competente avrebbe dovuto esprimere il parere attraverso apposita conferenza di servizi.

Posto quanto sopra, l’interessato aveva proposto ricorso dinanzi al TAR per la Puglia, chiedendo il risarcimento del danno conseguente al ritardo nella conclusione del procedimento teso al rilascio dell’autorizzazione richiesta.

Il Tar per la Puglia, sul rilievo che fosse mancata “la prova circa la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (esistenza del danno ingiusto, nesso causale, determinazione dell’ammontare del ristoro) e di carattere soggettivo (dolo o colpa dell’Amministrazione danneggiante) della domanda proposta in giudizio”, aveva respinto il ricorso proposto.

Avverso tale decisione la società interessata aveva appellato la sentenza per “illegittimità ed erroneità – violazione dell’art. 269, comma 3, del d.lgs n. 152/2006 – violazione dell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 – eccesso di potere per motivazione lacunosa illogica e travisante inversione onere della prova”.

Il danno da ritardo della PA

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 3375-2024, ha respinto l’appello proposto e ha condannato la società appellante al pagamento delle spese di giudizio.

Il Consiglio di Stato ha anzitutto precisato che “La domanda risarcitoria azionata dalla società (…) va qualificata quale “danno da ritardo” ex art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, conseguente alla mancata conclusione, nel termine previsto, del procedimento di rilascio della autorizzazione”.

Per quanto qui rileva il Consiglio di Stato ha ripercorso la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto, secondo cui “il danno da ritardo risarcibile non può essere presunto juris et de jure, quale effetto automatico del semplice scorrere del tempo, ma è necessaria la verifica della sussistenza dei presupposti di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) e oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), richiesti dalla menzionata norma codicistica per fondare la responsabilità ex art. 2043 c.c.”.

Nella medesima direzione, ha ricordato il Consiglio di Stato, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che, sul piano delle conseguenze, il fatto lesivo “deve essere collegato da un nesso da causalità ai pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati; dal punto di vista dell’onere probatorio, il mero superamento del termine per la conclusione del procedimento non integra, inoltre, piena prova del danno”.

La decisione

Posto tale consolidato orientamento giurisprudenziale, il Giudice amministrativo ha evidenziato che, nel caso di specie, il privato non aveva adeguatamente provato “il nesso di causalità tra la condotta della Provincia (id est, ritardo procedimentale) e l’evento asseritamente dannoso (mancata realizzazione dell’impianto), in termini di causalità efficiente”.

Inoltre, ha concluso il Consiglio di Stato, la società non aveva comunque comprovato l’elemento soggettivo della colpa dell’amministrazione.

Sulla scorta di quanto sopra, pertanto, il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello.

Allegati

giurista risponde

Giudizio di ottemperanza e mutamento normativo Il mutamento normativo consente di riproporre il giudizio di ottemperanza in origine dichiarato inammissibile?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, sez. IV, ord. 23 novembre 2022, n. 10342

La vicenda esaminata attiene alla possibilità di riproporre l’azione di ottemperanza, in passato dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione per difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato, stante la ritenuta natura meramente amministrativa del decreto decisorio del ricorso straordinario, insuscettibile, come tale, di essere eseguito con il rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza.

Come è noto, infatti, nel 2009 è intervenuta la L. n. 69, che ha profondamente inciso sull’istituto del ricorso straordinario, elevato a rimedio sostanzialmente giurisdizionale, con evidenti riflessi sulla ammissibilità di un nuovo ricorso per l’ottemperanza.

Invero, in senso contrario si osserva che la rimodulazione legislativa del ricorso straordinario del 2009 non ha riguardato espressamente la sua efficacia retroattiva, successivamente esclusa dalla giurisprudenza.

Come affermato dai Giudici, si pone, pertanto, la necessità di valutare, in chiave processuale, se un giudicato in rito ostativo alla proposizione di un’azione possa sopravvivere al quadro normativo applicato (in altra prospettiva, se possa avere efficacia ultra-attiva insensibile alle successive modifiche legislative) ovvero se sia condizionato temporalmente alla vigenza di questo, specialmente allorché tale giudicato frustri ed inibisca definitivamente ed irrimediabilmente le istanze di giustizia avanzate dagli interessati.

In chiave sostanziale, inoltre, ci si chiede se la sopravvenuta modifica legislativa di uno strumento di tutela con effetti ampliativi delle facoltà defensionali dei privati (ossia, più in particolare, la rimodulazione della relativa disciplina in maniera così profonda da determinarne, secondo consolidata giurisprudenza, l’evoluzione della stessa natura giuridica, connotata ora da carattere sostanzialmente giurisdizionale) si rifletta e ridondi – in senso parimenti ampliativo – a beneficio delle istanze degli interessati già azionate in epoca antecedente alla novella legislativa e allora dichiarate inammissibili, consentendone hic et nunc la riproposizione, tenendo oltretutto presente che il maggioritario indirizzo pretorio ammette il rimedio dell’ottemperanza, ex art. 112 c.p.a., anche per le decisioni rese su ricorso straordinario nell’assetto normativo tradizionale, ossia quello antecedente alla novella del 2009.

Si afferma quindi che il rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza era stato ritenuto inammissibile a motivo della natura amministrativa del decreto decisorio di ricorso straordinario, natura, tuttavia, non più predicabile in base alla vigente legislazione: il fatto che la precedente azione di ottemperanza non sia stata respinta nel merito, ma dichiarata inammissibile per ragioni processuali, potrebbe legittimare, in un’ottica esegetico-applicativa particolarmente attenta al valore ordinamentale dell’effettività della tutela giurisdizionale e della pienezza del diritto di difesa, l’attuale presentazione di una nuova istanza di ottemperanza, non ostandovi più la pronuncia di inammissibilità della Corte di cassazione, a suo tempo emessa sulla scorta di un paradigma normativo poi radicalmente travolto, sia pure con valenza ex nunc, dalle modifiche legislative medio tempore intervenute.

Quanto alla possibile violazione del ne bis in idem, si afferma, altresì, che la violazione di tale principio potrebbe tout court non venire in considerazione nella specie, qualora si valorizzasse fortemente la circostanza che l’attuale azione di esecuzione si muove entro una cornice normativa e giurisprudenziale del tutto diversa da quella vigente al momento del radicamento del precedente ricorso, sì che potrebbe assumersi – nell’intento di preservare le istanze di tutela sostanziale del privato – che non si tratti, a stretto rigore, della medesima azione.

Sulla base di tali premesse, la IV sezione del Consiglio di Stato ha rimesso la soluzione della questione all’Adunanza Plenaria, chiedendo in particolare se, dopo che la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione un ricorso per ottemperanza di un decreto decisorio di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la parte interessata possa radicare un nuovo giudizio di ottemperanza, adducendo a fondamento dell’ammissibilità dell’ulteriore azione tanto la sopravvenuta e incisiva modificazione legislativa dei caratteri del ricorso straordinario, quanto il consolidato orientamento pretorio che ammette l’ottemperanza di decreti decisori di ricorsi straordinari anche ove emessi prima della novella del 2009.

giurista risponde

Accesso agli atti ente di diritto privato Sono accessibili gli atti di un ente di diritto privato che svolge attività di pubblico interesse?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, sono accessibili gli atti di un ente di diritto privato che svolge attività di pubblico interesse, limitatamente a tali attività. – Cons. Stato, sez. V, 20 marzo 2024, n. 2694.

Preliminarmente con riguardo alla vicenda in esame, la quinta Sezione del Consiglio di Stato ricorda che l’art. 22, comma 1, lett. e), della L. 241/1990, ammette l’accesso agli atti “limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.

L’interesse all’ostensione degli atti inerenti all’attività di pubblico interesse può discendere da notizie di stampa, le quali devono ritenersi idonee, in assenza di dati ed elementi conoscitivi più specifici e dettagliati, a radicare l’interesse, concreto e attuale all’accesso degli atti richiesti, potendo essere i medesimi potenzialmente idonei a consentire la violazione delle prescrizioni di legge che impongono di remunerare le prestazioni professionali con un equo compenso.

Nel caso in esame la Sezione ha ritenuto che, pur muovendo dalla natura privatistica di ASMEL (Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali – è un’associazione senza scopo di lucro costituita da comuni e altri enti pubblici, tra i cui scopi rientra, tra l’altro, quello “di implementare soluzioni per il conseguimento di obiettivi di semplificazione amministrativa e di contenimento della spesa nell’ambito dei procedimenti di acquisizione di beni e servizi”), l’attività dalla stessa posta in essere, nel sottoscrivere l’accordo quadro di cui è stata chiesta l’ostensione, sia di pubblico interesse. Ha statuito che sono ostensibili l’accordo quadro e tutti gli altri atti, nella disponibilità della stessa, richiesti dall’ordine degli avvocati di Roma, quale ente esponenziale della categoria degli avvocati.

*Contributo in tema di “Accesso agli atti”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica