addio pensione di reversibilità

Addio pensione di reversibilità per il figlio non a carico La Cassazione rammenta che la reversibilità della pensione sussiste solo se c'è l'elemento della "vivenza a carico"

Pensione di reversibilità e vivenza a carico

Addio pensione di reversibilità per il figlio non a carico. Ai fini del diritto, infatti, deve sussistere cioè l’elemento della vivenza a carico. Lo ricorda la Cassazione con l’ordinanza n. 19485/2024.

Pensione di reversibilità negata

Nella vicenda, la Corte d’Appello di Torino accoglieva il gravame proposto da un uomo, avverso la sentenza del Tribunale di Asti che aveva respinto la domanda proposta da quest’ultimo nei confronti dell’Inps, volta a chiedere il pagamento in suo favore della pensione di reversibilità, quale figlio maggiorenne inabile e convivente a carico della madre a far tempo dalla data del decesso, oltre agli arretrati di legge, interessi e rivalutazione monetaria.

Il Tribunale aveva respinto la domanda ritenendo non sufficientemente provato il requisito della vivenza a carico, alla luce del trattamento pensionistico di assistenza che già percepiva (pensione di invalidità e reddito di cittadinanza) che aveva indotto il primo giudice ad escludere che l’uomo dipendesse economicamente dalla madre.

La Corte d’Appello, per quanto d’interesse, ha ritenuto sussistente sia il requisito della “vivenza a carico” della madre da parte del ricorrente, anche per l’assenza di reddito imponibile, che il requisito sanitario.

Il ricorso dell’Inps

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, l’Inps ricorre per cassazione, lamentando violazione di legge per avere il giudice del gravame riconosciuto il diritto alla prestazione di reversibilità, ritenendo sussistente il requisito sanitario, nonostante l’espressa eccezione sollevata sul punto dall’Istituto, non sussistendo alcuna presunzione di inabilità lavorativa in capo a chi è stato accertato invalido civile al 100%. Inoltre, l’Inps deduceva l’errore in cui era incorsa la corte territoriale nell’aver riconosciuto il diritto del richiedente alla prestazione di reversibilità, ritenendo sussistente il requisito della vivenza a carico della madre, benché fosse decaduto dall’onere della prova, senza che il giudice potesse procedere d’ufficio alla acquisizione dei documenti offerti dalla difesa.

La vivenza a carico

Per la Cassazione, il primo motivo è infondato; infatti, la Corte d’Appello motiva sulla sussistenza dell’inabilità lavorativa, quand’anche prendendo spunto dal certificato attestante l’invalidità civile al 100% e l’Istituto previdenziale non censura efficacemente tale accertamento di fatto.

Il secondo e il terzo motivo, invece, che possono essere oggetto di un esame congiunto, sono fondati.

Infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, il requisito della “vivenza a carico”, se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza né con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, “va considerato con particolare rigore, essendo necessario dimostrare che il genitore provvedeva, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, al mantenimento del figlio inabile e tale accertamento di fatto è rimesso al giudice di merito (cfr. Cass. n. 9237/2018)”.

La decisione

Nel caso di specie, il dato valorizzato dalla Corte territoriale del reddito imponibile del ricorrente pari a zero è inconferente a fronte della percezione, da parte dello stesso, dell’importo di euro 800,00 mensili a titolo di pensione di invalidità e di reddito di cittadinanza; in buona sostanza, la Corte d’Appello doveva chiarire perché non erano da considerare sufficienti tali redditi a fronte delle reali esigenze di vita del ricorrente e perché l’intervento di sostegno economico della madre del ricorrente doveva considerarsi effettuato in misura prevalente, a fronte dei sussidi economici che lo stesso già percepiva.

Per cui, in accoglimento del secondo e terzo motivo, la sentenza va cassata e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Torino, affinché, alla luce di quanto sopra esposto, riesamini il merito della controversia.

Leggi le altre news in materia di pensioni

Allegati

Addio al mantenimento per la figlia adulta: ha diritto solo agli alimenti La Cassazione chiarisce che alla figlia adulta spettano solo gli alimenti, non il mantenimento dei genitori, ci sono le misure sociali di sostegno al reddito

Mantenimento figli maggiorenni

Mantenimento figli: la figlia adulta, maggiorenne da tempo, che ha concluso un suo percorso di studi,  convive e ha una bambina non può soddisfare l’esigenza di una vita dignitosa con il mantenimento dei genitori. È preferibile che la stessa faccia ricorso agli ausili sociali di sostegno al reddito. I genitori possono essere tenuti, al limite, a corrispondere gli alimenti in presenza di uno stato di bisogno. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 27818/2024.

Separazione giudiziale: 200 euro mensili per la figlia adulta

Una coppia si separa giudizialmente. Il Tribunale accoglie la domanda di addebito dell’attrice e dispone a carico del marito l’obbligo di contribuire al mantenimento della figlia, diventata nel frattempo maggiorenne, ma non economicamente autosufficiente, tramite il versamento dell’importo mensile di 200,00 euro e del 50% delle spese straordinarie.

L’uomo appella la decisione, ma la Corte respinge l’impugnazione per intero, condannando il soccombente al pagamento delle spese di giudizio.

Cessazione o riduzione del mantenimento per la figlia

Nel ricorso in Cassazione con il quarto motivo il padre contesta alla Corte d’Appello il rigetto della domanda con cui ha chiesto la cessazione o la riduzione dell’obbligo di contribuire al mantenimento della figlia. La stessa è oramai da tempo maggiorenne, ha concluso un suo percorso di studi, ma non si è mai impegnata nella ricerca di un lavoro.  Essa inoltre convive con un compagno, che lavora e da cui ha avuto una figlia.

Solo gli alimenti, basta mantenere la figlia adulta

La Cassazione accoglie il quarto motivo del ricorso del padre. Per stabilire la spettanza o meno del diritto al mantenimento del figlio maggiorenne il giudice deve valutare diversi elementi come l’età, il raggiungimento di un effettivo livello di competenza tecnica e professionale e l’impegno investito nella ricerca di un lavoro.

Nel caso di specie la figlia, superata abbondantemente la maggiore età, non ha ancora reperito un’occupazione stabile o in grado comunque di remunerarla in misura da renderla economicamente autosufficiente e adeguata alle competenze acquisite. Il mantenimento dei genitori non può soddisfare le esigenze di una vita dignitosa e a cui ogni giovane adulto deve aspirare. La giovane donna deve quindi ricorrere preferibilmente ai diversi strumenti di ausilio sociale finalizzati a sostenere il reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare per provvedere alle esigenze di vita essenziali se si trova in uno stato di bisogno.

 

Leggi anche: Stop mantenimento al figlio iscritto da 14 anni all’università

Allegati

bacio a sfioro

Bacio a sfioro: è violenza sessuale Per la Cassazione, il bacio a sfioro integra il reato di violenza sessuale, basta il contatto delle labbra per ledere la libertà sessuale

Reato di violenza sessuale

Il bacio a sfioro integra il reato di violenza sessuale. Questo illecito penale è infatti integrato da qualsiasi atto che si risolve in un contatto fisico, anche fugace e repentino tra il soggetto agente e la persona offesa. La Cassazione ha ribadito questo principio nella sentenza n. 39488/2024.  

Il bacio a sfioro integra il reato di violenza sessuale

Un soggetto viene assolto in primo grado dal reato violenza sessuale previsto dall’articolo 609 bis c.p. La parte civile impugna la decisione. La Corte riforma la sentenza e condanna l’imputato per il reato ascritto e lo condanna a risarcire la persona offesa con l’importo di 2000 euro.

La confidenza con la collega giustificava il bacio

L’imputato ricorre in Cassazione e con il primo motivo contesta la condanna. Il ricorrente sottolinea come lo stesso fosse ragionevolmente convinto del consenso della persona offesa. Con la donna si era infatti instaurato un rapporto di confidenza e di complicità. Solo dopo il bacio si è reso conto della erroneità delle sue convinzioni.

La Corte territoriale inoltre ha travisato il senso della domanda “potevo” rivolta alla persona offesa dopo il fatto. Il giudice dell’impugnazione ha errato anche quando ha ritenuto la condotta improntata a dolo o a colpa. Il reato di violenza sessuale infatti deve essere necessariamente doloso. Per l’imputato infine il caso di specie configurerebbe un’ipotesi di delitto putativo per errore sul fatto di reato, come contemplato dall’articolo 47 codice penale.

Il solo contatto con le labbra viola la libertà sessuale

Per la Cassazione però il ricorso è inammissibile. L’agente ha commesso senza dubbio un atto di natura sessuale. Costante giurisprudenza ritiene infatti che “il «bacio» anche nel caso in cui si risolva nel semplice contatto delle labbra” è comunque idoneo a ledere la libertà e lintegrità sessuale della vittima. Dal racconto attendibile della persona offesa emerge che la donna, dopo aver scambiato cordiali convenevoli con l’imputato davanti alla macchinetta del caffè, aveva ripreso il suo lavoro indossando delle cuffiette. L’imputato a quel punto l’aveva afferrata da tergo, buttata contro il muro e baciata sulla bocca.

Non può sussistere nel caso di specie il reato putativo per le circostanze di luogo e di tempo e per la condotta incontestata dell’imputato. Indubbio che l’imputato abbia agito nella consapevolezza del mancato consenso della donna. Dopo l’atto infatti le ha chiesto: “potevo?”.

Infondata anche la convinzione che la Corte d’Appello abbia ritenuto colposa la violenza sessuale. Quando la Corte d’appello ha affermato che l’imputato avesse realizzato un illecito con dolo o colpa grave non riferiva alle responsabilità dell’illecito penale, ma alla liquidazione delle pretese civili effettuata in via equitativa.

 

Leggi anche: La violenza sessuale (art. 609-bis c.p.)

Allegati

giurista risponde

Vendita di bene immobile con vizi gravi In caso di vendita di bene immobile con vizi gravi, il venditore può chiamare in causa il terzo costruttore per essere esonerato dalla responsabilità relativa ai difetti di costruzione?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

Nell’ipotesi di vendita di bene immobile con vizi gravi, è possibile chiamare in causa il terzo costruttore: tuttavia il venditore non può trasferire la responsabilità derivante dalla mancata comunicazione all’acquirente dei vizi noti dell’immobile, trattandosi di una violazione del principio di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali, ai sensi dell’art. 1175 c.c., che rimane esclusivamente a carico del venditore (Cass., sez. II, 28 agosto 2024, n. 23233). 

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare a quali condizioni il venditore può essere esonerato dalla responsabilità relativa ai difetti di costruzione di un bene immobile.

In primo grado il venditore veniva condannato al pagamento di una somma a titolo di riduzione del prezzo di vendita, escludendo la responsabilità della società costruttrice sia perché il convenuto si era limitato a chiedere di essere da questa manlevato, senza tuttavia esperire una vera e propria azione ex art. 1669 c.c., sia perché sarebbe comunque trascorso il termine decennale dall’ultimazione dell’opera.

In secondo grado, viceversa, la società costruttrice veniva condannata a tenere indenne il venditore da tutte le conseguenze economiche derivanti dalla condanna.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando l’erronea applicazione dei principi di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali. In particolare, si obbiettava che, pur avendo riconosciuto la violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’adempimento dei rapporti contrattuali ex art. 1175 c.c. a carico del venditore, venivano addebitate queste conseguenze economiche, derivanti da un suo personale comportamento, alla società costruttrice.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha stabilito che nell’ipotesi in cui il venditore sia a conoscenza di un vizio del rapporto contrattuale, occorre valutare in che misura ciò possa incidere, ai sensi del principio di buona fede e correttezza, nelle trattative e nell’esecuzione del contratto.

Nel caso di specie, il venditore era a conoscenza del vizio di costruzione imputabile alla società costruttrice, ma, ciò nonostante, non informava l’acquirente di questo difetto strutturale dell’immobile.

La disciplina contenuta nell’art. 1669 c.c. rappresenta un’ipotesi di responsabilità speciale di natura extracontrattuale atta a garantire la conservazione e la funzionalità di edifici destinati per loro natura a durare nel tempo, a tutela dell’incolumità e della sicurezza pubblica. Pertanto, fermo restando la responsabilità della società costruttrice per i vizi dell’immobile, che possono essere ascritti nel novero della responsabilità ex art. 1669 c.c., essa non può rispondere per gli ulteriori danni derivanti dal comportamento, contrario a buona fede e correttezza, tenuto dalla società venditrice durante le trattative e l’esecuzione del contratto.

Per tali ragioni, la Cassazione ha accolto questo motivo di ricorso e rinviato la causa al Giudice di merito, il quale dovrà valutare se il comportamento della società venditrice è stato conforme ai canoni di buona fede e correttezza.

(*Contributo in tema di “Vendita di bene immobile con vizi gravi”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

cane catena

Reato tenere il cane alla catena sotto il sole Cane alla catena, sotto il sole e senza acqua: la condotta configura il reato di abbandono di animali art. 727 c.p.

Cane alla catena: reato di abbandono art. 727 c.p.

Reato tenere il cane alla catena. E’ integrato, infatti, il reato di abbandono di animali di cui all’art. 727 del codice penale che punisce chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito le abitudini della cattività. Alla stessa pena  è soggetto anche chiunque detenga animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.

Il reato di abbandono si configura quindi anche quando un soggetto detenga un cane di grossa taglia a una catena di metallo pesante corte corta e stretta, in scarse condizioni igieniche, sotto il sole e senza acqua. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 38792/2024.

Tenere il cane alla catena sotto il sole senza acqua è reato

Il tribunale condanna un soggetto per il reato di abbandono di animale. Per l’autorità giudicante l’uomo è responsabile penalmente per aver detenuto un cane di razza Rottweiler in condizioni incompatibili con la sua natura, produttive di gravi sofferenze e in condizioni igieniche precarie.

L’uomo deteneva infatti l’animale legato a una corda corta e fissa tanto da provocargli uno strozzamento. Il cane inoltre si trovava esposto in pieno sole, ma la ciotola dell’acqua era vuota.

L’imputato contesta la sanzione, la somma quantificata a titolo di risarcimento in favore della parte civile e la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.

Negata la sospensione condizionale: condotta grave

Per la Cassazione il ricorso deve essere respinto. Il primo motivo appare del tutto infondato così come la seconda doglianza nella quale l’imputato ha lamentato il mancato riconoscimento della sospensione condizionale della pena.

La Cassazione al riguardo precisa che il giudice di merito ha motivato la decisione in maniera congrua ed esente da vizi logici. Lo stesso ha infatti valorizzato la gravità della condotta dell’imputato.

Nella sentenza impugnata è descritta la detenzione sotto il sole di un cane di grossa taglia al quale è stata fatta indossare una catena di metallo pesante, del tutto priva di moschettoni rotanti e attorcigliata attorno al collo. L’animale detenuto in simili condizioni era impossibilitato a muoversi, quindi non poteva raggiungere un riparo. L’animale inoltre non aveva a sua disposizione neppure una ciotola  piena d’acqua per abbeverarsi.

 

Leggi anche: Cane chiuso in casa senz’acqua: è reato

Allegati

non bastano i viaggi

Non bastano i viaggi col compagno per l’addio all’assegno Revoca assegno divorzile: non provano la una nuova famiglia di fatto della ex moglie i viaggi e le vacanze con il nuovo compagno

Revoca assegno divorzile

Non bastano i viaggi col compagno, per disporre la revoca dell’assegno divorzile. Non provano, infatti, la nuova famiglia di fatto nè i viaggi e le vacanze estive della coppia formata dalla ex moglie e dal nuovo compagno, nè la frequentazione domestica e la corresponsione di somme di denaro nel periodo in cui l’ex marito non le versava gli assegni. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 27043/2024.

Assegno divorzile: la Corte lo dimezza

Un ex marito si rivolge al Tribunale per chiedere la revoca dell’assegno di divorzio di 1000 euro mensili spettante all’ex moglie. L’autorità giudiziaria accoglie il ricorso con decreto. La Corte d’appello accoglie invece parzialmente il reclamo della ex moglie e riduce l’assegno a 500,00 euro a partire dal 22 giugno 2017.

Nuova famiglia di fatto giustifica revoca?

L’ex marito ricorre la decisione in Cassazione. L’uomo contesta alla Corte d’appello di non aver valorizzato l’esistenza della nuova famiglia di fatto della ex moglie solo a causa della non coabitazione. Nel secondo motivo lamenta la mancata valutazione di plurimi elementi indiziari che dimostrano l’esistenza della suddetta famiglia di fatto. Con il terzo motivo evidenzia la non contestazione da parte della ex moglie della relazione con il nuovo compagno dal 2010.

La revoca dell’assegno non è automatica

La Cassazione esamina i tre motivi di doglianza e li respinge perchè inammissibili.

Gli Ermellini ricordano che secondo il più recente orientamento la nuova stabile convivenza di fatto dell’ex partner, giudizialmente accertata, incide sul diritto all’assegno di divorzio, sulla sua revisione e sulla sua quantificazione. Il nuovo progetto di vita intrapreso con il terzo e i reciproci doveri di assistenza morale e materiale non determinano però automaticamente e integralmente la perdita dell’assegno divorzile. La coabitazione assume valenza indiziaria per dimostrare il rapporto di fatto, l’assenza di coabitazione, al contrario, non è decisiva ai fini della revoca. In assenza della stabile coabitazione occorre quindi accertare l’effettivo legame di convivenza per appurare se lo stesso costituisca un ostacolo al diritto all’assegno divorzile.

Viaggi e vacanze non provano la nuova famiglia di fatto

La Corte d’appello ha negato la revoca dell’assegno di divorzio perché dagli elementi emersi non è stata documentata con certezza la formazione di una nuova famiglia di fatto da parte della ex moglie. Pacificamente assente la stabile convivenza (…) non documentano con sufficiente certezza la formazione di una famiglia di fatto, non essendo prova sufficiente di una sostanziale comunione e condivisione di vita e di impegni economici i viaggi e le vacanze estive della coppia, la frequentazione domestica documentata, né la dizione di somme di denaro nel periodo (marzo 2010-2018) in cui (lex marito) non le versava gli assegni.” 

La Corte di merito quindi, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non ha valorizzato solo la mancata coabitazione. Dal corredo probatorio complessivo la Corte ha dedotto la mancata dimostrazione della nuova famiglia di fatto dell’ex moglie. I motivi di doglianza del marito non colgono nel segno perché sono diretti in modo improprio a ottenere una rivisitazione dei fatti nel merito, ossia dei fatti storici e dei risultati istruttori.

 

Leggi anche: Assegno di divorzio all’ex moglie “indigente” anche se convive

Allegati

gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio anche per lo straniero senza codice fiscale Il gratuito patrocinio spetta all’extracomunitario privo di codice fiscale Italiano se fornisce i propri dati anagrafici

Gratuito patrocinio: spetta anche allo straniero privo di codice fiscale

Il gratuito patrocinio è previsto per il cittadino extracomunitario non residente anche se non possiede il codice fiscale italiano. E’ infatti sufficiente che costui fornisca i propri dati anagrafici e dichiari il suo domicilio estero. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 38751/2024.

Rigetto istanza patrocinio gratuito: codice fiscale mancante

Il Giudice unico del Tribunale di Milano rigetta la richiesta di ammissione al gratuito patrocinio avanzata da un cittadino extracomunitario. Il Giudice ha rilevato la mancata indicazione del codice fiscale. Quello fornito era stato ricavato infatti da un applicativo e il difensore non ha depositato la documentazione richiesta a integrazione. Il richiedente contesta la decisione al Tribunale, che però la rigetta. Il richiedente non ha fornito il codice fiscale e non ha indicato il suo domicilio fiscale stabile in Italia. In questo modo è impossibile controllare la sua situazione reddituale, presupposto fondamentale per l’ammissione al patrocinio gratuito.

Dati anagrafici e domicilio fiscale sostituiscono il codice fiscale

L’istante nel ricorre in Cassazione sostiene che per i soggetti che non risiedono nel territorio dello Stato l’obbligo di indicare il codice fiscale deve intendersi adempiuto con l’indicazione dei dati  anagrafici e del domicilio o sede legale all’estero. Dati che lo stesso ha fornito mediante autocertificazione.

Patrocinio per l’extracomunitario se fornisce i dati anagrafici

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso perché fondato.

L’articolo 6 comma 2 del d.p.r. n. 605/1973 dispone che lobbligo di indicazione del numero di codice fiscale dei soggetti non residenti nel territorio dello Stato, cui tale codice non risulti attribuito, si intende adempiuto con l’indicazione dei dati di cui allart. 4 dello stesso d.p.r. con leccezione del domicilio fiscale, in luogo del quale va indicato il domicilio o sede legale allestero.” 

Il richiamato art. 4 richiede, per l’attribuzione del numero di codice fiscale delle persone fisiche il cognome, il nome, il luogo e la data di nascita, il sesso e il domicilio fiscale.

Nel caso di specie il ricorrente ha dichiarato di non possedere il codice fiscale, ma di aver indicato i dati anagrafici e il proprio domicilio fiscale all’estero. Dalle norme analizzate non emerge l’onere per il cittadino straniero non residente di procurarsi un codice fiscale italiano per provare la richiesta di ammissione al patrocinio gratuito, fermo restando l’obbligo di allegare il reddito prodotto, risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi presentata nel paese di residenza.

 

Leggi anche questo precedente della. Cassazione: Gratuito patrocinio stranieri anche senza codice fiscale italiano

Allegati

errore medico

Errore medico e danno da perdita della capacità lavorativa Danno da perdita della capacità lavorativa presumibile dall’elevata invalidità permanente anche se riconducibile alla nascita

Capacità lavorativa: il danno è presumibile dai postumi permanenti

Errore medico: il danno da perdita della capacità lavorativa si presume dall’alta percentuale dei postumi permanenti invalidanti riportati al momento della nascita e il giudice può liquidarlo affidandosi a criteri equitativi. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 27353/2024.  

Risarcimento per lesione della capacità lavorativa anche se risalenti al parto

I genitori di una minore chiedono il risarcimento dei danni arrecati alla figlia dalla Asl a causa della condotta tenuta dal personale dipendente della divisione di ostetricia al momento del parto.

Il Tribunale accoglie in parte la domanda. La decisione viene appellata e la Corte conferma la decisione del Giudice di primo grado. L’autorità giudiziaria dell’appello riconosce  il risarcimento dei danni per il danno biologico permanente nella percentuale del 25% a causa dei danni riportati alla parte sinistra del corpo. La Corte però nega il risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla perdita della capacità lavorativa.

Serve una prova rigorosa

Per la Corte d’appello il mancato riconoscimento di questa voce di danno dipende dal fatto che il minore non percepisce redditi, i guadagni sono quindi assenti. Esiste pertanto un’incertezza sulla qualificazione e quantificazione delle varie voci di danno non superabile se non con una prova particolarmente rigorosa, caratterizzandosi il pregiudizio in questione come danno da perdita di chance lavorativa.” La prova dei postumi invalidanti non è sufficiente a dimostrare anche la perdita di futuri, possibili e maggiori guadagni.

Lesione altamente menomante: il danno è presunto

Parte soccombente nel ricorrere in Cassazione contesta la motivazione meramente apparente della decisione della Corte d’Appello in relazione alla mancata prova della perdita della capacità lavorativa. Con il secondo motivo contesta il rigetto della richiesta risarcitoria connessa alla perdita della capacità lavorativa specifica. In giudizio sono emersi indici presuntivi come il danno permanente del 25% e la “natura altamente menomante della lesione”. Trattasi di elementi che per la ricorrente dimostrano in via presuntiva la sussistenza del danno da perdita della capacità lavorativa e delle condizioni per liquidarlo nella misura pari al triplo della pensione sociale.

Elevata invalidità permanente, menomazione capacità lavorativa

La Cassazione accoglie il ricorso dopo l’esame congiunto dei due motivi di ricorso. Gli Ermellini sulla prova necessaria al riconoscimento del danno da perdita della capacità lavorativa ricordano che nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa ed il danno che necessariamente da essa consegue, li giudice può procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi. La liquidazione di detto danno può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dellinfortunio.”

La Corte d’appello nel rigettare le richieste risarcitorie della ricorrente ha completamente disatteso questo principio. Essa ha preteso la prova rigorosa della alterazione in peius della capacità di guadagno in un soggetto minorenne, con postumi permanenti del 25%,  un danno biologico altamente rilevante a fini presuntivi.

 

Leggi anche: Malpractice medica e danno da perdita capacità lavorativa

Allegati

Sospeso l’avvocato che non consegna l’atto di citazione al collega La mancata consegna dell'atto di citazione e della relata al collega avvocato configura un illecito disciplinare

Illecito deontologico per l’avvocato

Sospeso l’avvocato che non consegna l’atto di citazione al collega. La mancata consegna dell’atto corredato della relata di notifica origina un illecito deontologico. L’avvocato in questo modo viene meno, infatti, ai doveri di probità e lealtà. La Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. Cass-27284-2024 respinge il ricorso della professionista incolpata e fornisce alcune importanti precisazioni anche sulla prescrizione dell’illecito disciplinare. Al CNF il compito di rideterminare la sanzione.

Mancata consegna atto di citazione e relata

Un Comune, a mezzo difensore, si rivolge al Consiglio dell’ordine degli Avvocati competente per denunciare la condotta dell’avvocato della controparte in un giudizio risarcitorio.

Detto avvocato avrebbe infatti dichiarato che l’atto di citazione predisposto sarebbe stato consegnato a mani dall’ufficiale giudiziario, anche se la stessa si è limitata a inviare al collega solo la copia della prima pagina dell’atto, senza la relativa relata di notifica. Dal controllo del fascicolo d’ufficio è emerso infatti che nessun atto di citazione era stato notificato da parte dall’avvocata incolpata.

Avvocata non consegna atto di citazione al collega: sospesa dall’attività

Il Consiglio distrettuale di disciplina sottopone l’avvocata a un procedimento disciplinare. Tra i vari capi di incolpazione figura la violazione dei doveri di proibita, dignità, decorso e indipendenza  previsti dall’articolo 9 del Codice deontologico Forense. La professionista sarebbe responsabile di non aver consegnato al collega l’atto di citazione e la relativa relata di notifica. Con questa condotta la stessa avrebbe violato il dovere di correttezza e lealtà e l’obbligo di collaborazione nei confronti dei colleghi, che si realizza anche attraverso lo scambio di atti, documenti e informazioni.

All’esito del procedimento il Consiglio di disciplina condanna la professionista in relazione ad alcuni capi di incolpazione e la sanziona con la sospensione dall’esercizio della professione per la durata di tre anni. Il CNF però ridetermina la sanzione della sospensione dall’attività riducendola a un anno.

Non punibile la professionista che esercita il diritto di difesa

L’incolpata ricorre in Cassazione affermando nel primo motivo di ricorso la prescrizione dell’illecito contestato al capo 2). Con il secondo motivo contesta invece la violazione dell’art. 24 della Costituzione, affermando che se la stessa avesse consegnato al collega copia dell’atto corredato della relativa notifica avrebbe fornito la prova dell’avvenuta falsificazione dell’atto, pregiudicando così il suo diritto di difesa in un eventuale procedimento disciplinare, che sarebbe potuto originare proprio dalla consegna dell’atto falso.

La ricorrente invoca quindi la causa di giustificazione contemplata dall’art. 51 c.p, che non punisce il fatto commesso nell’esercizio di un diritto, che nel caso di specie si identifica con i diritto di non rendere dichiarazioni, scritte o reali, contenenti elementi auto-indizianti.

Illecito disciplinare la mancata consegna al collega dell’atto

Gli Ermellini dichiarano il motivo ammissibile perché la prescrizione dellazione disciplinare nei confronti degli avvocati è rilevabile anche dufficio in ogni stato e grado del processo, qualora non comporti indagini fattuali che sarebbero precluse in sede di legittimità, tanto più ove se ne deduca la maturazione successivamente allintroduzione del giudizio di merito a quo.”

In relazione al capo 2 di incolpazione si è verificata in effetti la prescrizione. Per la Cassazione però il motivo è infondato e va respinto.

La Cassazione ritiene infine che anche il secondo motivo sollevato sia del tutto infondato. Questo alla luce di diverse disposizioni nazionali e internazionali richiamate da alcune pronunce della Corte Costituzionale e della stessa Cassazione. L’illecito disciplinare oggetto di giudizio è estraneo al perimetro di applicazione del diritto al silenzio, che vale nei procedimenti amministrativi idonei a sfociare in sanzioni amministrative punitive. La garanzia però opera solo nell’ambito del rapporto tra il potenziale incolpato e l’autorità titolare dei procedimenti amministrativi finalizzati alla scopetta di illeciti, individuazione di responsabili e irrogazione di sanzioni punitive. Nel caso si specie però la contestata mancata consegna dell’atto si è manifestata nei confronti dell’avvocato di controparte, nell’ambito del rapporto di colleganza, non verso un autorità munita di poteri di vigilanza.

 

Leggi anche: Radiato l’avvocato che esercita anche se sospeso

Allegati

opposizione a decreto ingiuntivo

Opposizione a decreto ingiuntivo: la domanda è modificabile Opposizione a decreto ingiuntivo: la domanda è modificabile anche se nasce da una mera eccezione e non da una riconvenzionale

Domanda modificabile anche se sorge da un’opposizione

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto può proporre domande aggiuntive/alternative a quella principale anche se controparte non ha proposto una domanda riconvenzionale, ma si è limitata a sollevare delle eccezioni. Lo hanno chiarito le SU nella sentenza n. 26727/2024.

Opposizione decreto ingiuntivo: domande alternative dell’opposta

Una S.r.l chiede e ottiene un decreto ingiuntivo nei confronti di una Asl e della Regione Lazio per la somma di 800.000,00 euro. Le ingiunte si oppongono e dalle due opposizione scaturiscono due cause di cognizione. Nella comparsa di costituzione e risposta la S.r.l chiede il rigetto dell’opposizione in via principale. In via subordinata invece chiede che le opponenti la tengano indenne con conseguente condanna al pagamento di 909.000,00 euro. In via ulteriormente subordinata chiede invece di accertare l’ingiustificato arricchimento, con condanna al pagamento dello stesso importo.

Inammissibili le domande art. 1137 c.c. e art. 2041 c.c.

Il Tribunale accoglie le opposizioni, ma rigetta le domande ulteriori avanzate dalla società. Questa  ricorre in appello, ma anche in questa sede l’autorità giudiziaria, dopo aver riunito le cause, rigetta le istanze avanzate dall’opposta.

Per la Corte di appello le richieste di pagamento avanzate con le domande subordinate in base agli articoli 1337 c.c. e 2041 c.c sono inammissibili perché non scaturiscono da una domanda riconvenzionale presentata dalle convenute Asl e Regione.

Cassazione: ammissibili domande alternative nell’opposizione a decreto ingiuntivo

La società soccombente a questo punto ricorre in Cassazione. La prima sezione però si rivolge alle SU per chiarire se nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il convenuto opposto possa vantare una domanda nuova, ossia diversa da quella del pagamento avanzata con il decreto ingiuntivo, anche qualora l’opponente non abbia formulato una domanda riconvenzionale, ma abbia solo sollevato eccezioni e chiesto la revoca del decreto ingiuntivo.

Le Sezioni Unite rispondono a questa richiesta di chiarimenti affermando il seguente principio di diritto: “nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la proposizione da parte dell’opposto nella comparsa di risposta di domande alternative a quella introdotta in via monitoria è ammissibile se tali domande trovano il loro fondamento nel medesimo interesse che aveva sostenuto la proposizione della originaria domanda nel ricorso diretto all’ingiunzione.”

Domande ammissibili se rapportate allo stesso interesse

La Cassazione in un passaggio della motivazione precisa infatti che il soggetto opposto non è legittimato a proporre solo domande reattive, ossia riconvenzionali in senso stretto. Lo stesso può anche proporre domande aggiuntive/alternative, spesso in via subordinata, ma ammissibili “perché rapportate al medesimo interesse”.

Nel caso di specie pertanto, sono ammissibili le domande proposte dall’opposto ai sensi degli articoli 1337 c.c e  2041 c.c. A livello generale/astratto le stesse trovano fondamento nell’interesse originario corrispondente all’azione di adempimento contrattuale. Il petitum di queste domande risulta corrispondente almeno in parte alla domanda avanzata in origine.

Come chiarito dalla SU n. 12310/2015 “l’interesse è il presupposto legittimante l’introduzione di una domanda alternativa, introduzione che non può essere inibita (…) dalla diversità/novità in sé di causa petendi e petitum rispetto alla prospettazione originaria.”

 

Leggi anche: Legittimazione opposizione a decreto ingiuntivo nei confronti del condominio

Allegati