associazioni non riconosciute

Associazioni non riconosciute: stop prescrizione per azioni contro amministratori La Corte costituzionale estende la sospensione della prescrizione delle azioni di responsabilità anche alle associazioni non riconosciute

Sospensione prescrizione per le associazioni non riconosciute

Con la sentenza n. 86 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 2941, primo comma, numero 7) del Codice civile. La norma, nella sua formulazione originaria, non prevedeva la sospensione del termine di prescrizione per le azioni di responsabilità promosse dalle associazioni non riconosciute contro i propri amministratori finché questi ultimi restano in carica.

Secondo i giudici costituzionali, questa esclusione si traduce in una disparità di trattamento irragionevole rispetto alle associazioni riconosciute e alle società di persone, per le quali la sospensione è già prevista.

La disparità rispetto ad associazioni riconosciute e società di persone

La Corte ha richiamato due precedenti pronunce: la sentenza n. 322 del 1998, che aveva riguardato le società in nome collettivo, e la sentenza n. 262 del 2015, relativa alle società in accomandita semplice. In entrambe le occasioni, era stata riconosciuta la necessità di sospendere la prescrizione delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori durante il periodo in cui questi esercitano la carica.

La ragione è la medesima anche nel caso delle associazioni non riconosciute: mentre gli amministratori sono in carica, risulta difficile per l’ente accertare eventuali illeciti gestori e promuovere tempestivamente le azioni per tutelare il proprio patrimonio.

La personalità giuridica non incide sui rapporti interni

La Consulta ha sottolineato che il riconoscimento della personalità giuridica non modifica la natura del rapporto interno fra l’ente associativo e i suoi amministratori.

Di conseguenza, non si giustifica una disciplina differente che svantaggi le associazioni prive di riconoscimento rispetto a quelle dotate di personalità giuridica, né tantomeno rispetto alle società di persone, per le quali il legislatore ha già previsto strumenti di controllo e la sospensione del termine prescrizionale.

Effetti della sentenza e tutela dell’ente

La decisione adegua la normativa ai principi di uguaglianza e ragionevolezza sanciti dall’articolo 3 della Costituzione. D’ora in avanti, anche le associazioni non riconosciute potranno beneficiare della sospensione della prescrizione delle azioni di responsabilità contro gli amministratori, finché questi restano in carica.

Questa pronuncia offre agli enti associativi un’effettiva tutela dei propri interessi patrimoniali e garantisce che la durata dell’incarico degli amministratori non diventi un ostacolo all’esercizio dei diritti di difesa e di controllo.

Leggi anche la guida Associazioni riconosciute

società semplice

Società semplice: la Corte Costituzionale sul fallimento in estensione dei soci La Consulta chiarisce che il fallimento di una società semplice non è opponibile ai soci se non sono stati convocati nella procedura. Ecco cosa prevede la sentenza n. 87/2025

Società semplice e rischio di fallimento in estensione

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 87 del 2025, ha precisato i limiti del cosiddetto fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili di una società semplice.

In linea generale, la società semplice non è soggetta a fallimento. Tuttavia, quando si accerta che ha esercitato attività commerciale, può essere dichiarata fallita, con la conseguenza che anche i soci rispondono patrimonialmente e possono subire il fallimento in estensione.

La legge fallimentare (articolo 147 del regio decreto n. 267/1942) consente che il procedimento di fallimento dei soci sia separato da quello della società.

Il diritto di difesa dei soci e la convocazione nella procedura

La questione esaminata dalla Corte riguardava un caso in cui i soci non erano stati convocati nel giudizio che aveva dichiarato il fallimento della società semplice. La normativa vigente, secondo l’interpretazione consolidata, riteneva sufficiente garantire ai soci il diritto di proporre reclamo entro trenta giorni dalla trascrizione della sentenza nel registro delle imprese.

Tuttavia, i giudici costituzionali hanno osservato che questa garanzia non è adeguata nel caso di una società semplice, che normalmente non è soggetta a fallimento e i cui soci non hanno motivo di monitorare costantemente il registro delle imprese.

L’onere di verifica e i limiti dell’affidamento

La Consulta ha affermato che, per garantire l’effettività del diritto di difesa, non può gravare sui soci l’onere di controllare autonomamente l’eventuale fallimento della società.

Secondo la sentenza, su basi così deboli non si può fondare un accertamento che condiziona la possibilità di dichiarare il fallimento del socio, con pesanti ripercussioni anche sul piano personale.

Di conseguenza, i soci devono essere convocati non solo nel giudizio che decide sul loro fallimento in estensione, ma anche nel procedimento che accerta la fallibilità dell’ente.

Fallimento società semplice non è automaticamente opponibile ai soci

La Corte costituzionale ha stabilito che, se la convocazione manca, la sentenza dichiarativa del fallimento della società non è opponibile ai soci illimitatamente responsabili.

Nel giudizio sul fallimento in estensione, sarà quindi possibile discutere nuovamente la fallibilità dell’ente, a meno che non sia dimostrato che i soci hanno partecipato alla procedura oppure che abbiano esercitato il diritto di difesa mediante reclamo.

Questa interpretazione assicura un bilanciamento tra esigenze di tutela del ceto creditorio e diritti fondamentali dei soci.

metodo d'hondt

Caccia: è legittimo il metodo D’Hondt per i comitati di gestione La Consulta conferma la legittimità del metodo D’Hondt nella composizione dei comitati venatori. Nessuna violazione del principio di rappresentatività ambientale

La Consulta promuove il metodo D’Hondt

Con la sentenza n. 82/2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sull’articolo 3, comma 3, della legge regionale abruzzese n. 11/2023. La norma in esame introduce l’uso del sistema proporzionale con metodo D’Hondt per l’assegnazione dei seggi nei comitati di gestione della caccia.

Come funziona il metodo D’Hondt

Il metodo D’Hondt è un sistema di calcolo proporzionale che prevede la divisione dei voti di ogni lista – in questo caso il numero di iscritti a ciascuna associazione venatoria – per numeri progressivi, fino a coprire il totale dei seggi disponibili. Questo modello è ampiamente utilizzato anche in altri ambiti elettorali per assicurare una rappresentanza proporzionale.

Le critiche del TAR Abruzzo

Il TAR Abruzzo aveva sollevato dubbi di costituzionalità, ritenendo che il meccanismo penalizzasse alcune associazioni venatorie locali, contravvenendo a quanto disposto dall’articolo 14, comma 10, della legge statale n. 157/1992, a tutela della fauna. Secondo il giudice amministrativo, la norma nazionale garantirebbe una rappresentanza paritaria, considerata parte integrante della tutela ambientale ex articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione. Secondo i giudici, la norma statale richiamata non impone una rappresentanza proporzionale per ogni singola associazione, ma richiede la presenza, all’interno dei comitati, delle tre principali categorie di soggetti interessati: associazioni venatorie, associazioni di protezione ambientale e organizzazioni agricole.

Una volta garantita tale composizione tripartita, spetta alle Regioni stabilire, con ampio margine di discrezionalità, la formula elettorale più adeguata.

Ampia autonomia normativa per le Regioni

La Consulta ha ribadito che il meccanismo di ripartizione dei seggi rientra nella libertà di scelta del legislatore regionale. Il sistema D’Hondt, in questo contesto, è stato ritenuto una modalità legittima di distribuzione dei posti all’interno delle categorie rappresentate, senza ledere i principi costituzionali o gli obblighi di tutela ambientale.

medici in quiescenza

L’Asl può ricorrere ai medici in quiescenza se c’è necessità La Corte costituzionale conferma la legittimità della legge della Regione Sardegna che consente l’impiego temporaneo di medici in quiescenza per garantire l’assistenza primaria nelle aree disagiate

Legittimo l’impiego straordinario di medici in quiescenza

Con la sentenza n. 84/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata contro l’art. 1, comma 1, della legge regionale sarda n. 12/2024. La norma in questione consente l’impiego, sino al 31 dicembre 2024, di medici di medicina generale in quiescenza per progetti straordinari di assistenza primaria, anche mediante contratti libero-professionali.

Garantire l’assistenza nelle aree disagiate

La disposizione mira a garantire la copertura dell’assistenza sanitaria primaria nei territori con carenza di medici, attraverso l’attivazione di ambulatori straordinari di comunità territoriale. I medici coinvolti sono abilitati all’uso dei ricettari previsti dall’art. 50 del d.l. 269/2003.

Le critiche del Governo e la posizione della Corte

Il Presidente del Consiglio ha impugnato la norma sostenendo che essa violerebbe la competenza statale in materia di ordinamento civile e contrasterebbe con l’Accordo collettivo nazionale (ACN) del 2024, che vieta l’attività convenzionata ai medici in quiescenza. La Corte, tuttavia, ha rigettato la questione, riconoscendo alla Regione Sardegna una legittima competenza in materia di organizzazione sanitaria.

Medici in quiescenza per tutelare la salute

La Consulta ha chiarito che l’adozione di misure temporanee e straordinarie è compatibile con l’ordinamento, qualora serva a garantire l’effettività del diritto alla salute, specialmente in presenza di criticità nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA). Negare questa possibilità impedirebbe alle Regioni di far fronte a situazioni emergenziali, compromettendo le garanzie minime costituzionali.

processo tributario

Processo tributario e prove in appello: l’affondo della Consulta La Corte Costituzionale si pronuncia sulla nuova disciplina delle prove in appello nel processo tributario

Processo tributario e prove in appello

Con la sentenza numero 36/2025 la Consulta ha esaminato la legittimità costituzionale di alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 220/2023, che ha introdotto modifiche significative in materia di contenzioso tributario.

L’oggetto del giudizio riguarda, in particolare, le criticità sollevate dalle Corti di giustizia tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia, in relazione alle nuove restrizioni sulla produzione di prove in appello.

Il divieto di deposito di deleghe e procure

La Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 58, comma 3, del d.lgs. n. 546/1992, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera bb) del d.lgs. n. 220/2023, nella parte in cui vieta il deposito in appello di deleghe, procure e atti di conferimento di potere. Secondo la Corte, tale divieto contrasta con il diritto alla prova e non trova giustificazione rispetto agli altri elementi probatori ammessi in secondo grado.

Confermato il divieto sulle notifiche dell’atto impugnato

Di contro, la Corte ha ritenuto legittimo il divieto di produrre in appello le notifiche dell’atto impugnato e gli atti presupposti, escludendone il contrasto con i principi costituzionali. Questa restrizione, secondo i giudici, evita che il processo d’appello diventi un’occasione per sanare omissioni probatorie commesse in primo grado.

Dichiarata l’irragionevolezza della norma transitoria

Un ulteriore profilo di incostituzionalità ha riguardato l’articolo 4, comma 2, del d.lgs. n. 220/2023, nella parte in cui estende le nuove regole sulle prove anche ai giudizi già pendenti in secondo grado. La Corte ha ritenuto questa disciplina irragionevole, in quanto incide retroattivamente sulle aspettative delle parti, lesinando la tutela di posizioni giuridiche già consolidate.

Implicazioni pratiche per il processo tributario

Questa pronuncia rappresenta un punto di riferimento per gli operatori del diritto tributario, chiarendo i limiti alla produzione di prove in appello e confermando la volontà del legislatore di limitare il ricorso all’appello per sanare vizi procedurali. Tuttavia, la Corte ha ribadito che le restrizioni non possono ledere il diritto alla difesa, soprattutto quando la mancata produzione della prova non sia imputabile alla parte.

riuso edilizio

Riuso edilizio: la pronuncia della Consulta La Corte Costituzionale boccia alcune norme della regione Sardegna in materia di riuso edilizio e aggiudicazione dei contratti pubblici

Riuso edilizio e aggiudicazione dei contratti pubblici: la Consulta, con la sentenza n. 174/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di due disposizioni della legge della Regione Sardegna n. 17 del 2023, impugnate dal Governo.

Il riuso edilizio

La prima disposizione (art. 4, comma 1, lettera a, numero 1), modificando l’art. 124, comma 2, della legge regionale n. 9 del 2023, prevede che gli interventi di riuso dei seminterrati, piani pilotis e locali al piano terra degli immobili destinati ad uso abitativo sono consentiti anche mediante il superamento degli indici volumetrici e dei limiti di altezza e numero dei piani previsti dalle vigenti disposizioni urbanistico edilizie comunali e regionali.

La Corte ha ritenuto che “una simile disciplina contrasta con la necessità che le deroghe agli indici di densità edilizia introdotte dal legislatore regionale siano connotate dall’eccezionalità e dalla temporaneità, nel rispetto del principio di pianificazione urbanistica espresso dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942”.

La norma impugnata è stata dichiarata illegittima nella parte in cui consente, in via stabile, di superare gli indici volumetrici, in violazione del suddetto principio, che limita la competenza legislativa regionale primaria in materia di «edilizia ed urbanistica» (art. 3, primo comma, lettera f, dello statuto).

Aggiudicazione contratti pubblici

La seconda disposizione (art. 7, comma 16) inserisce nell’art. 37 della legge regionale n. 8 del 2018 un nuovo comma 3-bis, prevedendo che nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa «costituisce requisito di ammissione dell’offerta tecnica il raggiungimento del punteggio minimo pari al 60 per cento del valore massimo attribuibile all’offerta tecnica stessa».

La Consulta ha ritenuto che il legislatore regionale, imponendo un inderogabile punteggio minimo dell’offerta tecnica, abbia leso l’autonomia di scelta delle stazioni appaltanti, precludendo ad esse una diversa ponderazione dei criteri di valutazione delle offerte, in contrasto con l’art.108 del vigente codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36 del 2023).

Conseguentemente, “la disposizione impugnata ha superato i limiti che le norme di tale codice sulla scelta del contraente, adottate dallo Stato in nome della tutela della concorrenza, pongono alla potestà legislativa regionale primaria in materia di «lavori pubblici di esclusivo interesse della Regione» (art. 3, primo comma, lettera e, dello statuto)”.

Il giudice delle leggi ha osservato, inoltre, che la garanzia di un confronto concorrenziale effettivo necessita dell’autonomia delle stazioni appaltanti nella valutazione caso per caso della migliore offerta. Ha sottolineato, inoltre, che tale autonomia – anche al fine di favorire la concorrenza – è stata rafforzata dal nuovo codice dei contratti pubblici del 2023 rispetto alle precedenti sue versioni, come è chiaramente dimostrato dalle importanti norme contenute nei primi tre articoli del codice, dedicate ai «principi generali» che regolano la contrattualità pubblica: principio del risultato (art. 1), principio della fiducia (art. 2) e principio dell’accesso al mercato (art. 3). L’autonomia delle stazioni appaltanti, dunque, risulta potenziata: limitarla significherebbe pregiudicare la competizione tra le imprese che aspirano all’aggiudicazione del contratto.