resistenza a pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale: solo con violenza o minaccia reali La Cassazione chiarisce che, ai fini della configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale, in ossequio al principio di offensività, la violenza o la minaccia devono essere reali

Reato di resistenza a pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato la violenza o la minaccia devono essere reali e idonee a coartare o ostacolare l’agire del pu. Questo, in estrema sintesi quando affermato dalla sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 18583/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Campobasso ricorre per Cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Campobasso che ha assolto una donna dal reato di cui all’art. 37 cod. pen perché il fatto non sussiste. Il pg deduce l’erronea interpretazione della norma penale avendo li tribunale ritenuto necessario, ai fini della configurabilità del reato, che la condotta penale produca come risultato quello di opporsi concretamente ed efficacemente all’atto che il pubblico ufficiale sta compiendo. Aggiunge, inoltre, che il Tribunale ha considerato la condotta dell’imputata con riferimento al rifiuto di seguire i pubblici ufficiali, mentre la contestazione riguardava le minacce rivolte dalla donna agli operanti. Rileva, infine, l’irrilevanza dello stato di agitazione sulla imputabilità della donna.

La decisione

Per gli Ermellini, però, il ricorso è inammissibile in quanto deduce un motivo versato in fatto e privo di un confronto critico con la sentenza impugnata, che, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, ha assolto l’imputata, reputando l’inidoneità delle espressioni dalla stessa pronunciate ad impedire o ostacolare il compimento dell’atto d’ufficio e l’insussistenza dell’elemento psicologico.

Conclusioni che secondo il collegio si fondano “su una interpretazione della norma incriminatrice coerente con il principio di offensività, dovendosi, al riguardo, ribadire che, ai fini della configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale, pur essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un ostacolo al compimento degli atti indicati (così, da ultimo, Sez. 6, n. 5459 del 08/01/2020), è, tuttavia, necessario che la violenza o la minaccia siano reali e connotino in termini di effettività causale la loro idoneità a coartare o ad ostacolare l’agire del pubblico ufficiale, in ragione del dolo specifico che deve sorreggere il comportamento del soggetto agente (Sez. 6, n. 45868 del 15/05/2012)”.
Parimenti corretta, conclude la S.C., dichiarando inammissibile il ricorso, è “la valutazione relativa alla insussistenza dell’elemento psicologico del reato, in considerazione della diversa finalità sottesa alla condotta tenuta dell’imputato”.

licenziamento nullo

Licenziamento nullo: il fax va bene per comunicare la malattia Licenziamento nullo se il lavoratore comunica al datore a condizione di malattia a mezzo fax, nel rispetto del regolamento aziendale

Licenziamento nullo e certificato di malattia via fax

Licenziamento nullo per il lavoratore che si reca all’estero per le vacanze, si ammala e comunica la malattia a mezzo fax se il regolamento aziendale consente questa forma di comunicazione. Questa in sintesi la precisazione contenuta nell’ordinanza n. 25661/2024 della Corte di Cassazione.

Licenziato per assenza ingiustificata dal lavoro

Il dipendente di una società viene licenziato per essersi assentato dal lavoro per 9 giorni consecutivi. Il lavoratore impugna il licenziamento dichiarando di essersi recato in Romania per le ferie e di essere caduto in malattia. Il tutto come documentato dal certificato medico inviato a mezzo fax all’azienda datrice. Il Tribunale accoglie l’impugnazione e dispone che l’azienda reintegri il lavoratore nel suo posto.

La società appella la decisione, ma la Corte conferma l’illegittimità del licenziamento, la tutela reintegratoria e ridetermina l’indennità risarcitoria in 12 mensilità. La Corte d’appello motiva la sua decisione, precisando che dal contratto collettivo e dal regolamento aziendale non emerge il divieto di utilizzare una forma diversa dalla raccomandata. Per comunicare la malattia la previsione della sola raccomandata non esclude altre modalità di comunicazione, come il fax che il lavoratore ha utilizzato nel caso di specie. Il lavoratore ha solo l’onere di verificare il buon esito della trasmissione fax e a questo proposito il rapporto che dimostra l’avvenuta ricezione è soddisfacente.

Licenziamento nullo: fax sufficiente per comunicare la malattia

La società impugna anche questa sentenza di fronte alla Corte di Cassazione.

Con il primo motivo contesta la decisione perché la Corte d’Appello dapprima sostiene che la condotta del lavoratore non è stata rispettosa delle regole basilari della sollecita diligenza, poi però ha escluso la  giusta causa del licenziamento.

In realtà, affermano gli Ermellini, la Corte d’appello ha ritenuto sufficiente la comunicazione del certificato a mezzo fax perché prevista dal regolamento aziendale. Essa ha ritenuto idonea la prova della ricezione del fax dal rapporto di trasmissione prodotto dal lavoratore. Il tutto confermato dall’invio di analogo fax all’INPS e a questo pervenuto regolarmente.

Fax: mezzo idoneo previsto dal regolamento aziendale

Nel secondo motivo contesta alla Corte d’Appello di aver affermato che il fax costituisca un mezzo idoneo per comunicare la malattia del lavoratore.

Per la Cassazione questo motivo è del tutto infondato. “La Corte d’Appello ha evidenziato che il fax era una modalità espressamente prevista dal regolamento aziendale, di cui ha riportato un ampio stralcio, ed ha affermato che la norma di legge non esclude modalità equivalenti secondo forme d’uso, che ben possono essere previste appunto da un regolamento aziendale.”

La Cassazione evidenzia che questa parte della decisione  non è stata contestata dalla società ricorrente ed è idonea a motivare la decisione. La ricorrente infatti non ha mai messo in discussione lo stralcio del regolamento riprodotto nella sentenza e virgolettato. La Corte d’Appello quindi ha accertato in modo corretto con quali modalità, nel caso di specie, il lavoratore poteva comunicare la sua condizione di malattia. Infondati anche gli altri tre motivi.

Correttezza e buona fede anche nel rapporto di lavoro

La Cassazione precisa infine che anche nell’ambito dell controversie che scaturiscono dal rapporto di lavoro “il contesto delle circostanze deve essere interpretato alla luce dei principi di buona fede e correttezza.” Nello specifico “… il lavoratore può provare la giustificatezza dell’assenza, ai sensi dell’art. 2119 c.c., anche successivamente alla malattia, ove sia stato nell’impossibilità incolpevole di effettuare la prescritta comunicazione, ad esempio per gravissima malattia che abbia impedito al medesimo, o ai familiari, per la gravità della situazione clinica e psicologica del momento, di effettuare le prescritte comunicazioni al datore di lavoro. Tali regole trovano applicazione, secondo le circostanze del caso, in base al principio di correttezza e buona fede, anche nella ipotesi di malattia contratta allestero.”

 

Leggi anche gli altri articoli in materia di diritto del lavoro

L’assoluzione penale non esclude il risarcimento La Cassazione conferma la linea rigorosa: l’assoluzione nel giudizio penale non esclude il risarcimento del danno in ambito civile

Responsabilità penale, civile e risarcitoria

La Cassazione, con la sentenza del 19 settembre 2024 n. 25200, si è pronunziata sulla vicenda di un ragazzo deceduto per folgorazione a causa di un lampione della rete pubblica che presentava dei fili scoperti su cui si era appoggiato per andare a recuperare un pallone da calcio.

Al di là della triste vicenda, si pone il problema non solo della responsabilità penale, ma anche di quella civile e risarcitoria ex art. 2051 cod. civ.  da ripartire tra diversi responsabili (Comune/direttore dell’ufficio tecnico; direttore dei lavori della ditta esecutrice dell’impianto; ditta incaricata della manutenzione) e del rapporto tra responsabilità civile e penale.

Assoluzione penale

In relazione a tali fatti, sul fronte penale per omicidio colposo, vi sono stati tre procedimenti: uno nei confronti del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune, un altro nei confronti del direttore dei lavori titolare della ditta esecutrice dell’impianto di illuminazione che serviva il piazzale ed un terzo nei confronti della ditta con cui il Comune aveva stipulato una convenzione avente ad oggetto la manutenzione degli impianti di illuminazione siti sul territorio comunale. I primi due procedimenti si concludevano con pronuncia assolutoria, mentre il terzo per condanna per omicidio colposo.

Responsabilità ex art. 2051 c.c.

Sul fronte civile, invece, la questione principale riguarda l’individuazione della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. del Comune, anche in relazione all’eventuale giudicato penale di assoluzione.

Giova rilevare che è ammissibile intentare un giudizio civile anche in caso di sentenza di assoluzione in materia penale: l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni, a sentenza di condanna. Ciò anche in considerazione del diverso atteggiarsi sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale, in ambito civile.

Invero, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione “perché il fatto non sussiste” implica che nessuno degli elementi integrativi della fattispecie criminosa sia stato provato e, entro questi limiti, esplica efficacia di giudicato nel giudizio civile, sempre che la parte nei cui confronti l’imputato intende farla valere si sia costituita, quale parte civile, nel processo penale.

Nel caso di specie, nel processo penale il Comune, citato come responsabile civile, era chiamato a rispondere del fatto penalmente illecito contestato al funzionario, mentre nel processo civile il Comune è stato chiamato a rispondere per il fatto proprio in relazione alla custodia di un bene di proprietà comunale.

La colpa dei singoli dipendenti del Comune è irrilevante ai fini del titolo di responsabilità di quest’ultimo, la quale è pressoché obiettiva e prescinde dalle condotte negligenti dei singoli.

Inoltre, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota.

Esclusione della responsabilità

Quanto alla responsabilità civile del Comune, la responsabilità del custode può essere esclusa:

  1. dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo;
  2. dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo, caratterizzate, rispettivamente la prima dalla colpa ex 1227 cod. civ. (bastando la colpa del leso) o la seconda dalle oggettive imprevedibilità e non prevedibilità rispetto all’evento pregiudizievole.

Nesso causale tra cosa in custodia ed evento

Ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., il Comune è custode dell’immobile e dei suoi impianti fissi e come tale responsabile oggettivamente.

Ai fini della configurabilità di responsabilità, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.

Responsabilità del custode: confermata la linea rigorosa

La sentenza si inserisce nel solco della giurisprudenza consolidata in materia di responsabilità da cose in custodia, confermando l’orientamento rigoroso nei confronti degli enti pubblici.

La decisione sottolinea l’importanza della manutenzione degli impianti pubblici e la necessità per i Comuni di adottare misure preventive adeguate. Il fatto che il lampione fosse privo di corpo illuminante e in condizioni fatiscenti evidenzia una grave carenza nella manutenzione, che ha portato alla tragica conseguenza.

In conclusione, la sentenza non solo sancisce che è ammissibile, nonostante una sentenza di assoluzione in ambito penale,  essere condannati al risarcimento dei danni in ambito civile ma questa decisione della Cassazione rafforza la posizione dei cittadini nei confronti degli enti pubblici, imponendo a questi ultimi un elevato standard di diligenza nella gestione e manutenzione dei beni di loro proprietà.

pensione anticipata

Pensione anticipata: i 35 anni di contributi effettivi non servono Pensione anticipata: la Cassazione cambia orientamento e afferma che i 35 anni di contributi effettivi non servono

Pensione anticipata e contributi effettivi

Per la pensione anticipata non servono più i 35 anni di contributi effettivi versati. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione in due sentenze che vanno a sovvertire il precedente orientamento giurisprudenziale. Si tratta delle decisioni n. 24916/2024 e 24952/2024, entrambe del 17 settembre 2024, che hanno posto fine a due controversie tra due lavoratrici e l’INPS.

Pensione anticipata: valore dei contributi figurativi

In entrambi i casi le lavoratrici hanno convenuto in giudizio l’INPS per chiedere di far valere, ai fini della pensione anticipata (legge Fornero- Monti n. 214/2011), anche i contributi figurativi per malattia o disoccupazione. Le autorità giudiziarie adite però hanno respinto le domande delle lavoratrici. La pensione anticipata infatti, per disposizione di legge, non permetterebbe di accreditare i contributi figurativi per disoccupazione o malattia. Le due lavoratrici hanno quindi appellato le decisioni delle Corti perché il comma 10 dell’art. 24 del decreto legge n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, consente di conteggiare i contributi figurativi.

Cassazione: i 35 anni di contributi effettivi non servono

La Corte di Cassazione, in entrambe le cause, ricorda che il sistema pensionistico è stato modificato dalla riforma contenuta nella legge n. 214/2011. Le modifiche di questa legge hanno coinvolto anche la pensione anticipata, eliminando il requisito dei 35 anni di contribuzione effettiva.

Il comma 10 dell’art. 24 al comma 1 recita infatti testualmente: “A decorrere dal 1° gennaio 2019 e con riferimento ai soggetti la cui pensione è liquidata a carico dell’AGO e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima, nonché della gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, l’accesso alla pensione anticipata è consentito se risulta maturata un’anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.”

La norma è chiara, essa cita l’anzianità contributiva e la sua durata, non specifica che deve essere effettiva.

Diversa è invece la formulazione del comma 11 dell’art. 24, il quale dispone che: “Fermo restando quanto previsto dal comma 10, per i lavoratori con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996 il diritto alla pensione anticipata, previa risoluzione del rapporto di lavoro, può essere conseguito, altresì, al compimento del requisito anagrafico di sessantatre anni, a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell’assicurato almeno venti anni di contribuzione effettiva (…)”

La decisione dell’INPS, di rigettare le domande di pensione anticipata avanzata dalle lavoratrici, non trova quindi alcun fondamento normativo, al contrario, essa conduce alla disapplicazione della  legge.

Contributi effettivi se il primo accredito è successivo al 1° gennaio 1996

Il legislatore quando ha voluto includere tra i requisiti necessari per conseguire la pensione anticipata i soli contributi effettivi lo ha specificato. Poiché però il comma 10 dell’art. 24 del decreto legge n. 201/2011 non lo specifica, la contribuzione figurativa non può ritenersi esclusa.

La contribuzione effettiva è infatti richiesta per il lavoratore, il cui primo accredito contributivo, si verifica dopo il 1° gennaio 1996.

Con queste due sentenze la Cassazione cambia direzione rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale. La Cassazione n. 30265/2022 riteneva infatti che la riforma conservasse il requisito dei 35 anni di contributi effettivi necessari per conseguire la pensione anticipata, in totale contrasto con la lettera della legge, come evidenziato dalle due sentenze 2024.

 

Leggi anche: Pensione anticipata contributiva

 

Allegati

legittimo impedimento

Legittimo impedimento negato se il viaggio è per motivi familiari Legittimo impedimento: il viaggio all’estero dell'avvocato per motivi di famiglia non è un’impossibilità assoluta che legittima il rinvio d’udienza 

Legittimo impedimento avvocato

Il legittimo impedimento non si configura se il motivo  addotto per il rinvio è un viaggio all’estero per motivi familiari. Lo hanno chiarito le SU della Corte di Cassazione nella sentenza n. 24268-2024.

Avvocato non adempie al mandato: sospeso per un anno

Una donna si rivolge a Consiglio dell’Ordine degli Avvocati locale nel quale espone di essersi rivolta a un avvocato per avviare una causa di lavoro. La stessa dichiara di aver consegnato al professionista, a titolo di anticipo, 300,00 euro.

La donna, qualche tempo dopo, contattava l’avvocato per chiedere aggiornamenti sulla pratica e dopo alcune rassicurazioni apprendeva dagli uffici giudiziari che in realtà il procedimento non era stato iscritto a ruolo. La cliente si era quindi recata dall’avvocato per chiedere spiegazioni e lo stesso gli aveva spiegato che era preferibile avviare una conciliazione. La donna fa presente però che l’avvocato, una volta ottenuta l’autorizzazione per avanzare la proposta conciliativa, le riferiva di non ricordarsi della stessa, chiedendo di essere ricontattato. A quel punto l’esponente revocava il mandato, chiedeva la restituzione del racconto e della documentazione trasmessa senza ricevere però riscontro alcuno. Il Consiglio di Disciplina disponeva il rinvio giudizio dell’avvocato per essere venuto meno al dovere di adempiere al mandato e per  non aver provveduto alla restituzione dei documenti alla cliente. Il giudizio disciplinare si concludeva con la sospensione dell’avvocato dall’esercizio della professione per la durata di un anno.

Legittimo impedimento: il CNF nega il rinvio d’udienza

Il legale impugnava la decisione davanti al Consiglio Nazionale Forense, che accogliendo in parte il ricorso, riduceva la sospensione a sei mesi. L’avvocato ricorreva infine davanti alla Corte di Cassazione e con il secondo motivo di doglianza fa presente di aver presentato istanza di rinvio formalizzata in data 9 ottobre 2023 per un impedimento a comparire all’udienza del 18 ottobre 2023. Istanza che però il CNF non ha preso in considerazione.

Legittimo impedimento: impossibilità assoluta non mera difficoltà

La Cassazione dando precedenza a questo motivo procedurale precisa che, secondo costante giurisprudenza delle Sezioni Unite nel giudizio disciplinare che si svolge davanti al Consiglio Nazionale Forense l’incolpato ha il diritto di ottenere il rinvio dell’udienza se sussiste un legittimo impedimento a comparire ai sensi dell’articolo 420 ter c.p.p. L’impedimento però deve essere assoluto e non può essere rappresentato da una difficoltà qualsiasi.

Il viaggio all’estero per motivi familiari non è un’impossibilità assoluta a comparire

Nel caso di specie l’avvocato ha presentato istanza di rinvio dell’udienza del 18 ottobre 2023 perché quel giorno si sarebbe trovato all’estero per motivi familiari. Il CNF però non ha disposto il differimento perché il ricorrente non ha dato prova del suo legittimo impedimento che, come già precisato, deve essere rappresentato da un impedimento assoluto e non da una mera situazione di difficoltà. In assenza di prove relative all’indifferibilità del viaggio all’estero, il solo acquisto dei biglietti non dimostra l’ineluttabilità dell’impegno. L’avvocato  ben sapeva che il viaggio in Albania sarebbe stato incompatibile con la sua presenza in udienza. La condizione di impossibilità a comparire fatta valere dal legale nel ricorso non è quindi corredata da un riscontro idoneo. Ragione per la quale il motivo relativo al legittimo impedimento deve essere respinto.

 

Leggi anche: “Legittimo impedimento avvocati: primo sì alla riforma

terzo trasportato

Terzo trasportato: va risarcito se il conducente è ubriaco Il terzo trasportato da un conducente ubriaco va risarcito se vittima di sinistro, il suo concorso di colpa va valutato caso per caso

Terzo trasportato e diritto al risarcimento

Il terzo trasportato da un conducente in stato di ebbrezza se rimane coinvolto in un sinistro stradale non ha sempre colpa a titolo di concorso (art. 1227 c.c). In questi casi non si può escludere il diritto del terzo al risarcimento del danno. Spetta al giudice di merito, per quantificare il danno, accertare caso per caso, l’eventuale concorso di colpa della vittima. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 24920/2024.

Lesioni da sinistro stradale e risarcimento del danno

Un soggetto trasportato a bordo di un autoveicolo, resta vittima di un sinistro stradale e riporta lesioni personali. Per i danni subiti il terzo chiede il risarcimento al vettore e all’assicurazione del veicolo.

Terzo trasportato responsabile al 50%

Il Tribunale la Corte d’appello ritengono che il trasportato sia responsabile al 50%, ai sensi dell’art. 1227 c.c. Lo stesso ha infatti accettato di farsi trasportare da un conducente in evidente stato di ebrezza.

Parte soccombente ricorre in Cassazione lamentando la mancata dimostrazione dello stato di ebrezza del conducente, così come la mancata dimostrazione della percepibilità di detta condizione.

La colpa del terzo trasportato va valutata nel singolo caso

La Cassazione richiama dapprima alcuni importanti principi in materia di RCA sanciti dalla Direttiva 2009/103 e poi una sentenza della Corte di Giustizia UE. Conclusa l’analisi di questi testi gli Ermellini affermano due importanti principi di diritto ai fini del decidere.

  • Il primo afferma che: l‘art. 1227, comma primo, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale ed astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente. Una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, § 3 della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitoria spettante al trasportato, “qualsiasi disposizione di legge (…) che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol”. Spetterà dunque al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore”.
  • Il secondo invece sancisce che “l’accertamento della esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.”.

 

Leggi anche: “Caso fortuito e condotta del terzo o del danneggiato

Allegati

Stalking su Facebook: bastano due post Stalking su Facebook integrato anche con la pubblicazione di due soli post se il profilo dell’autore è aperto e quindi accessibile

Stalking su Facebook

Il reato di stalking su Facebook è integrato anche dalla pubblicazione di due soli post sul profilo aperto dell’imputato se il passato è caratterizzato da condotte persecutorie e se dal contenuto dei post emerge chiaramente a chi sono diretti tanto che persona offesa vien informata del contenuto da persone vicine. La Cassazione lo ha chiarito nella sentenza n. 33986-2024.

Reato di stalking pubblicare due post sul profilo Facebook

La Corte d’appello condanna un soggetto per il reato di atti persecutori art. 612 bis c.p. L’imputato ricorre in Cassazione contestando gli addebiti nei suoi confronti. Il soggetto lamenta l’affermazione di responsabilità anche per fatti anteriori all’inoltre dei due post su Facebook. Questi eventi sono stati infatti oggetto di un procedimento penale relativo sempre al reato di stalking dal quale però era stato assolto. L’imputato rileva inoltre un potenziale contrasto tra giudicati. Costui  infine contesta la sussistenza dell’elemento soggettivo in relazione al reato di atti persecutori che gli è stato contestato.  Lo stesso si sarebbe realizzato con l’inoltro di due post sulla propria bacheca personale di Facebook a un destinatario privo di un profilo sullo stesso social, sul quale tra l’altro non è mai entrato. Alla luce di questo, l’imputato non comprende in che modo abbia potuto colpire la vittima con i suoi post.

Stalking su Facebook: sufficienti due condotte moleste e lesive

La Cassazione respinge il ricorso, ritenendo le censure in parte inammissibili e in parte infondate.

Dai precedenti penali per il reato di stalking la Corte di appello ha dedotto l’oggettiva capacità persecutoria dell’inoltro dei post su Facebook. La stessa ha fatto una corretta applicazione dei principi in materia affermati dalla giurisprudenza di legittimità. Quest’ultima ritiene in particolare che integrano li delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la “reiterazione” richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale.” Gli Ermellini ricordano inoltre come “il delitto di atti persecutori sia integrato da un’opera di reiterata delegittimazione della persona offesa realizzata dal soggetto attivo attraverso una serie protratta di condotte diffamatorie e moleste realizzate attraverso l’invio di numerosi “post” diffamatori su “social network.” 

Elemento soggettivo: dolo generico

L’elemento soggettivo di questo reato abituale e di evento è rappresentato dal dolo generico. Lo stesso si traduce nella volontà di porre in essere plurime condotte di minaccia e di molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi richiesti dalla norma come lo stato d’ansia e il cambio di abitudini. Non occorre la preordinazione da parte del reo, ma l’abitualità, che è integrata anche con la mera occasionalità e casualità. La consapevolezza delle più condotte di minaccia o di molestia a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, implica necessariamente la cognizione che tali condotte siano percepibili dai destinatari della minaccia o della molestia.”

Consapevolezza a produrre uno degli eventi ex art. 612 bis c.p.

Il reato di atti persecutori è quindi integrato anche dal reiterato e assillante invio di messaggi persecutori, ingiuriosi, enfatizzanti, minatori e irridenti la persona offesa se diretti a destinatari plurimi legati alla stessa da un rapporto di vicinanza. Tutto purché il reo agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza, della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice.” 

Conoscibilità scontata se il profilo è accessibile

La Cassazione ritiene che, se è vero che occorre distinguere il caso in cui i messaggi persecutori vengono inviati sul profilo della persona offesa da quello in cui vengono pubblicati sul profilo dell’imputato, nel caso di specie a rilevare è la conoscibilità, certamente scontata quando il profilo sia ampiamente accessibile”.

L’imputato ha fatto uso del proprio profilo Facebook per pubblicare due contenuti diretti chiaramente alle due persone offese. Le modalità utilizzate sono tali da fondare la conoscibilità da parte loro o comunque anche di altre persone a loro legate.” Il contenuto dei post è stato infatti rivelato alla persona offesa da sua sorella, dopo che questa ne è venuta a conoscenza dal social network.

 

Leggi anche: “Stalking: indici sintomatici ansia o timore

Allegati

niente rimessione in termini

Niente rimessione in termini per l’ignoranza del difensore La rimessione in termini non può essere concessa al difensore che decade dai termini per proporre l’istanza per la trattazione orale

Rimessione in termini: non opera per il difensore ignorante

L’autorità giudiziaria non può concedere la rimessione in termini al difensore che ignora il funzionamento del processo e presenta istanza di trattazione orale nello stesso ricorso per Cassazione. Il legale avrebbe dovuto infatti presentare istanza apposita e separata dopo la fissazione dell’udienza entro un termine preciso da cui però è decaduto. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 34695/2024.  

Respinta l’istanza per la trattazione orale

La Corte d’appello conferma la condanna penale dopo aver accertato la responsabilità dell’imputato relativa alla commissione del reato in materia elettorale, previsto dall’art. 87 del “Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali” contenuto nel DPR n. 570/1960.

Il difensore impugna la sentenza di fronte alla Corte di Cassazione sollevando 4 motivi di doglianza. Nel terzo motivo il difensore lamenta la mancata concessione della remissione in termini.

Nel caso di specie il difensore dell’imputato con il ricorso in Cassazione chiede la trattazione orale della causa. Con nota del 24.06.2024 insiste ancora, ma il Presidente glielo nega. Il giorno 25.06.2024 il difensore presenta quindi una nuova istanza, chiedendo la remissione in termini e sollevando questione di illegittimità costituzionale. Il legale ritiene infatti che all’istanza proposta con l’atto di impugnazione di trattazione orale della causa non debba seguire una autonoma istanza.

Con memoria del 05.07.2024 il difensore dichiara di aderire all’astensione proclamata dalle Camere Penali, poi però insiste per il riconoscimento della prescrizione del reato.

Difensore decaduto dai termini per la trattazione orale

La Corte di Cassazione, nell’analizzare le questioni preliminari di doglianza sollevate dal difensore dell’imputato, precisa che se l’istanza di remissione viene richiesta dal difensore per l’ignoranza della legge processuale, quest’ultima non è equiparabile al caso fortuito o alla forza maggiore che possono legittimare la restituzione dei termini.

Rimessione in termini: oneri di diligenza per difensore e imputato

L’imputato e il difensore sono gravati da precisi oneri di diligenza, che valgono anche in relazione al termine di decadenza per proporre l’istanza di trattazione orale.

Quando il difensore ha proposto con l’atto di impugnazione l’istanza per la trattazione orale della causa ha commesso un errore.  Il legale avrebbe infatti dovuto presentare un’istanza apposita dopo la fissazione dell’udienza. Questa previsione consente una migliore organizzazione dell’udienza e permette alla difesa di partecipare all’udienza dopo che la stessa è stata fissata. Non è infatti possibile conoscere questa informazione, ossia la data di fissazione dell’udienza,  se l’istanza viene presentata nell’atto di impugnazione.

Il difensore nel ricorso ha anche richiamato impropriamente le norme del codice di procedura perché per tutti i ricorsi presentati fino al 30 giugno 2024, compreso quello presentato davanti alla Corte di cassazione, valgono le regole previste dall’articolo 23, comma 8 del decreto legge n. 137/2020.

Senza trattazione orale non rileva l’istanza di rinvio per sciopero

L’istanza di rinvio per adesione all’astensione organizzata dalle camere penali infine non è rilevante perché l’autorità giudiziaria non ha disposto la trattazione orale della causa. Questo perché, sempre in base alle disposizioni emergenziali emanate durante la pandemia, in mancanza di istanze tempestive per la discussione orale, è priva di effetti l’istanza di rinvio per adesione, perché l’istante non ha comunque il diritto di partecipare all’udienza camerale. L’autorità giudiziaria può concedere il rinvio solo per atti o adempimenti che richiedono la presenza del difensore, non necessari in un procedimento che si svolge tramite trattazione scritta.

 

Leggi anche: “Legittimo impedimento avvocati: primo sì alla riforma

Allegati

assegno di mantenimento figli

Assegno di mantenimento figli: l’impossibilità non è indigenza totale Assegno di mantenimento figli: l’impossibilità di adempiere gli obblighi di assistenza esclude il dolo, ma non equivale all’indigenza totale 

Assegno mantenimento figli e indigenza totale

Il padre che non versa l’assegno di mantenimento per la figlia, violando gli obblighi di assistenza familiare commette reato se non dimostra che la dichiarata impossibilità è esente da colpa. L’impossibilità assoluta di adempiere gli obblighi di assistenza familiare (art. 570 bis c.p) e che esclude il dolo “non può essere assimilata allindigenza totale.” Lo ha specificato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 34032-2024.

Assegno di mantenimento: reato non versarlo per la figlia

Il giudice di primo grado condanna un padre per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’’art. 570 bis c.p. La Corte d’appello riduce la pena, ma conferma il reato. Per i giudici l’uomo è responsabile del mancato versamento del mantenimento mensile di 900,00 euro per la figlia. La Corte rileva che lo stesso ha versato somme inferiori rispetto a quelle fissate dal giudice, ma non ha dimostrato condizioni tali da non poter disporre di somme superiori.

Manca il dolo del reato contestato

L’imputato nel ricorrere in Cassazione contesta l’elemento soggettivo del reato di cui è stato ritenuto responsabile. Lo stesso dichiara di essersi trovato in una condizione di ristrettezze economiche. Questo non gli ha impedito di  versare quanto poteva per la figlia. Lo stesso inoltre si è riconciliato con la ex moglie e La ripresa della convivenza gli ha consentito di ripianare la propria posizione debitoria.

L’impossibilità di versare il mantenimento non è indigenza totale

La Cassazione, esaminati i motivi di doglianza, dichiara il ricorso manifestamente infondato. L’imputato si limita infatti a reiterare la tesi in base alla quale il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non può essere attribuito a chi si trova in una condizione di impossibilità ad adempiere ai propri obblighi.

La sentenza pronunciata nei confronti dell’imputato però è perfettamente in linea con la tesi affermata da giurisprudenza oramai consolidata, per la quale “in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’impossibilità assoluta dell’obbligato di far fronte agli adempimenti sanzionate dall’articolo 570 bis CP, che esclude il dolo, non può essere assimilata all’indigenza totale, dovendosi valutare se, in una prospettiva di bilanciamento dei beni in conflitto, ferma restando la prevalenza dell’interesse dei minori e degli eventi di diritto alle prestazioni, il soggetto avesse  effettivamente la possibilità di assolvere i propri obblighi senza rinunciare a condizioni di dignitosa sopravvivenza.”

Impossibilità totale e priva di colpa non dimostrata

L’imputato non è totalmente incolpevole e quindi non è esonerato dall’obbligo di contribuzione. La difesa ha dichiarato che l’uomo si è trovato in condizioni di difficoltà economica e quindi impossibilitato ad adempiere le obbligazioni a suo carico, ma tale assunto difensivo è generico e non è idoneo a dimostrare l’incapacità contributiva assoluta ed esente da colpa. L’imputato ha omesso di versare l’assegno di mantenimento, ma non ha dimostrato che l’inadempimento era dovuto a una condizione di impossibilità assoluta e priva di colpa.

 

Leggi anche: Mantenimento figli: nessun reato per il padre in difficoltà

Allegati

Avvocato: per difendersi da solo serve l’iscrizione all’albo L’avvocato stabilito non può difendersi da solo davanti al CNF: lo ius postulandi spetta a chi è iscritto all’albo degli avvocati

Avvocato stabilito: iscrizione all’albo per difendersi da solo

L’avvocato stabilito non può difendersi da solo davanti al CNF perché privo dello ius postulandi. Esso è iscritto infatti in una sezione speciale dell’albo, non nell’albo ordinario degli avvocati. A sostegno di questa tesi ci sono diverse disposizioni normative. L’art. 7 del Regio decreto 1578/1933 dispone infatti che la difesa, l’assistenza e la rappresentanza in giudizio possono essere esercitate solo da un “avvocato”.

L’art. 8. Del decreto legislativo n. 96/2001 invece dispone che: nei giudizi civili, penali ed amministrativi, nonché nei procedimenti disciplinari nei quali è necessario la nomina di un difensore, lavvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato ad esercitare la professione con il titolo di avvocato.” Lo hanno chiarito le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 24279-2024.

Senza iscrizione all’albo degli avvocati niente ius postulandi

Il Consiglio distrettuale di disciplina sanziona un avvocato disponendone la sospensione per due mesi dall’attività professionale. Lo stesso, nella qualità di avvocato stabilito, è stato ritenuto responsabile di aver utilizzato impropriamente il titolo italiano di “avv./avv. S” generando confusione sul titolo professionale dello Stato ospitante.

Il legale impugna la decisione davanti al Consiglio Nazionale Forense, che lo dichiara inammissibile. Il ricorso infatti è stato presentato in proprio dall’avvocato, che all’epoca dei fatti era iscritto nella sezione speciale degli avvocati stabiliti e non nell’albo ordinario degli avvocati e quindi non poteva esercitare lo ius postulandi.

Patrocinio davanti al CNF: serve l’intesa con un avvocato

L’avvocato contesta la decisione del CNF davanti alla Corte di Cassazione, che però rigetta il ricorso.

Sulla questione centrale dello ius postulandi e del titolo di avvocato necessario alla difesa tecnica in proprio la Cassazione ricorda di aver già ribadito che non tutti possono esercitare la difesa ed assumere il patrocino davanti al Consiglio Nazionale Forense, ma solo quei soggetti a cui la legge riconosce tale potere e che, in virtù di determinate qualità personali, sono iscritte all’albo professionale degli avvocati.

Fatta questa precisazione, in relazione al caso di specie la Corte richiama l’articolo 8 del decreto legislativo n.  96/2001. Il comma 1 di detta norma dispone nello specifico che: Nell’esercizio delle attività relative alla rappresentanza, assistenza e difesa nei giudizi civili, penali ed amministrativi, nonché nei procedimenti disciplinari nei quali è necessaria la nomina di un difensore, l’avvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato ad esercitare la professione con il titolo di avvocato, il quale assicura i rapporti con l’autorità adita o procedente e nei confronti della medesima è responsabile dell’osservanza dei doveri imposti dalle norme vigenti ai difensori». Il comma 2 precisa inoltre che: L’intesa di cui al comma 1 deve risultare da scrittura privata autenticata o da dichiarazione resa da entrambi gli avvocati al giudice adito o all’autorità procedente, anteriormente alla costituzione della parte rappresentata ovvero al primo atto di difesa dell’assistito.” 

L’avvocato stabilito non ha un autonomo ius postulandi

L’avvocato stabilito cittadino di uno dei Paese UE, che esercita in Italia in modo stabile la professione e che è iscritto in una sezione speciale dell’albo non ha un autonomo ius postulandi. Costui può svolgere la difesa, l’assistenza e la rappresentanza in giudizio solo se agisce “di intesa con un professionista abilitato” debitamente documentata.

Detto soggetto, in assenza dell’intesa suddetta, non può neppure stare in giudizio senza il ministero di un difensore.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati agli avvocati nella sezione “Professioni

Allegati