testamento valido

Testamento valido anche con monosillabi La Cassazione chiarisce che il testamento è valido anche se ci sono gravi limitazioni motorie ma sussiste la capacità di intendere e di volere

Validità del testamento

Testamento valido anche con monosillabi: la seconda sezione civile della Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 9534/2025, ha confermato la validità di un testamento pubblico redatto in presenza di un testatore affetto da gravi limitazioni motorie, che si era espresso unicamente attraverso monosillabi e movimenti del capo.

La vicenda

Nel caso esaminato, i fratelli del de cuius avevano contestato il testamento pubblico con cui erano stati istituiti erede universale e legatari i convenuti chiedendo che fosse dichiarata l’invalidità delle disposizioni di ultima volontà per incapacità naturale o per inosservanza delle formalità di redazione del testamento stesso. In corso di causa gli attori proponevano querela di falso, deducendo che il notaio aveva ricevuto le volontà del de cuius in assenza di testi ed aveva falsamente attestato che il testatore non era in grado di firmare l’atto.

Il Tribunale ha respinto tutte le domande con sentenza integralmente confermata in appello. Il giudice distrettuale infatti aveva evidenziato che l’incapacità del de cuius era prevalentemente motoria e non incideva sulla capacità di intendere e di volere. Il testatore era apparso, inoltre, in possesso della facoltà mentali nel corso del giudizio di interdizione, conclusosi con pronuncia di inabilitazione, e all’esame diretto da parte del CTU e dei medici curanti.

La questione approdava innanzi alla Cassazione, la quale tuttavia confermava la correttezza della sentenza impugnata.

La decisione

La S.C. ha chiarito che l’incapacità naturale del disponente che, ai sensi dell’art. 591 c.c., “determina l’invalidità del testamento non si identifica in una generica alterazione del normale processo di formazione ed estrinsecazione della volontà, richiedendo che, a causa dell’infermità, il soggetto, al momento della redazione del testamento, sia assolutamente privo della coscienza del significato dei propri atti e della capacità di autodeterminarsi”.

Nella specie, il de cuius era affetto da deficit motorio e dell’espressione verbale, ma capace di intendere e di volere, rispondendo in maniera pertinente alle domande che gli venivano rivolte, mostrando di comprenderne il contenuto e di articolare risposte congruenti.

La circostanza che si fosse espresso a monosillabi o con gesti espressivi del capo non inficiava, dunque per i giudici, la validità del testamento, essendo tali modalità le uniche coerenti con le sue condizioni di salute, “caratterizzate da un deficit motorio tale da non incidere sulle capacità, né sulla possibilità di esprimere in maniera intellegibile la propria volontà, non potendosi negare che il consenso così esternato fosse stato validamente manifestato, né potendosi contestare la genuinità e la pienezza dell’espressione di volontà che il giudice di merito ha riscontrato in concreto, con motivazione esente da vizi”.

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reato di cattiva conservazione

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio anche senza danno La Cassazione ribadisce che è sufficiente la potenziale pericolosità di prodotto per integrare il reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio per la salute, anche senza danno concreto. In ambito alimentare, infatti, la semplice potenziale pericolosità di un prodotto è sufficiente a configurare il reato anche in assenza di danni effettivi ai consumatori. È quanto ha ribadito la terza sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 13826/2025, confermando la condanna nei confronti del titolare di una macelleria all’interno di un supermercato per la vendita di carni e salumi conservati in ambienti igienicamente inadeguati.

Quando si configura il reato ex art. 5 l. 283/1962

Secondo quanto previsto dall’articolo 5, lettere b) e d), della legge n. 283/1962, rammentano innanzitutto dal Palazzaccio, la violazione si concretizza quando gli alimenti risultano:

  • in cattivo stato di conservazione;

  • alterati o insudiciati;

  • non conformi alle norme igienico-sanitarie stabilite dalla legge.

Non è necessario che il prodotto abbia causato un danno alla salute del consumatore. È sufficiente che si accerti la propensione oggettiva dell’alimento a costituire un pericolo, in virtù del suo deterioramento o della sua contaminazione.

Il principio espresso dalla Cassazione

I giudici di legittimità hanno chiarito che ciò che rileva ai fini della responsabilità penale è l’assenza delle condizioni igieniche minime richieste per la sicurezza del prodotto alimentare.

La tracciabilità carente, la mancata adozione di misure preventive, o anche il non rispetto delle norme di comune esperienza in materia di conservazione, sono elementi sufficienti a configurare il reato.

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giurista risponde

Contratto preliminare di compravendita e mutuo Come si qualifica, in un preliminare di vendita, la condizione con cui le parti subordinano gli effetti di un contratto di compravendita immobiliare all’ottenimento di un mutuo da parte del promissario acquirente per il pagamento del prezzo?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

Va qualificata come mista la condizione con cui le parti subordinano gli effetti di un contratto di compravendita immobiliare all’ottenimento da parte del promissario acquirente di un mutuo da un istituto bancario, al fine di provvedere al pagamento del prezzo pattuito (Cass., sez. II, ord. 7 gennaio 2025, n. 243 – Contratto preliminare di compravendita e mutuo).

Il caso trattato trae origine dalla citazione in giudizio di una società nei confronti di un’altra, con cui la prima chiedeva l’accertamento della verificazione della “condizione risolutiva espressa” apposta al contratto preliminare di compravendita immobiliare, che l’esponente aveva stipulato in qualità di promissario acquirente. Tale contratto, infatti, era stato subordinato, fra l’altro, all’approvazione del leasing con la specifica che, in caso della sua mancata approvazione l’acconto versato doveva essere restituito. Non essendo stato approvato il leasing nei termini prestabiliti, il promissario acquirente aveva adito il Tribunale, chiedendo che fosse accertato l’avveramento della condizione risolutiva espressa con conseguente condanna della convenuta, promittente alienante, alla restituzione dell’acconto e che fosse annullato l’accordo. Il Tribunale adito, in accoglimento della domanda attorea, ha dichiarato risolto il contratto e condannato la convenuta a pagare l’acconto. Tuttavia, la Corte di Appello disattendeva la decisione di primo grado, qualificando la condizione come potestativa mista. Questa stabiliva, infatti, che, poiché detta condizione era stata inserita nell’interesse di entrambe le parti, era la società acquirente a dover provare di aver agito correttamente per ottenere l’approvazione del leasing. La Corte decideva, pertanto, di accogliere l’impugnazione proposta dalla promittente alienante, disponendo il trasferimento immobiliare, ai sensi dell’art. 2932 c.c.

La Corte di Cassazione, successivamente adita, cassava con rinvio la sentenza d’appello impugnata, soffermandosi sulla natura delle condizioni apposte dalle parti nei contratti di compravendita immobiliare. Per la Suprema Corte, in particolare, nella circostanza in cui le parti subordinino gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga un mutuo da un istituto bancario, per poter pagare in tutto o in parte il prezzo pattuito, la relativa condizione è da qualificare come “mista”. La decisione, ha altresì specificato che detta concessione dipende anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica, ma la mancata erogazione comporta le conseguenze previste dal contratto senza che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente.

Ai fini dell’art. 1359 c.c., infatti, il comportamento omissivo del promissario acquirente non incide poiché l’omissione di attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituisce fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, da escludere per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista.

In conseguenza, a differenza di quanto affermato dalla Corte di appello ligure, non è consentito sostenere che al promissario acquirente possa addebitarsi il mancato avveramento della condizione per non aver assolto al preteso onere della prova su costui gravante.

Ciò premesso, la Corte ha cassato la sentenza con rinvio e pronunciato il seguente principio di diritto: «la controversia intercorsa tra promittente alienante e promissario acquirente a riguardo del mancato avveramento di una condizione potestativa mista, apposta nell’interesse di entrambe le parti, non può essere risolta facendo applicazione del generale principio regolante l’onere della prova nei contratti sinallagmatici. Ma deve accertarsi, sulla scorta delle emergenze di causa e in concreto, se sia individuabile una parte inadempiente o, comunque, prevalentemente inadempiente (nel caso gli adempimenti fossero reciproci), per avere mancato di comportarsi secondo buona fede, avuto riguardo alla condizione apposta al negozio e in pendenza di essa».

 

(*Contributo in tema di “Contratto preliminare di compravendita e mutuo”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

compensi avvocato

Compensi avvocato: fase istruttoria inclusa nella trattazione Secondo la Cassazione, non è previsto un compenso autonomo per la fase istruttoria, che rientra in quella di trattazione ai sensi del d.m. n. 55/2014

Compensi avvocato

Compensi avvocato: la sezione III della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7343/2025, ha fornito chiarimenti sulla liquidazione al difensore per la fase istruttoria e di trattazione in appello.

La vicenda

Nella vicenda, con atto di opposizione ex art. 617 c.p.c. una srl, quale terzo pignorato, conveniva in giudizio un’altra srl al fine di sentire accertare la nullità dell’ordinanza di assegnazione delle somme emessa nell’ambito del procedimento esecutivo presso terzi, atteso l’intervenuto fallimento della debitrice.

La srl si costituiva chiedendo il rigetto della domanda avversaria e la conferma della ordinanza impugnata. Il Tribunale, in accoglimento dell’opposizione, revocava l’ordinanza di assegnazione. Veniva quindi proposto appello, dichiarato inammissibile e la questione approdava in Cassazione.

Innanzi al Palazzaccio, si denunciava tra l’altro la violazione e/o falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, perché il giudice del secondo grado, pur nella totale assenza di una fase istruttoria e/o di trattazione, aveva liquidato le spese di lite, ponendole a carico della parte soccombente, comprendendo nella liquidazione – eseguita secondo i parametri medi del D.M. n. 55 del 2014 – anche il compenso previsto per l’espletamento della “fase istruttoria e/o di trattazione”.

Il principio applicato e i richiami giurisprudenziali

La Suprema Corte ritiene il motivo fondato. Ritenendo di dare continuità al principio di diritto (già affermato da Cass. n. 10206/2021 e di recente ribadito da Cass. n. 19 29077/2024) la S.C. afferma che “In tema di liquidazione delle spese processuali in base al D.M. n. 55 del 2014, l’effettuazione di singoli atti istruttori e, segnatamente, la produzione di documenti, in altre fasi processuali (come quella introduttiva e/o quella decisionale) non equivale allo svolgimento della fase istruttoria e/o di trattazione che, per quanto riguarda il giudizio di appello, può dare luogo al riconoscimento della relativa voce di tariffa unicamente qualora sia effettivamente posta in essere, nel corso della prima udienza di trattazione, una o più delle specifiche attività previste dall’art. 350 c.p.c. ovvero sia fissata un’udienza a tal fine o, comunque, allo scopo di svolgere altre attività istruttorie e/o di trattazione, ma non nel caso in cui alla prima udienza di trattazione sia esclusivamente e direttamente fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni, senza il compimento di nessuna ulteriore attività, e questo anche ove siano prodotti nuovi documenti in allegato all’atto di appello ovvero, successivamente, con gli scritti conclusionali”.

In definitiva, la sentenza impugnata è cassata, sia pure esclusivamente con riferimento alla liquidazione delle spese di lite poste a carico della parte soccombente. Per cui, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, la S.C. decide nel merito, con rideterminazione dell’importo delle spese liquidate in favore dell’appellata per il secondo grado, con esclusione dei compensi per la fase istruttoria e/o di trattazione.

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giurista risponde

Il dolo nel reato di incendio Quali sono i criteri per accertare il dolo nel reato di incendio, distinguendo tra dolo generico e dolo specifico, e quale rilevanza assume tale distinzione nella qualificazione giuridica del fatto?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Per accertare il dolo nel reato di incendio, si seguono criteri indiziari basati su circostanze esteriori che rivelano l’atteggiamento interiore dell’agente. Il dolo generico implica la volontà di cagionare un incendio con caratteristiche tali da creare un pericolo per la pubblica incolumità, mentre il dolo specifico consiste nell’uso del fuoco esclusivamente per danneggiare un bene altrui.

La distinzione è rilevante per qualificare il fatto come incendio doloso (art. 423 c.p.) o danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.), in base alla volontà dell’autore e all’entità dell’evento (Cass., sez. I, 12 settembre 2024, n. 45886).

Nel caso di specie, gli imputati erano accusati di aver causato un incendio doloso utilizzando liquido infiammabile cosparso su automezzi parcheggiati in prossimità di abitazioni.

La Corte d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio doloso (art. 423 c.p.), rilevando la presenza del dolo generico. La Cassazione ha confermato tale qualificazione affermando che il dolo, quale elemento soggettivo del reato, deve essere ricostruito attraverso un ragionamento indiziario, valutando indicatori fattuali capaci di sostenere la rappresentazione e la volontà dell’autore di realizzare il fatto illecito. La Suprema Corte ha confermato quanto stabilito da Cass., sez. I, 23 giugno 2021, n. 4985 evidenziando che, nel reato di incendio di cui all’art. 423 c.p., il dolo è generico e si configura quando l’agente ha la volontà di cagionare una combustione tale da provocare un concreto pericolo per la pubblica incolumità. Diversamente, nel caso del danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 c.p., è richiesto il dolo specifico, ovvero l’intenzione di danneggiare un bene altrui mediante l’uso del fuoco, senza la previsione o la volontà di generare un incendio (così anche Cass., sez. I, 3 novembre 2020, n.32566).

La Cassazione nel caso in questione ha chiarito ex professo che se l’agente, oltre ad avere l’intenzione di danneggiare, agisce con la consapevolezza e l’accettazione del rischio di provocare un incendio di dimensioni tali da assumere le caratteristiche di un fuoco di non lievi proporzioni, si configura il delitto di incendio, anche se il dolo è eventuale (così anche Cass., sez. I, 11 febbraio 2013, n. 16612).

Nella decisione de qua, la Suprema Corte ha rilevato la correttezza e la logicità della motivazione resa dalla Corte d’Appello, con gli specifici riferimenti alle modalità utilizzate.

Il Tribunale d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio ex art. 423 c.p., rilevando la presenza del dolo generico.

La Cassazione ha confermato tale qualificazione, evidenziando che l’impiego del liquido infiammabile su più veicoli, con serbatoi pieni, indicava la volontà degli imputati di accettare il rischio di propagazione incontrollata del fuoco, oltre al fatto che il pericolo concreto per la pubblica incolumità era dimostrato dall’intensa attività dei vigili del fuoco per domare l’incendio.

La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che la qualificazione giuridica dipende dalla volontà dell’agente, che deve essere valutata in base alle circostanze fattuali del caso (così come Cass., sez. I, 3 febbraio 2009, n. 6250).

La Cassazione ha, infine, ribadito quanto affermato da Cass. pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 cioè che al fine di accertare il dolo è necessario seguire un ragionamento indiziario “dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall’id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l’espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha esaminato i ricorsi presentati e, dopo averli ritenuti complessivamente infondati, ha affermato che la corretta instaurazione del rapporto processuale imponeva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per estinzione del reato per prescrizione, confermando, tuttavia, la validità delle statuizioni civili.

 

(*Contributo in tema di “Il dolo nel reato di incendio”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Patto di quota lite invalido: compenso in base alle tariffe Patto di quota lite invalido se prevede il 40% del compenso in caso di vittoria e nulla in caso di sconfitta, alll'avvocato compenso in base alle tariffe forensi

Patto di quota lite invalido

La Cassazione nella sentenza n. 9359/2025 si è espressa sul patto di quota lite tra avvocato e cliente. L’accordo prevedeva un compenso del 40% in caso di vittoria e non prevedeva alcun compenso in caso di sconfitta. Per gli Ermellini un patto di questo tipo non è valido. La legge vieta infatti questi accordi ai fini del riconoscimento del compenso del legale.

Compenso avvocato pari al 40%

La causa ha inizio perché una donna incarica un avvocato di difenderla in un giudizio. L’accordo relativo al compenso del legale prevede il riconoscimento del 40% della somma che la cliente potrebbe ottenere in giudizio. Accade però che la cliente perde la causa. L’avvocato chiede quindi il pagamento del compenso previsto in base alle tariffe forensi, sostenendo la nullità del patto convenuto. Il Tribunale di Forlì accoglie la domanda dell’avvocato, ritenendo nullo il patto di quota lite e applicando le regole sul compenso del difensore. La cliente nell’impugnare la decisione, sostiene che l’accordo stipulato con il legale non è vietato. Le clausole, a suo dire, hanno portata autonoma. Una clausola commisurava infatti il compenso al 40% del risultato, l’altra prevedeva l’assenza di compenso in caso di sconfitta. Questa seconda clausola deve essere interpretata come una rinuncia preventiva al compenso.

Nullo il patto di quota lite, valido il contratto

La Cassazione però rigetta il ricorso della cliente, affermando che le due clausole formavano in realtà un unico accordo. Questo accordo regolava il compenso del difensore e le clausole in esso contenute prevedevano due ipotesi alternative. In caso di vittoria, il compenso era il 40%, mentre in caso di sconfitta, non spettava alcun compenso. Un’ipotesi dipendeva dall’altra, le stesse non costituivano patti autonomi.

La Cassazione conferma quindi la nullità del patto di quota lite, precisando però che la nullità è parziale e non inficia comunque l’intero contratto di patrocinio. Questo infatti resta valido e il compenso del difensore deve essere calcolato in base alle tariffe forensi. Il tribunale quindi ha correttamente ritenuto la clausola di rinuncia un patto di quota lite, ma la legge vieta questi accordi a tutela del lavoro del difensore.

 

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contenuto della querela

Il contenuto della querela spiegato dalla Cassazione Il contenuto della querela e la qualificazione giuridica del fatto: la Cassazione si pronuncia con la sentenza n. 4258/2025

Contenuto della querela

Contenuto della querela: la prima sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4258/2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di querela, stabilendo che essa deve limitarsi a contenere la notizia di reato con l’istanza di punizione, mentre la qualificazione giuridica del fatto spetta esclusivamente al giudice.

La vicenda processuale

Il caso in esame trae origine dalla sentenza del tribunale di Foggia che, previa riqualificazione del fatto contestato dal pubblico ministero come integrante la contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen. anziché il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., ha condannato un uomo concessegli le circostanze attenuanti generiche, alla pena di euro 200 di ammenda.
Il Tribunale ha anche precisato che non potesse essere accolta la richiesta,
formulata dal difensore dell’imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, di definizione del procedimento mediante oblazione in caso di riqualificazione del reato di atti persecutori in quello di molestie. A tal proposito, il tribunale ha richiamato pronunce di legittimità secondo cui l’imputato può avere accesso all’oblazione solo quando avanzi, in via preventiva e cautelativa, una
sollecitazione al giudice circa la diversa qualificazione con contestuale richiesta di oblazione, incorrendo altrimenti nella decadenza.

Nel caso di specie, l’imputato si è limitato genericamente a sollecitare di essere ammesso all’oblazione nel caso in cui il giudice avesse in sentenza riqualificato i fatti.

Il ricorso

Avverso la predetta sentenza, ha proposto ricorso innanzi alla Cassazione, il difensore dell’imputato, articolando tre motivi.

Con il primo motivo, lamenta l’omessa declaratoria di improcedibilità per il difetto di querela, nonché la mancanza di motivazione. Nel secondo si duole del negato accesso all’oblazione. Con il terzo e ultimo motivo, infine, la mancanza di motivazione in ordine alla mancata concessione del beneficio della non menzione.

La motivazione della sentenza

Per gli Ermellini, il ricorso è parzialmente fondato, in ordine alla preclusione del diritto a fruire dell’oblazione.

Infondati invece gli altri motivi, soprattutto in ordine alla querela, osservano i giudici, dagli atti risulta che la persona offesa abbia presentato una valida querela contenente l’espressa richiesta di punizione.
Sotto questo profilo, proseguono, “non rileva che la querela fosse stata originariamente proposta per il reato di atti persecutori anziché per quello di molestie, in quanto è sufficiente che l’atto esprima la volontà di procedere nei confronti del responsabile di un fatto.
La querela, invero, rammentano dalla S.C., “deve contenere solo la notizia di reato con l’istanza di punizione, spettando esclusivamente al giudice il potere d’inquadrare il fatto storico, ossia la qualificazione giuridica del fatto stesso, indipendentemente da quella data dal querelante (cfr., tra le altre, Cass. n. 12159/1977; Cass. n. 27964/2020).

La decisione

Alla luce di quanto affermato, la sentenza impugnata per piazza Cavour va annullata limitatamente alla valutazione dell’istanza di ammissione all’oblazione, con rinvio al Tribunale di Foggia in diversa persona fisica per un nuovo giudizio sul punto. Nel resto, invece, il ricorso è rigettato.

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giurista risponde

Dichiarazione di ignoranza inevitabile La dichiarazione di ignoranza inevitabile dell’età di un minore può escludere la responsabilità penale ai sensi degli artt. 609quater e 609sexies c.p. per reati sessuali nei confronti di una persona al di sotto dei quattordici anni?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

La Corte di Cassazione ha escluso che la dichiarazione di ignoranza inevitabile in relazione all’età della persona offesa possa valere come scriminante per l’imputato, salvo dimostrazione di una verifica diligente e approfondita da parte dell’imputato per accertare l’età della vittima (Cass., sez. III, 19 settembre 2024, n. 45805).

La questione sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione affronta il delicato tema della responsabilità penale per reati sessuali con minori, concentrandosi sui criteri per valutare l’ignoranza inevitabile in relazione all’età della persona offesa e l’importanza di tutelare l’integrità psicofisica del minore nella sfera sessuale.

Il GUP del Tribunale di Genova ha riconosciuto l’imputato responsabile di un’ipotesi di concorso formale tra reati, condannandolo per i fatti previsti dagli artt. 81 e 609quater c.p., relativi a rapporti sessuali consenzienti con una minore di quattordici anni, e dagli artt. 73, comma 5, e 80 del D.P.R. 309/90, concernenti la cessione di sostanze stupefacenti alla medesima persona offesa.

In sede di giudizio, il Tribunale ha concesso l’attenuante della minore gravità ai sensi dell’art. 609quater, comma 6, c.p. e quella prevista dall’art. 62, n. 6, c.p. per la riparazione del danno.

Applicata la riduzione di pena connessa al rito abbreviato, l’imputato è stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione.

Successivamente, la Corte d’Appello di Genova, pronunciandosi sia sull’appello proposto dall’imputato che sul ricorso per Cassazione del Procuratore Generale, ha riconosciuto ulteriori attenuanti generiche e ridotto la pena a dieci mesi di reclusione.

La sentenza della Suprema Corte rappresenta un consolidamento della giurisprudenza che valorizza la tutela del minore nella sfera sessuale, anche alla luce delle normative internazionali e nazionali. Essa si pone in continuità con precedenti orientamenti giurisprudenziali precisando che l’ignoranza inevitabile è configurabile solo qualora nessun rimprovero, neppure di semplice leggerezza, possa essere rivolto all’agente per non aver rispettato il dovere di accertarsi adeguatamente dell’età del soggetto coinvolto (così Cass., sez. III, 10 dicembre 2013, n. 3651; Cass., sez. III, 6 maggio 2014, n. 37837).

La Corte pone l’accento sul dovere di diligenza chiarendo che in tali circostanze è necessario compiere controlli adeguati e proporzionali alla rilevanza del bene giuridico tutelato rappresentato dal libero sviluppo psicofisico dei minori.

Avallando quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, nel caso di specie, tali controlli avrebbero potuto includere richieste di informazioni a parenti della vittima o verifiche oggettive sulla sua età.

Nella decisione de qua la Cassazione precisa che dichiarazioni mendaci del minore circa la propria età o indizi fisici non possono essere considerate sufficienti per invocare la scriminante ex art 609sexies (del pari Cass., sez. III, 4 aprile 2017, n.775).

Tale interpretazione riflette l’importanza di preservare il libero sviluppo psicofisico dei minori e di evitare esperienze traumatiche che possano compromettere il loro futuro chiarendo che qualsiasi condotta che arrechi un pregiudizio rilevante a tale bene giuridico non può considerarsi priva di offensività, anche se vi è il consenso del minore (così anche Cass. pen., sez. III, 14 dicembre 2011, n.12464).

La pronuncia in questione rafforza l’obbligo di comportamenti responsabili e scrupolosi in situazioni che coinvolgono minori definendo i confini applicativi della scriminante di cui all’art. 609sexies c.p.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, ha confermato la condanna e ha disposto il pagamento delle spese processuali nonché di una somma in favore della Cassa delle ammende, sottolineando che l’imputato non aveva soddisfatto i criteri per invocare l’ignoranza inevitabile.

 

(*Contributo in tema di “Dichiarazione di ignoranza inevitabile”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

mancato deposito telematico

Mancato deposito telematico è sempre imputabile all’avvocato Mancato deposito telematico: imputabile all'avvocato se non sussistono problemi tecnici che lo impediscono

Mancato deposito telematico

Il mancato deposito telematico ricade sempre sulla responsabilità dell’avvocato. La Corte di Cassazione nella sentenza n. 9269/2025 ha enunciato questo principio, dichiarando improcedibile un ricorso contro un avviso di accertamento IMU perché lo stesso è avvenuto oltre i termini e in forma cartacea, senza giustificazioni valide.

Richiesta di autorizzazione al deposito cartaceo

La vicenda che porta la Cassazione a enunciare il principio esposto in materia di deposito, nasce da un contenzioso tra una contribuente e il Comune. Quest’ultimo aveva richiesto il pagamento dell’IMU per l’anno 2015. Dopo due gradi di giudizio sfavorevoli alla contribuente, il suo avvocato ha presentato ricorso in Cassazione. Il deposito però non è avvenuto nei tempi previsti (20 giorni dalla notifica), ed è stato fatto in formato cartaceo. La difesa ha tentato di giustificare il deposito cartaceo invocando difficoltà tecniche nel sistema telematico. L’avvocato ha ammesso la propria “mancata perizia” nell’uso della piattaforma informatica. Ha anche chiesto l’autorizzazione per il deposito in formato cartaceo, che la Prima Presidente ha concesso in via d’urgenza. Tuttavia, ha precisato che ogni valutazione definitiva spettava al Collegio.

Mancato deposito telematico, responsabile l’avvocato

La Corte per decidere al meglio chiede al Centro Elettronico di Documentazione (CED) di verificare eventuali disfunzioni informatiche. La risposta però è stata chiara: il sistema era pienamente funzionante nei giorni indicati. Nessun problema tecnico impediva il deposito telematico. Non sussistevano pertanto le condizioni di urgenza previste dalla normativa per autorizzare il deposito cartaceo.

La Corte richiama i principi espressi in precedenti sentenze e alla luce di questi ricorda che solo eventi eccezionali ed estranei alla volontà dell’avvocato, possono giustificare il mancato deposito telematico. Le difficoltà soggettive o la scarsa dimestichezza con gli strumenti digitali non bastano. La procedura online, oggi obbligatoria, richiede preparazione e attenzione. L’errore dell’avvocato non può essere coperto da deroghe. Nel caso di specie comunque il legale non ha neppure avviato la procedura telematica. Non ha tentato cioè l’invio online del ricorso. Ha semplicemente scelto la via cartacea, ma così facendo, ha violato le norme sul deposito in Cassazione, rendendo improcedibile l’intero ricorso.

Avvocati: obbligatori strumenti previsti dalla legge

In conclusione, in assenza di reali impedimenti tecnici, come avvenuto nel caso di specie, l’omesso deposito telematico è frutto di negligenza. Nessuna deroga può coprire l’inadempienza. Il difensore ha l’obbligo di utilizzare correttamente gli strumenti previsti dalla legge. La decisione contiene un chiaro monito per la categoria forense. L’avvocato non può più permettersi incertezze sul piano tecnico. Il rispetto delle regole del processo telematico non è una facoltà, ma un dovere preciso, che se non viene rispettato presenta conseguenze inevitabili.

 

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giurista risponde

Infiltrazioni: mancato godimento immobile per inagibilità procurata da terzi L’inutilizzabilità di un immobile per infiltrazioni causate da terzi dà luogo a un danno che deve essere risarcito in via presuntiva?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

Nell’ipotesi di perdita della disponibilità e del godimento dell’immobile in conseguenza dell’attività colposa di terzi, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito, sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato; a fronte della specifica contestazione del convenuto, la prova può essere fornita anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza (Cassazione, sez. II, 2 dicembre 2024, n. 30791).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla risarcibilità del danno per mancato godimento di un immobile a causa dell’inagibilità procurata da un’attività colposa di terzi.

In primo e secondo grado il proprietario di un appartamento danneggiato da alcune infiltrazioni provenienti da una soprastante terrazza aveva chiesto, nei confronti del condominio e del proprietario dell’immobile di cui la terrazza era proiezione, di essere risarcito, fra l’altro, dei danni derivanti dalla mancata utilizzazione del proprio appartamento. La domanda in questione era stata rigettata in entrambi i gradi di giudizio sulla scorta dell’assunto secondo cui il danno derivante dalla mancata disponibilità dell’immobile era stato solo allegato, ma non provato dal presunto danneggiato, il quale, per poter ottenere il risarcimento, avrebbe dovuto dimostrare di aver ricevuto concrete richieste di locazione o di vendita dell’immobile.

Il danneggiato, con il ricorso per cassazione, ha quindi lamentato la mancata applicazione, da parte della Corte di merito, degli approdi della giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite in tema di prova presuntiva del danno da mancato godimento del bene.

La Corte di cassazione, con la decisione in commento, ha accolto questo motivo di ricorso.

Nel proprio percorso argomentativo la Corte ha richiamato Cass., Sez. Un., 15 novembre 2022, n. 33645, la quale, operando una mediazione fra la teoria normativa del danno e quella causale, ha affermato che in caso di occupazione senza titolo di un immobile da parte di un terzo, il danno da perdita del godimento del bene possa essere provato anche in via presuntiva.

In particolare, la Corte ha ricordato i passaggi fondamentali della citata sentenza delle Sezioni Unite, ovverosia che in caso di occupazione illegittima di un immobile: i) il danno evento è rappresentato dalla lesione del diritto di godere della cosa e non già da un pregiudizio cagionato al bene oggetto del diritto di proprietà; ii) il danno conseguenza è la perdita della concreta possibilità di godimento – diretto o indiretto – del bene, quale conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto di godimento; iii) il danneggiato ha l’onere di allegare la concreta possibilità di godimento perduta e, a fronte della specifica contestazione del convenuto, ha l’onere di fornirne la prova, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o mediante presunzioni semplici.

La pronuncia in commento ha precisato che il principio affermato da Cass., Sez. Un., 15 novembre 2022, n. 33645 debba trovare applicazione anche nel caso – come quello oggetto del giudizio – in cui la perdita del godimento sia dovuta all’inagibilità dell’immobile causata da un’attività colposa di terzi.

Sulla scorta di tale ricostruzione, la Suprema Corte ha rilevato come il giudice di seconde cure avesse erroneamente rigettato la domanda di risarcimento del danno per la perdita della disponibilità e del godimento dell’immobile ed ha rinviato la causa alla Corte d’appello, per l’applicazione del principio di diritto riportato nella massima.

 

(*Contributo in tema di “Infiltrazioni: mancato godimento di un immobile a causa dell’inagibilità procurata da terzi”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)