nuovi limiti contante

Nuovi limiti contante anche per le prepagate Nuovi limiti contante per chi entra ed esce dai paesi UE, per chi li supera e non lo dichiara sequestro e sanzioni

Denaro contante: limiti per chi entra ed esce dall’UE

Nuovi limiti al contante. Il limite per l’utilizzo del denaro contante nelle transazioni in Italia è di 5.000 euro. Nessun limite di importo invece è previsto per chi desidera tenere in casa dei contanti per affrontare delle spese che ha in programma. Il discorso cambia quando ci si reca all’estero. Per chi entra o esce dall’Europa è infatti previsto il divieto di detenere importi superiori a 10.000 euro.

Adeguamento alla normativa UE

Il decreto legislativo n. 211 del 10 dicembre 2024, pubblicato sulla GU del 2 gennaio 2025, al fine di adeguare la normativa interna al Regolamento UE 2018/1672, che riguarda i controlli sul denaro contante in entrata o in uscita dell’UE, è in vigore dal 17 gennaio 2025.

Il testo però prevede dei limiti che, ad essere ben precisi, non si riferiscono solo al denaro contante, ma anche:

  • alle carte prepagate (“carte non nominative … che contengono valore in moneta o liquidità o vi danno accesso ovvero che possono essere usate per operazioni di pagamento, per l’acquisto di beni o servizi o per la restituzione di valuta, qualora non collegata a un conto corrente e ad altri mezzi di pagamento”)
  • e ad altri mezzi di pagamento.

Chi decide quindi di recarsi in un paese UE deve tenere conto di questo limite. Chi detiene ad esempio dei contanti e una carta prepagata e superi il valore di 10.000 euro ha l’obbligo di farne denuncia alla dogana.

Denaro contante e altri valori da dichiarare

I imiti di valore imposti per il passaggio in entrata e in uscita dai paesi UE è previsto al fine di scongiurare la commissione del reato di riciclaggio e di reati strumentali al finanziamento di attività criminali.

Detto questo, il limite dei 10.000 euro previsto dal decreto legislativo di adattamento al Regolamento UE a cosa si riferisce?

Senza dubbio al denaro contante, a seguire agli assegni turistici come i traveller’s chèque, agli assegni, ai vaglia cambiari, agli ordini di pagamento al portatore emessi senza indicazione specifica del nome del beneficiario, a quelli emessi in favore di un beneficiario fittizio, o a quelli che richiedono la sola consegna per il passaggio del titolo.

Il soggetto che porti con sé uno o più dei suddetti strumenti di pagamento per un valore superiore ai 10.000 euro metterlo a disposizione della Agenzia delle dogane e dei monopoli ai fini del controllo.

Il limite di importo deve essere rispettato anche se il denaro o uno degli altri strumenti di pagamento interessati vengono inviati in un plico a mezzo posta. Non occorre cioè che la persona li porti con sé.

Mancata dichiarazione denaro contante

Il decreto legislativo prevede il sequestro e l’applicazione di sanzioni piuttosto elevate nei confronti di coloro che non dichiarano il superamento del limite di importo dei 10.000 euro. Vediamo in che termini e in che misura.

Sequestro percentuale

Per la parte di importo non dichiarato oltre il limite dei 10.000 euro il decreto prevede:

  • il sequestro nella misura del 50% se il valore supera la soglia dei 10.000 euro e l’eccedenza non supera i 10.000;
  • la percentuale del sequestro sale al 70% dell’importo eccedente i 10.000 se l’eccedenza supera i 10.000 ma non i 100.000 euro;
  • il sequestro infine è totale se, al netto della soglia, l’importo supera i 100.000 euro.

Nei casi in cui il soggetto fornisca informazioni inesatte sull’importo è previsto il sequestro:

  • nella misura 25% della differenza tra quanto trasferito e quanto dichiarato, se la differenza non supera i 10.000 euro;
  • la percentuale sale al 35% se la differenza tra trasferito e dichiarato supera i 10.000,00 ma non i 30.000,00 euro;
  • passa al 70% se la differenza tra trasferito supera i 30.000 ma non i 100.000,00 euro;
  • è totale infine se la differenza tra quanto dichiarato e quanto si tenta di trasferire supera l’importo di 100.000,00 euro.

Il decreto nel modificare l’articolo 7 del decreto legislativo n. 195/2008 prevede che il soggetto a cui è stata contestata l’omessa dichiarazione o la dichiarazione inesatta o completa possa chiedere l’estinzione della violazione effettuando il pagamento in misura ridotta, in percentuale variabile, sulla parte di denaro eccedente la soglia prevista.

Sanzioni amministrative

Qualora si commettano violazioni consistenti nell’omesso adempimento dichiarativo si dispone l’applicazione della sanzione pecuniaria amministrativa minima di 900,00 euro.

Se la violazione consiste invece nell’aver fornito informazioni inesatte o incomplete in relazione all’obbligo dichiarativo, allora è prevista la sanzione amministrativa minima di 500,00 euro.

 

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liti in condominio

Liti in condominio dal giudice di pace Liti in Condominio: dal 31 ottobre 2025, in base al decreto legislativo n. 116/2017 spetterà al Giudice di Pace risolverle

Liti in condominio: da ottobre 2025 competente il GdP

Dal 31 ottobre 2025 le liti in condominio verranno decise dal Giudice di Pace. Lo stabilisce l’articolo 32 del decreto legislativo n. 116/2017 che ha riformato organicamente la magistratura onoraria, le disposizioni relative al Giudice di Pace e la disciplina transitoria dei magistrati onorari in servizio.

Le norme di riferimento

L’articolo 32, al comma 3, dispone che le disposizioni contenute nell’articolo 27 dello stesso decreto legislativo entreranno in vigore il 31 ottobre 2025.

L’articolo 27, nel modificare l’art. 7 del codice di procedura civile, che si occupa di definire la competenza del Giudice di Pace, stabilisce che  questo soggetto sarà competente dal 31 ottobre 2025 anche “2) per le cause in materia di condominio negli edifici, come definite ai sensi dell’articolo 71-quater delle disposizioni per l’attuazione del codice civile.”

Liti in condominio di competenza del GdP

Al momento il Giudice di Pace è competente “per le cause relative alla misura e alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case”. A queste si andranno ad aggiungere le liti che riguarderanno l’uso delle cose comuni, le violazioni del regolamento condominiale e la ripartizione delle spese comuni. Il Tribunale continuerà a decidere le controversie più complicate e di valore economico più elevato.

Vantaggi della riforma

La riforma Cartabia e quella settoriale della magistratura onoraria vogliono garantire ai cittadini presenza e accessibilità alla giustizia. La materia delle liti condominiali, soprattutto se relativa a conflitti di valore economico modesto, si prestano a essere risolte dal Giudice di Pace. Il processo è più snello e più rapido ed è quindi in grado di raggiungere un risultato positivo in tempi brevi.

Svantaggi della modifica

L’attribuzione di competenze ulteriori al Giudice di Pace non è stata però accolta con favore da tutti.

Caricare eccessivamente i magistrati onorari di cause potrebbe creare problemi a un sistema che è già in affanno. La riforma dovrebbe essere accompagnata anche da un rafforzamento del personale e di strumenti in grado di agevolare e alleggerire il lavoro. In caso contrario, i Giudici di Pace potrebbero pagare uno scotto elevato dall’alleggerimento del lavoro dei Tribunali, liberati dalle liti condominiali più modeste.

Durante l’incontro del 17 gennaio 2025, promosso dall’OCF a Roma, dedicato alla giustizia civile, è emersa infatti l’urgenza di affrontare la crisi dei Giudici di Pace, con solo il 35% delle posizioni coperte. Il viceministro alla giustizia Sisto ha garantito un approccio pragmatico per evitare il caos, ribadendo che “non ci saranno truppe mandate allo sbaraglio”. L’OCF ha accolto positivamente l’apertura, sottolineando l’importanza di evitare decisioni affrettate che aggraverebbero le attuali inefficienze strutturali del sistema.

 

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smart working

Il disabile ha diritto allo smart working Smart working: ne ha diritto l’ipo-vedente che lo ha già svolto durante la pandemia, se il datore non è impossibilitato 

Lavoratore disabile e smart working

Nella sentenza n. 605/2025 la Cassazione si è espressa su un caso di discriminazione nei confronti di un lavoratore disabile in relazione al suo diritto di svolgere il lavoro in modalità smart working. Con questa sentenza, la Corte ha affermato, nello specifico, l’obbligo per i datori di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli” per garantire la parità di trattamento ai dipendenti con disabilità.

Richiesta del disabile di lavorare in smart working

Un dipendente, assunto dal 1997 e inquadrato al quinto livello del contratto collettivo nazionale (CCNL) nel settore Customer Care, chiede di lavorare in smart working. A causa di gravi deficit visivi, raggiungere la sede lavorativa di Napoli è diventato estremamente difficile. L’azienda  però esclude i dipendenti della sua categoria (caring agents) dalle possibilità di lavoro agile, pur avendo adottato un accordo sullo smart working nel 2017.

La Corte di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, accoglie la domanda del lavoratore, ordinando all’azienda di consentirgli di svolgere le sue mansioni da remoto o dalla sede più vicina alla sua abitazione. La decisione si basa sull’obbligo legale di adottare misure ragionevoli per evitare discriminazioni, come previsto dall’articolo 3, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n. 216/2003.

La società datrice però non accetta la decisione e la impugna davanti alla Cassazione, sostenendo:

  • l’assenza di una condotta discriminatoria;
  • la necessità, per lo svolgimento del lavoro agile, di un accordo specifico tra le parti, che nel caso di specie non è stato raggiunto.

Discriminatorio negare il lavoro agile al disabile

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso motiva la sua decisione sulla base di diverse fonti normative nazionali e internazionali.

  • La Direttiva 2000/78/CE stabilisce l’obbligo per i datori di lavoro di adottare soluzioni per garantire la parità di trattamento.
  • La Carta dei Diritti Fondamentali dellUnione Europea sancisce il diritto dei disabili a misure che ne favoriscano l’autonomia
  • La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità riconosce il diritto a condizioni di lavoro eque per le persone con disabilità.

Per gli Ermellini quindi è pienamente condivisibile il ragionamento della Corte di merito. La mancata adozione di accomodamenti ragionevoli rappresenta una forma di discriminazione diretta, vietata dalla legge.

Smart working: obbligo del datore all’accomodamento

I datori di lavoro devono bilanciare gli interessi aziendali con quelli dei dipendenti disabili. È necessario infatti adottare misure che rendano compatibile l’ambiente lavorativo con le esigenze dei dipendenti, a meno che queste non comportino costi eccessivi. Nel caso specifico il lavoratore aveva già svolto le sue mansioni in smart working durante la pandemia. La richiesta del dipendente non richiedeva quindi investimenti finanziari sproporzionati. Il datore avrebbe dovuto accoglierla perché rappresentava un “accomodamento ragionevole”. In corso di causa inoltre l’azienda non aveva dimostrato l’impossibilità di adottare tali misure. La legge, come visto sopra, impone alle aziende di valutare le richieste dei lavoratori disabili e di trovare soluzioni condivise, nel rispetto delle norme antidiscriminatorie. In presenza di lavoratori disabili la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli costituisce una discriminazione diretta. Il lavoro agile non è infatti solo uno strumento di flessibilità organizzativa, ma anche una misura fondamentale per garantire l’inclusione e l’equità nel mondo del lavoro.

 

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negoziazione assistita

Negoziazione assistita: senza domanda per danni improcedibile Negoziazione assistita: obbligatoria nelle cause per il pagamento di somme fino a 50.000 euro, in assenza la domanda è improcedibile

Negoziazione assistita risarcimento danni

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 186-2025 ribadisce l’importanza della negoziazione assistita come passaggio obbligatorio in alcune controversie. Il caso analizzato riguarda una richiesta di risarcimento danni presentata da un conducente contro la Regione Marche per un incidente stradale causato da un cinghiale su una strada provinciale. Dal punto di vista procedurale la richiesta risarcitoria di somme inferiori ai 50.000 richiede il preventivo esperimento della negoziazione assistita. Nel caso si specie però la procedura stragiudiziale non è stata esperita, per questa ragione la domanda giudiziale è stata dichiarata improcedibile.

Richiesta risarcitoria danni materiali

L’iter giudiziario che ha portato la Cassazione alla predetta decisione è stato complesso. In primo grado, il Tribunale di Macerata ha accolto la domanda del danneggiato e condannato la Regione a pagare 7.014 euro. La Regione però ha fatto appello, sostenendo che la domanda fosse improcedibile a causa del mancato esperimento del procedimento di negoziazione assistita. La Corte d’Appello ha accolto questa eccezione, dichiarando quindi improcedibile la domanda originaria.

Negoziazione assistita: condizione di procedibilità

L’articolo 3 del Decreto Legge n. 132/2014 stabilisce in effetti che, per alcune controversie, è obbligatorio tentare la negoziazione assistita prima di ricorrere al giudice. Questo obbligo vale in due casi distinti:

  • per richieste di risarcimento danni da circolazione di veicoli e natanti, senza limiti di valore;
  • per domande di pagamento di somme non superiori a 50.000 euro.

La ratio della norma è di ridurre il carico di lavoro dei tribunali, favorendo soluzioni amichevoli. Il giudice o la parte convenuta, se la negoziazione non viene esperita, possono eccepire l’improcedibilità della domanda entro la prima udienza.

Nel caso specifico, la Regione Marche aveva inizialmente eccepito l’improcedibilità della domanda sostenendo che si trattasse di una richiesta di risarcimento per danni derivanti dalla circolazione di veicoli, ma il Tribunale aveva rigettato l’eccezione. In appello, invece la Regione aveva sollevato un nuovo motivo di improcedibilità, affermando che la richiesta riguardasse la richiesta di pagamento di una somma inferiore a 50.000 euro, altra fattispecie soggetta a negoziazione assistita. La Corte d’Appello aveva accolto la nuova eccezione.

Negazione assistita: rispetto termini per sollevare l’eccezione

La Corte di Cassazione invece ha stabilito che, fermo restando l’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento della negazione assistita nei casi previsti dalla legge, sollevare tale eccezione in appello deve ritenersi inammissibile. Questa eccezione rituale infatti deve essere sollevata in primo grado, ossia entro i limiti temporali previsti dalla legge. La Cassazione ha  evidenziato nella decisione che il giudice d’appello non poteva accogliere una nuova eccezione di improcedibilità sollevata in secondo grado. La sentenza impugnata è stata quindi cassata e la causa è stata rinviata alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, per un nuovo esame.

Dalla decisione emerge l’importanza della negoziazione assistita, condizione di procedibilità della domanda in giudizio nelle richieste risarcitorie e di pagamento sopra evidenziate. Chi intende agire in giudizio deve quindi verificare se il caso rientra tra quelli soggetti alla negoziazione assistita perché il mancato rispetto di questa condizione può rendere la domanda improcedibile. Importante però anche il rispetto rigoroso delle regole procedurali e in particolare dei termini entro cui sollevare l’eccezione di improcedibilità della domanda, condizione che nel caso di specie non è stata rispettata.

 

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appropriazione indebita

Appropriazione indebita trattenere i beni mobili dell’ex marito Appropriazione indebita: scatta il reato per la moglie che deve lasciare l’immobile assegnato e trattiene i beni dell’ex marito

Reato di appropriazione indebita

L’appropriazione indebita scatta nel momento in cui l’assegnatario dell’immobile, obbligato, in sede di divorzio, a lasciare l’abitazione, continua a trattenere i beni altrui. La mancata restituzione dei beni dell’ex coniuge presenti nella casa coniugale assegnata durante la separazione, non costituisce infatti automaticamente reato.

Il possesso dei beni durante la separazione può quindi essere considerato lecito, purché i beni stessi facciano parte del corredo della casa coniugale. Se però sopravviene l’obbligo legale di liberare l’immobile, la volontà di non restituire i beni configura un illecito penale. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 47057/2024.

Reato trattenere i beni mobili dell’ex coniuge

La Corte di Appello di Catania ha confermato una sentenza del Tribunale di Ragusa del 2020. La condanna riguardava un caso di appropriazione indebita da parte di una donna nei confronti dell’ex coniuge. La donna aveva trattenuto beni di pregio appartenenti all’ex marito, che facevano parte dell’arredamento della loro ex casa coniugale.

La ricorrente per opporsi alla condanna si è rivolta alla Corte di Cassazione, sostenendo due punti principali. Ha contestato la tardività della querela presentata dall’ex marito e ha invocato l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale, che esclude la punibilità per reati tra coniugi non separati legalmente. La difesa ha sostenuto anche che l’ex marito era consapevole, già dal 2009, dell’intenzione della donna di non restituire i beni. Inoltre, ha affermato che il presunto reato si sarebbe verificato quando il matrimonio era ancora in vigore, quindi prima del divorzio del 2015.

Inapplicabile l’art. 649 c.p. se la coppia è divorziata

La Corte di Cassazione però ha giudicato il ricorso inammissibile, ritenendo infondate le motivazioni della difesa per diversi motivi.

La proprietà dei beni contestati non era mai stata messa in discussione. Il possesso dei beni però era stato inizialmente attribuito alla donna, in quanto parte dell’arredamento della casa coniugale assegnata a lei durante il divorzio. Il comportamento della donna non ha quindi configurato il reato di appropriazione indebita fino all’estate del 2017.

Nel corso di questo anno però la donna ha asportato i beni dalla casa coniugale e li ha consegnati a un antiquario per la vendita. Questo comportamento è stato ritenuto il primo atto concreto di appropriazione indebita. Di questi fatti l’ex marito è venuto a conoscenza solo nell’agosto 2017, la querela, presentata il 16 agosto 2017, è stata quindi tempestiva.

La Corte ha respinto anche l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale. Il reato è stato commesso in effetti dopo il divorzio, quindi non rientra nei casi di non punibilità previsti dalla norma. Dalla sentenza emerge in conclusione che l’appropriazione indebita di beni mobili rappresenta un reato perseguibile anche tra ex coniugi, soprattutto quando il comportamento illecito avviene dopo la cessazione del vincolo matrimoniale.

 

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pagamento contributo unificato

Pagamento contributo unificato: la Cassazione chiede lumi Con una nota la presidente Margherita Cassano chiede al ministero della Giustizia chiarimenti sul mancato o parziale pagamento del contributo unificato

La nota della Cassazione

Mancato pagamento contributo unificato: a chiedere lumi al ministero della Giustizia sulla novità introdotta dalla legge di bilancio 2025 è la stessa Cassazione, con una nota dell’8 gennaio 2025, a firma della prima presidente, Margherita Cassano.

Le modifiche della legge di bilancio 2025

Si ricorda che la legge di bilancio ha apportato importanti novità al processo civile.

In particolare, all’art. 14 del Testo Unico sulle Spese di Giustizia (DPR n. 115/2002), è stato aggiunto il comma 3.1, che stabilisce: “Fermi i casi di esenzione previsti dalla legge, nei procedimenti civili la causa non può essere iscritta a ruolo se non è versato l’importo determinato ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera a), o il minor contributo dovuto per legge”.

La circolare di via Arenula

Nella circolare del Dipartimento per gli Affari di Giustizia (DAG) di via Arenula del 30 dicembre 2024, viene stabilito che il personale di cancelleria non potrà procedere all’iscrizione a ruolo di una causa civile nei seguenti casi: a) nelle ipotesi in cui il contributo unificato dovuto sia pari o inferiore a 43 euro, non venga versato integralmente l’importo effettivamente dovuto a titolo di contributo unificato; b) nelle ipotesi in cui l’importo dovuto del contributo unificato sia superiore a 43 euro, la parte che chiede l’iscrizione della causa non versi almeno l’importo di euro 43.

Leggi in merito Contributo unificato: cosa cambia dal 2025

I dubbi della Cassazione

Alla luce della novella normativa, la Cassazione evidenzia, dunque, la necessità di ricevere chiarimenti sulle modalità applicative per quel che attiene ai servizi di cancelleria, ferma restando la competenza giurisdizionale in ordine all’interpretazione della norma in esame.

Rifiuto immediato o sospensione temporanea

In particolare, nella nota vengono formulati i seguenti quesiti: se l’enunciato ‘la causa non può essere iscritta a ruolo’ laddove non venga corrisposto il contributo unificato anche nel minor importo, stia a significare “che il riscontro del mancato pagamento consenta di mantenere sospesa l’iscrizione stessa” sino all’avvenuto pagamento “oppure comporti il rifiuto, da parte della cancelleria, dell’iscrizione della causa (nel giudizio di legittimità del ricorso)”.

Nella prima ipotesi (sospensione dell’iscrizione), se sia possibile “configurare un termine entro il quale l’avvocato debba comunque provvedere a dare riscontro del pagamento del contributo unificato, tenendo conto, per un verso, che il deposito dell’atto si ha solo in caso di accettazione dell’atto/ricorso, e, per altro verso, dei termini di legge per la produzione, in sede di legittimità, di atti e documenti di cui agli artt. 369 e 372 c.p.c.”.

Problemi tecnici nella gestione dei pagamenti

Un ulteriore chiarimento richiesto riguarda le difficoltà operative legate alla mancanza di un applicativo adeguato per verificare in tempo reale il pagamento del contributo unificato.

In particolare, chiede la Cassano, “come debba procedere la cancelleria in attuale assenza di idonea applicazione informatica che consenta di intercettare direttamente, al momento dell’accettazione del ricorso, il deposito della distinta di avvenuto pagamento del contributo unificato anche là dove non prodotta dall’avvocato sotto corretta nomenclatura identificativa”.

Nell’attesa, conclude la nota, “si confida nel consueto spirito di collaborazione nell’interesse del servizio giustizia”. 

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contributo unificato

Contributo unificato: cosa cambia dal 2025 Contributo unificato: la circolare del Ministero della Giustizia sulle novità della manovra 2025 relative a mancato pagamento e recupero

Contributo unificato: novità della manovra 2025

La Legge di Bilancio 2025 introduce importanti cambiamenti per il versamento del contributo unificato nei procedimenti civili. Le nuove norme, in vigore dal 1° gennaio 2025, mirano a garantire maggiore precisione nei pagamenti e incidono direttamente sull’iscrizione a ruolo delle cause. Le novità della manovra 2025 relative anche a mancato pagamento e recupero sono state esplicitate in una circolare del ministero della Giustizia del 30 dicembre 2024.

Nuove disposizioni sull’iscrizione a ruolo

In base al nuovo comma 3.1, aggiunto all’articolo 14 del D.P.R. 115/2002, una causa civile non può essere iscritta a ruolo senza il pagamento del contributo unificato previsto. L’importo minimo da versare è pari a 43 euro, secondo quanto previsto dall’articolo 13, comma 1, lettera a) dello stesso decreto.

In pratica:

  1. se il contributo dovuto è pari o inferiore a 43 euro, l’iscrizione a ruolo è possibile solo con il versamento dell’importo nella misura dovuta per intero;
  2. se il contributo è superiore a 43 euro, la parte che iscrive la causa deve pagare almeno 43 euro. Eventuali somme mancanti verranno recuperate successivamente.

Queste regole non modificano le esenzioni già previste dalla legge. Le parti esentate continueranno a non dover nulla. Inoltre, se l’importo dovuto è inferiore a 43 euro, sarà sufficiente versare la somma minore.

Recupero delle somme mancanti dovute

In caso di versamento parziale del contributo unificato, la legge di bilancio introduce nuove modalità per il recupero delle somme mancanti. L’articolo 248 del D.P.R. 115/2002 si arricchisce del comma 3-bis. Questa disposizione prevede che, trascorsi 30 giorni dall’iscrizione a ruolo o dal momento in cui sorge l’obbligo di pagamento, l’ufficio competente o Equitalia Giustizia Spa ( in presenza di apposita convenzione) procedano al recupero delle somme tramite iscrizione a ruolo. Il recupero include interessi legali e sanzioni.

La riscossione avviene secondo le norme previste dall’articolo 32 del D.Lgs. 46/1999, che disciplinala riscossione e spontanea a mezzo ruolo, applicando anche le disposizioni contenute nell’articolo 25, comma 2, del D.P.R. 602/1973. Detta norma dispone nello specifico che la cartella di pagamento, redatta in conformità al modello approvato con decreto del Ministero delle finanze, contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata.”

Entrata in vigore e norme transitorie

Le nuove regole si applicano esclusivamente alle controversie iscritte a ruolo dal 1° gennaio 2025. Per quelle iscritte fino al 31 dicembre 2024, continuano a valere le norme precedenti, indipendentemente dalla fase processuale in cui si trovano.

Obiettivo delle modifiche

Con questa riforma, il Ministero punta a garantire maggiore trasparenza e tempestività nei versamenti. Le novità riducono il rischio di contenziosi legati a omissioni parziali e semplificano il recupero delle somme dovute.

La manovra 2025 segna quindi un passo avanti nella gestione delle spese di giustizia, con effetti immediati sull’accesso alla tutela legale.

 

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avvocato del genitore

L’avvocato del genitore tutela anche i figli Nei procedimenti in materia di famiglia, l'avvocato del genitore tutela in automatico anche i figli

Procedimenti in materia di famiglia: difesa estesa

Il ruolo dell’avvocato del genitore, nell’ambito dei procedimenti in materia di famiglia, non si limita alla difesa del rappresentato. Il legale deve tutelare anche gli interessi del minore coinvolto. Lo afferma il Consiglio Nazionale Forense, in un recente caso disciplinare che si è concluso con l’emanazione della sentenza n. 291/2024.

Diritto di visita: omessa informazione legale controparte

Una avvocata viene sottoposta a un giudizio disciplinare per presunta violazione dell’articolo 46, comma 7, del Codice Deontologico Forense. Secondo l’accusa, la professionista avrebbe omesso di informare il legale della controparte del deposito di un ricorso giudiziale durante le trattative stragiudiziali avviate. La questione riguarda in particolare la regolamentazione del diritto di visita e l’assegno di mantenimento di un figlio minore.

L’avvocato di controparte sostiene che l’avvocata abbia omesso di comunicargli l’avvenuto deposito del ricorso prima di un incontro, avvenuto il 6 novembre 2017. L’incontro era finalizzato a trovare un accordo stragiudiziale, ma il ricorso era già stato depositato il 3 novembre 2017.

Obbligo di informazione della controparte

Per il Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) di Trento l’avvocata ha violato l’obbligo deontologico di informare il collega avversario dell’interruzione delle trattative e dell’inizio di un procedimento giudiziario. La ricorrente, a sua difesa, sostiene di aver preannunciato in realtà il deposito del ricorso. Le prove documentali e le testimonianze raccolte non hanno però confermato questa comunicazione con sufficiente chiarezza.

Per il CDD anche in caso di mancata interruzione formale delle trattative, il comportamento dell’avvocata è comunque contrario ai principi di colleganza e trasparenza richiesti dal Codice Deontologico. Considerata tuttavia la gravità ridotta della violazione, il CDD irroga la sanzione dell’avvertimento.

Procedimenti in materia di famiglia: ruolo dell’avvocato

Il caso mette in evidenza un principio fondamentale nei procedimenti familiari: lavvocato del genitore rappresenta anche, indirettamente, gli interessi del minore. La giurisprudenza sottolinea che il legale non deve limitarsi infatti a tutelare il diritto di difesa del cliente, ma deve agire per ridurre il conflitto tra le parti, proteggendo il benessere del minore.

Nel caso in questione, il deposito del ricorso senza una chiara comunicazione alla controparte ha alimentato il contenzioso, anziché contenerlo. L’avvocata, accettando di partecipare all’incontro del 6 novembre, ha implicitamente riconosciuto l’esistenza di trattative. Il ricorso già depositato tuttavia ha reso queste trattative solo apparenti.

Obbligo di trasparenza e comunicazione

L’articolo 46, comma 7, CDF impone all’avvocato di comunicare tempestivamente al collega avversario l’interruzione delle trattative stragiudiziali. Questo obbligo mira a garantire chiarezza nei rapporti professionali, evitando malintesi che possano compromettere il dialogo tra le parti.

Nel caso di specie, la mancanza di una comunicazione esplicita ha pregiudicato la fiducia tra i legali, con ripercussioni dirette sul procedimento. Il CDD ha sottolineato che l’avvocata avrebbe dovuto informare tempestivamente la controparte del deposito del ricorso, anche per garantire un quadro chiaro della situazione processuale.

L’interesse superiore dei minori

Nei procedimenti familiari, l’interesse superiore del minore deve prevalere su ogni altra considerazione. L’avvocato, in qualità di rappresentante legale di un genitore, assume un ruolo di responsabilità nei confronti del minore. La funzione del legale non si limita quindi a rappresentare il cliente, ma include un dovere di protezione nei confronti dei minori coinvolti.

Il CNF, dinnanzi al quale è giunta la questione disciplinare, ribadisce che l’avvocato deve adottare un approccio collaborativo e trasparente, mirato a ridurre il conflitto e a favorire soluzioni condivise. Questo principio assume un rilievo ancora maggiore nei casi di diritto di famiglia, dove le decisioni prese dai genitori e dai loro rappresentanti legali hanno un impatto diretto sul benessere dei figli.

 

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Decreto riscossione: fino a 10 anni per saldare le cartelle Il decreto riscossione n. 110/2024 e il dm attuativo del 27.12.2024 prevedono il discarico automatico, il riaffidamento e nuove forme di dilazione

Decreto riscossione: cosa prevede

Decreto riscossione n. 110/2024 pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 184 del 07 agosto 2024. Il provvedimento, che interviene sul riordino del sistema nazionale della riscossione, si è reso necessario a causa dei 1.200 miliardi di euro di debiti fiscali ancora da riscuotere.

Il decreto in vigore dall’8 agosto 2024, composto da 19 articoli, tocca diversi aspetti dell’attività di riscossione, dalla pianificazione agli adempimenti, dal discarico automatico al riaffidamento degli incarichi.

Tra gli interventi più importanti quelli sulle dilazioni di pagamento. Di sicuro interesse anche quelli sulla riscossione nei confronti dei soggetti che sono coobbligati solidali, sull’adeguamento delle disposizioni relative alla concentrazione della riscossione nell’accertamento e quelli sulla compensazione tra rimborsi e importi iscritti a ruolo.

Vediamo le misure principali del decreto destinate a incidere maggiormente sui contribuenti.

Attività di riscossione: pianificazione annuale

L’attività di riscossione, anche in base a logiche di raggruppamento dei crediti per codice fiscale, dovrà essere pianificata annualmente. Da questa previsione però non dovranno derivare nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica.

Dal 1° gennaio 2025 gli adempimenti a carico dell’agente di riscossione prevedono il tempestivo tentativo di notifica della cartella e degli altri interruttivi della prescrizione. Nell’attuare detti adempimenti l’agente deve conformare la sua attività al piano annuale ed entro la fine di ogni mese deve trasmettere all’ente creditore le informazioni relative allo stato delle procedure di riscossione del mese precedente.

Discarico automatico e differimento

Le quote affidate all’Agenzia a partire dal 1° gennaio 2025 e non riscosse verranno discaricate in modo automatico al 31 dicembre del 5° anno successivo rispetto all’affidamento.

L’Agenzia però può comunicare il discarico anticipato all’ente creditore:

  • se le quote sono relative a fallimenti o liquidazioni giudiziali chiusi;
  • se previa verifica telematica, il debitore non ha beni su cui rivalersi;
  • se non ci sono nuovi beni rispetto ai quali, le attività finalizzate al recupero, si sono esaurite con esito totalmente o parzialmente infruttuoso.

Il decreto prevede l’esclusione provvisoria dal discarico automatico delle quote affidate dal 1° gennaio 2025 in due diversi casi.

  1. Se al 31 dicembre del quinto anno successivo rispetto a quello di affidamento la riscossione è sospesa o pendono ancora procedure esecutive o concorsuali.
  2. Se nel periodo compreso tra la data di affidamento e il 31 dicembre del quinto anno successivo sono stati presi accordi nel rispetto di quanto stabilito dal codice della crisi o sono intervenute dilazioni, agevolazioni o si sono verificati l’inadempimento, la revoca o la decadenza dal beneficio o se, tra data di affidamento il 31 dicembre e il quinto anno successivo, la riscossione è stata sospesa per 18 mesi. Queste quote, al 31 dicembre del quinto anno successivo rispetto all’affidamento, sono discaricate automaticamente.

Carichi riaffidati

Il credito è valido fino allo scadere del termine di prescrizione che decorre dall’ultimo atto di interruzione notificato in data anteriore al discarico automatico.

L’ente creditore può  quindi decidere di:

  • gestirlo autonomamente;
  • affidarlo in concessione a soggetti privati;
  • riaffidarlo per la durata di due anni all’agente della riscossione nazionale. Il riaffidamento, in questo caso, avviene solo se il debitore presenta nuovi e significativi elementi di natura reddituale o patrimoniale.

Commissione per il magazzino dell’Agenzia

Si vuole istituire una Commissione che si occupi di analizzare il magazzino dell’Agenzia delle Entrate per formulare soluzioni relative al discarico parziale o totale dello stesso.

Estratto di ruolo non impugnabile

L’estratto di ruolo non è impugnabile. L’estratto di ruolo e la cartella di pagamento se non sono stati notificati validamente possono essere impugnati  se il debitore riesce a dimostrare in giudizio che l’iscrizione a ruolo può arrecargli un pregiudizio in tutta una serie di casi sottoelencati:

  • Per effetto di quanto stabilito dal Codice dei contratti pubblici (dlgs n. 36/2023).
  • Per la riscossione di somme di cui è creditore nei confronti di enti pubblici.
  • Per la perdita di benefici nel rapporto con la PA.
  • Nell’ambito delle procedure contemplate dal Codice della Crisi.
  • Per operazioni di finanziamento da soggetti autorizzati.
  • Nell’ambito della cessione di azienda.

Decreto riscossione: in GU il decreto attuativo

Il decreto del Mef del 27 dicembre 2024, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 305 del 31 dicembre 2024, introduce nuove modalità di rateazione con l’agente della riscossione, applicabili alle istanze presentate dal 1° gennaio 2025. Questo provvedimento, che attua la Riforma della riscossione (Dlgs n. 110/2024), stabilisce criteri chiari per valutare lo stato di difficoltà del debitore e le nuove durate dei piani di rientro.

Principali novità

Parametri per definire lo stato di difficoltò del debitore:

  • per persone fisiche e imprese individuali il parametro principale è l’ISEE;
  • per altri soggetti invece si considerano l’indice di liquidità e il rapporto tra debito e valore della produzione.

Rate massime dei piani di rientro

Per debiti fino a 120mila euro: non è necessaria una documentazione probatoria; basta unattestazione per accedere ai piani di rientro.

Durata massima dei piani:

  • 84 rate (2025-2026);
  • 96 rate (2027-2028);
  • 108 rate dal 2029.

Per debiti superiori a 120mila euro: se il debitore dimostra lo stato di difficoltà per debitori superiori a 120.000 euro sono previsti piani di rientro fino a 120 rate.

Sul numero delle rate incidono le date di presentazione delle istanze:

  • Da 85 a 120 rate (istanze presentate nel 2025 e 2026);
  • Da 97 a 120 rate (istanze presentate nel 2027 e 2028);
  • Da 109 a 120 rate per istanze presentate dal 1° gennaio 2029.

Il decreto prevede anche situazioni particolari di difficoltà.

  • Immobili inagibili: la difficoltà è automaticamente riconosciuta se l’immobile unico è inagibile per eventi straordinari.
  • Pubbliche amministrazioni: piano sempre a 120 rate, previa dichiarazione della difficoltà da parte del legale rappresentante.
  • Condomini: la difficoltà si fonda sull’indice Beta (rapporto tra debito totale e entrate ultimo rendiconto), che deve superare il 10%.

L’Agenzia delle Entrate-Riscossione metterà a disposizione un applicativo online per simulare il numero massimo di rate che potranno essere concesse in base alla propria situazione economica.

Divorzio guida legale

Divorzio: guida legale Il divorzio in Italia: disciplina ed evoluzione di un istituto segnato da profondi cambiamenti sociali che hanno inciso soprattutto sui tempi della procedura

Legge 898/1970: normativa divorzio in Italia

Il divorzio in Italia è regolato dalla Legge n. 898 del 1970, una delle pietre miliari del diritto di famiglia italiano. In virtù di questa legge il giudice può pronunciare lo scioglimento del matrimonio civile quando verifica che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita, previa verifica di una causa specifica prevista dall’art. 3 e dopo un tentativo fallito di conciliazione. Per i matrimoni celebrati con rito religioso e trascritti civilmente, il giudice può dichiarare la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione, seguendo il medesimo iter.

Divorzio giudiziale

La legge n. 898/1970 stabilisce che lo scioglimento o la cessazione possano essere richiesti da un coniuge nei seguenti casi principali:

  • Condanne penali del coniuge:
    • ergastolo o pene superiori a 15 anni per delitti non colposi, escluse specifiche eccezioni;
    • pene per reati gravi come incesto, sfruttamento della prostituzione, omicidio volontario o tentato omicidio del coniuge o figli;
    • condanne per violenze domestiche o abusi sui familiari.
    • Assoluzioni per vizio totale di mente in reati che compromettono la convivenza.
    • Separazioni giudiziali o consensuali protratte per almeno 12 mesi (6 mesi per separazioni consensuali). Questi tempi, ridotti in virtù delle Legge n. 55/2015, in passato erano decisamente più lunghi. Si poteva infatti divorziare dopo tre anni di separazione decorrenti dall’udienza di comparizione dei coniugi in Tribunale.
    • Mancata consumazione del matrimonio, annullamento o scioglimento del matrimonio all’estero da parte di un coniuge straniero, o rettificazione di attribuzione di sesso.

Il Tribunale, accertata la sussistenza di una delle cause suddette, emette una sentenza che ordina la cessazione del matrimonio, obbligando l’ufficiale di stato civile ad annotare tale sentenza.

Effetti del divorzio

Per effetto del divorzio in Italia la donna perde il cognome aggiunto per matrimonio, salvo autorizzazione a conservarlo per motivi di interesse personale o dei figli. Trattasi di una decisione che può essere modificata per gravi motivi. La sentenza di divorzio può prevedere un assegno di mantenimento per il coniuge privo di mezzi adeguati, calcolato in base al contributo alla famiglia, ai redditi e alla durata del matrimonio. L’importo può essere adeguato automaticamente secondo l’inflazione. Su accordo, è possibile una corresponsione in unica soluzione, precludendo future richieste economiche. L’abitazione nella casa familiare viene assegnata prioritariamente al genitore affidatario dei figli o con cui essi convivono dopo la maggiore età. Il giudice considera le condizioni economiche di entrambi i coniugi, favorendo il coniuge più debole. L’assegnazione, se trascritta, è opponibile a terzi acquirenti, come stabilito dall’articolo 1599 del codice civile. Il tribunale disciplina l’amministrazione dei beni dei figli e, nel caso di responsabilità genitoriale condivisa, regola il contributo dei genitori al godimento dell’usufrutto legale.

Divorzio congiunto: alternativa rapida ed economica

Il divorzio a domanda congiunta rappresenta l’alternativa più rapida ed economica al divorzio giudiziale, grazie all’accordo tra i coniugi. La domanda deve essere presentata tramite ricorso al tribunale competente, ossia quello del luogo di residenza o domicilio di uno dei coniugi. Il ricorso deve contenere:

  • i motivi di fatto e diritto per lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili (se concordatario);
  • le informazioni sull’esistenza di figli comuni;
  • le condizioni concordate per i figli e i rapporti economici;
  • le ultime dichiarazioni dei redditi di entrambi;
  • i documenti essenziali come l’atto di matrimonio, lo stato di famiglia, il certificato di residenza e la copia della separazione consensuale o giudiziale.

Divorzio congiunto con negoziazione assistita

La negoziazione assistita, introdotta con il d.l. n. 132/2014 (convertito nella legge n. 162/2014) consiste in una convenzione tra le parti, assistite dai rispettivi avvocati, per raggiungere un accordo consensuale in buona fede e lealtà.

In materia di separazione e divorzio, l’art. 6 del dl consente ai coniugi di risolvere consensualmente questioni di separazione, cessazione degli effetti civili o modifica delle condizioni di divorzio. La procedura è applicabile sia in assenza che in presenza di figli. Senza figli, l’accordo necessita del nullaosta del Procuratore della Repubblica. In presenza di figli minori o non autosufficienti, il Pubblico Ministero valuta l’interesse della prole. Se necessario, il Tribunale interviene per tutelare i diritti dei figli. L’accordo autorizzato è equiparato ai provvedimenti giudiziali e deve essere trasmesso all’ufficiale di stato civile per gli adempimenti di trascrizione e annotazione.

Il divorzio davanti al sindaco

Il dl n. 132/2014 ha previsto anche il divorzio davanti al Sindaco, a cui non si può ricorrere in presenza di figli minori o maggiore di età non autosufficienti o portatori di handicap grave. L’articolo 12 prevede la possibilità per i coniugi di concludere davanti al sindaco (nella sua qualità di  ufficiale dello stato civile) del comune di residenza di uno di loro o del comune presso cui è iscritto o trascritto l’atto di matrimonio e con l’assistenza facoltativa di un avvocato un accordo di di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di divorzio. L’accordo tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono il procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di divorzio. Anche questa procedura è più rapida rispetto a quella contemplata dalla legge storica sul divorzio n. 898/1970.

Il divorzio nella Riforma Cartabia

La Riforma Cartabia è intervenuta sull’istituto del divorzio in Italia modificando le regole dei procedimenti in materia di persone, minorenni e famiglie (art. 473 bis c.p.c – art- 473 ter).

Di queste norme, quelle contenute nella sezione II del capo III del Titolo IV bis del Libro II, si occupano anche dello scioglimento del matrimonio.

La norma di maggiore interesse da segnalare è l’art. 473 bis. 49 c.p.c che disciplina il cumulo delle domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Divorzio: l’importanza della giurisprudenza

Sebbene siano trascorsi più di cinquant’anni dalla sua introduzione, il divorzio in Italia è in continua evoluzione. Questo perché si tratta di un istituto con una serie di implicazioni legali che richiedono una comprensione approfondita delle normative in vigore, ma anche delle più recenti sentenze della Corte di Cassazione. Sebbene il quadro normativo sia consolidato, la giurisprudenza continua infatti ad aggiornarsi, fornendo indicazioni preziose su come applicare le leggi in modo equo e giusto. Le nuove sfide sociali ed economiche e l’attenzione crescente per i diritti dei figli e il trattamento equo dei coniugi, continuano a plasmare l’evoluzione del diritto di famiglia italiano.

Nel corso degli anni, la Corte di Cassazione ha emesso numerose sentenze che hanno contribuito a chiarire e a far evolvere l’interpretazione dei vari interventi legislativi sul divorzio soprattutto per quanto riguarda i diritti e i doveri dei coniugi e l’efficacia delle separazioni. Le sue pronunce sono fondamentali per comprendere l’applicazione concreta delle leggi in contesti complessi. Vediamo che cosa dicono alcune delle sentenze  più significative degli Ermellini.

La separazione come condizione per il divorzio

Una delle tematiche più dibattute in Cassazione riguarda la durata della separazione prima di chiedere il divorzio. In particolare, la Corte ha chiarito che la separazione deve essere “effettiva” e non meramente formale. I coniugi devono cioè dimostrare di vivere in modo separato e di non avere più rapporti di vita comune. Nella sentenza Cass. Civ. n. 19174/2021, la Corte ha ribadito che la separazione deve comportare una “cessazione del progetto coniugale”, e non basta la semplice separazione di fatto.  

Affido dei figli: tema cruciale

Un altro aspetto rilevante delle recenti decisioni della Corte di Cassazione riguarda l’affido dei figli in caso di divorzio. La legge stabilisce che l’affido debba essere condiviso tra i genitori, salvo casi eccezionali in cui uno dei due non possa garantire un ambiente adatto alla crescita del minore. Tuttavia, la Cassazione ha più volte ribadito, come nella sentenza Cass. Civ. n. 15587/2022, che l’affidamento esclusivo di uno dei genitori è una misura estrema, da adottare solo quando il comportamento dell’altro genitore è pregiudizievole per il benessere del bambino. Nel caso in cui i genitori non raggiungano un accordo, la decisione finale spetta al giudice, il quale deve tenere conto dell’interesse del minore come principio fondamentale.

Il mantenimento dell’ex coniuge

Un altro punto centrale nelle dispute del divorzio riguarda il mantenimento. La Corte di Cassazione ha chiarito, con una serie di sentenze, che l’obbligo di mantenimento per il coniuge in difficoltà economiche non è automatico e dipende anche da una valutazione delle risorse economiche di ciascun coniuge. Nella sentenza Cass. Civ. n. 23448/2020, la Corte ha evidenziato che, qualora uno dei coniugi non abbia bisogno di un sostegno economico, non sussiste l’obbligo di versare un mantenimento. Inoltre, è stato affermato che la durata del mantenimento deve essere limitata nel tempo, soprattutto in caso di scioglimento di matrimoni da cui non siano nati figli o in presenza di un’indipendenza economica del coniuge richiedente.

 

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