mantenimento figli maggiorenni

Mantenimento figli maggiorenni: dovuto anche se fuori casa Mantenimento figli maggiorenni: l'obbligo permane anche se sono fuori casa per motivi di studio, se il genitore si occupa dei loro bisogni

Mantenimento figli maggiorenni

Il mantenimento dei figli maggiorenni è un tema che continua a generare discussioni e controversie in ambito giuridico, soprattutto quando i figli vivono lontano dal domicilio familiare per motivi di studio o formazione. La recente ordinanza n. 30179/2024 della Corte di Cassazione, offre un’interessante panoramica sulla questione, precisando che l’allontanamento da casa dei figli maggiorenni per motivi di studio e formazione non fa venire meno l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori.

Genitori, figlie e obbligo di mantenimento

La controversia nasce dalla richiesta di un padre di essere esonerato dall’obbligo di versare alla ex moglie un assegno di mantenimento di 5.000 euro mensili destinato alle figlie. Il ricorrente sostiene che le figlie, ormai maggiorenni e residenti in altre città per motivi di studio, non convivono più con la madre. Questo elemento, secondo lui, farebbe venir meno il diritto di quest’ultima a ricevere l’assegno.

Il Tribunale di Napoli rigetta la richiesta, sostenendo che l’allontanamento delle figlie per motivi di studio non configura una cessazione della convivenza, ma solo una condizione di residenza temporanea fuori sede. Il padre inoltre non ha provato un’effettiva riduzione delle sue capacità reddituali.

Residenza stabile, non più temporanea

La Corte d’Appello, su reclamo del padre, invece accoglie la sua richiesta, ritenendo che le figlie abbiano ormai consolidato la loro posizione lavorativa e accademica nelle città in cui vivono, configurandosi in questo modo una residenza stabile e non più temporanea. Di conseguenza,  la madre non è più legittimata a richiedere l’assegno per conto delle figlie. Le stesse devono agire autonomamente per ottenere un eventuale contributo dal padre.

Per la Corte le figlie hanno raggiunto una sufficiente capacità lavorativa e, pur non essendo ancora pienamente autosufficienti, sono comunque in grado di proseguire il proprio percorso senza un vincolo diretto di coabitazione con la madre.

Allontanamento da casa: la convivenza non viene meno

La questione giunge fino alla Corte di Cassazione, dove vengono sollevate due questioni principali.

  1. La Corte d’Appello avrebbe pronunciato una decisione in contrasto con le richieste iniziali del padre, introducendo un tema nuovo, che è quello dell’indipendenza economica delle figlie, solo in sede di reclamo.
  2. Non è stata inoltre adeguatamente considerata la documentazione attestante il ritorno periodico delle figlie alla casa materna e la dipendenza economica dalle risorse anticipate dalla madre.

La Cassazione accoglie il secondo motivo, evidenziando che l’allontanamento delle figlie dalla casa materna per motivi di studio non implica automaticamente il venir meno della convivenza, soprattutto se la madre continua a rappresentare il punto di riferimento stabile per il loro sostentamento.

Obbligo oltre la coabitazione fisica

Un aspetto cruciale della sentenza è l’interpretazione del concetto di “convivenza” in relazione al mantenimento. La giurisprudenza più recente chiarisce che la convivenza non deve essere intesa come una mera permanenza fisica continua, ma come una relazione di sostegno materiale e morale. La Corte di Cassazione in questa decisione ribadisce che l’obbligo di mantenimento può sussistere anche se il figlio vive altrove per motivi di studio, a condizione che il genitore convivente sia ancora colui che si occupa materialmente delle sue necessità.

Questo principio si riflette anche nell’articolo 337-septies del codice civile, secondo il quale il contributo di mantenimento può essere versato al genitore con cui il figlio maggiorenne coabita, a meno che il giudice non stabilisca diversamente. È fondamentale che tale genitore continui a provvedere alle spese del figlio, anche in assenza di una coabitazione continuativa.

 

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citazione testi

Citazione testi via pec Citazione testi a mezzo pec: il correttivo Cartabia in vigore dal 26 novembre 2024 amplia i metodi di intimazione dei testimoni

Correttivo Cartabia: testi citati anche a mezzo pec

Citazione testi anche a mezzo pec: è una delle modifiche che il correttivo Cartabia ha apportato al codice di procedura civile. A tal fine, infatti, il decreto legislativo n. 164/2024, che corregge il decreto della Riforma Cartabia  n. 149/2022, interviene sul testo dell’articolo 250 c.p.c dedicato all’intimazione dei testimoni.

Il correttivo in vigore dal 26 novembre 2024 rappresenta un tassello fondamentale nell’aggiornamento delle norme del processo civile, con l’obiettivo di migliorarne efficienza e digitalizzazione.

Intimazione testi: come cambia l’art. 250 c.p.c.

Il Correttivo Cartabia non apporta modifiche al comma 1 dell’art. 250 c.p.c Questa disposizione  continua a prevedere che la notifica ai testimoni, su richiesta della parte interessata, avvenga tramite l’ufficiale giudiziario. Nello specifico, la citazione del testimone ammesso dal giudice istruttore continua a effettuarsi con intimazione a comparire nel luogo, nel giorno e nell’ora stabilita, indicando anche il giudice che assumerà la dichiarazioni testimoniale e la causa in relazione alla quale il soggetto deve essere sentito.

Il secondo comma prevede invece un elemento di novità. Esso prevede infatti che, qualora lintimazione al testimone non avvenga a mani proprie per mezzo dell’ufficiale giudiziario o per mezzo del servizio postale, alla stessa si potrà procedere anche a mezzo pec.

Cambia anche il comma 3 della norma, che d’ora in poi presenterà la seguente formulazione letterale: L’intimazione al testimone ammesso su richiesta delle parti private a comparire in udienza può essere effettuata dal difensore attraverso l’invio di copia dell’atto mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o a posta elettronica certificata  all’indirizzo risultante da pubblici elenchi.

Modificato anche il comma 4 della norma che, in conseguenza delle modifiche intervenute sui metodi per intimare i testimoni, impone al difensore di depositare la copia dellatto inviato e dellavviso di ricevimento o la ricevuta di avvenuta consegna. 

Testi citati a mezzo pec: processo telematico

La scelta di ampliare l’uso della PEC nel contesto processuale risponde alla volontà di rendere il sistema giudiziario più moderno e meno dipendente da metodi tradizionali, come fax o biglietti di cancelleria. Queste innovazioni si collocano nel quadro più ampio della digitalizzazione promossa dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che punta a rendere il processo civile più accessibile e funzionale.

A tale fine il Correttivo ha introdotto un’altra novità significativa, sempre in materia di testimonianza. Secondo l’articolo 257-bis del codice di procedura civile, i testimoni possono ora redigere le proprie dichiarazioni su documenti informatici firmati digitalmente, che vengono trasmessi al difensore per il deposito telematico. Questa semplificazione elimina la necessità di consegnare o spedire l’atto in forma cartacea, riducendo ulteriormente i tempi e i costi.

Obiettivi del correttivo Cartabia

Il correttivo Cartabia si propone di superare alcune difficoltà applicative della riforma originaria (D. Lgs. 149/2022) e di rispondere ai contrasti interpretativi emersi nei primi mesi di attuazione. L’intervento consolida l’impianto della riforma, introducendo aggiustamenti puntuali che mirano a garantire una maggiore chiarezza normativa e a semplificare le procedure per le parti e i professionisti legali.

Tra le altre innovazioni del correttivo, si segnalano il potenziamento del rito semplificato, modifiche al recupero crediti con l’utilizzo di fatture elettroniche e l’introduzione del titolo esecutivo digitale. Questi interventi sottolineano la centralità della tecnologia nella giustizia civile, riducendo al minimo gli adempimenti burocratici e garantendo una maggiore trasparenza e tracciabilità delle comunicazioni. Un passo avanti significativo verso un sistema giudiziario più moderno, efficiente e digitalizzato, rispondendo alle esigenze di un contesto in rapida evoluzione.

 

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cellulare alla guida

Cellulare alla guida: le nuove sanzioni Cellulare alla guida: le regole pre-riforma e le novità introdotte dalla riforma del Codice della Strada 2024 che inaspriscono le sanzioni

Cellulare alla guida: regole pre e post-riforma

L’utilizzo del cellulare durante la guida è una delle principali cause di incidenti stradali e oggetto di normative sempre più severe.

L’inasprimento delle sanzioni è un chiaro segnale dell’intenzione di ridurre drasticamente il numero di incidenti legati alla distrazione alla guida. Utilizzare il cellulare senza mani libere o viva voce potrebbe costare caro, sia in termini economici che di punti sulla patente. Con l’entrata in vigore delle nuove regole nel 2024, è essenziale prestare massima attenzione per evitare gravi conseguenze.

Vediamo quali sono le regole pre-riforma e cosa cambia con l’introduzione delle nuove regole previste  invece dalla riforma appena approvata.

Regole sull’uso del cellulare alla guida pre-riforma

L’articolo 173 comma 2 del Codice della Strada (CdS), nella formulazione pre-rifoma, vieta al conducente l’uso durante la marcia di apparecchi come smartphone, computer portatili, tablet o dispositivi simili che richiedano di staccare anche temporaneamente le mani dal volante.

Fanno eccezione i conducenti di veicoli delle Forze armate e dei Corpi di polizia. È consentito l’uso di dispositivi viva voce o auricolari, purché non richiedano l’uso delle mani e garantiscano una capacità uditiva adeguata a entrambe le orecchie.

In sintesi si può dire che se è consentito utilizzare il cellulare in modalità viva voce o con auricolari con volume adeguato, è in vere vietato utilizzare i dispositivi quando questi richiedano di distogliere le mani dal volante.

Le sanzioni previste in caso di violazione sono le seguenti:

  • sanzione pecuniaria da 165 euro a 660 euro;
  • decurtazione di 5 punti dalla patente;
  • sanzione accessoria della sospensione della patente da 1 a 3 mesi in caso di recidiva nel corso del biennio.

Le nuove regole 2024 sul cellulare alla guida

La Riforma del 2024 del Codice della Strada introduce pene più severe per chi utilizza il cellulare durante la guida, con l’obiettivo di disincentivare comportamenti che aumentano il rischio di incidenti. La riforma aumenta le sanzioni, prevede la sospensione immediata della patente alla prima infrazione e introduce ex novo la sospensione breve.

Multe più salate

Le sanzioni aumentano nei seguenti termini:

  • la multa va da un minimo di 250 euro a un massimo di 1.000 euro per la prima infrazione;
  • in caso di recidiva la multa parte da 350 euro fino a 1.400 euro;
  • la decurtazione punti patente comporta la perdita di 5 punti per la prima violazione e 10 punti in caso di recidiva.

Sospensione immediata della patente

Alla prima infrazione si va incontro alla sospensione della patente da 15 giorni fino a 2 mesi, emessa dal Prefetto.

In caso di recidiva invece la sospensione va da un minimo di 1 mese fino a un massimo di 3 mesi.

Sospensione breve della patente

Questa misura si applica automaticamente, senza necessità di ordinanza prefettizia, ai conducenti che hanno meno di 20 punti sulla patente.

Questi i periodi di durata della sospensione breve:

  • 7 giorni per chi ha un punteggio da 10 a 19 punti;
  • 15 giorni per chi ha un punteggio da 1 a 9 punti;

In caso di incidente stradale però, anche se non vengono coinvolti altri veicoli, la sospensione viene raddoppiata a 14 giorni per chi ha da 10 a 19 punti e a 30 giorni per chi ha da 1 a 9 punti.

Entrata in vigore delle nuove regole

Le nuove norme non entrano in vigore immediatamente dopo l’approvazione del 20 novembre 2024 al Senato. La legge deve infatti superare gli ulteriori passaggi obbligatori ossia la promulgazione del Presidente della Repubblica, la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e la vacatio legis di 15 giorni, salva la previsione di termini diversi.

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affidamento figli

Affidamento figli: multa per la madre che ostacola il rapporto col padre Nell'affidamento dei figli se la madre tiene una condotta finalizzata a ostacolar il rapporto padre-figlio va sanzionata

Affidamento figli: madre sanzionabile art. 709 ter c.p.c.

Nel procedimenti per l’affidamento dei figli, va sanzionata la madre che tiene una condotta ostruzionistica e ostile solo per tenere lontano il figlio dal padre.

Lo ha stabilito la Cassazione nell’ordinanza n. 29690/2024, chiarendo il contenuto e l’applicazione degli articoli art. 709 ter c.p.c (confluito dopo la riforma Cartabia nell’art.  473-bis.39) e 614 bis c.p.c.

Ripristino della responsabilità genitoriale materna

Una madre presenta ricorso contro una decisione che ha decretato la sua decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti del figlio. Il provvedimento ha anche previsto  il collocamento del minore in una casa famiglia e la sospensione temporanea dei rapporti madre-figlio. I giudici del rinvio, dopo aver ascoltato il minore e condotto una nuova consulenza psicologica d’ufficio, hanno ristabilito la responsabilità genitoriale della donna limitatamente alla gestione ordinaria. Il minore è stato quindi collocato presso l’abitazione materna, ma sotto la supervisione dei servizi sociali per monitorarne lo sviluppo psicofisico.

Garantire la bigenitorialità nell’affidamento dei minori

Per l’autorità giudiziaria competente è fondamentale rispettare il principio di bigenitorialità per assicurare al minore una vita affettiva equilibrata con entrambe le figure genitoriali. Nel caso in questione, la constatazione di una violazione del diritto paterno alla genitorialità non implica automaticamente la revoca della responsabilità genitoriale della madre. Tuttavia, non si possono ignorare i risultati delle perizie e le dichiarazioni del minore. Il ragazzo, ormai tredicenne, percepisce separatamente la madre, che lotta contro le istituzioni per proteggerlo, e il padre, vissuto come un avversario che vuole allontanarlo dalla mamma. In questa situazione, il giovane appare ostile a qualsiasi intervento istituzionale e considera il padre un persecutore. Risulta quindi utile intraprendere un percorso terapeutico per aiutare il ragazzo a elaborare il dolore accumulato negli anni piuttosto che recuperare immediatamente il rapporto con il padre. Quest’ultimo deve avere pazienza e lavorare per ricostruire una relazione con il figlio nella speranza che col tempo questi comprenda gli sforzi compiuti.

Le autorità hanno preso le misure necessarie nei confronti della madre per prevenire ulteriori possibili danni al minore. L’affidamento ai servizi sociali è motivato invece dalla condotta ostruzionistica della donna verso tutte le decisioni adottate dal Tribunale dei minorenni e dalla sua incapacità di gestire adeguatamente la propria responsabilità genitoriale. La madre è stata infatti esortata a comprendere i danni causati dalla triangolazione emotiva cui è stato sottoposto il figlio e a incoraggiarlo a intraprendere un percorso psicoterapeutico per migliorare il suo benessere psicologico.

Condotta ostruzionistica della madre: sanzioni applicabili

Il padre ha contestato la decisione in Cassazione. La Corte d’appello non si è espressa sul suo diritto di visita e ha ignorato numerose violazioni dei diritti del minore. L’uomo  critica l’uso dei risultati dell’ascolto del figlio perché avvenuto sotto costrizione psicologica e si oppone al collocamento presso la madre a causa della sua personalità deviante. Inoltre, sostiene che la Corte non abbia, tra le altre cose, adottato misure sanzionatorie nei confronti della madre secondo quanto previsto dall’articolo 709 ter c.p.c., come una multa amministrativa pecuniaria.

Affidamento minori: sanzioni ex art. 709 ter c.p.c.

Secondo la Cassazione, se i primi cinque motivi del ricorso paterno sono infondati, non si può dire lo stesso riguardo alla richiesta di sanzioni applicabili alla madre a causa del suo comportamento. La Cassazione sottolinea che il motivo sollevato dal padre riguarda l’omessa applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 709 ter del codice di procedura civile (ora sostituito dall’articolo 473-bis.39 c.p.c.) e dell’articolo 614 bis c.p.c.

La Corte ricorda che l’articolo 709 ter c.p.c. prevedeva misure punitive per i genitori che ostacolavano gravemente l’affidamento o arrecavano danno al minore, tra cui:

  • ammonizione del genitore inadempiente;
  • risarcimento dei danni a favore del minore o dell’altro genitore;
  • sanzione pecuniaria da 75 a 5.000 euro.

Con la riforma del 2022, queste disposizioni sono state trasferite all’articolo 473-bis.39 c.p.c., ampliandone l’efficacia. L’articolo 614 bis c.p.c. invece consente al giudice di stabilire somme crescenti per ogni giorno di violazione con scopo coercitivo e preventivo (astreintes).

Nel caso specifico, il padre lamenta di come gli atteggiamenti ostativi della madre abbiano impedito rapporti tra lui e suo figlio. Sebbene la Corte d’Appello abbia riconosciuto il comportamento ostile della madre non ha però applicato né le sanzioni previste dal già citato art. 709 ter né quelle coercitive indirette dell’articolo 614 bis c.p.c.

Il padre aveva infatti richiesto sia sanzioni per impedimenti già avvenuti che per prevenirne di futuri. Secondo l’articolo 709 ter c.p.c., infatti:

  • il giudice può intervenire d’ufficio modificando provvedimenti vigenti;
  • sanzionando violazioni già accadute.

Tuttavia le astreintes dell’articolo 614bis c.p.c si applicano solo su istanza di parte in specifiche situazioni, ma nel presente giudizio tale richiesta non è stata valutata data l’assenza di sufficiente contestazione nel ricorso.

 

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correzione errore materiale

Correzione errore materiale: nessuna condanna alle spese Correzione errore materiale: la natura amministrativa del procedimento non realizza una soccombenza con relativa condanna alle spese

Correzione errore materiale e condanna spese

Non si può disporre alcuna condanna alle spese al termine di un procedimento volto alla correzione dell’errore materiale presente in una sentenza. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite civili nella sentenza n. 29432/2024. Questo procedimento ha infatti una natura amministrativa, per cui non si può parlare di “soccombenza”; nemmeno quando l’altra parte, partecipa al procedimento e si oppone alla correzione.

Correzione errore materiale: condanna per il soccombente

La vicenda ha inizio perché un soggetto si rivolge al Tribunale per chiedere la correzione di una sentenza ai sensi dell’art. 287 c.p.c. Controparte si oppone all’istanza ritenendo inesistente l’errore lamentato. Il Tribunale dichiara inammissibile l’istanza di correzione presentata dal ricorrente e lo condanna alle spese.

Per il Tribunale quanto dedotto configura un error in iudicando e non un errore materiale. L’istante viene quindi condannato a rimborsare alla controparte le spese del procedimento perché se la parte non ricorrente si costituisce e resiste all’istanza di correzione, al termine del procedimento si realizza una situazione di “soccombenza”.

Natura amministrativa correzione errore materiale

Nell’unico motivo sollevato il ricorrente sostiene la natura non giurisdizionale, ma amministrativa del procedimento di correzione, che si conclude con un provvedimento ordinatorio. La natura del procedimento rende inapplicabile la regola della condanna alle spese a carico del soccombente, situazione che si potrebbe realizzare solo in un procedimento giurisdizionale.

Natura giurisdizionale o amministrativa?

La Cassazione spiega che, secondo una visione minoritaria, pur rimanendo l’inammissibilità di una decisione sulle spese in caso di istanza congiunta o non contestata, è necessario pronunciarla nel caso sorga un contrasto riguardo all’ammissibilità o alla fondatezza dell’istanza di correzione.

A questa interpretazione fa riferimento l’ordinanza di rinvio che alle SU pone il seguente quesito giuridico:se, in tema di procedimento per la correzione di errori materiali, qualora la parte non ricorrente si costituisca e resista allistanza di correzione, contrapponendo il proprio interesse a quello della parte ricorrente, si configuri una situazione di soccombenza che obbliga il giudice a decidere sulle spese processuali ai sensi dellart. 91 cod. proc. civ.”

Secondo il Collegio rimettente né la struttura camerale né la funzione volontaria del procedimento sono incompatibili con un reale contrasto tra le parti (per cui) nel momento in cui tale contrasto si verifica tramite la costituzione della parte non ricorrente e la sua opposizione allistanza di correzione, esso deve essere risolto rispettando il principio del contraddittorio, anche in merito alla regolamentazione delle spese processuali”.

Natura amministrativa procedimento: nessuna soccombenza

Per le Sezioni Unite però le “peculiarità dello stesso (procedimento di correzione) impediscono ogni assimilazione non solo ai procedimenti contenziosi ma anche a quelli di volontaria giurisdizione”.

Il procedimento per correggere errori materiali, anche quando viene avviato da una sola parte, non comporta l’affermazione di un diritto verso l’altra parte o altre parti e non sostituisce quanto stabilito nel provvedimento corretto. La funzione di questa procedura è solo quella di ripristinare la corrispondenza tra l’espressione formale e il contenuto sostanziale del provvedimento già emesso”.

Si tratta solo di correggere errori presenti nella redazione del documento evidenti a prima vista.

In questo senso, la Corte ritiene che sia possibile concordare sulla natura essenzialmente amministrativa del provvedimento conclusivo questo procedimento.

Del resto il giudice, in sede di procedimento di correzione dell’errore materiale, non esercita potestas iudicandi. Di questa  si libera quando emette il provvedimento che risulta poi da correggere. Non occorre neppure una nuova procura perché di fatto non si apre una nuova fase processuale. Si verifica infatti solo un incidente nello stesso giudizio, pienamente compatibile col giudicato.

Per la Cassazione deve essere pertanto enunciato questo principio:Nel procedimento per correggere errori materiali ai sensi degli artt. 287-288 e 391-bis cod. proc. civ., essendo essenzialmente amministrativo e non volto a incidere in caso di conflitto tra le parti sull’assetto d’interessi regolato dal provvedimento da correggere, non si può procedere alla liquidazione delle spese perché non è configurabile alcuna situazione di soccombenza ai sensi dellart. 91 cod. proc. civ., neppure se chi non richiede opponendosi allistanza”.

Con questa sentenza le Sezioni Unite hanno unificato così l’orientamento giurisprudenziale su questa materia, superando le divergenze interpretative precedenti.

 

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permessi sindacali

Permessi sindacali: legittimo licenziare chi ne abusa Permessi sindacali: legittimo il licenziamento del dipendente che usa o meglio abusa di due giorni di permessi sindacali per motivi personali

Permessi sindacali: abuso e licenziamento

I permessi richiesti per prendere parte alle riunioni sindacali non possono essere usati per soddisfare motivi personali. E’ quindi legittimo il licenziamento del dipendente che usa i due giorni di permesso richiesti per partecipare a delle riunioni sindacali e poi va fuori regioni per accompagnare il figlio alle prove selettive delle Forze armate. Il lavoratore, con la sua condotta, ha inclinato irrimediabilmente il rapporto di fiducia che il datore di lavoro nutre nei suoi confronti. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 29135/2024.  

Uso non autorizzato dei permessi sindacali

L’ex impiegato di una società per azioni (S.p.A) viene licenziato per giusta causa il 20 ottobre 2016, a causa dell’uso non autorizzato di permessi sindacali nei giorni 6 e 7 ottobre dello stesso anno. In quei giorni, il lavoratore non aveva svolto infatti alcuna attività sindacale, in quanto fuori regione per motivi personali.

Reintegra e risarcimento del danno

L’ex dipendente contesta il licenziamento, ritenendolo ingiusto per diverse ragioni:

  • violazione delle norme sui permessi sindacali stabilite dagli articoli 23 e 24 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori);
  • insufficienza di giorni per giustificare un simile provvedimento;
  • mancata comunicazione delle motivazioni;
  • presunta inesattezza del rapporto investigativo che documentava i suoi movimenti.

Per il ricorrente infine le indagini condotte hanno violato la sua privacy poiché erano state avviate durante un periodo di ferie.

Licenziamento legittimo: uso improprio dei permessi

Il lavoratore si rivolge quindi al Tribunale, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento per i danni subiti. In primo grado, il Tribunale respinge il ricorso, confermando la legittimità del licenziamento. Successivamente, l’ex dipendente presenta appello, ma anche questo viene rigettato. Il Tribunale ha motivato la sua decisione affermando che non vi era stata alcuna violazione della privacy. I controlli infatti sono stati eseguiti in luoghi pubblici con l’obiettivo di  verificare l’effettiva ragione della richiesta dei permessi sindacali.

La Corte d’Appello ha confermato la sentenza del Tribunale ritenendo infondati i motivi dell’opposizione. La questione disciplinare infatti riguardava non una semplice assenza ingiustificata dal lavoro, ma l’uso improprio dei permessi sindacali. Le indagini hanno dimostrato che nei giorni in cui il dipendente aveva ottenuto i permessi questi si trovava fuori regione con suo figlio, impegnato in prove selettive per l’arruolamento nelle Forze Armate, senza svolgere alcuna attività sindacale.

Abuso se si usano per motivi personali

L’investigatore privato incaricato dall’azienda ha confermato l’accuratezza del suo rapporto che descriveva dettagliatamente gli spostamenti del dipendente nei giorni in questione. Per la Corte, se il diritto ai permessi sindacali fosse protetto dall’art. 30 della Legge n. 300/1970, in questo caso specifico si è verificato un abuso dell’istituto usandolo per scopi personali invece che per attività sindacali.

La sanzione è quindi proporzionata e del tutto legittima la decisione del licenziamento. Il comportamento del lavoratore ha infatti compromesso irrimediabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda. L’abuso dei permessi sindacali retribuiti è più grave rispetto a una semplice assenza ingiustificata.

Diritto di controllare la partecipazione alle riunioni

L’ex dipendente ricorre in Cassazione sollevando tre motivi di doglianza. Con il secondo lamenta la falsa applicazione delle norme sul diritto ai permessi sindacali. Il terzo motivo riguarda invece la presunta mancata comunicazione delle ragioni del licenziamento da parte dell’azienda.

La Cassazione però respinge il secondo perché il datore di lavoro ha tutto il diritto di controllare l’effettiva partecipazione dei sindacalisti alle riunioni per cui sono concessi i permessi, respinge invece  il terzo perché la lettera ha esposto chiaramente le motivazioni del licenziamento.

In sintesi, tutte le fasi processuali hanno confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa adottata dall’azienda a fronte dell’abuso fraudolento dei permessi sindacali da parte del dipendente.

 

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contribuzione modulare volontaria avvocati

Contribuzione modulare volontaria avvocati La contribuzione modulare volontaria consente agli avvocati di accantonare importi annuali che andranno ad aumentare l’importo della pensione

Contribuzione modulare volontaria: cos’è

La contribuzione modulare volontaria è un tipo di contribuzione che permette di aumentare l’importo finale della pensione. L’avvocato iscritto alla Cassa Forense o titolare di pensione di invalidità, attraverso il versamento di un importo accessorio e volontario appunto, accantona annualmente un montante, che andrà ad integrare  l’importo della pensione. Il versamento volontario consiste in una percentuale variabile dall’1% al 10% del reddito IRPEF dichiarato dall’avvocato.

Riferimento normativo

La contribuzione modulare volontaria è prevista e disciplinata dall’art. 20 del Regolamento Unico della Previdenza Forense, deliberato nel 2018 e approvato nel 2020. La norma, intitolata “Contributo soggettivo modulare volontario” prevede infatti che gli iscritti alla Cassa Forense (e i pensionati di invalidità), possano versare in via del tutto volontaria ed eventuale una contribuzione ulteriore dall’1% fino al 10% del reddito professionale netto dichiarato ai fini IRPEF, fino al tetto reddituale contemplato dall’art. 17 comma 1 lettera a) del regolamento. L’importo così accantonato, si va a sommare al montante individuale nominale sul quale si calcola la quota modulare del trattamento pensionistico.

Versamento tardivo inammissibile

L’avvocato interessato deve esprimere la volontà di procedere al versamento del contributo modulare volontario soggettivo nel momento in cui procede alla compilazione del Modello 5, indicando nello specifico quale percentuale di reddito intende versare e a tale titolo.

La percentuale, una volta indicata, potrà essere aumentata o diminuita per una sola volta prima che venga generato il bollettino necessario al pagamento dei contributi previdenziali (con scadenza al 31 dicembre).  Il pagamento tardivo delle somme non è ammesso, le somme non verranno infatti accettate, con conseguente restituzione all’iscritto.

Vantaggi fiscali e pensionistici

Il versamento della quota modulare volontaria offre il doppio vantaggio di essere interamente deducibile: da un lato riduce l’impatto fiscale per l’iscritto, dall’altro aumenta la contribuzione previdenziale individuale.

Grazie alla quota modulare, è possibile beneficiare di una deducibilità superiore a quella delle polizze assicurative. Inoltre, questa adesione non preclude la possibilità di sottoscrivere anche una pensione complementare, permettendo di sfruttare pienamente gli ulteriori benefici fiscali previsti.

Oltre ai vantaggi fiscali, aderire alla modulare è conveniente anche in ottica previdenziale: le somme versate si convertiranno in una quota aggiuntiva di pensione, incrementando così l’importo finale al momento del pensionamento.

Le novità da gennaio 2025

Dal 2025, il sistema pensionistico degli avvocati applicherà il sistema di calcolo contributivo. Questa però non è la sola novità prevista dalla riforma.

L’aliquota massima per il contributo modulare volontario passa infatti dal 10% al 20%, mantenendo invariato il contributo minimo dell’1%. Questa modifica rende l’istituto più vantaggioso, in particolare per i redditi medio-alti, migliorando sia la deducibilità fiscale che i benefici pensionistici futuri.

Contestualmente, il tetto pensionabile aumenta da 121.900 euro nel 2024 a 130.000 euro nel 2025, ampliando ulteriormente le possibilità di utilizzo dell’istituto.

Un’altra novità significativa riguarda la maggiore flessibilità nella scelta del contributo. Fino al 2024, l’opzione per il contributo modulare era irreversibile (per l’anno in corso) e doveva essere effettuata con il modello 5. Dal 2025, invece, gli iscritti potranno modificare l’opzione, aumentandola o riducendola, entro lo stesso anno solare, attraverso una procedura online predisposta dalla Cassa.

Infine, essendo aliquote volontarie, la mancata contribuzione (da versare in un’unica soluzione entro il 31 dicembre) non comporta sanzioni.

Queste novità introducono maggiore flessibilità e convenienza, rendendo il contributo modulare uno strumento più accessibile e utile per gli iscritti, che potranno ottimizzare i benefici anno per anno.

 

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doppio della caparra

Doppio della caparra: quando se ne ha diritto Doppio della caparra: restituzione solo in caso di grave inadempimento, il mero rinvio del certificato di destinazione urbanistica non basta

Restituzione del doppio della caparra

Il superamento di un termine fissato per il rilascio del certificato di destinazione urbanistica dell’immobile non dà automaticamente diritto al compratore di ottenere la restituzione del doppio della caparra confirmatoria in materia di compravendita immobiliare. Lo afferma l’ordinanza n. 28568/2024 della Corte di Cassazione. Per ottenere questa conseguenza, è necessario dimostrare una colpa grave del venditore.

Caparra confirmatoria: effetti  legali

La caparra confirmatoria rappresenta un elemento centrale nel contratto preliminare di compravendita immobiliare. Essa viene versata dall’acquirente al venditore come segno della serietà dell’accordo e come garanzia di adempimento. Se una delle parti non rispetta infatti gli impegni contrattuali, la caparra può assumere funzioni diverse: l’acquirente, in caso di inadempimento da parte del venditore, può recedere dal contratto e chiedere la restituzione del doppio dell’importo versato. Al contrario, se è l’acquirente a essere inadempiente, il venditore può trattenere la caparra.

La Cassazione però ha chiarito che il diritto alla doppia restituzione non è automatico, occorre infatti valutare la gravità dell’inadempimento. Solo un inadempimento “grave” e non giustificabile può legittimare la richiesta di vedersi restituire il doppio della caparra.

Contratto preliminare non rispettato: doppio della caparra

La  vicenda sottoposta al vaglio della Cassazione nasce da un accordo preliminare di compravendita immobiliare stipulato tra due soggetti nel novembre 2006. In questa occasione, l’acquirente versa 40.000 euro a titolo di caparra confirmatoria, impegnandosi a concludere il contratto definitivo entro il 28 febbraio 2007. Nel contratto è previsto che il venditore debba ottenere il rilascio del certificato di destinazione urbanistica entro la stessa scadenza. Detto termine però non viene rispettato.

Termine certificato di destinazione urbanistica

Nel giugno 2007, l’acquirente decide di agire legalmente contro il venditore presso il Tribunale di Frosinone. In questa sede l’attore sostiene di aver legittimamente esercitato il diritto di recesso dal contratto a causa dell’inadempimento del venditore, chiede quindi la condanna del venditore al pagamento del doppio della caparra versata. In subordine richiede la risoluzione del contratto e la restituzione della caparra. In primo grado, il Tribunale di Frosinone respinge la domanda dell’acquirente. Il termine del 28 febbraio 2007 indicato nel preliminare non ha infatti carattere essenziale per cui il suo superamento non può considerarsi un inadempimento così grave da giustificare la richiesta del doppio della caparra. La Corte d’Appello conferma la decisione del Tribunale, sottolineando che, anche qualora il venditore avesse superato il termine fissato per il rilascio del certificato di destinazione urbanistica, tale ritardo non avrebbe costituito una violazione sufficientemente significativa da comportare l’applicazione delle conseguenze di cui all’articolo 1453 del Codice Civile. Per la Corte d’Appello linadempimento non può considerarsi grave perché non ha pregiudicato l’interesse principale dell’acquirente alla conclusione del contratto definitivo.

Doppio della caparra: serve inadempimento grave

La Corte di Cassazione conferma la decisione delle autorità giudiziarie di merito, rigettando il ricorso dell’acquirente. Per gli Ermellini il termine indicato nel preliminare non può considerarsi essenziale. Le parti non hanno infatti qualificato espressamente questa scadenza come fondamentale per l’adempimento del contratto. La Suprema corte ha evidenziato inoltre che l’acquirente non ha dimostrato la gravità dell’inadempimento, elemento imprescindibile per richiedere la risoluzione del contratto con conseguente restituzione del doppio della caparra.

 

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colpa medica

Colpa medica per dimissioni premature Le dimissioni premature del paziente con infarto in corso portano alla responsabilità penale omissiva del medico di pronto soccorso

Dimissioni premature e responsabilità penale omissiva

Colpa medica per le dimissioni premature e il mancato approfondimento diagnostico che provocano la morte del paziente a distanza di poche ore nella propria abitazione. Scatta la responsabilità per omissione del medico di pronto soccorso. L’alterazione della troponina, in base a quanto previsto dalle linee guide, richiede un monitoraggio per procedere eventualmente a un esame successivo del valore. L’ospedale sovraffollato e l’impossibilità di un intervento tempestivo non rilevano. Queste le conclusioni a cui è giunta la Cassazione nella sentenza n. 41173/2024.

Responsabilità medico di pronto soccorso

La Corte d’Appello assolve l’imputato dal reato di omicidio colposo perché prescritto.

Il PM lo ha ritenuto responsabile del decesso della vittima a causa della sua negligenza, imperizia e imprudenza. Nella sua qualità di medico del pronto soccorso, l’imputato ha infatti ignorato le linee guida da adottare in caso di sospetto infarto, procedendo alle dimissioni premature del paziente.

La Corte ha ritenuto non contestabili le conclusioni dei periti del PM e del GUP. Gli esami di laboratorio hanno rivelato un aumento della troponina, dal valore di riferimento di 14 a 17,42. Le linee guida della società europea di cardiologia del 2011 impongono che il paziente che presenti questi valori sia mantenuto in uno stato d’osservazione con ripetizione degli esami di laboratorio ogni 3 ore. Previsto poi il ricovero in presenza dell’aumento del valore, con esami da ripetere nelle 6/24 ore successive. Tutte queste condotte sono state  omesse dal medico. Il paziente infatti, una volta dimesso, è deceduto presso la propria abitazione dopo circa 6 ore e 1/2.

Ipertensione pregressa del paziente: segnale significativo

Per la Corte la presenza della pregressa patologia del paziente (ipertensione arteriosa) era tale da aggravare i profili di responsabilità del sanitario, che avrebbe dovuto essere maggiormente allertato in ordine alla necessità di un monitoraggio diretto del medesimo secondo quanto suggerito dalle linee guida (con consulenza cardiologica, esame ecocardiografico, test da sforzo, controlli seriali da ECG e ripetizione ogni quattro ore per almeno tre volte degli esami sugli enzimi miocardici); responsabilità, tra l’altro, ritenuta desumibile anche sulla base della prescrizione indicata in sede di dimissioni e con le quali era stato suggerito il mero monitoraggio dei soli valori pressori.”

Quando il paziente è entrato nel pronto soccorso non presentava una percentuale elevata di rischio di morte. Se la crisi cardiaca fosse sopraggiunta in ospedale e fosse stata trattata adeguatamente, il paziente si sarebbe potuto salvare.

La Corte d’Appello ha concluso quindi per la responsabilità penale del medico per condotta omissiva e nesso di causa tra questa e il decesso del paziente. La stessa però ha rilevato che il reato era estinto a causa della prescrizione sopravvenuta e quindi lo ha assolto sotto il profilo della responsabilità penale, ritenendolo responsabile dal punto di vista civilistico.

Errata l’assoluzione per prescrizione del reato

L’imputato nell’impugnare la decisione contesta la negata assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato.” Per l’imputato è errato avere ritenuto che il lieve aumento della troponina fosse collegato alla crisi cardiaca causata dalla crisi ipertensiva. I dati clinici rivelavano l’assenza di una alterazione ecocardiografica per cui escludevano con una probabilità elevata l’infarto del miocardio. Più verosimile che lo stesso si fosse manifestato quando il paziente era a casa. Da escludere quindi il nesso di causa. Il tutto senza trascurare che le condizioni del pronto Soccorso erano tali da non poter garantire un’adeguata e rapida assistenza. L’evento letale pertanto si sarebbe manifestato comunque.

Colpa medica per omissione

Per la Cassazione però il ricorso è del tutto inammissibile e l’unico motivo sollevato del tutto infondato.

Dopo aver analizzato la giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica la Cassazione ribadisce che: in tema di responsabilità del sanitario per omissione, l’accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire l’effetto salvifico delle cure omesse, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, ed in particolare, della condizione specifica del paziente (…) conseguendone che l’esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l’ipotesi circa il sicuro effetto salvifico dei trattamenti terapeutici non compiuti sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili.” 

Nesso di causa tra dimissioni premature e decesso

I giudici di merito hanno effettuato delle valutazioni inattaccabili e fondate sul sapere scientifico. Dalle prove è emerso che la patologia che ha condotto all’esito letale si stava sviluppando nel momento in cui è intervenuto l’imputato. Se il medico avesse seguito il percorso diagnostico corretto, sottoponendo il paziente a un elettrocardiogramma e alla ripetizione del dosaggio della troponina, la diagnosi si sarebbe rivelata rapida e corretta. Questa condizione avrebbe permesso di intervenire repentinamente ed efficacemente. L’evento sarebbe stato scongiurato con una probabilità prossima alla certezza. Per la Cassazione i Giudici di merito sono giunti pertanto a una valutazione corretta, aderente e rispettosa ai principi sanciti dalla giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica. Sussiste infatti il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e la morte del paziente in base al criterio della probabilità logica calato nel caso concreto.

 

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mentire sul contributo unificato

Mentire sul contributo unificato: cosa si rischia Mentire sul reddito per pagare un contributo unificato inferiore integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche

Reato dichiarare il falso per pagare di meno

Mentire sul reddito percepito per pagare una cifra inferiore di contributo unificato configura il delitto di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato. In questo caso l’agente commette il reato previsto dall’articolo 316 ter del codice penale e non il reato di falsità ideologica di cui all’articolo 483 c.p. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 40872/2024.

Falsità ideologica mentire sul reddito

La Corte di appello assolve l’imputata per la particolare tenuità del fatto in relazione al reato di falsità ideologica commesso dal privato in un atto pubblico di cui all’art. 483 c.p.

La donna, per pagare un contributo unificato inferiore a quello previsto per legge e dovuto in relazione a varie controversie di lavoro avviate, ha dichiarato infatti un reddito inferiore rispetto a quello che successivamente è stato accertato.

Reato ex art. 316 ter c.p.

La donna nel ricorrere in Cassazione contesta però il reato ascrittole. La sua condotta integrerebbe il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316 ter c.p, che assorbe il delitto di falso, come chiarito dalla sentenza “Carchivi”.

Per l’imputata dichiarare un reddito inferiore per ottenere un provvedimento di esenzione dal pagamento di una somma dovuta allo Stato equivale a conferire una somma di denaro a titolo di contributo. Anche in quest’ultimo caso infatti, il dichiarante ottiene un indebito vantaggio in danno della società.

Nel caso di specie tuttavia la soglia di punibilità prevista per il reato di indebita percezione non è stata superata. Il vantaggio economico che la stessa ha ricavato di soli 43,00 euro, pari al risparmio sul contributo unificato dovuto.

Vantaggio economico in danno della società

La Cassazione accoglie il ricorso, perché fondato.

La sentenza Carchivi richiamata dall’imputata ha chiarito infatti che un fatto astrattamente riconducibile al delitto di quellart. 483 cod. pen è assorbito in quello di cui allarticolo 316 ter del medesimo codice quando la dichiarazione falsa è finalizzata ad ottenere un indebita erogazione pubblica.” 

Questo perché il reato punito dall’articolo 316 ter c.p si consuma in presenza di una falsa dichiarazione rilevante ai sensi dell’articolo 483 c.p o con l’uso di un atto falso.

Solo i reati di cui agli articoli 483 c.p e 489 c.p restano assorbiti dall’articolo 316 ter c.p, che concorre invece con altri diritti di falso commessi eventualmente per ottenere erogazioni indebite.

La successiva sentenza “Pizzuto” è giunta alle stesse conclusioni. La stessa ha infatti chiarito che integra il reato di indebita percezione di erogazione a danno dello Stato la falsa attestazione circa le condizioni reddituali per lesenzione dal pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e ospedaliere (…)”.

In questo modo si realizza in effetti un’erogazione ai danni dello Stato, anche in assenza di un esborso, quando il richiedente ottiene un vantaggio economico a carico della comunità.

Deve quindi affermarsi, nel rispetto della stessa ratio, il principio per il quale il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si configura anche quandola falsa attestazione sulle condizioni reddituali è volta a ottenere lesenzione dal pagamento del contributo edificato.” Questa esenzione permette infatti al soggetto dichiarante di beneficiare di un vantaggio economico  in danno della collettività.

 

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