gioco delle tre carte

Gioco delle tre carte: è azzardo e non truffa Il gioco delle tre carte integra il reato di gioco d'azzardo (art. 718 c.p.) ma non quello di truffa (art. 640 c.p.)

Gioco delle tre carte: quale reato

Il gioco delle tre carte integra il reato di gioco d’azzardo (art. 718 c.p.) ma non quello di truffa (art. 640 c.p.). Lo ha precisato la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 43873/2024.

La vicenda

A ricorrere per cassazione avverso la sentenza con la quale la Corte di appello di L’Aquila ha confermato la decisione di primo grado, è un uomo condannato per il reato di cui all’art. 718 cod. pen., per aver, in luogo pubblico e avendo allestito un banchetto, tenuto un gioco d’azzardo, consistito nel maneggiare delle campanelle allo scopo di far puntare denaro ai viaggiatori in transito e agli avventori del bar.

Il ricorso

Il ricorrente affida il ricorso ad un unico motivo, con il quale deduce violazione di legge e vizio della motivazione, posto che la Corte territoriale ha disatteso le doglianze formulate con i motivi di appello, con le quali aveva rappresentato che il gioco delle tre carte o delle tre campanelle non possa essere qualificato come gioco d’azzardo connotato da aleatorietà, ma come gioco d’abilità del gestore o dello scommettitore, nè sono necessari, per la sua realizzazione, artifizi e raggiri.  Rappresenta, inoltre, di aver tenuto il banchetto ove si effettuava il gioco in modo occasionale, senza alcuna organizzazione.

Reato ex art. 718 c.p.

Per gli Ermellini, il ricorso, tuttavia, è manifestamente infondato.
In giurisprudenza, premettono, si è affermato che il gioco dei “tre campanelli” e quelli similari delle “tre tavolette” o delle “tre carte” “non configura il reato di truffa ma quello di
cui all’art. 718 cod. pen., in ragione del fatto che la condotta del soggetto che dirige li gioco non realizza alcun artificio o raggiro ma costituisce una caratteristica del gioco che rientra nell’ambito dei fatti notori, purché all’abilità ed alla destrezza di chi esegue il gioco non si aggiunga anche una fraudolenta attività del medesimo (Sez. 2, n. 48159 del 17/07/2019, Rv. 277805; Sez. 3, n. 19985 del 2020)”.
Si è quindi affermato, proseguono dalla S.C., “che, in tema esercizio abusivo dell’attività di pubblica scommessa su giochi di abilità, è necessaria la presenza di una struttura organizzativa costituita da mezzi e persone, anche se di natura non stabile e complessa (Sez. F, n. 26321 del 02/09/2020)”.

La decisione

Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato che il ricorrente si era posizionato
presso un’area di servizio, aveva allestito un banchetto amovibile su cui conduceva il gioco delle
tre campanelle, era circondato da un capannello di persone, e ha affermato che il condurre in luogo pubblico il suddetto gioco, non richiedendo la predisposizione di attività specifiche di inganno, non integri il reato di truffa ma deve considerarsi come un gioco d’azzardo in quanto il partecipe al gioco può ottenere la vincita della somma in modo del tutto aleatorio, a prescindere da ogni abilità.

Il ricorso, dunque, è inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

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giurista risponde

Atti persecutori in presenza di minori e circostanza aggravante L’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., è compatibile con il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. quando tale condotta viene perpetrata in presenza di un minore?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

La Corte di cassazione, nella sentenza in esame, ha affrontato il tema dell’applicabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., al delitto di atti persecutori. La Corte di Appello di Roma aveva confermato la condanna per atti persecutori aggravati, ritenendo correttamente contestata l’aggravante in considerazione della presenza del figlio minore durante la commissione del reato. Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il ricorso per cassazione limitatamente alla questione dell’aggravante, annullando la sentenza impugnata senza rinvio in quanto tale aggravante non è applicabile al reato di atti persecutori (Cass., sez. V, 31 ottobre 2024, n. 40301).

In particolare, la Corte ha richiamato la giurisprudenza consolidata, evidenziando che l’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., fa riferimento a delitti contro la vita e l’incolumità personale, escludendo esplicitamente il reato di atti persecutori, che è considerato un reato contro la libertà morale. La Corte ha sottolineato che la precisa formulazione della norma non lascia margini di interpretazione, confermando che la protezione offerta ai minori che assistono a condotte delittuose non si estende ai reati di atti persecutori.

Nel caso specifico, i giudici di merito non avevano affrontato adeguatamente il profilo giuridico sollevato dalla difesa riguardo all’applicabilità dell’aggravante, limitandosi a elencare gli episodi di atti persecutori assistiti dal minore, senza entrare nel merito dell’interpretazione della norma. Pertanto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata dovesse essere annullata in relazione all’aggravante contestata, con conseguente necessità di una nuova valutazione del trattamento sanzionatorio, alla luce della caducazione dell’aggravante stessa.

In conclusione, la Corte ha ribadito che la circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p. non può essere applicata al delitto di atti persecutori, confermando una visione restrittiva della norma e garantendo così una corretta interpretazione della tutela giuridica in materia di reati contro la libertà morale.

 

(*Contributo a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

agevolazione prima casa

Agevolazione prima casa anche per l’immobile inagibile La Cassazione ha chiarito che l'agevolazione prima casa può applicarsi anche all'acquisto di un immobile inagibile purchè destinato all'uso abitativo

Agevolazione prima casa

Con l’ordinanza n. 3913/2025, la sezione tributaria della Cassazione ha chiarito che l’agevolazione fiscale per l’acquisto della “prima casa” può applicarsi anche agli immobili inagibili (fabbricati collabenti), purché destinati all’uso abitativo dopo idonei interventi edilizi.

La vicenda

Nella vicenda, un’acquirente chiedeva di usufruire dell’agevolazione prima casa versando l’imposta di registro nella misura ridotta del 2%. L’Agenzia delle Entrate emanava avviso di accertamento sostenendo che l’agevolazione si applicasse solo agli immobili abitativi, anche in costruzione, escludendo quelli inagibili.

La questione approdava in Cassazione, la quale ha respinto la tesi del fisco, affermando che la possibilità di destinare l’immobile all’uso abitativo prevale sull’attuale stato di inagibilità.

Fabbricati collabenti

Secondo la S.C., infatti, lo stato di collabenza (dei fabbricati F/2) produce improduttività di reddito ma non fa venir meno in capo all’immobile la tipologia normativa di “fabbricato”. Per quanto oggettivamente inidonei a soddisfare attuali esigenze abitative, ritiene la Corte che “né l’assenza di attualità di destinazione ad abitazione né l’attribuzione della categoria catastale F/2 rappresentano ostacoli alla possibilità di accesso alle agevolazioni prima casa; e, tanto risulta confermato dal tenore del precetto normativo che esclude l’usufruibilità dei benefici fiscali unicamente per i fabbricati classificati in categoria A/1, A/8 e A/9, senza ulteriori limitazioni per altre categorie catastali suscettibili di concreta finalizzazione abitativa e, dunque, né per i fabbricati in corso di costruzione ovvero da ultimare né per i fabbricati collabenti”.

Nessuna idoneità abitativa immediata

La circostanza che il cespite presenti caratteristiche di degrado tali da esigere importanti opere edili di intervento ovvero la previa demolizione e successiva ricostruzione, “se destinato a finalità abitativa, non può limitare l’accesso al beneficio fiscale, tanto più se tali benefici risultino accessibili per gli immobili ancoa da ultimare, risultando rilevante solo che l’immobile sia strutturalmente destinato ad uso abitativo, non essendo richiesto che esso sia già idoneo al momento dell’acquisto (Cass. n. 3804/2003, Cass. n. 18300/2004)”.

Peraltro, ciò soddisfa, proseguono da piazza Cavour, “l’esigenza perseguita dal legislatore di incoraggiare sia lo sviluppo dell’edilizia abitativa mediante l’incremento quantitativo delle costruzioni sia interventi di restauro e risanamento conservativo volti a preservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, nonché la commercializzazione degli immobili da
recuperare”.

Il principio di diritto

Per cui rigettando il ricorso dell’amministrazione finanziaria, la S.C. ha affermato ilo seguente principio di diritto: “In materia di agevolazione ‘prima casa’ (art. 1 Nota Il bis della Tariffa, parte
prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986), posto che la norma agevolativa non esige l’idoneità abitativa dell’immobile già al momento dell’acquisto, il beneficio può essere riconosciuto anche all’acquirente di immobile collabente, non ostandovi la classificazione del fabbricato in categoria catastale F/2, ed invece rilevando al suscettibilità dell’immobile acquistato ad essere destinato, con i dovuti interventi edilizi, all’uso abitativo”.

 

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ascensore in condominio

Ascensore in condominio: necessario un bilanciamento dei diritti Ascensore in condominio: necessario bilanciare i diritti dei disabili con quelli dei condomini al godimento delle parti comuni

Ascensore in condominio

L’installazione di un ascensore in condominio comporta numerosi vantaggi, soprattutto per le persone con difficoltà motorie. Quest’opera migliora infatti senza dubbio l’accessibilità all’edificio condominiale. Occorre tuttavia considerare anche la presenza di criticità.  L’installazione di un ascensore può incidere infatti sul decoro architettonico dell’edificio, ridurre lo spazio disponibile nelle scale o nei pianerottoli e generare costi di manutenzione elevati. Occorre quindi bilanciare il diritto all’accessibilità con il rispetto delle parti comuni e dei diritti degli altri condomini. La normativa tutela le persone con disabilità, ma impone limiti per garantire che nessun condomino subisca danni o pregiudizi eccessivi. La solidarietà condominiale è fondamentale, ma non deve trasformarsi in un’imposizione unilaterale. Nel caso deciso dal Tribunale di Nocera Inferiore con la sentenza n. 396/2025 la realizzazione dell’ascensore è possibile perché la riduzione del vano scale di 30 centimetri non è tale da rendere inservibili le scale interessate dall’opera.

Ascensore in condominio: un equilibrio tra diritti

L’installazione di un ascensore in un condominio è un’opera essenziale per garantire l’accessibilità alle persone con disabilità e agli anziani. Per la Cassazione l’ascensore è equiparabile agli impianti di luce, acqua e riscaldamento, poiché migliora la vivibilità degli appartamenti. La realizzazione di tale opera però deve rispettare il principio di solidarietà condominiale a tutela dei singoli condomini, ma anche dei disabili che hanno diritto alla eliminazione delle barriere architettoniche.

La legge n. 13 del 1989 stabilisce regole specifiche per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati. Secondo l’articolo 2 di questa legge, le innovazioni volte a eliminare tali barriere possono essere approvate con una maggioranza non qualificata dell’assemblea condominiale. Questo semplifica l’iter decisionale, facilitando l’adozione di soluzioni a beneficio delle persone con disabilità e degli anziani. Tuttavia, la normativa impone anche alcuni limiti. L’articolo 1120 del Codice Civile vieta innovazioni che rendano inutilizzabili alcune aree comuni dell’edificio. Ad esempio, se l’installazione dell’ascensore riduce drasticamente la larghezza delle scale o compromette l’accesso ad altri spazi comuni, l’opera può essere contestata e considerata illegittima.

Limiti all’installazione dell’ascensore

L’ascensore deve garantire un equilibrio tra l’interesse all’accessibilità e il diritto di tutti i condomini a utilizzare gli spazi comuni. La Cassazione ha chiarito che l’installazione non può privare neanche un solo condomino del diritto al godimento delle parti comuni dell’edificio. Questo significa che, se un condomino dimostra che l’ascensore limita in modo significativo il suo accesso o il suo utilizzo delle scale, la richiesta può essere bloccata o deve essere trovata una soluzione alternativa.

La giurisprudenza ha confermato questa posizione in diverse sentenze. Nel caso di specie il Tribunale ha rilevato che una riduzione delle scale da 1,10 metri a 0,80 metri come conseguenza della installazione dell’ascensore, non rende le scale del tutto inservibili, purché rimanga garantito un accesso sicuro. Tuttavia, ogni caso va valutato singolarmente, considerando le specificità dell’edificio e delle esigenze dei condomini.

Esonero dalle spese per i dissenzienti

Un aspetto cruciale della sentenza riguarda anche la ripartizione delle spese. L’articolo 1121 del Codice Civile prevede infatti che se l’innovazione comporta una spesa molto elevata o ha carattere voluttuario (non essenziale), i condomini che non intendono trarne vantaggio dall’opera, ovvero l’ascensore, possono rifiutarsi di partecipare alle spese.

I condomini dissenzienti devono quindi essere esonerati dai costi se dichiarano espressamente il loro dissenso prima dell’inizio dei lavori. Ovviamente chi decide di non partecipare alla spesa non potrà usufruire dell’ascensore, salvo successiva richiesta di adesione con il pagamento della propria quota.

 

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mantenimento al figlio maggiorenne

Mantenimento al figlio maggiorenne che si disinteressa del padre Mantenimento al figlio maggiorenne: dovuto se non è economicamente autosufficiente, non rileva che si disinteressi del padre

Mantenimento al figlio maggiorenne

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 3552/2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di mantenimento al figlio maggiorenne non autosufficiente. L’obbligo del genitore non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma richiede un’accurata verifica della situazione economica e lavorativa del figlio, anche se questo non dimostra interesse per il genitore obbligato.

Revoca del mantenimento del figlio maggiorenne

Un padre chiede la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne perché economicamente indipendente. L’uomo lamenta inoltre il disinteresse del figlio per il suo stato di salute, a causa del quale, da anni subisce interventi chirurgici. Il Tribunale respinge la richiesta, perché di fatto il giovane non ha ancora raggiunto un’indipendenza economica stabile. La Corte d’Appello conferma in gran parte la decisione, sottolineando che l’obbligo di mantenimento si protrae in assenza di autosufficienza economica.

Non rileva il rapporto affettivo

La Cassazione ritiene inammissibile il ricorso del padre, evidenziando alcuni aspetti del diritto al mantenimento dei figli.

Il genitore deve continuare a garantire il supporto economico fino a quando il figlio non ottiene un’adeguata autosufficienza finanziaria. Il giudice deve verificare l’effettivo inserimento nel mondo del lavoro, valutando il tipo di occupazione, la stabilità del reddito e le prospettive future del giovane. Il diritto del figlio a ricevere l’assegno non dipende dalla qualità del rapporto con il genitore obbligato. L’eventuale distanza affettiva non costituisce infatti motivo valido per interrompere il sostegno economico. Per ottenere la revoca dell’assegno, il genitore deve provare piuttosto un significativo peggioramento delle proprie condizioni finanziarie. Nel caso in esame, però tale prova non è stata fornita.

Autosufficienza economica

La decisione della Cassazione conferma un orientamento consolidato. Il mantenimento del figlio maggiorenne resta cioè un obbligo fino a quando non si accerta una reale autosufficienza economica. Il disinteresse affettivo vero il genitore obbligato non incide sulla persistenza dell’assegno, poiché il diritto al mantenimento è di natura patrimoniale e non morale. I genitori che desiderano ottenere la revoca dell’assegno devono dimostrare con prove concrete il raggiungimento dell’autonomia economica del figlio. Inoltre, eventuali difficoltà finanziarie del genitore devono essere adeguatamente documentate per incidere sulla decisione del giudice.

La Cassazione ribadisce in sostanza il principio di responsabilità genitoriale, sottolineando l’importanza di garantire ai figli le condizioni necessarie per una reale indipendenza economica, a prescindere dalla relazione affettiva con gli stessi.

 

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licenziato chi usa

Licenziato chi usa l’auto aziendale per fini privati La Cassazione ha chiarito che può essere legittimamente licenziato chi utilizza l'auto aziendale per scopi privati durante l'orario lavorativo

Uso privato dell’auto aziendale

La sezione lavoro della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3607/2025, ha chiarito che il prestatore di lavoro può essere legittimamente licenziato chi usa l’auto aziendale per scopi privati durante l’orario lavorativo.

La vicenda

I fatti hanno per protagonista un dipendente – di una società consortile operante nel trattamento delle acque reflue civili e industriali) che per fini extra-lavorativi in orario di lavoro, in più episodi utilizzava il mezzo aziendale, riducendo così in modo fraudolento il tempo della prestazione lavorativa e creando una “situazione di apparenza lavorativa”.

Veniva aperto procedimento disciplinare a seguito del quale all’uomo veniva irrogato licenziamento.

Il ricorso in Cassazione

Da qui l’impugnativa che veniva rigettata sia in primo che in secondo grado e il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale il lavoratore lamenta diverse doglianze, tra cui l’illegittimità dell’attività investigativa svolta dall’azienda, per avere incaricato un’agenzia privata per controllare le mansioni svolte dallo stesso all’esterno dell’impianto contra legem (artt. 2, 3, 4 legge n. 300/1970). Sostiene, inoltre, che dal controllo investigativo non è emersa alcuna fattispecie penalmente rilevante e non sono state individuate condotte riconducibili a
responsabilità aquiliana. Infine, violazione della privacy e omesso esame di fatti decisivi, per mancata considerazione della genericità e faziosità della relazione investigativa, svolta da agenzia privata retribuita dal datore di lavoro.

La relazione investigativa

Sul fronte dei controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, la Corte ritiene che la sentenza impugnata sia conforme alla costante giurisprudenza di legittimità (richiamata espressamente in motivazione), secondo cui tali controlli “sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento/inadempimento della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 St. lav. (v. Cass. n. 6174/2019, П. 4670/2019, п. 15094/2018, п. 8373/2018); cfr. anche Cass. n. 6468/2024, n. 10636/2017).
Nella fattispecie di causa il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento della prestazione lavorativa, bensì la condotta fraudolenta di assenza del dipendente dal luogo di lavoro, nonostante la timbratura del badge.

No alla violazione della privacy

Neppure sussiste, proseguono dal Palazzaccio, la lamentata violazione della privacy del dipendente, seguito nei suoi spostamenti, in quanto il controllo era effettuato in luoghi pubblici e finalizzato ad accertare le cause dell’allontanamento. “L’attività fraudolenta è stata ravvisata nella falsa attestazione della presenza in servizio e nell’utilizzo personale del mezzo aziendale, nonostante il lavoratore fosse autorizzato a usare detto mezzo solo per motivi attinenti all’attività lavorativa; ciò prescinde dall’integrazione di una fattispecie di reato o dalla quantificazione del danno, comunque riscontrabile nell’utilizzo improprio della vettura e
dell’orario lavorativo retribuito”.

Dichiarate inammissibili anche le altre doglianze, il ricorso è, pertanto, rigettato e il licenziamento confermato.

 

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deprezzamento immobile

Deprezzamento immobile: indennizzo per casa vicino autostrada La Cassazione dà ragione ad una coppia che aveva fatto causa per ottenere l'indennizzo per il deprezzamento immobile causato dal rumore del traffico autostradale

Indennizzo per deprezzamento immobile

Il deprezzamento di un immobile causato dalle immissioni di rumore derivanti dal traffico autostradale può essere oggetto di risarcimento anche in assenza di esproprio del terreno o dell’edificio. La Cassazione, con l’ordinanza n. 631/2025, ha confermato il diritto di una coppia savonese a ricevere un indennizzo per la riduzione del valore del bene, commisurato all’indennità di esproprio, basandosi sulla normativa civilistica sulle immissioni.

Il caso in esame

Nella vicenda, sia in primo che in secondo grado, venivano accolte le doglianze della coppia tese ad ottenere un indennizzo per il deprezzamento dell’immobile a causa della vicinanza all’autostrada. Ritenendo intollerabili le immissioni di rumore che interessavano la proprietà degli appellanti ed atteso che le misure di mitigazione richieste, oltre a comportare enormi problemi tecnici di attuazione, non sarebbero risolutive, la Corte territoriale accoglieva parzialmente l’appello e condannava la società autostradale a risarcire il danno da deprezzamento dell’immobile quantificato per equivalente ai sensi dell’art. 2058, comma 2, c.c. in Euro 951.252,03, oltre alle spese di primo e secondo grado di giudizio.

La società adiva il Palazzaccio, assumendo che la normativa corretta da applicare fosse quella pubblicistica, sui limiti di accettabilità del rumore individuati dal D.P.R. 142/2004, richiamati e fatti propri dall’art. 6 ter della legge 27 febbraio 2009 n. 13 di conversione del decreto-legge 30 dicembre 2008 n. 208.

Immissioni acustiche

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, ribadendo il proprio orientamento consolidato. Invero, “in tema di immissioni acustiche (nella specie, come nel caso in esame, provenienti da circolazione stradale), viene in rilievo l’art. 844 c.c., che detta una regola concepita per risolvere i conflitti di interesse tra usi diversi di unità immobiliari contigue qualora le immissioni superino la normale tollerabilità e che, solo in caso di svolgimento di attività produttive, consente l’elevazione della soglia di tollerabilità, sempre che non venga in gioco il diritto fondamentale alla salute, da considerarsi valore comunque prevalente rispetto a qualsiasi esigenza della produzione, in quanto funzionale al diritto ad una normale qualità della vita (Cass. Sez. 1, 12/07/2016 n. 14180; in senso conforme, Cass Sez. 2, n. 35856 del 2017)”.

Più volte la Cassazione si occupata della materia delle immissioni sonore provocate dal traffico veicolare o comunque da attività connesse ai trasporti o alla produzione ed è sempre pervenuta alla conclusione che “in tema di immissioni acustiche, la differenziazione tra tutela civilistica e tutela amministrativa mantiene la sua attualità, diversità di tutele a cui non può aprioristicamente attribuirsi una portata derogatoria e limitativa dell’art. 844 c.c., con l’effetto di escludere l’accertamento in concreto del superamento del limite della normale tollerabilità, dovendo comunque ritenersi prevalente, alla luce di interpretazione costituzionalmente orientata, il soddisfacimento una dell’interesse ad una normale qualità della vita rispetto alle esigenze della produzione (cfr. tra tante, Cass. Sez. 3, 7/10/2016 n. 20198; Cass. Sez. 3, 16/10/2015 n. 20927)”.

La decisione

La Corte d’appello di Genova, per piazza Cavour, si è attenuta puntualmente ai principi di diritto sopra enunciati, avendo ritenuto non dirimente l’osservanza delle normative tecniche speciali, avendo accertato, nella specie, il superamento dei parametri secondo il criterio del c.d. “differenziale comparativo”, di cui alla disciplina “generale” dettata dall’art. 4, comma 1, del DPCM 14 novembre 1997 e concluso per l’intollerabilità delle immissioni che interessano la proprietà de qua.

In conclusione, il ricorso della società è rigettato.

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violenza sessuale

Violenza sessuale anche senza contatto fisico Violenza sessuale: per integrare il reato è sufficiente la costrizione, non occorre il contatto fisico tra reo e persona offesa

Violenza sessuale: non occorre il contatto fisico

La violenza sessuale si configura anche senza contatto fisico. L’agente lede l’autodeterminazione della vittima con violenza, minaccia o induzione. La costrizione o l’induzione a subire atti sessuali, può avvenire anche senza contatto fisico diretto. Lo ha specificato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5688/2025.

Reato “costringere” la collega ad atti di autoerotismo

Il Tribunale di primo grado ritiene un soggetto responsabile di diversi illeciti penali ai danni della persona offesa. Tra questi figurano il reato di atti persecutori, estorsione e violenza sessuale. Quest’ultimo reato si sarebbe configurato perché l’imputato avrebbe costretto la sua collega, un’animatrice turistica, a compiere atti di autoerotismo ripresi in un video che l’uomo avrebbe poi diffuso.

Non c’è reato se manca il contatto fisico

L’imputato nel contestare il reato di violenza sessuale, rileva la totale assenza di un contatto fisico con la persona offesa. A sua difesa l’uomo invoca l’interpretazione più restrittiva della nozione di violenza sessuale per la quale “la nozione di atti sessuali racchiude in sé i concetti di congiunzione carnale e quella di atti di libidine.”

Violenza sessuale: costrizione della libertà sessuale

La Cassazione nel rigettare il ricorso dell’imputato fornisce alcune importanti precisazioni sul reato di cui all’art. 609 bis c.p. La violenza sessuale non implica necessariamente un contatto fisico tra l’aggressore e la vittima. Essa si verifica quando l’aggressore compromette la capacità della vittima di autodeterminarsi, costringendola o persuadendola a eseguire o subire azioni sessuali.

La giurisprudenza sottolinea che il contatto fisico non è un requisito essenziale per la configurazione del reato. Ciò che conta è il coinvolgimento fisico della vittima, obbligata o indotta a partecipare o subire atti sessuali contro la sua volontà.La protezione della libertà sessuale individuale è l’interesse giuridico in questione. La violenza si manifesta attraverso qualsiasi atto che comprometta questa libertà, sia esso caratterizzato da un contatto diretto fisico oppure no.

L’aspetto psicologico del reato risiede nella consapevolezza e volontà di compiere un atto che invade e danneggia la libertà sessuale della vittima. Non è necessario che l’aggressore agisca con lo scopo di soddisfare i propri desideri sessuali; possono esserci diversi obiettivi, come la violenza fisica, l’umiliazione morale o il disprezzo pubblico.

La minaccia di divulgare immagini intime, ad esempio, può configurare il reato di violenza sessuale se si costringe la vittima a eseguire atti di autoerotismo. In questo caso, la libertà sessuale della vittima risulta violata, indipendentemente dalla presenza fisica o virtuale dell’aggressore.

La definizione di “atto sessuale” è oggettiva e non dipende dalle intenzioni dell’aggressore. È sufficiente che l’atto sia oggettivamente in grado di compromettere la libertà sessuale della vittima.

 

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giurista risponde

Furto di energia elettrica e aggravante (art. 625, comma 1, n. 7, c.p.) È legittima la contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p. al soggetto che, al fine di procurarsi un profitto e soddisfare il proprio fabbisogno elettrico, si impossessi di energia elettrica sottraendola dalla società fornitrice Servizio Elettrico Nazionale?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez

 

 

In tema di furto di energia elettrica, può ritenersi legittimamente contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7, c.p., in quanto l’energia elettrica, su cui ricade la condotta di sottrazione, è un bene funzionalmente destinato a un pubblico servizio, essendo idoneo a raggiungere le utenze terminali di un numero indeterminato di persone e a soddisfare un’esigenza di rilevanza pubblica (Cass., sez. IV, 31 ottobre 2024, n. 40161).

La Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a valutare i confini e i limiti applicativi della circostanza aggravante del furto commesso su cose destinate a pubblico servizio. Ad un maggior grado di dettaglio, ai giudici di legittimità viene domandato se l’energia elettrica, oggetto di sottrazione e impossessamento, rappresenti un bene destinato a pubblico servizio.

I fatti di causa possono essere riassunti come segue. I giudici di merito non avevano riconosciuto l’aggravante in commento, sulla scorta dell’argomentazione che l’imputato si era limitato ad ottenere – con l’uso della fraudolenta esclusione della registrazione del consumo – l’illecito fine di usufruire dell’energia senza pagarne il prezzo. Non vi sarebbe, pertanto, pregiudizio per il servizio pubblico cui la risorsa è destinata in quanto detta condotta incide solo sul rapporto contrattuale tra utente e società distributrice della fornitura. Ne derivava la pronuncia ex art. 129 c.p.p. di non doversi procedere per mancanza di querela in relazione al delitto previsto e punito dagli artt. 624 e 625, comma 2, n. 1 c.p.

Avverso la sentenza proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica per violazione di legge. Si deduceva, quindi, la sussistenza dell’aggravante in parola poiché l’allacciamento abusivo ai terminali collocati in una proprietà privata risultava incidente sulla destinazione della cosa al pubblico servizio. Il precipitato della contestazione dell’aggravante è rappresentato dalla procedibilità di ufficio del delitto, anche in seguito alla modifica apportata dall’art. 2 del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”.

I giudici di legittimità rammentano la nozione di destinazione a pubblico servizio: questa non è data dalla fruizione pubblica del bene, bensì dalla qualità del servizio che viene organizzato anche attraverso la destinazione di risorse umane e materiali, e che viene destinato alla soddisfazione di un bisogno riferibile alla generalità dei consociati (Cass. 3 dicembre 2013, n. 698). La Corte, inoltre, ricorda come a fianco di una lettura soggettiva del concetto di servizio pubblico, si staglia una lettura oggettiva che riconosce rilevanza alle prestazioni dei servizi pubblici non in ragione del soggetto che ne assicura la fornitura quanto delle caratteristiche oggettive delle prestazioni erogate in considerazione del numero indeterminato dei destinatari che ne traggono giovamento.

Da tali considerazioni consegue che la destinazione del bene-energia, oggetto di furto, a pubblico servizio, legittima la punizione più severa dell’azione ablativa dell’agente in quanto pertinente ad un bene che, per volontà del proprietario, ovvero per la qualità ad essa inerente, serve ad un uso di pubblico vantaggio. Dalla corretta applicazione della circostanza aggravante di cui al comma settimo dell’art. 625 c.p. deriva la procedibilità d’ufficio del reato ascritto.

Per tali motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla Pubblica Accusa, al quale consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza cassata e la trasmissione degli atti al Tribunale competente per l’ulteriore corso del processo.

 

(*Contributo in tema di “Furto di energia elettrica e circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7, c.p.”, a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

responsabilità medica

Responsabilità medica: niente risarcimento per il nato “non sano” Responsabilità medica: il nato con malformazioni non ha diritto al risarcimento, non esiste il diritto a “non nascere” se non sano

Nessun risarcimento per il nato disabile

In materia di responsabilità medica la Cassazione, nell’ordinanza n. 3502/2025 ribadisce un principio già sancito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 25767/2015. Non è possibile riconoscere un pregiudizio di tipo biologico o alla vita di relazione al figlio nato con delle malformazioni. L’ordinamento non contempla “il diritto a non nascere se non sano” né la vita del nato può essere considerata un danno conseguenza della condotta illecita del medico.

Risarcimento del danno da nascita indesiderata

Due genitori agiscono in giudizio per conto del figlio minorenne contro una Azienda Sanitaria Locale, il medico e le sue eredi e una Compagnia di assicurazione per la manleva. I ricorrenti chiedono il risarcimento dei danni causati dal condotta negligente e inadeguata del medico. Il sanitario infatti, non rilevando le gravi malformazioni congenite del nascituro presentava, non ha consentito alla madre, se adeguatamente informata, di valutare l’interruzione di gravidanza. Il medico con la sua condotta ha cagionato al neonato il danno da nascita indesiderata e  la lesione del diritto a nascere sano.

Diritto del nascituro a una vita senza limitazioni

Il giudice di prime cure ritiene il sanitario responsabile nei confronti dei genitori del nato, ma ritiene insussistente un danno da nascita indesiderata in capo al figlio. La Corte di appello conferma la decisione. Da qui il ricorso in Cassazione, per contestare il riconoscimento ai soli genitori del diritto al risarcimento per il danno causato dal mancato rilievo delle gravi malformazioni. Il nascituro infatti ha il diritto di godere di una vita senza limitazioni. Da questa considerazione la richiesta risarcitoria del figlio in considerazione delle precarie condizioni di vita che è costretto a vivere e tanto, non solo in riferimento alla situazione lavorativa, ma anche in riferimento al normale andamento dei rapporti familiari e sociali”. 

Responsabilità medica: diritto a non nascere se non sano

Per la Cassazione però il ricorso è inammissibile in quanto “è stata esclusa in via generale la possibilità di riconoscere un pregiudizio biologico e relazionale in capo al figlio, essendo per lui l’alternativa quella di non nascere, inconfigurabile come diritto in sé, neppure sotto il profilo dell’interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo.”

La giurisprudenza di legittimità ha già sancito che “il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno consistente nella sua stessa condizione, giacché lordinamento non conosce il diritto a non nascere se non sano”, né la vita del nato può integrare un danno-conseguenza dellillecito del medico.” Di recente la Cassazione ha osservato che: la ragione di danno da valutare sotto il profilo dell’inserimento del nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo» rivela sostanzialmente quale mero «mimetismo verbale del c.d. diritto a non nascere se non sani», andando pertanto «incontro alla . . . obiezione dell’incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con lunica alternativa ipotizzabile, rappresentata dall’interruzione della gravidanza» non essendo d’altro canto possibile stabilire un «nesso causale» tra la condotta colposa del medico e le «sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita.”

 

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